Hofmannsthal

I drammi lirici del poeta Hugo von Hofmannsthal non ancora ventenne e già celebre – Ieri (Gestern, 1891), La morte di Tiziano (Der Tod des Tizians, 1892), Il folle e la morte (Der Tor und der Tod, 1893) – preludevano al suo futuro impegno nel teatro, accanto alla prosa e alla saggistica, e annunciavano un tema che attraverserà la sua produzione: