Poli

Dopo essersi laureato in letteratura francese con una tesi su Henry Beque, Paolo Poli insegna e lavora per la radio, oltre che recitare in compagnie vernacolari. Nel 1959 entra a far parte de La Borsa di Arlecchino, il piccolo teatro d’avanguardia che nasce a Genova grazie a A. Trionfo. Ma suo primo vero spettacolo è nel 1961, Il Novellino , che va in scena alla Cometa di Roma. A cui fanno seguito una serie di spettacoli divertentissimi, costituiti in gran parte da montaggi di testi letterari commisti ad altre fonti di varia cultura o di cronaca popolare; è un vero e proprio teatro da camera, che rimarrà la cifra distintiva del suo modo di fare spettacolo. Ed è l’inizio di una dirompente carriera: Il diavolo , 1964; Rita da Cascia , 1967 – con cui scandalizza: la rappresentazione viene sospesa a Milano per oltraggio alla religione e verrà riproposta molti anni dopo); La rappresentazione di Giovanni e Paolo , 1969; Carolina Invernizio , 1969; La vispa Teresa , 1970; L’uomo nero , 1971; Giallo , 1972. A testi più suoi, come i suddetti, alterna classici ( Il mondo d’acqua di A. Nicolajs, Il suggeritore nudo di F.T. Marinetti) e parodie di commedie celebri, come l’esilarante sua interpretazione, nel ruolo della protagonista, de La nemica di D. Niccodemi (1969). In questo periodo gli si affianca come fedele collaboratrice Ida Omboni, e, agli inizi degli anni ’70, per un breve periodo, si unisce a lui, la sorella Lucia, come coautrice e attrice ( Apocalisse , 1973; Femminilità , 1975). Questa personalissima strada di rivisitazione di testi letterari, montati in scena con siparietti comici da avanspettacolo trova un valido sostegno in divertenti colonne sonore: brani musicali e canzonette d’epoca da lui cantate in falsetto (altra valida collaboratrice per queste ricerche musicale è Jacqueline Perrotin). Altri spettacoli: Mezzacoda (1979), curioso itinerario di mezzo secolo di cultura kitsch attraverso i salotti buoni di Gozzano e altri luoghi; Paradosso (1980), proposto a Venezia, per il Carnevale della Ragione, uno spettacolo ispirato a Diderot. Negli anni ’90 il bricolage parodistico-letterario dei suoi spettacoli si accentua, e inizia la grande saga dei miti. Il coturno e la ciabatta (1990), tratto da Alberto Savinio e scritto da Ida Omboni, con le scene di Luzzati. Poi la divertente rilettura de L’asino d’oro di Apuleio (1996).

Nel 1997-98 da vita ai mitici Viaggi di Gulliver, da Swift, ancora con le scene di Luzzati, tenendo sempre alta la propria abilità di artigiano teatrale. Se scarse sono le sue esperienze cinematografiche, notevoli sono invece quelle televisive, da “Tutto da rifare pover’uomo” con Laura Betti (1960) a una ricordata “Canzonissima” (1961), dalle produzioni per ragazzi alla riduzione de “I tre moschettieri” (1976), dal programma “Tra i libri dei nonni” a “Viaggio a Goldonia” di Gregoretti (1982). Legato alla cultura grande e piccola dell’Italia fine secolo e di quella del Novecento tra le due guerre, la cultura cioè dei nonni e dei padri – e anche della madre che era maestra – arricchita da una raffinata educazione letteraria, soprattutto francese, P. esercita i suoi bersagli affabilmente ma puntualmente satirici contro la retorica e l’ipocrisia di una società ancora connotata sostanzialmente da mentalità piccolo-borghesi; ma lo fa a modo suo, coniugando alla satira di costume, la parodia e il funambolismo, la malinconia e il guizzo farsesco, il travestismo e il divertissement cabarettistico. Le generazioni cambiano, ma P. mantiene i suoi spettatori, affascinati dalla sua grazia; variando appena i materiali di partenza. Il che non è un limite, ma il segno di un’originalità e unicità di fare spettacolo abbastanza atipica in Italia.

Isherwood

Il nome di Christopher Isherwood come uomo di teatro è legato a quello di W.H. Auden: accomunati dall’impegno politico, dall’interesse per Marx e Freud, hanno scritto in collaborazione alcuni lavori per il Group Theatre di Londra. In Il cane sotto la pelle (The Dog Beneath the Skin, 1936) sono fusi prosa e versi, canzoni e numeri da musical; in L’ascesa dell’F6 (The Ascent of F6, 1937), che ebbe particolare successo, il tema della disumanità dell’esercizio del potere si intreccia con quello del rapporto edipico tra lo scalatore e la madre. Fredda accoglienza ebbe invece l’ultimo lavoro a quattro mani, Alla frontiera (On the Frontier, 1938; musica di B. Britten). Il venir meno del clima politico in cui s’era formata decretò la fine della loro collaborazione e, più in generale, del `poetic drama’, il teatro sperimentale nato in Inghilterra negli anni Trenta. Sia I. sia Auden emigrarono negli Usa, dove I. prestò la sua opera di sceneggiatore cinematografico ( Il caro estinto , 1965, di Tony Richardson). Per il teatro, da ricordare ancora l’adattamento scenico insieme all’attore Charles Laughton di alcuni Dialoghi di Platone (1960) e Le avventure della ragazza negra alla ricerca di Dio (1969), dalla satira di G.B. Shaw. Il suo racconto Addio a Berlino (1939) ha ispirato la pièce I am a Camera di J. Van Druten, soggetto di uno dei più grandi successi di Broadway, Cabaret (da cui l’omonimo film di Bob Fosse).

Ovadia

A Milano, dove emigra da bambino, avviene la formazione artistica di Moni Ovadia, dapprima come cantante e musicista e poi come attore-autore. L’appartenenza ebraica e l’esilio segnano profondamente la sua esperienza e sono a fondamento della sua opera di artista e del suo `teatro musicale’, che racconta con struggimento e ironia la condizione dello sradicamento personale e collettivo, religioso e culturale dell’ebreo moderno, metafora di una più vasta condizione spirituale dell’uomo contemporaneo. Canto e musica popolare, riscoperta della tradizione musicale yiddish e impegno politico attivo segnano la prima attività di O., alla fine degli anni ’60. Decisiva l’esperienza con l’etnomusicologo Roberto Leydi nell'”Almanacco popolare” e con la cantante etnica d’origine ebrea Hana Roth. Con la fondazione nel 1972 del gruppo Folk internazionale inizia lo studio della musica tradizionale dei paesi dell’area balcanica e la vita da musicisti militanti, con lunghe tournée in tutta Europa. Nel 1977 avviene il primo contatto con il mondo del teatro attraverso la collaborazione con l’Elfo di Milano e Gabriele Salvatores. In quegli anni collabora tra gli altri con il cecoslovacco Bolek Polivka, con Tadeusz Kantor e Franco Parenti. Nell’ambito del Festival della cultura ebraica al Teatro Pier Lombardo di Milano (1987), con la collaborazione di Mara Cantoni, O. crea il suo primo `dramma musicale’: Dalla sabbia dal tempo. Breve viaggio nell’ebraitudine . Composto da un intreccio di canto, musica e narrazione, lo spettacolo segna l’inizio della sua sperimentazione più recente e ne anticipa la forma teatrale, che trova piena realizzazione in Oylem Golem (1993), Dybbuk (1995), Ballata di fine millennio (1996), dei quali O. realizza insieme alla sua TheaterOrchestra anche l’incisione discografica; nel 1997 collabora con il regista Roberto Andò alla realizzazione di Il caso Kafka .

Achternbusch

Dopo un’infanzia trascorsa nella foresta bavarese presso la nonna, segue i corsi di pittura di Gerhard Wendland all’Accademia di Norimberga, guadagnandosi da vivere con lavori occasionali; apre quindi uno studio ad Ambach, sullo Starnbergersee. La sua produzione, che egli considera simile a quella di un poeta maledetto, comprende, oltre all’opera in versi, anche, teatro e sceneggiature cinematografiche. Mette in scena i suoi testi (autobiografici), dipinge, gira e produce i suoi film. Vince diversi premi, tra i quali, nel 1986, il Mühlheimer Dramatikerpreis per il testo teatrale Gust, col quale, nel corso dello stesso anno, viene invitato a Berlino nell’ambito degli Incontri Teatrali. Herbert Achternbusch, in opere quali Ella (1978), Susn (1980), Plattling (1982), Der Stiefel und sein Socken (1993), crea metafore di follia quotidiana abitate da figure insolite in un gioco antinaturalistico che fa emergere l’assurdità del reale.

Salacrou

Il primo testo di Armand Salacrou rappresentato – in precedenza aveva pubblicato Le casseur d’assiettes (1923) – è Tour à terre (1925), messo in scena da Lugné-Poe; le critiche non sono favorevoli. Comincia a farsi conoscere con le opere successive: Patchouli (1930), Atlas-Hôtel (1931), Une femme libre (1934). Il successo arriva nel 1935 con L’inconnue d’Arras , una meditazione sulla morte e sul destino dell’umanità presentata attraverso il ricordo del protagonista in punto di morte. L’opera rivela una caratteristica del teatro di Salacrou, in cui i personaggi si agitano nella contraddizione tra il bisogno di Dio e l’impossibilità della fede. S. denuncia le tare del mondo in cui vive, offrendo però al pubblico la possibilità di abbandonarsi al sollievo di una risata; come ha detto di lui Colette, «mescola il sale e lo zucchero».

In La terre est ronde (1938), attraverso la vicenda storica di Savonarola, ha l’occasione di parlare della seduzione del male e del vizio; in Histoire de rire (1939), sotto l’apparenza di una commedia leggera, affronta il tema dell’amore coniugale e del tradimento; in Les nuits de la colère (1946) affronta l’attualità, mettendo a confronto partigiani e collaborazionisti (è il testo che Strehler inserirà nella stagione inaugurale del Piccolo Teatro: Le notti dell’ira , 1947); in L’archipel Lenoir (1947) una famiglia borghese, per salvare la propria rispettabilità, decide di spingere al suicidio l’anziano patriarca, che si è macchiato di un crimine infamante; in Boulevard Durand (1960) la trama è suggerita da un fatto di cronaca, la morte di un militante sindacale nella sua cella. Il nichilismo dell’autore si esprime pienamente in La rue noir (1967); ma, al di là della constatazione dell’inutilità dell’agire umano, i personaggi di Salacrou comunque non rinunciano alla vita.

Novarina

Assistente di Antoine Bourseiller e attore con Jean-Marie Villégier e Marcel Bozonnet, Valère Novarina, in un’intervista pubblicata su “Théâtre/Public” del novembre 1989 afferma: «Il teatro deve farci uscire dal sonno materialista». E in effetti, tutta la sua ricerca è volta a distruggere la materialità dello spazio e delle scene, a disgiungere la parola dalla carnalità del corpo creando così un linguaggio nuovo che non disdegna i neologismi ma che fluisce con ritmi e accenti assolutamente propri. Ciò risulta evidente, a partire dagli anni Ottanta, con la creazione di spettacoli quali Générique (1983) e Le Drame de la vie (1986), ma soprattutto Vous qui habitez le temps (1989) e Je suis (1991). In queste opere si celebra il fallimento dell’artista di fronte all’autonomia del linguaggio verbale e visivo, poiché – dice Novarina – occorre «lasciar dipingere la materia e lasciar pensare le parole: esse ne sanno più di noi».

Valdi

Walter Valdi inizia ad accostarsi alla recitazione con riviste goliardiche come Il foro competente e Impara l’arpa , rappresentate all’Olimpia e al Manzoni di Milano alla fine degli anni ’50. In seguito frequenta la scuola di mimo del Piccolo Teatro e prende parte a diversi spettacoli diretti da M. Flash, con la quale collaborerà per un lungo periodo. Negli stessi anni si unisce al gruppo dei primi autori che al Derby Club di Milano danno vita al teatro cabaret, portando in scena canzoni e monologhi in dialetto milanese e in lingua (“La busa noeuva” e “La Malaguena”). Firma molte canzoni di successo, sono sue tra l’altro le famose “Il caffè della Peppina” e “Cocco e Drilli” che vincono due edizioni dello Zecchino D’oro. Si occupa di teatro, cinema e televisione in veste di attore e autore.

Tra le sue prime interpretazioni lo ricordiamo in spettacoli teatrali come Barchett de Boffalora, Tafante e Le sbarbine. Prende parte, come autore e comico, alla stagione 1970-71 della Compagnia stabile del Teatro Milanese al Gerolamo, nel corso della quale è rappresentata la sua commedia Ciappa el tram balorda . Per la televisione scrive e conduce numerose trasmissioni: è coautore di Monterosa 84 di cui è personaggio fisso e, per la televisione svizzera, nel 1973-74, insieme a E. Tortora e G. Marchetti, è animatore in I cari bugiardi . Anche nel cinema conta al suo attivo molti film con vari registi tra cui E. Olmi, L. Comencini, M. Nichetti, S. Corbucci. Nelle ultime stagioni ha interpretato con successo la commedia In portineria di G. Verga.

Gregoretti

Dopo gli studi classici compiuti a Napoli, Ugo Gregoretti inizia la propria attività in Rai dove è assunto nel 1953. Segnalatosi ben presto con alcuni documentari di costume per la trasmissione Semaforo , ottiene consensi con La Sicilia del Gattopardo (1960, premio Italia) e con lo sceneggiato Il circolo Pickwick (1968). Percorre, contemporaneamente, la strada del cinema, realizzando tra gli altri I nuovi angeli (1961), Rogopag (1963, episodio Il pollo ruspante , con U. Tognazzi), Omicron (1964), Vietnam: scene del dopoguerra (1975, documentario); Maggio Musicale (1990). Il ritorno alla televisione è del 1973, con il fortunato Le tigri di Mompracem , cui fanno seguito lavori come La casta fanciulla di Cheapside di J. Middleton (1977); Viaggio a Goldonia con Paolo Poli (1982) e, dal 1991 al 1994, la trasmissione di inchieste Sottotraccia . Regista garbato e ironico, G. si dedica alla prosa nel 1978, con Il bugiardo di Goldoni (protagonista G. Proietti), per poi affrontare Petrolini, Ionesco, Satta Flores, Viviani, Jarry (Ubu re, 1989, Teatro Stabile di Torino), Pirandello (L’uomo, la bestia e la virtù , 1990); De Filippo (Uomo e galantuomo , 1991). Nel 1998 firma un adattamento del Purgatorio , di Dante Alighieri, che lo vede anche interprete e regista (al festival di Borgio Verezzi). Nella lirica dirige Il matrimonio segreto di Cimarosa (1977, Comunale di Firenze), L’italiana in Algeri di Rossini al Regio di Torino (1979); Un ballo in maschera di Verdi al San Carlo di Napoli (1982); L’elisir d’amore di Donizetti a Spoleto (1984), Le convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti alla Fenice di Venezia (1988); Il barbiere di Siviglia di Paisiello al Comunale di Firenze (1994). Direttore del Festival di Benevento dal 1980 al 1990 e del Teatro Stabile di Torino dal 1985 al 1989, G. è presidente dell’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ di Roma dal 1995.

Hauptmann

Dopo una prima formazione a Breslavia, Gerhart Hauptmann studiò scienze naturali, filosofia e storia dell’arte a Jena; si accostò al teatro, e dal 1884 visse come scrittore indipendente a Berlino. Nel 1912 fu insignito del premio Nobel per la letteratura. La sua opera, in cui si possono rilevare influenze che vanno da Zola a Ibsen e Tolstoj, esercitò un ruolo determinante nella storia del teatro europeo. Nel 1889 venne rappresentato a Berlino il suo dramma Prima del tramonto (Vor Sonnenaufgang), che aprì la strada al naturalismo. Tra il 1889 e il 1893 Gerhart Hauptmann scrisse diverse opere teatrali, tra cui I tessitori (Die Weber, 1892), La pelliccia di castoro (Der Biberpelz, 1893), La morte di Hannele (Hanneles Himmelfahrt, 1896), con le quali ottenne fama internazionale. Disgustato dal carattere decorativo e sentimentale del teatro del suo tempo, Gerhart Hauptmann dipinse, attraverso i suoi personaggi, un severissimo ritratto dell’epoca guglielmina e tentò di fare del dramma sociale lo specchio critico dell’epoca. La denuncia dell’ingiustizia sociale, dell’ipocrisia borghese, la descrizione della miseria di famiglie rovinate dall’industrializzazione sono i temi delle sue opere. Con La festa della pace (Das Friedensfest, 1890) e Anime solitarie (Einsame Menschen, 1891) tracciò un’immagine feroce della borghesia tedesca e si attirò l’odio delle classi più conservatrici; I tessitori gli attirò l’accusa di propaganda rivoluzionaria, ma fu rappresentato in tutta Europa e tradotto in russo dalla sorella di Lenin. Tuttavia, nel 1914 Gerhart Hauptmann si schierò dalla parte del fervore bellicistico, con gran stupore dei suoi seguaci e dell’imperatore, che immediatamente gli conferì un’onorificenza. Dopo la guerra il trionfo dell’espressionismo e il successo delle opere di Strindberg e di Wedekind offuscarono la sua fama. Il dramma Herbert Engelmann, rappresentato nel 1923, testimonia ancora un notevole mordente nella scrittura, ma anche un allontanamento dalle preoccupazioni sociali e politiche. Negli ultimi anni, chiusosi in un profondo pessimismo, Gerhart Hauptmann divenne amico di Thomas Mann, che diede i suoi tratti al personaggio di Peeperkorn ne La montagna incantata.

Roussel

Personalità complessa e ardito sperimentatore, Raymond Roussel si pone, con grande anticipo sui tempi, il problema di ciò che, nel linguaggio, consente di pensare e di produrre la letteratura; elabora così un’opera che, come ha acutamente osservato Michel Foucault, pone al centro la questione della parola e del silenzio. Per comprendere i suoi romanzi (La doublure, 1897; La vue , 1902; Impressions d’Afrique, 1910; Locus solus , 1914; Nouvelles impressions d’Afrique , 1932) e i suoi lavori teatrali (L’étoile au front , 1925 e La poussière des soleils, 1927) occorre tuttavia partire dal suo ultimo testo, pubblicato postumo: Comment j’ai écrit certains de mes livres (1935). In esso è svelato il `procedimento’ – come lo chiama lo stesso Roussel – della creazione letteraria: un testo si costruisce inserendolo fra due frammenti di discorso, i più vicini possibile quanto al significante, i più distanti possibile quanto al significato. Una volta trovate le due frasi, la narrazione si incaricherà di riempire lo spazio tra la prima e l’ultima. Il risultato è un’apparenza di grande verosimiglianza, inserita, tuttavia, in un quadro di estrema complessità e artificialità in cui il contenuto duplica, per metafora, i processi che hanno contribuito a produrlo. Il linguaggio è, come si comprende facilmente, il cuore del dispositivo fantastico narrativo di R. Ed è proprio l’interesse verso la libera associazione di immagini, verso la loro oniricità che ha condotto Perlini, con il teatro La maschera, ad allestire a Roma, nel 1976, Locus solus , avvalendosi della collaborazione dello scenografo Antonello Aglioti.

Erba

Laureato in lettere moderne, Edoardo Erba si diploma poi alla scuola di drammaturgia del Piccolo Teatro di Milano. L’esordio vero è del 1986, con Ostruzionismo radicale , interpretato da Claudio Bisio. Segue nel 1988 L’appeso , regia di Beppe Rosso. Tra le sue opere principali, scritte per la scena e poi dirette, ricordiamo La notte di Picasso , allestita a Roma nel 1990 e l’anno dopo a Los Angeles dallo Stages Trilingual Theater. La stessa compagnia dà vita, nel 1991, a Porco selvatico . Nel 1992 è al Parenti con Tessuti umani , interpretato da Flavio Bonacci; nello stesso anno debutta al festival delle Ville Tuscolane di Frascati, autore e al tempo stesso interprete di Curva cieca, regia di Pamela Villoresi. Maratona di New York viene allestito dal Teatro Due di Parma; interpreti intensi sono Bruno Armando e Luca Zingaretti. Co-autore di Claudio Bisio (Favola calda, Guglielma, Aspettando Godo), Erba è tra i talenti più brillanti della sua generazione, non troppo prodiga di autori. Nelle sue trame si intrecciano tutte le sfumature, dal giallo alla vena comica della commedia.

Forte

Dieter Forte è stato reso famoso dal dramma-documento M. L. & T. M. ovvero l’introduzione della contabilità (Martin Luther & Thomas Münzer oder Die Einführung der Buchhaltung, 1970), in cui, in una cornice storica molto precisa, si confrontano quattro giovani: Lutero, Münzer, Carlostadio e Melantone. Questi riformatori non solo religiosi ma anche politici vengono messi in relazione con il banchiere Fugger, a rappresentare il capitalismo nascente che si apprestava ad asservire la Riforma. Altri drammi analoghi sono Jean Henry Dunant ovvero l’introduzione della civiltà (J.H.D. oder Die Einführung der Zivilization, 1978 ) , e La morte di Kaspar Hausers (Kaspar Hausers Tod, 1979 ) , Il labirinto dei sogni ovvero come si separa la testa dal corpo (Das Labyrint der Traume oder Wie man den Kopf vom Körper trennt, 1983), mette a confronto sulla scena un pluriomicida che è stato decapitato e Adolf Hitler.

Porta

La produzione teatrale di Elvio Porta si caratterizza per la scelta della lingua napoletana, che gli consente di coniugare il gergo della napoletanità più autentica e popolare con l’irrinunciabile necessità di un ripensamento storico-sociale e culturale della situazione del meridione. Scrive e mette in scena, tra gli altri, il popolarissimo Masaniello (1974), Jesus (1975), O’ journo `e San Michele (1976), L’opera `e Muorte `e fame (1979), La perla reale (1982). Masaniello in particolare, esempio significativo di teatro popolare attuato rievocando un preciso periodo storico, sarà più volte ripreso da Armando Pugliese. Inoltre, nel 1990, è da ricordare l’allestimento della Compagnia della Fortezza – nata all’interno del carcere di Volterra e diretta da Armando Punzo, per la quale Porta scrive poi, appositamente, Il corrente (1992).

Romagnoli

L’attività di grecista e latinista spinse Ettore Romagnoli sulla strada di un teatro – oltreché di una poesia e di una narrativa – che avrebbe dovuto rievocare la visione del mondo della classicità, avvicinandola il più possibile al presente. Rivelando una sfaccettata versatilità, perseguì generi diversi: tra le tragedie si menzionano i Drammi arabi, i Drammi satireschi (Polifemo, Ettore e il Cercopo, Elena, Sisifo) e i Nuovi drammi satireschi (Il cane di Dioniso, La figlia del sole, Le donne d’Ulisse). Tra le commedie Il trittico dell’amore e dell’ironia (Compensazioni d’amore, La parabola del desiderio, Il labirinto). Scrisse anche un dramma pastorale, Dafni.

 

Bourdet

Edouard Bourdet debutta nel 1910 con Le Rubicon , accolto con favore dal pubblico. Ma la prova successiva, La cage ouverte, non soddisfa le attese. Costretto ad interrompere l’attività teatrale dalla guerra, nel 1926 raggiunge il successo con La Prisonnière, in cui è ammirevole il tatto con cui affronta un argomento scabroso come l’omosessualità femminile. L’omosessualità, questa volta maschile, è il tema di La Fleur des pois (1932), mentre Vient de paraître (1927) tratta della corruzione dell’ambiente letterario all’inizio del XX secolo. Bourdet si dimostra critico ironico e implacabile dei vizi della società della Belle Époque in: Le Sexe faible (1929); Le Temps difficiles (1934); Fric-Frac (1936); Hyménée (1941); Le Père (1942). Dal 1936 al 1940 è amministratore della Comédie-Française, periodo in cui tra i suoi collaboratori si contano Jacques Copeau, Charles Dullin, Louis Jouvet e Gaston Baty.

Rocca

Dopo una lunga attività giornalistica (corrispondente da Parigi, redattore e critico drammatico dell'”Europeo” e di “Settimo giorno”), Giudo Rocca esordì come narratore, ma ben presto, seguendo le orme del padre Gino e ascoltando i consigli dell’influente critico del “Corriere della Sera” Eligio Possenti, si dedicò completamente al teatro rivelando un sicuro talento e una notevole lucidità di osservatore dei costumi e della mentalità del suo tempo. Il clima delle sue commedie, che ebbero subito un buon successo, è quello plumbeo del dopoguerra, caratterizzato da incertezza, arrivismi e torbida spregiudicatezza. Successivamente questo pessimismo si attenuò un poco, lasciando intravedere una possibilità di riscatto morale e di riequilibrio della società. Di particolare spicco, nella descrizione impietosa di ambienti e situazioni dell’Italia anni ’50, sono i personaggi femminili, ricchi di umana sensibilità. Tra le sue commedie si ricordano I coccodrilli (1956), Una montagna di carta (1958), ispirata dall’attività giornalistica, Un blues per Silvia (1959), Mare e whisky (1959), Una giornata lunga un anno (1960), che vennero portate sulle scene dalle principali compagnie del periodo, quali la Proclemer-Albertazzi, la Masiero-Volonghi-Lionello, il Piccolo Teatro di Milano. Vittorio Gassman lo invitò a sceneggiare alcune puntate dello spettacolo televisivo “Il mattatore”.

Verde

Il successo di Dino Verde comincia alla radio, nei primi anni ’50. Firmò una serie di varietà in onda di domenica intorno all’ora di pranzo, tutti, anno dopo anno, con titolo al superlativo assoluto: “Scanzonatissimo”, “Urgentissimo” e via. Interpreti, gli attori della Compagnia stabile di prosa della Rai di Roma, con A. Steni, E. Pandolfi, R. Turi (gran voce anche come doppiatore: era lui il Padreterno che annunciava il diluvio in Aggiungi un posto a tavola con J. Dorelli); una serie svelta di scenette e couplets , ma soprattutto di parodie di canzoni celebri (genere, quest’ultimo, di cui Verde fu ed è specialista insuperabile).

Famoso il motivetto finale, che divenne anche un intercalare popolare: «Però, la vita è bella» anche se «nelle caramelle con il buco, c’è troppo buco e troppo poca caramella». Dalla radio al palcoscenico, ma sempre, o quasi, come coautore. Ha firmato copioni con Rovi-Puntoni (Pericolo rosa per Macario , 1952-53), con Nelli-Mangini (B come Babele, 1953-54, e Il terrone corre sul filo per N. Taranto, 1954-55), con Marchesi-Metz  (Gli italiani son fatti così per Billi e Riva, 1956-57), con Age e Scarpelli (Festival, 1954, per W. Osiris; al copione misero mano anche O. Vergani e M. Marchesi, la consulenza artistica fu di L. Visconti. Un insuccesso che determinò il ritiro dell’impresario R. Paone). Nella stagione 1963-64 trasferì Scanzonatissimo dalla radio alla ribalta; stessi interpreti (Steni-Pandolfi con G. Cajafa e R. Como) e, nella versione della stagione successiva, A. Noschese con le sue imitazioni. Nella stagione 1965-66 scrive una rivista-commedia, Hanno rapito il presidente , dove alieni gangster sequestrano il presidente del consiglio e ricattano il governo. Con A. Nazzari e R. Como. Verranno, molti anni dopo, il Fanfani rapito di Fo e – la cronaca batte la fantasia – il sequestro Moro.

Nel 1966-67 scrive con B. Broccoli Yo Yo Yé Yé con C. Dapporto e A. Fabrizi e si conferma definitivamente «grande araldo degli scontenti del governo». Satira bollata unanimemente come qualunquista, che da destra sparava contro il centro-sinistra e i suoi protagonisti con una serie di attacchi ad personam assai applauditi da un pubblico conservatore. Verde si è sempre difeso dalle stroncature dei critici dicendo che preferiva essere un autore qualunquista piuttosto che un giornalista qualunque. Scanzonatissimo divenne anche film. Verde ha collaborato anche con Garinei e Giovannini per “Canzonissima” in tv con il trio N. Manfredi, P. Panelli e D. Scala; ha scritto con il figlio Gustavo il copione di Arcobaleno (1993) per L. Banfi e, da qualche anno, è tornato a un’antica passione: recitare di persona i suoi sketch e le sue parodie in un teatrino off di Roma. Ha ottenuto successo anche come paroliere di canzoni, vincendo il festival di Sanremo nel 1959 con “Piove” di D. Modugno e l’anno successivo con “Romantica” di R. Rascel.

Caleffi

Fabrizio Caleffi si avvicina al teatro come autore, vincendo in giovane età il premio Riccione con le commedie I tagliatori di teste (ex aequo con Balducci, 1973) e Le dimissioni rinviate (1974). I suoi spettacoli si orientano verso un genere di teatro totale; tra questi, Sei personaggi in cerca di Warhol, Il testo di questa commedia non può figurare in cartellone , Fragili Indie, Corpo di nulla, La resurrezione della carne . Alterna questa sua attività a quella di pittore, regista, attore ( I giganti della montagna con la regia di Strehler).

Praga

Marco Praga è stato il dominatore della scena teatrale italiana a cavallo del secolo, il più classico rappresentante di quella commedia borghese moralisteggiante, che tanta presa aveva sul pubblico, ma che non sempre riuscì a determinare esiti artistici di rilievo. Le opere di Praga ci restituiscono una fedele immagine del suo tempo, contrassegnate come sono da un profondo pessimismo e dalla convinzione che la radice di ogni male fosse il disordine delle passioni, destinato inevitabilmente a sfociare nell’adulterio. Così nelle sue venti commedie – dominate da un realismo dai toni piuttosto edulcorati – sono le donne, incoerenti e irrazionali, ad apparire come la causa del malessere sociale. Agli uomini – tratteggiati con una certa ironia – spetta invece il ruolo di vittima predestinata. P. raccolse i maggiori successi con Le vergini (1889), La moglie ideale (1890, con la Duse nei panni della protagonista), Alleluja (1892), Il dubbio (1899), L’ondina (1903), La crisi (1904) e poi anche con La porta chiusa (1913) e Il divorzio (1915), testi più inclini all’intimismo e al crepuscolarismo.

Benvenuti

Artista precocissimo, Alessandro Benvenuti a soli quattordici anni è caratterista in una filodrammatica parrocchiale. In seguito farà un po’ di tutto: dal folksinger al cantante rock, dal mazziere in una banda musicale al percussionista jazz. A ventidue anni fonda, insieme ad Athina Cenci e Paolo Nativi, il gruppo cabarettistico dei Giancattivi, di cui per dodici anni curerà i testi per il cabaret, il teatro, il cinema e la televisione (entrerà poi nel gruppo Francesco Muti). Il primo lavoro di cabaret con i Giancattivi è del 1972 Il teatrino, a cui seguono: Nove volte su dieci più una (1974), Italia 60 (1976), Pastikke (1977). Nel ’78 esordisce in televisione. Sempre con la formazione cabarettistica porta in scena Smalto per unghie (1979) e Gli affari sono affari (1980). In teatro, esauritasi l’esperienza con i Giancattivi che aveva portato anche al film Ad Ovest di Paperino (1981), nella stagione 1983-84 recita in Corto Maltese di Pratt, Ongaro e Mattolini e lo stesso anno scrive in collaborazione con Ugo Chiti Marta e il Cireneo , ovvero saluti e baci dalla Galilea, di cui è protagonista in compagnia di A. Cenci. Altri lavori teatrali di cui è autore, regista e interprete sono W Benvenuti (1984), Benvenuti in casa Gori (1987) da cui nel ’90 trarrà una versione cinematografica, Due gocce d’acqua (1991), Ritorno a casa Gori (1995) e Gino detto Smith e la panchina sensibile (1996). Come testi di cui è soltanto autore si possono ricordare Andy e Norman (1987) con Gaspare e Zuzzurro, Prese di petto (1990), Sete (1990) con Gaspare, Zuzzurro e C. Pistarino, Perla d’Arsella (1993) e Il mitico undici (1994) con Stefano Bicocchi (Vito). Più recentemente T. T. T. T. Beckettio (1998) interpretato assieme a S. Bicocchi, Daniele Trambusti e Andrea Muzzi. Il suo più recente lavoro è Un passato da melodici moderni , rappresentato nella stagione 1998-99. Al cinema ha all’attivo nove regie e almeno sette partecipazioni da protagonista in altrettanti film.

Pugliese

Armando Pugliese inizia a lavorare a Napoli e nel 1969 si diploma all’Accademia d’arte drammatica con lo spettacolo Barocco ineffabile con strumenti , scritto appositamente per lui da Elvio Porta. Nello stesso anno è aiuto-regista di Ronconi. Negli anni ’70 allestisce alcuni spettacoli – Iwona, principessa di Borgogna di Gombrowicz, Il barone rampante , riduzione dello stesso Pugliese dal romanzo di Calvino, Quando si fa giorno – di E. Bond, L’opera del mendicante di J. Gay – ma il successo lo raggiunge con Masaniello – di cui è anche autore del testo, scritto assieme a Elvio Porta (1974). Tra i suoi spettacoli ricordiamo: Aladino di Francesco Cerlone (1981); La guerra dei topi e delle rane di Nicola Saponaro (1983); Il Miles di Plauto , adattamento della commedia di Plauto ad opera di G. Pasculli (1984); Fiat voluntas dei di Giuseppe Macrì (Catania, 1987).

Tra gli spettacoli degli ultimi anni, diversi sono d’ambientazione napoletana: Ogni anno punto e da capo di Eduardo De Filippo, musiche originali di Nino Rota e Antonio Sinagra, con Luca De Filippo (1988); Medea di Portamedina , commedia con musiche in due tempi, liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Francesco Mastriani, con Lina Sastri – il testo scritto espressamente per l’attrice, è la storia di una Medea moderna, che uccide la propria figlia per non condannarla a vivere la sua stessa disperata esistenza – (Napoli, 1991); Angeli all’inferno di Francesco Silvestri (che ne è anche interprete), musiche di Pappi Corsicato, (1991); Limbo, di Enzo Moscato, con Isa Daniele (Benevento, 1993); I viceré, riduzione di D. Fabbri dal romanzo di F. De Roberto, con Turi Ferro (1994); Delizie e misteri napoletani (Festival dei Due Mondi di Spoleto, 1995); Ubu re , di A. Jarry, traduzione italiana di E. Moscato, con Mario Scaccia e Marisa Fabbri (Roma , 1995); Gilda Mignonette , testo e regia di P., con Lina Sastri ( 1996); I Don, di Pippo Marchese (Catania, 1996).

Ustinov

Peter Ustinov si è formato al Theatre Studio di St Denis e nel 1939 ha presentato alcuni suoi sketch al Players’ Club. Tra i suoi drammi più interessanti La casa dei rimpianti (House of Regrets, 1942), Il momento della verità (The Moment of Truth, 1951) e L’amore dei quattro colonnelli (The Love of Four Colonels, 1951), parodia delle convenzioni teatrali inglesi: quattro colonnelli sono innamorati di una bella addormentata che ricalca vari cliché, da Shakespeare a Cechov, da Marivaux ai film di gangsters. Nel 1956 portò in scena Romanov and Juliet , storia d’amore tra i rampolli dell’ambasciatore russo e americano durante la guerra fredda, in uno stato immaginario. U., attore originale, dotato di forti qualità mimiche e di un tono recitativo quotidiano, ha quasi sempre interpretato le sue opere. Abile professionista, ha raggiunto il successo più come attore e regista cinematografico (Billy Budd, 1962; Lady L., 1965) che come commediografo, pur continuando a scrivere pièces: Who’s Who in Hell (1974), che si svolge nell’anticamera dell’inferno, con il presidente russo e quello americano; Sentito per caso (Overheard, 1981), lacrimosa commedia sulla vita diplomatica; La decima di Beethoven (Beethoven’s Tenth, 1982).

Exton

Clive Exton ha scritto molti testi drammatici per la televisione, passando dal canone realistico di Senza fissa dimora (No Fixed Above, 1959), Il cavallo di seta (The Silk Purse, 1959) e Dove vivo (Where I Live, 1960) a drammi simbolici come Tienimi una mano, soldato (Hold My Hand, Soldier, 1960) e Avrò te da ricordare (I’ll Have You To Remember, 1960), ad altri di genere satirico: Il gattone (The Big Cat, 1962), Il processo del dottor Fancy (The Trial of Doctor Fancy, 1963). Nel 1969 ha presentato in teatro la commedia Hai del bucato, cara mamma? (Have You Any Dirty Washing, Mother Dear?), centrata sui lavori di un’immaginaria commissione parlamentare. Il teatro Manzoni di Milano ha messo in scena, per la regia di E. Coltorti, Twist con M. Columbro e L. Masiero (1995).

Wyspianski

Studia alla Scuola di belle arti e alla facoltà di filosofia dell’Università Jagellonica di Cracovia; in seguito viene ammesso nello studio del pittore Jan Matejko. Considerato il maggior rappresentante del teatro modernistico polacco (`Mloda Polska’), Stanislaw Wyspianski rompe con la tradizione romantica di una drammaturgia `da leggere’ in nome di una concezione dello spettacolo che, nella partecipazione di tutte le arti, favoriva l’avvento della regia. La sterminata produzione teatrale di Wyspianski – dove in una visione sincretica si intersecano suggestioni simboliste, la teoria nietzscheana dell’opera `sintetica’, influenze di Maeterlinck e di Wagner, presagi dell’espressionismo – può essere suddivisa in base ai temi e alle ambientazioni delle opere.

I ‘drammi greci‘ comprendono Meleagro (1899), Protesilao e Laudamia (1899), Achilleide (1903), Il ritorno di Ulisse (1907), dove miti e figure letterarie dell’antichità classica vengono sottoposti a rilettura: Achille acquisisce un’umanità sconosciuta ai suoi contemporanei a causa del destino che lo costringe a uccidere e far soffrire chi ama, mentre Ulisse agisce volutamente per cancellare nella memoria dei posteri le tracce dei crimini commessi. Nei drammi `cracoviani’ Leggenda (1898) e Boleslao l’Ardito (1903) W. esplicita una dura critica della sacralizzazione romantica del passato, denunciando l’ossessione per la storia nazionale come un vero e proprio «mattatoio del pensiero». Nei drammi dedicati alle insurrezioni nazionali del XIX secolo e alla `primavera dei popoli’ (La varsovienne, 1898; Lelewel, 1899; Legione, 1900) W. contrappone all’idoleggiamento della storia una sua interpretazione finalizzata all’identificazione dei principi politici della contemporaneità. Il capolavoro di questa fase è sicuramente Notte di novembre (1904), un dramma sull’insurrezione antirussa del 1830 dove avvenimenti e personaggi storici si incrociano con figure e temi della mitologia classica, e dove gli dèi degli antichi prendono parte attiva alle vicende storico-politiche della modernità.

Nei ‘drammi politici‘ (Le nozze, 1901; Liberazione, 1904; Akropolis, 1904) è la contemporaneità ad essere sottoposta a vaglio, nella sua qualità di anello terminale della catena degli avvenimenti storici. Da un punto di vista ideologico, a caratterizzare questi drammi non è soltanto il rifiuto della martirologia irredentistica e della visione profetico-messianica dell’arte propria dei romantici polacchi, ma anche un’esibita sfiducia nei confronti dei vagheggiamenti populistici degli intellettuali `fin de siécle’ (Le nozze). In un trionfo di sincretismo Wyspianski riesce a conciliare temi mitologici, suggestioni aristofanesche, richiami al folclore e al teatro delle marionette, personaggi storici e allegorie in pièce dove il testo è solo uno degli elementi della rappresentazione, a pari dignità con la resa pittorica delle scene e un commento musicale che spesso diviene protagonista. Al contrario di altri autori del modernismo polacco, Wyspianski gode di un ininterrotto successo sulle scene, grazie anche all’attenzione di registi come Andrzej Wajda, che delle Nozze ha realizzato un mirabile adattamento cinematografico (1972).

Silva

Umorista di talento, in grado di raccontare con risvolti ilari anche drammi personali. In Vengo dalla Siberia , (1973), Carlo Silva descrisse l’amputazione della sua gamba sinistra congelata, a ventuno anni, sul fronte russo, chiedendosi: «Chissà dove mi hanno sepolto. Adesso non sono più tutto vivo». La vita, anche in taluni frangenti, non può essere solo tragedia. Silva inclinava per il sorriso e scrisse e allestì le prime riviste in campo di concentramento, dove rimase prigioniero per tre anni. Autore di numerosi e apprezzati volumi: Come fare la guerra con amore e Come fare lo sciopero con amore, illustrati da Raymond Peynet, Diario milanese, I quarantanove racconti non di Hemingway e altri ancora. Più di mille copioni per la radio, più di centocinquanta testi per la tv svizzera, aveva esordito come attore alla radio con Dina Galli. Come autore di riviste per la radio e per la scena, fu in coppia prima con Attilio Carosso e poi con Italo Terzoli.

Nella stagione 1950-51 scrive Stop… mi uccido alle 20.90 con Terzoli, per Mario Carotenuto e Tina De Mola; la stagione successiva, sempre con Terzoli, eleva a ruolo di primattore Chiari con Sogno di un Walter; Campanini ‘spalla’ e Dorian Gray soubrette, e abbondavano le parodie di film famosi; per la prima volta ci fu il lungo assolo in passerella del comico prima del finale. Un successo tira l’altro: nella stagione 1952-53, con Terzoli, Faele e Ferretti, scrive il suo copione più riuscito: Davanti a loro tre Nava tutta Roma, rivista che venne definita ‘pazza’ per il suo spirito innovatore e dissacratore: con le tre scatenatissime sorelle Diana, Lisetta e Pinuccia che sfogavano la loro vena clownesca, attorniate da cinque giovani e promettenti comici: Bramieri, Cajafa, Conti, Pelitti e Pisu. L’anno successivo, ancora Nava con Tre per tre Nava, e sempre ragguardevole la scoperta di nuovi talenti comici: Nino Manfredi, Paolo Ferrari e Gianni Bonagura. Tra i quadri più applauditi, una spassosa dissacrazione del libro Cuore di De Amicis, largamente ricopiata in seguito da altri.

Nella stagione 1954-55 gran ritorno con Walter Chiari, per il quale, con Terzoli, scrive I saltimbanchi dai toni cabarettistici: spettacolo senza passerella, una serie di scenette spiritose, poesie e monologhi, `alla maniera di Gassman’, i luoghi comuni nel salotto snob e altre divagazioni umoristiche. Da sottolineare il solito `contorno’ di giovani talenti: Aroldo Tieri, Franco Scandurra, Enzo Turco, Liliana Tellini, Antonella Steni. Nel 1964 scrive con Carlo Maria Pensa El Tecoppa, una sapida rievocazione del personaggio di Ferravilla per Piero Mazzarella: nel 1953 al Puccini di Milano, andò in scena, di S.-Terzoli, Il piccolo naviglio con Bramieri-Conti-Cajafa-Tommei e un `numero’ (l’ubriaco che torna a casa e non riesce a infilarsi nel letto) interpretato dal grande comico `muto’ Buster Keaton. Nel 1955, ecco S.P.Q.M. , cioè Sono Portentosi Questi Milanesi, con Gino Bramieri, Raffaele Pisu e Lisetta Nava.

Negli anni ’70, Silva scrive per la radio e per la tv, collabora dal 1966 al 1972 a La domenica sportiva su Raiuno. Passerà dall’altra parte della barricata tenendo la critica televisiva su “Il Giorno” e fu il primo ad accorgersi dell’importanza di una chiaccherata a tarda sera condotta da Maurizio Costanzo in quello che ancora non si definiva talk show. Fondò e diresse, nel 1976, un mensile d’umorismo, “I quaderni del Sale”, con collaboratori come Campanile, Zavattini, Marchesi, Luca Goldoni. Il “Sale”, con altra direzione, divenne poi il “Male”. Silva se ne allontanò, ubbidendo a una sua equazione-massima: l’umorismo sta alla satira come il fioretto sta alla sciabola.

Meano

Laureato in giurisprudenza, Cesare Meano collaborò al “Corriere della Sera” e alla “Fiera letteraria”. Nel 1926 fondò a Torino il Teatro del Nuovo Spirito, dove mise in scena Gogol’. Privilegiò il repertorio del `teatro d’arte’ (Strindberg, Joyce, Zorilla). I suoi lavori sono caratterizzati da una rivisitazione in chiave moderna di fatti storici e antichi miti, influenzati dal teatro del grottesco. Scrisse, tra l’altro, Nascita di Salomè (1937), Avventure con Don Chisciotte (1940, il copione meglio riuscito), Melisenda per me (1941), Ventiquattr’ore felici (1943), Incontri nella notte (1952), Diana non vuole amore (1953) e Bella (1956). Nell’immediato dopoguerra diresse a Roma il Teatrino La Scena, proponendo Danza di morte di Strindberg con Maria Fabbri, Come tu vuoi di Pirandello e Mississipi di Kaiser con P. Borboni. Il suo teatro ebbe grande successo all’estero, soprattutto in Germania, dove alcuni suoi testi, in traduzione tedesca, vennero messi in scena per la prima volta. Per quanto riguarda l’attività cinematografica, va ricordato il film a sfondo sperimentale Frontiere (1934), che M. scrisse e diresse, non trovando però riscontro positivo nel giudizio del pubblico.

Pinter

Harold Pinter nasce e si forma nel quartiere di Hackney nel nord-est di Londra. Fallito il tentativo di inserirsi nelle file del RADA (Royal Academy of Dramatic Art), debutta nel teatro come attore di repertorio per la compagnia itinerante dell’irlandese A. McMaster, con lo pseudonimo di David Baron. Nel 1957 su richiesta di un amico attore, scrive il suo primo dramma, The Room, e l’anno successivo assiste all’infausta seppur curata messa in scena del suo secondo pezzo Il compleanno (The Birthday Party, 1959), uno dei suoi lavori migliori, eppure a suo tempo uno dei suoi più famosi insuccessi. In questi primi drammi e in quelli successivi (Il calapranzi, The Dumb Waiter, 1960; Il guardiano, The Caretaker, 1960; Un leggero malessere, A Slight Ache, 1961; Il ritorno a casa, The Homecoming, 1965), Pinter elabora il suo stile scarno ed essenziale, capace di portare sulla scena concreti stralci di conversazione quotidiana catturati in tutta la loro intensità ma anche nella loro vacuità e incoerenza. Gestisce con grande destrezza l’apparato didascalico, in particolare pause e silenzi, che carica di significato rendendoli più eloquenti della parola, il cui uso è volutamente inappropriato, limitato al piacere della sua pronuncia, mero gioco d’intrattenimento, o più spesso maschera per celare il sé di fronte all’altro. Il linguaggio acquista sempre più spazio nell’opera pinteriana, fino a rivestire il ruolo di strumento di `guerra’ per spiazzare e combattere l’altro che rappresenta l’esterno, l’intruso o la minaccia.

Definito con varie etichette (teatro dell’assurdo, teatro di minaccia, teatro della memoria), il suo teatro è progressivamente svuotato dell’azione e si incentra (fra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’70) su tematiche quali il tempo e la memoria, mentre il dialogo tende a scomparire, quasi annullato in battute monologanti. I suoi personaggi vagano mentalmente smarriti in uno spazio temporale dove passato e presente, persi i loro contorni, si confondono l’uno nell’altro ( Il seminterrato , The Basement, 1967; Paesaggio, Landscape, 1968; Silenzio , Silence, 1969). Nel corso degli anni ’70 ( Vecchi tempi , Old Times, 1971; Terra di nessuno , No Man’s Land, 1975; Tradimenti , Betrayal, 1978) l’interesse per il tempo e la memoria si fa più impellente e porta Pinter a recuperare il dialogo e a creare personaggi meno statici. Confrontando un passato comune essi impongono a turno la propria versione, rappresentando così la relatività del ricordo e il meccanismo fallace della memoria, inficiato da sogni, fantasie e immaginazione.

Nel 1980 Pinter rivede, corregge e mette in scena La serra (The Hothouse), dramma scritto nel 1958, e subito accantonato perché inadeguato. Dopo alcuni atti unici (Voci di famiglia, Family Voices, 1981; Victoria Station e Una specie di Alaska , A Kind of Alaska, 1982), la sua scrittura si fa più esplicita e le tematiche della minaccia, della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, già ampiamente indagate fin dai primi lavori, vengono ora trattate in modo diretto (Precisamente, Precisely, 1983; Il bicchiere della staffa, One for the Road, 1984; Il nuovo ordine del mondo, The New World Order, 1991; Il linguaggio della montagna, Mountain Language, 1988; Regime di festa, Party Time, 1991), segnando una fase dichiaratamente politica del suo teatro. Manifesta pubblicamente il suo impegno politico e sociale entrando a far parte di associazioni come PEN e Amnesty International; dà vita al gruppo di intellettuali ’20th June Group’, con i quali organizza incontri sul tema della censura e delle libertà civili. Nel 1993 interrompe la produzione impegnata con Chiaro di luna (Moonlight), riproponendo atmosfere e tematiche degli anni ’70. Il suo lavoro più recente è Ceneri alle ceneri (Ashes To Ashes, 1997), di cui ha curato la regia sia nella versione londinese (Lindsay Duncan e Stephen Rea), sia in quella italiana (Adriana Asti e Jerzy Stuhr). È autore anche di un romanzo, I nani , giovanile (1952), ma pubblicato solo nel 1990.

Home

William Douglas Home inizia la sua carriera negli anni ’40, scrivendo commedie da salotto e alcuni drammi storici. Indifferente alla rivoluzione osborniana, perpetuò il genere tradizionale anche dopo gli anni ’50, sicuro di poter contare su un certo pubblico. Tra le sue opere più interessanti, Grandi ricchezze (Great Wealth, 1937), Barabba oggi (Barabba Nowadays, 1947), The Chiltern Hundreds (1947), la tragedia storica su Giacomo IV di Scozia Il cardo e la rosa (The Thistle and the Rose, 1949), La debuttante riluttante (The Reluctant Débutante, 1955), l’opera antimilitarista Il cattivo soldato Smith (The Bad Soldier Smith, 1963), L’anatra all’arancia (The Secretary Bird, 1968; noto nell’adattamento di M.G. Sauvajont, 1970), Lloyd George conobbe mio padre (Lloyd George Knew My Father, 1972), La dama di Sark (The Dame of Sark, 1974), con una visione non scontata dell’occupazione tedesca delle isole Channel; infine, La sala di consultazione (The Consulting Room, 1977) e Ritratti (Portraits, 1987). Nelle sue opere H. offre un quadro storico della vita sociale inglese dopo la seconda guerra mondiale, senza peraltro superare il livello dell’intrattenimento.

Carrière

Collaboratore di J.-L. Barrault e di P. Brook, Jean-Claude Carrière ha partecipato alle sceneggiature cinematografiche e teatrali di quest’ultimo, per il quale ha preparato anche la riduzione di Timone d’Atene (1974), Misura per misura (1978), La conferenza degli uccelli (1979), La tragedia di Carmen (Milano, Teatro Studio 1981), il Mahabharata (1985), Woza Albert (Milano, Teatro Franco Parenti 1989), La tempesta (Milano, Castello Sforzesco 1991). Determinante è stato il suo contributo come sceneggiatore in alcuni film di successo: Bella di giorno di L. Buñuel (1966), La piscina di J. Deray (1969), Danton di A. Wajda (1982), Cyrano de Bergerac di J.-P. Rappeneau. In Italia, nella stagione 1993-94, Renzo Montagnani e Micol Pambieri ottengono un personale successo con il suo testo Aide Memoire , per la regia di G. Solari.

Satta Flores

Stefano Satta Flores debutta sulle ribalte universitarie e si diploma al Centro sperimentale di cinematografia di Roma (1960). Il suo primo ruolo cinematografico è nei I basilischi (1963) di L.Wertmuller, nella parte di un personaggio un po’ amaro di un desolato vitellone del Sud, che gli vale il consenso della critica. Ritorna al teatro e prende parte ad alcuni spettacoli importanti del Piccolo Teatro, fra il ’66 e il ’68: Enrico V di Shakespeare e Il fattaccio di giugno di Sbragia, Vita immaginaria dello spazzino Augusto G. di A. Gatti, con la regia di V.Puecher. Aderisce in pieno alle nuove proposte di teatro politico anche all’interno del Piccolo, che lascerà per far parte di una cooperativa teatrale I compagni di scena, con Cristiano Censi e Isabella Del Bianco, seguaci della politica del decentramento che portava alla ricerca di un pubblico diverso, quello delle associazioni affiliate all’Arci e delle Casa del Popolo. Degno di nota di questo periodo un allestimento fuori dei canoni brechtiani della Madre di Brecht da Go’kij. Torna al cinema in tra gli altri, C’eravamo tanto amati – e La terrazza . di Scola. Torna al teatro nel 1979-80 anche nelle vesti di autore con Dai, proviamo diretto da Gregoretti, Premio Flaiano 1980, Grandiosa svendita di fine stagione – radiografia della delusione di un gruppo di ex-sessantottini , Una donna normale , e Per il resto tutto bene , sui bilanci esistenziali della sua generazione, un po’ autobiografici. Personaggio dalla ricca personalità e dal notevole talento, anche brillante, non sempre è riuscito ad esprimerlo appieno forse per questa sua carriera dispersa in molti settori.

Nicolaj

La feconda produzione teatrale di Aldo Nicolaj si caratterizza per l’aver messo in luce i costumi e le abitudini della società borghese. I suoi personaggi sono spesso degli sconfitti, vittime del destino, uomini soli di fronte a se stessi e al mondo, emarginati dalla vita. Dunque, una sorta di pessimismo lega insieme i tipi e le situazioni dei suoi lavori. N., nella sua produzione, ha toccato diversi stili, passando dal simbolismo al neorealismo, dal surrealismo fino al teatro della crudeltà e a quello dell’assurdo, comunque sempre attento fin nei minimi particolari alla costruzione del dialogo. Ambasciatore del teatro italiano all’estero, ha fatto conoscere persino in Guatemala, dove è stato direttore dell’Istituto di cultura italiana, i caratteri della nostra scena. Alcuni titoli di una produzione che colloca N. nei grandi filoni della scrittura drammatica europea: Il figliol prodigo (1947), Teresina (1954), Il soldato Piccicò (1955), La stagione delle albicocche (1959), Gli asini magri (1961), Il mondo d’acqua (1963), Farfalla, farfalla… (1967), Il cordone ombelicale (1970), Classe di ferro (1974), L’onda verde (1977), oltre ai monologhi scritti fin dal 1957 per Paola Borboni alla quale deve parte del suo successo.

Kraus

Di famiglia ebrea, in giovane età Karl Kraus si convertì al cattolicesimo, rinunciando in seguito a qualsiasi professione religiosa, per affermare l’autonomia della propria posizione intellettuale. Pur dichiarandosi socialista, non aderì mai ad alcun partito; fu invece un convinto sostenitore delle teorie pacifiste, fin dalla prima guerra mondiale, e un critico sociale fra i più inflessibili del suo tempo. Dalle pagine della sua rivista “La fiaccola” (Die Fackel, 1899-1936), di cui fu direttore e dal 1911 redattore unico, condusse una vera e propria battaglia culturale, animata da un notevole rigore etico ed estetico. Bersaglio delle sue aspre critiche fu la società tedesca e austriaca dei primi del secolo, nei diversi aspetti: i costumi del vivere borghese, la politica del tempo (pacifista durante la prima guerra mondiale, Kraus divenne strenuo oppositore del nazismo nel suo nascere e affermarsi), le tendenze culturali e in particolare letterarie (polemico verso lo stile del gruppo della `Giovane Vienna’, verso i critici e i giornalisti raffinati e decadenti, fu invece fra i più convinti sostenitori di Wedekind e di Brecht). Fra le opere scritte da Kraus per il teatro la più nota è Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzten Tage der Menschheit, 1915-1922; recentemente allestito da Luca Ronconi per lo Stabile di Torino, 1990), violenta satira che vuole rappresentare gli orrori della prima guerra mondiale, smascherandone le cause e le autentiche motivazioni; l’ambizione politica, l’avidità priva di scrupoli degli speculatori finanziari, la grettezza e corruzione della stampa, la miopia degli intellettuali sono fatte oggetto di aperta denuncia. Il dramma ha un’articolazione complessa e grandiosa, al limite dell’informe: i fatti rappresentati sono disposti entro la struttura `a stazioni’, caratteristica dello stile espressionista; fanno da filo conduttore due personaggi, l’Ottimista e il Sofista, che guidano il dipanarsi della vicenda e assolvono la funzione di commento tipica del coro tragico. L’atmosfera ricorda quella del cabaret berlinese, in cui satira, tragico e grottesco si fondono in uno stile popolare ed efficace.

Artaud

Figlio di un piccolo armatore francese e di una donna originaria di Smirne, Antonin Artaud comincia già a cinque anni a manifestare i sintomi della sofferenza mentale che determinerà tutta la sua esistenza. La sindrome meningitica e un successivo pericolo di annegamento sfociano verso i diciannove anni in una crisi depressiva che inaugurerà i suoi ripetuti soggiorni presso case di cura. Studia intanto presso il Collège du Sacré-Cœur di Marsiglia, dove dà vita a una piccola rivista letteraria sulla quale pubblica le prime poesie. Viene riformato nel 1917 per sonnambulismo. Su consiglio dei medici, che non intendono ostacolare il suo interesse per il teatro, si trasferisce a Parigi nel 1920. Nella clinica di Villejuif diventa redattore della rivista “Demain”. In questi primi mesi parigini incontra Lugné-Poe, Firmin Gémier, Charles Dullin e grazie a loro comincia a recitare: interpreta numerosi ruoli nelle produzioni dell’Atelier di Dullin e poi in quelle dei Pitoëff; tra i suoi compagni ci sono Etienne Decroux e Jean-Louis Barrault. Nel 1925 invia alcune poesie a Jacques Rivière, direttore della “Nouvelle Revue Française”, che non le accetta, ma propone in cambio di pubblicare la corrispondenza intercorsa tra i due: è una prima e illuminante testimonianza sul pensiero e sui procedimenti creativi di Artaud Ai disaccordi con Dullin si aggiunge il distacco per ragioni politiche dal movimento surrealista di Breton, al quale ha aderito e per il quale ha pubblicato L’ombelico dei limbi e Il pesa-nervi (1925). Abel Gance lo vuole interprete del Napoléon cinematografico nel ruolo di Marat (1926; ma sarà anche il monaco Massieu nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, 1928). Nel 1926, con Robert Aron e Roger Vitrac fonda il Théâtre Alfred Jarry. L’iniziativa è destinata a una vita precaria e fallimentare: quattro produzioni tra il 1927 e il 1929, tra cui Le partage de midi di Claudel, Il sogno di Strindberg e Victor, o i bambini al potere di Vitrac. Critica e pubblico colgono e rifiutano solo gli aspetti più superficiali delle proposte, ma proprio l’insuccesso dell’iniziativa è misura della diversità e della capacità di ridefinizione che il pensiero teatrale di A. comincia da allora a esercitare sulla scena europea.

Nel luglio 1931 assiste all’Esposizione coloniale di Parigi (padiglione delle Indie olandesi) allo spettacolo dei danzatori provenienti dall’isola di Bali. È per lui la visione rivelatrice, che «rimette il teatro sul piano di una creazione autonoma e pura, sotto la prospettiva dell’allucinazione e della paura». La reazione entusiastica svela infatti l’idea di «un nuovo linguaggio fisico a base di segni e non più di parole»: un teatro non più psicologico e letterario, qual è quello «degradato» dell’Occidente, ma un’esperienza della metafisica e del sacro che trasforma gli attori in «geroglifici animati» e fa del regista «un maestro delle sacre cerimonie». La recensione che Artaud stende dopo quello spettacolo, assieme ai manifesti del Théâtre Alfred Jarry e ai successivi scritti (nei quali sempre più drastica e consapevole si fa la critica all’Occidente), andrà a comporre uno dei testi teorici decisivi della scena del Novecento: Il teatro e il suo doppio (pubblicato nel 1938). Il doppio del teatro è la vita stessa di cui la `presentazione’, non la `rappresentazione’, può far scoprire «il vero spettacolo». Con questa vita la cultura occidentale ha perso il contatto e solo un teatro inteso come `peste’, che dissolve e purifica, che libera «un fondo di crudeltà latente», può rifondarlo o estinguerlo definitivamente. Al teatro della crudeltà si intitolano i manifesti del 1932-33 che preparano la fondazione di una seconda iniziativa: il nuovo Théâtre de la Cruauté trova spazio nella sala parigina delle Foliès-Wagram. L’inaugurazione del 1935, con I Cenci (che lo stesso A. trae da Shelley e Stendhal), è ancora una volta un insuccesso: diciassette rappresentazioni, dopo le quali lo spettacolo è sospeso. Negli anni successivi Artaud fa perdere le proprie tracce e allenta i contatti con il mondo esterno. Si reca in Messico, quasi senza denaro, e nei villaggi indios compie l’esperienza del peyotl (di cui riferirà poi nel volume Al paese dei Tarahumaras , pubblicato nel 1945).

Lo coinvolgono sempre più intensamente le conoscenze esoteriche, l’astrologia, il linguaggio dei tarocchi. Durante un viaggio in Irlanda (1937) viene arrestato e recluso per vagabondaggio; è subito rimpatriato e internato. In numerose lettere chiede soccorso e denuncia i trattamenti durissimi a cui viene sottoposto. I familiari ottengono che sia trasferito a Rodez, in una zona della Francia non occupata dai tedeschi, nel cui ospedale psichiatrico si pratica l’arte-terapia, ma anche l’elettrochoc (gli costerà la frattura di due vertebre). Le lettere che scrive e i piccoli quaderni di scuola che comincia a riempire sono la testimonianza visionaria di una personalità attraversata dal respiro crudele e liberatorio della follia. Aiutato da uomini di teatro e amici, lascia Rodez (1946) e accetta di tenere una conferenza al Vieux-Colombier (che interrompe nel mutismo). Dalla visita a una mostra di Van Gogh trae inoltre lo spunto per Il suicida della società (1947). Consumato fisicamente da un tumore (che egli lenisce con oppio, laudano e cloro), prepara una trasmissione radiofonica nella quale orchestra parole, urla, rumori sulla base del testo Per finirla con il giudizio di Dio . Prevista per la sera del 2 febbraio 1948, la trasmissione è sospesa d’autorità, scatenando una clamorosa campagna di stampa; verrà diffusa tre settimane più tardi per un pubblico ristretto di invitati. Vi si ascolta l’ultima voce di Artaud Il 4 marzo è trovato morto, seduto ai piedi del letto. La dichiarazione del decesso viene resa al comune di Ivry da un operaio delle caldaie.

Federici

Il sostrato del teatro di Mario Federici è fatto di impegno civile e morale, che contrasta con i temi leggeri della commedia brillante sua contemporanea. L’ambientazione delle sue commedie è quella della provincia e lo stile con cui sono composte è vicino al verismo, con tratti tipici dell’espressionismo. Federici nelle sue opere si occupa anche di emigrazione e degrado sociale. La pièce I parenti poveri (1931) è stata considerata una delle più significative anticipazioni del neorealismo. Tra gli altri titoli: Chilometri bianchi (1939), Marta la madre (1953), La ballata dei poveri gabbati (1962).

Simonetta

Protagonista nella Milano degli anni ’60 del cabaret intelligente, Umberto Simonetta scrisse per Giorgio Gaber canzoni d’ambiente meneghino, da “La ballata del Cerutti” a “Trani a gogò”, a “Le nostre serate”. Ha scritto esilaranti commedie sotto forma di monologo: Arriva la rivoluzione e non ho niente da mettermi (1973), Mi riunisco in assemblea , C’era un sacco di gente, soprattutto giovani (1979), interpretati da Livia Cerini, e, per Maurizio Micheli, Mi voleva Strehler , parossistiche e angosciose riflessioni di un attore in attesa di provino. Nei suoi romanzi, ha descritto un sapido ritratto della Milano notturna ed emarginata: Lo sbarbato (1961), Tirar mattina (1963), titolo diventato poi una locuzione d’uso corrente, e una gioventù problematica e allo sbando, Il giovane normale (1967), Virgo (1973), I viaggiatori della sera (1978) anche trasposto in film. Sui difficili, spesso tempestosi, rapporti tra impresari e interpreti da una parte e autori di teatro dall’altra, ha scritto Il turpe squisito (edito da Camunia).

Simonetta, in coppia con Guglielmo Zucconi. firma nella stagione 1954-55 il copione della rivista Casanova in casa Nava per le tre sorelle Pinuccia, Diana e Lisetta Nava, le `reginette dello sberleffo’: spettacolo giudicato `moderno e anticonformista’, pieno di trovate, con un personaggio, il clown Scaramacai per Lisetta Nava, destinato poi a grande popolarità televisiva. Nella stagione successiva, i due firmano Il resto mancia con Gino Bramieri, Lisetta Nava ed Elio Crovetto (al teatro Olimpia di Milano); rivista che `diverte senza volgarità’, si scrisse. Nella stagione 1958-59 mettono in scena Io, l’ipotenusa per Tino Scotti, il funambolico `cavaliere’ meneghino, Beniamino Maggio, napoletano che riesce anche a scherzare sulla sua gamba rigida ballandovi su, e Tonini Nava, quarta delle tre famose sorelle; coreografie di Gino Landi. Nella stagione 1960-61, S. scrive da solo per Lucio Flauto al Nuovo di Milano la rivista Piazza pulita . Negli anni seguenti, tramontato il varietà e sorto il cabaret, Simonetta continua a scrivere copioni per la radio e la tv.

Nel 1978, Simonetta prende la direzione del Teatro Milanese, passato dal Gerolamo ad uno spazio più grande. Simonetta mantiene nei suoi intenti il clima umoristico delle passate stagioni, ma con un occhio attento ai mutamenti della società sotto il punto di vista linguistico e culturale. Suo proposito infatti è quello di rappresentare un repertorio comico satirico di un certo interesse attuale, recitato in una nuova lingua italiana creata dalla fusione di dialetti regionali diversi e dalla contaminazione di termini stranieri. Gli spettacoli presentati nelle nuove programmazioni sono principalmente scritti e diretti da lui: Mi voleva Strehler (1978); C’era un sacco di gente soprattutto giovani (1979); Italiani si muore (1979); L’Adalgisa da Gadda (1980); Il figlio sorridente (1981); Caro Tognoli (1982).

Bullins

Ed Bullins esordì come poeta, ma si dedicò poi al teatro vedendo in esso uno strumento più adatto a comunicare col pubblico nero. Raccontò sulle scene il mondo dei ghetti urbani in numerosi testi, spesso violentemente polemici, che si servivano creativamente del linguaggio, delle musiche e dell’immaginario della gente di colore. Fra i più noti: In the Wine Time (1968), The Duplex (1970), The Taking of Miss Jane (1975) e In the Name of Love (1988). Bullins è stato anche `ministro della cultura’ dei Black Panthers e direttore di una rivista dedicata al teatro nero.

Russo

Personaggio originale e creativo della scena italiana, l’attività teatrale di Tato Russo si distingue soprattutto per alcune particolarissime messe in scena di testi come: La tempesta (1991), Sogno di una notte di mezza estate (1993) di Shakespeare – per il quale nel 1995 vince il Premio della critica teatrale – L’opera da tre soldi (1988, poi ripresa nel 1995) di Brecht, Napoli hotel Excelsior (1988), Palummella zompa e vola (stagione 1989-90), spettacoli di cui è anche principale interprete. È inoltre autore di scritture prime per la scena, tra le quali si ricordano Week end, Mi faccio una cooperativa, La tazza d’argento, La parolaccia, L’uovo di carnevale, Ballata di un capitano del popolo, La commedia della fame, Cappuccetto blu, Una partita a poker, Cient’e una notte dint’a una notte (1992), Masaniello (stagione 1996-97), Viva Diego (stagione 1997-98). R. è inoltre direttore artistico del Teatro Bellini di Napoli. Nella stagione estiva 1998 partecipa al festival shakespeariano di Verona con lo spettacolo Amleto.

Bennett

Mentre si laurea in storia a Oxford Alan Bennett, scrivendo per il giornale universitario “Suggestions Book”, scopre la sua vocazione: «Vorrei che la gente ridesse e si divertisse a farlo». Inaugura la sua carriera drammaturgica con ciò che lui definisce `Anglican Sermon’, spettacolo di rivista rappresentato con il titolo Beyond the Fringe (1961) e messo in scena in collaborazione con Dudley Moore, Jonathan Miller e Peter Cook. Con le sue riviste e commedie Alan Bennett ha contribuito, per le originali innovazioni e per la notevole maestria nell’uso del linguaggio, alla rivoluzione della satira inglese: Forty Years On (1968), raramente messa in scena per l’eccessivo numero di attori previsto; Getting On (1971), commedia pensata in origine, con toni più seri, ma liberamente modificata in prova dall’attore Kenneth More, operazione che ha portato a Alan Bennett, suo malgrado, il premio Evening Standard per la miglior commedia dell’anno; e ancora la sua preferita e più rappresentata Habeas Corpus (1973). Ma è con La pazzia di re Giorgio (The Madness of King George, 1992), una libera ricostruzione storica degli intrighi e delle follie del re e della sua corte, che B. ha acquistato notorietà internazionale.

Cechov

Di famiglia modesta, Anton Pavlovic Cechov si laurea in medicina e contemporaneamente (ancora da studente) inizia a scrivere brevi racconti umoristici sotto vari pseudonimi. «La medicina, che è una cosa seria, e la letteratura, che è un gioco, vanno esercitate sotto cognomi diversi», sostiene; e, nonostante il successo in letteratura, continua la professione di medico fino ai suoi ultimi giorni. Al teatro si dedica fin dall’inizio della sua carriera: insieme ai primi racconti, nell’inverno 1880, abbozza un lungo dramma in quattro atti, che non finisce e lascia nel cassetto. È Platonov (titolo postumo, dal nome del protagonista), ritrovato nell’archivio dello scrittore solo nel 1920 e pubblicato nel 1923: storia di un dongiovanni cinico, scroccone e disperato sullo sfondo di una noiosa, apatica vita provinciale. Dopo il fallimento del primo lavoro, passa alle forme brevi: tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 scrive una serie di atti unici e di vaudeville in poche scene che hanno un inatteso successo, sia nella capitale sia in provincia (Sulla strada maestra, 1884; I danni del tabacco, 1886; Il canto del cigno, 1887; Una domanda di matrimonio, 1888; L’orso, 1888; Le nozze, 1889; Tragico controvoglia, 1889; Tatjana Repina, 1889; L’onomastico, 1891). Alcuni di questi testi suscitarono negli anni ’20 del nostro secolo l’interesse di registi d’avanguardia come Vachtangov e Mejerchol’d, che ne diedero versioni piene di fantasia, sottolineandone i lati grotteschi e il ritmo travolgente.

Contemporaneamente ritenta la via dei lavori in più atti: su sollecitazione di F.A. Kors, direttore del teatro omonimo, scrive Ivanov (1887). «Ho scritto il lavoro senza accorgermene… Ho concentrato la mia energia su alcuni momenti veramente forti, memorabili, però i personaggi che uniscono le varie scene sono spesso insignificanti, fiacchi, banali. Comunque sono contento». Nessuna serietà da parte della compagnia, approssimazione e faciloneria, quattro prove invece delle dieci previste, attori superficiali, ottusi, fuori ruolo, pronti a inventarsi battute pur di strappare risate: due repliche e il lavoro è tolto dal repertorio. Due anni dopo riprende in mano il testo, convinto della necessità che il teatro debba passare «dalle mani dei bottegai a quelle dei letterati, altrimenti è condannato»: nella nuova versione Ivanov viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo e ha un successo strepitoso. Incoraggiato, scrive subito una nuova commedia, Lo spirito della foresta (1889), che ha per protagonista una curiosa figura di medico amante della natura e deciso a salvare le foreste dall’insensata opera di distruzione. Nuovo fiasco: assoluta indifferenza di pubblico e critica. Dimentica il teatro per intraprendere l’avventuroso viaggio all’isola di Sachalin, luogo di deportazione tristemente famoso (la circostanziata, cruda relazione sulle condizioni di vita dei forzati e delle loro famiglie suscita scandalo); prosegue poi la prolifera attività di narratore.

Nel 1895 scrive un nuovo lavoro, Il gabbiano : «Ho cominciato il dramma forte e l’ho terminato pianissimo. Ne sono più scontento che soddisfatto; dopo averlo riletto, mi rendo sempre più conto che non sono un drammaturgo». Un dramma quasi senza trama che si conclude con il suicidio del protagonista, giovane scrittore depresso e incompreso. Il lavoro viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij per la stagione successiva: nonostante la presenza della grande Vera Komissarzevskaja nella parte di Nina, e di altri celebri attori, nessun successo. Lo scrittore è desolato: «Vivessi ancora settecento anni, non scriverò mai più per il teatro». Due anni dopo l’amico Vladimir Nemirovic-Dancenko, che da pochi mesi ha fondato a Mosca con il giovane regista e attore Konstantin Stanislavskij un nuovo teatro, il Teatro d’Arte, vuol ritentare la messa in scena del Gabbiano e gli chiede l’autorizzazione: gli assicura impegno e serietà degli interpreti, tutti giovani e entusiasti, un numero di prove dieci volte superiore agli altri teatri, massima attenzione ai dettagli dell’allestimento. C. prima rifiuta categoricamente, poi si lascia convincere: ed è un trionfo. Un trionfo dell’autore, ma anche un trionfo del nuovo metodo di messinscena, attento, orchestrato in tutti i movimenti e in tutti i registri. Ogni battuta acquista il giusto peso, ogni scena la tensione e l’intensità pensata dall’autore e mai realizzata. D’ora in poi, Cechov affida tutti i successivi lavori teatrali al Teatro d’Arte, che ne fa messinscene accuratissime, lungamente preparate, con slancio e partecipazione commossa di tutta la compagnia, attori e scenografi, registi (sempre Nemirovic e Stanislavskij insieme) e costumisti, elettricisti e trovarobe. Messinscene esemplari, ancor oggi punto di riferimento ineliminabile.

L’anno successivo è la volta di Zio Vanja, rielaborazione de Lo spirito della foresta (1899): tra le interpreti, Ol’ga Knipper, che si lega sentimentalmente allo scrittore. Si sposano poco dopo la prima rappresentazione del lavoro successivo, scritto in parte sull’onda di questo amore: Tre sorelle (1900). «Ho faticato parecchio a scrivere Tre sorelle. Tre sono infatti le protagoniste e ciascuna deve avere un suo carattere»: dall’estero, dove va per curare la tisi che da anni lo tormenta e che peggiora sempre più, manda preziosi consigli sull’interpretazione delle scene più complesse e delicate. Il grande successo spinge i direttori del Teatro d’Arte a chiedere un nuovo lavoro per la stagione successiva; ma per C. scrivere è ormai uno sforzo enorme, concentrarsi diventa faticosissimo. Il giardino dei ciliegi ha una gestazione lunga: è pronto solo alla fine del 1903 e va in scena il 17 gennaio 1904, alla presenza dell’autore che esce alla ribalta, distrutto dalla tensione e dalla malattia, ad accogliere onori e applausi. C. parte subito per la Germania, nel disperato tentativo di una cura che gli dia sollievo; morirà il 2 luglio. Il suo teatro, nell’arco del nostro secolo, non ha smesso di stimolare lettori, critici, spettatori e registi: si è sempre dimostrato, nonostante l’ineliminabile legame con il tempo, la società e i luoghi in cui fu scritto, di una attualità e una pertinenza sconcertanti. I grandi interpreti del nostro tempo, da Strehler a Visconti, da Ronconi a Peter Stein, da Dodin a Nekrosius si sono misurati con i suoi testi, traendone spettacoli di straordinaria suggestione, rispondendo di volta in volta a nuovi interrogativi, aprendo nuove dimensioni. La ragione va forse cercata in queste parole dello stesso Cechov: «Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere lavori in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo, giocano a wint … Non perché questo sia necessario all’autore, ma perché così avviene nella vita reale».

Lo sfondo di tutti i grandi drammi cechoviani è la provincia russa, dove, tra inaspettati guizzi di follia, di eccentricità, la vita impigrisce e gli uomini instupidiscono, ma dove, pur senza far nulla per reagire, non si smette di chiedersi il perché; e tuttavia qualcuno, sia pur raramente, lotta contro l’appiattimento, l’azzeramento delle velleità, delle volontà di riuscire. Cechov riesce con straordinaria perspicacia a rappresentare l’agonia di un mondo, travolto dall’insipienza e dalla noia, prima che eventi politici ne decretino di lì a pochi anni la cancellazione definitiva. Forse la grandezza e la contemporaneità del teatro cechoviano sta proprio nella acuta, lucida lettura della crisi di una società, i cui sintomi non hanno fatto che accentuarsi nei nostri inquieti anni.

Schleef

Compiuti gli studi a Berlino est, Einar Schleef debutta nel 1972 con una sua scenografia per Don Gil dalle calze verdi di Tirso de Molina alla Volksbühne, ottenendo un immediato successo e il premio della Critica. Tra il 1972 e il 1975 fa sensazione la sua collaborazione con il regista B.K. Tragelenn, con il quale dirige, oltre a realizzare le scenografie, opere come Risveglio di primavera di Wedekind e La signorina Julie di Strindberg . Nel 1975 mette in scena al Kindertheater di Dresda Il pescatore e sua moglie , tratta da Grimm. In seguito lavora ancora a Berlino alla Komische Oper, alla Staatsoper e al Deutsches Theater. Dopo il 1976 si trasferisce a Berlino ovest e si dedica alla scrittura; tra i suoi testi più noti è Gertrud, mostruoso monologo di una madre del 1980.

Nel 1986 mette in scena a Francoforte una sconvolgente Mütter, tratta da Euripide e Eschilo e, due anni dopo la commedia Die Schauspieler. Nel 1987, a Spoleto, presenta Die Nacht, da Mozart. Altre sue messe in scena a Francoforte, sempre oggetto di animate discussioni, sono: Prima dell’alba di Hauptmann, nel 1987 e il Faust di Goethe nel 1990. Un vero scandalo solleva il modo in cui, nel 1993 al Berliner Ensemble, realizza Wessis in Weimar di R. Hochhuth, il quale da tale realizzazione prende pubblicamente le distanze. È stato rilevato come i lavori di S. possano essere visti come ritratto autobiografico in cui si riflette l’esperienza storica contemporanea della Germania.

Stori

Formatosi come burattinaio con Otello Sarzi nel 1976, Bruno Stori è tra i fondatori del Teatro delle Briciole con cui collabora ancora stabilmente; attore per la Compagnia del Collettivo, oggi Stabile di Parma, è anche fondatore del Teatro Lenz Rifrazioni sempre di Parma (1985). Attore di grande e forte sensibilità, ha scritto e spesso diretto alcuni degli spettacoli più belli del teatro-ragazzi italiano soprattutto per le Briciole: Nemo (1979), Il topo e suo figlio (1982), Il grande racconto (1990), Un bacio ancor… un bacio ancor… un altro bacio (1992), Con la bambola in tasca (1994), ma anche per altri gruppi Romanzo d’infanzia (1997) per la compagnia Abbondanza Bertoni, Gioco al massacro (1997) per il Teatro Città Murata di Como.

Santanelli

Laureato in giurisprudenza, Manlio Santanelli ha lavorato presso la Rai di Napoli fino al 1980, anno in cui è andata in scena la sua prima commedia, Uscita di emergenza (che l’anno seguente ha vinto il premio Idi e il premio dell’Associazione nazionale dei critici italiani). È sicuramente uno degli autori emergenti della drammaturgia napoletana del ‘dopo Eduardo’. La sua attività prosegue con L’isola di Sancho (selezione premio Idi 1983); Le sofferenze d’amore , libretto tratto da un romanzo di Vittorio Imbriani (successivamente la commedia è stata rielaborata per la radio, vincendo il premio speciale della giuria al Premio Italia 1985); Regina madre (selezione premio Idi 1985), allestita nel 1988-89 a Parigi, dove Ionesco la giudica la migliore commedia in francese degli ultimi anni; Elogio della paura, antologia di monologhi. Nel 1987 presenta tre nuovi debutti: Il fuoco divampa con furore, Pulcinella (rielaborazione drammaturgica di un canovaccio di Roberto Rossellini), Bellavita Carolina. Del 1988 è L’aberrazione delle stelle fisse, del 1989 Camera con racconti affittasi (presentato al Festival di Spoleto), 1799 (spettacolo eroicomico sulla Repubblica Partenopea), La donna del banco dei pegni e Vita natural durante; seguono Disturbi di memoria (1990), Tanto per animare la serata, Ritratti di donne (1991), Un eccesso di zelo, Il naso di famiglia (1993), Il baciamano (1994), Il seno in affitto (1995), Babà di nonna sua (1997).

Lionello

Nel 1954 Oreste Lionello compie i primi passi all’interno della compagnia Radio-Roma, in cui si distingue come brillante autore e interprete. È sempre di questi anni il suo esordio come doppiatore. In questa veste darà la voce ad attori del calibro di Jerry Lewis, Peter Sellers, Charlie Chaplin e soprattutto Woody Allen. Il suo terreno prediletto è il cabaret nel cui ambito, insieme a Pingitore, Castellacci, Cirri e Palumbo, ha fondato la celebre compagnia del Bagaglino, contribuendo in gran parte al successo dell’omonima sala romana. Con questo gruppo ricordiamo: nel 1987 Allegoria di famiglia , nel 1988 Viva viva San culotto e Tre tre giù Giulio a cui seguono Kekkasino (1989), Patapunfete (1991), Scondominio Italia (1994) e Mavaffanlopoli (1995). A teatro ha lavorato in Il Bosendorfer, ovvero il pianoforte e il telefono (1989), presentato al festival Settembre al Borgo di Caserta e nel 1992 nelle Nuvole di Aristofane al Giardino dei Boboli di Firenze. Numerose le sue partecipazioni televisive in varietà che riproponevano la formula dell’avanspettacolo come Dove sta Zazà (1973), Mazzabubù (1975), Palcoscenico (1980) e Al Paradise (1983). Partecipa anche a tutte le trasmissioni di satira politica televisiva prodotte dal Bagaglino come Biberon (1987), Crème Caramel (1991), Saluti e baci (1993), Bucce di banana (1994), Champagne (1995) e i recenti Rose rosse (1996) e Viva l’Italia (1997-98).

Vetrano

Enzo Vetrano inizia il suo lavoro di attore con Michele Perreira a Palermo. Nel 1974 è protagonista del Marat/Sade di Weiss e del Woyzeck di Büchner con la regia di Beppe Randazzo, con il quale fonda il teatro Daggide a Palermo. Con il Daggide realizza, tra gli altri, uno spettacolo di grande successo, Ubu re di Jarry, in cui interpreta la parte di Ubu. All’interno di questa esperienza di teatro di gruppo dà il via alla sua ricerca che si orienta verso il teatro d’attore, l’improvvisazione e l’idea della drammaturgia collettiva, privilegiando la scrittura scenica.

Dal 1976 lavora insieme con Stefano Randisi, dapprima in The Connection di J. Gelber (regia di Leo de Berardinis) per la cooperativa Nuova Scena di Bologna di cui diventa socio, e all’interno della quale nel 1983 forma una propria compagnia. Prosegue il suo sodalizio con Randisi, con il quale realizza molti progetti teatrali; tra i tanti la trilogia dedicata alla Sicilia, loro terra d’origine: Principe di Palagonia , Mata Hari a Palermo (premio Palermo per il Teatro 1988), L’isola dei beati (1988). È diretto da Randisi con Nestor Garay in Giardino d’autunno di D. Raznovich. Continua in parallelo a recitare con De Berardinis in L’impero della ghisa (1991), I giganti della montagna di Pirandello (premio Ubu 1993 come spettacolo dell’anno), Lear opera e Totò principe di Danimarca . Con Randisi dirige e interpreta Diablogues (1994) e Beethoven nel campo di barbabietole (1996) di R. Dubillard. È attore e coregista dello spettacolo Mondo di carta , dalle novelle di Pirandello.

Savelli

Dopo gli studi universitari a Firenze con Ludovico Zorzi, nel 1974 Angelo Savelli entra nella cooperativa Il Granteatro di Carlo Cecchi, partecipando alla realizzazione di Woyzeck di Büchner, A’ morte dinto o’ lietto `e Don Felice di Petito e La cimice di Majakovskij. In seguito è assistente alla regia di E. Marcucci in 23 svenimenti di Cechov. Nel 1976 firma la sua prima regia, l’operina di Mozart Bastien und Bastienne. Nello stesso anno fonda la compagnia Pupi e Fresedde, della quale è tuttora direttore artistico e per la quale fino a oggi ha messo in scena oltre trenta spettacoli (la metà anche in veste d’autore). Tra i più importanti: La terra del rimorso (1977), I balli di Sfessania (1978), Il convitato di pietra, ovvero Don Giovanni e il suo servo Pulcinella (1981), Plauto in farsa (1985), Figaro o le disavventure di un barbiere napoletano (1989), Carmela e Paolino varietà sopraffino (1990; ancora in scena), Cafè Champagne (1991) e Gianburrasca, un monello in casa Stoppani (1993). Il suo lavoro sulla drammaturgia contemporanea si esplicita attraverso i testi di Cerami (L’amore delle tre melarance, 1984), Müller (Quartetto, 1987), Santanelli (Le tre verità di Cesira, 1990) e Ruccello (Mamma, 1995).

Hardy

Dopo aver studiato architettura ed essersi trasferito a Londra per esercitare questa professione, Thomas Hardy optò per la letteratura, imponendosi come poeta e romanziere. Si cimentò anche nel teatro, con opere più adatte forse alla lettura che alla rappresentazione. In I dinasti (The Dynasts, 1903-08), dramma epico scritto dopo aver visitato il campo di Waterloo, le battaglie napoleoniche sono viste da un coro di intelligenze ultraterrene. Nel 1923 viene rappresentata La regina di Cornovaglia (The Famous Tragedy of the Queen of Cornwall at Tintagel in Lyonness), tragedia in versi ispirata alla vicenda di Tristano e Isotta.

Svevo

L’interesse e il lavoro per il teatro sono stati costanti nel corso della vita di Italo Svevo. Un’attenzione testimoniata non solo dalla creazione di tredici testi – non tutti arrivati a noi in versione definitiva – ma anche da una fitta serie di varianti, appunti, annotazioni critiche su opere altrui, vissute da spettatore o da lettore. Un’attenzione e un amore peraltro poveri di soddisfazioni: una sola delle sue opere, Terzetto spezzato, venne portata sulle scene nel 1927 da Anton Giulio Bragaglia che, frettolosamente, cercava un atto unico col quale completare la serata; tutte le altre opere teatrali rimasero inedite durante la vita del loro autore. È stato notato (fra tutti da Odoardo Bertani) quanto grave sia risultato per la drammaturgia italiana il silenzio che gravò su S., almeno sino alla fine degli anni ’60. Gli allestimenti che da questa data cominciarono a giungere con regolarità (estendendosi anche alla drammatizzazione delle maggiori opere di narrativa) non colmano comunque lo iato.

Il teatro di Svevo è il testimone della crisi delle coscienze a cavallo tra i due secoli. Il vuoto interiore, la fiacchezza esistenziale, il deserto del sentimento sono resi attraverso la creazione di una teoria di anti-eroi, personaggi svuotati di progettualità, inclini a seguire torbidamente la superficie delle cose fino a quando un evento non programmato spezza la routine. Il quadro di riferimento delle commedie di Svevo, il circuito in cui egli fa agire i suoi personaggi, è quello della borghesia mercantile triestina, incapace di memoria, rispettosa delle forme e visceralmente ancorata alla legge del denaro. In particolare, il luogo dove meglio giungono a maturazione le contraddizioni di un’esistenza vuota di sensi è la coppia, colta sempre nel suo inevitabile deflagrare sotto i colpi di adulteri vissuti (o immaginati) con il piglio di chi cerca un’avventura per `consistere’, anche a costo di perseguire la strada obbligata dell’inganno. Le ire di Giuliano, Una commedia inedita ma, soprattutto, Terzetto spezzato, L’avventura di Maria, La verità, Un marito e Con la penna d’oro (riproposta col titolo Le cugine da M. De Francovich nel 1970) fanno tutte perno su questo tema, rappresentandolo con una capacità di penetrazione psicologica via via crescente.

A parte questa, l’opera forse più riuscita di Svevo, La rigenerazione, ruotante attorno al vecchio Giovanni che, insieme al Federico Arcetri di Un marito , è uno dei pochi personaggi teatrali sveviani capaci di gettare lo sguardo al di sotto della superficie, scrutandosi davvero dentro. Giovanni, convinto dal nipote (studente in medicina) a sottoporsi a un’operazione per tornare giovane, e poi disposto a fingere con se stesso anche per dimostrare di non aver buttato via il denaro, dà infatti un senso alla vita accettandola per quello che è, con tutti i suoi pesi e le sue insoddisfazioni.

Saunders

James Saunders si è cimentato nel dramma radiofonico e televisivo, in esperimenti ispirati al teatro dell’assurdo e nel dramma politico, dimostrando una notevole capacità di portare in scena problematiche attuali e di stabilire un rapporto vivo col pubblico. Nel 1959 allestisce Ahimè povero Fred (Alas, Poor Fred) e L’arca (The Ark), sulla vita di Noè. Seguono La prossima volta ti chiamerò (Next Time I’ll Sing To You, 1962), sull’impossibilità di conoscere e quindi di ricreare la verità in forma drammatica, l’atto unico I vicini (The Neighbours) e Il profumo dei fiori (The Scent of Flowers, 1964). La ragazza italiana (The Italian Girl, 1967) è una riduzione dell’omonimo romanzo di Iris Murdoch eseguita con la stessa autrice. Le ultime opere sono Le traversie di Sancho Panza (The travails of S.P., 1969), da Cervantes, Giochi (Games, 1971), Dopo Liverpool (After Liverpool, 1971) e Corpi (Bodies, 1976), La canzone dell’uccello (The Birdsong, 1979) e Nulla da dichiarare (Nothing to Declare, 1982).

Neiwiller

Presenza artistica forte ma discreta, e di rara intensità, Antonio Neiwiller attraversa tre decenni di ricerca teatrale italiana. Nella sua formazione studi filosofici, insegnamento, preparazione tecnica e pittura: arte che Neiwiller equipara al teatro, e nella quale privilegia l’opera di Paul Klee. Dapprima scenografo e scenotecnico, firma la prima regia nel 1974, Ti rubarono a noi come una spiga (da P. Eluard, S. Quasimodo, R. Scotellaro, E. Vittorini), alla quale seguono Don Fausto di A. Petito (1975), Quanto costa il ferro? di Brecht (1976), BerlinDada (1977), Anemic Cinema (1979). Intento a combinare nella complessità dell’arte teatrale i diversi linguaggi artistici (pittura, musica, danza), la sua sottile fantasia con il rigore della ricerca, in seguito all’incontro con spettacoli di Grotowski e Kantor ( La classe morta ) Neiwiller abbandona i testi e si indirizza verso un teatro del silenzio e della memoria, antidoto alla `barbarie’ edonistica e consumistica degli anni ’80. Alla guida del gruppo napoletano Teatro dei Mutamenti (con il quale nel 1978 ha già realizzato una seconda edizione di Don Fausto ), attraverso un lungo lavoro laboratoriale e lo stretto rapporto artistico con gli attori, dà vita a Titanic the End (1983), Darkness (1984), Fantasmi del mattino (1985-86), Storia naturale infinita (1987). Neiwiller, che già nel 1977 aveva preso parte a Maestri cercando: Elio Vittorini (regia di R. Carpentieri), ha intanto cominciato, con eccezionale talento, a recitare. Lavora nelle produzioni del gruppo Falso Movimento: protagonista nel 1985 di Il desiderio preso per la coda da Picasso, prende parte a Coltelli nel cuore da Brecht (1985) e Ritorno ad Alphaville da J.-L. Godard (1986, regie di M. Martone), irrompendo come una «rivelazione di verità e umanità nel disegno formale del gruppo». Nel 1987 partecipa a Napoli alla nascita di Teatri Uniti, in cui confluiscono Falso Movimento, Neiwiller e il regista-attore Toni Servillo. Nel 1987-88, con L. Putignani, S. Cantalupo, A. Cossia, realizza per Teatri Uniti due sessioni di laboratorio ( Questioni di frontiera ), presentate ai festival di Santarcangelo e Montalcino, dove incontra il musicista Steve Lacy.

Nell’allestimento La natura non indifferente (1989), ispirato all’artista tedesco Joseph Beuys e al legame tra arte, energia primordiale, creazioni della civiltà, lo Steve Lacy Trio è sul palco. Segue Una sola moltitudine (1990), un’opera-installazione `visionaria’ (Neiwiller è anche tra gli interpreti) dedicata allo scrittore portoghese Fernando Pessoa e all’emarginazione dell’artista. Nello stesso periodo lavora con L. de Berardinis, recitando in Ha da passà `a nuttata (1989) e Totò, principe di Danimarca (1990). Elabora quindi La trilogia della vita inquieta , ispirata a Pasolini, Majakovskij, Tarkovskij: in Dritto all’inferno (festival di Volterra 1991) le parole di Pasolini sono frantumate in un linguaggio inventato, nato direttamente dal corpo dell’attore. Nello stesso anno a Erice, ospite di `La zattera di Babele’, realizza Salvare dall’oblio , performance su testi di M. Beckmann, K. Valentin, R. Viviani, e dà una memorabile prova cinematografica come Don Simplicio in Morte di un matematico napoletano di Martone. Canaglie , secondo capitolo della trilogia, dopo l’anteprima napoletana (maggio 1992) è interrotto per la malattia che colpisce l’artista. Neiwiller riprende a recitare nel 1993: è Cotrone in I giganti della montagna di Pirandello per la regia di Leo de Berardinis, e quindi il sindaco di Salina nel film Caro diario di Nanni Moretti. L’altro sguardo , presentato al festival di Volterra 1993, è il suo ultimo lavoro di autore-attore, in scena con L. Putignani e il pittore G. Savino: lo spettacolo, con il bellissimo testo `Per un teatro clandestino – dedicato a T. Kantor’, costituisce il suo testamento poetico; ne dà testimonianza filmata il mediometraggio di R. Ragazzi Antonio Neiwiller. Il monologo de `L’altro sguardo’ , presentato al festival di Venezia 1996.

Albee

L’intera sua opera può essere letta come un attacco ai valori della società americana e una constatazione amareggiata della solitudine e della disperazione dell’uomo contemporaneo. Questi temi, presenti già nei primi drammi – gli atti unici La storia dello zoo (The Zoo Story, 1959), La morte di Bessie Smith (The Death of Bessie Smith, 1961) e Il sogno americano (The American Dream, 1961), accolti come esempi significativi di quel teatro dell’assurdo allora in voga – trovarono la loro espressione più riuscita nel primo testo in più atti, Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who’s Afraid of Virginia Woolf?, 1962), in brillante equilibrio fra la durezza del messaggio e le esigenze commerciali di uno spettacolo per Broadway. Nei copioni successivi riprese gli stessi temi, ora edulcorandoli, ora rarefacendoli e ora complicandoli con presenze metafisiche e ambiguità di vario genere che assicurarono spesso un successo di scandalo. Come accadde con Piccola Alice (Tiny Alice, 1964), Un equilibrio delicato (A Delicate Balance, 1966), All Over (1971), Marina (Seascape, 1975), The Lady from Dubuque (1979), Tre donne alte (Three Tall Women, 1991), che piacquero al pubblico e alla critica senza peraltro entusiasmarli e che gli fecero vincere tre Premi Pulitzer. Adattò inoltre alle scene alcuni romanzi, La ballata del caffè triste (1963) di C. McCullers, Malcolm (1966) di J. Purdy e Lolita (1980) di Nabokov.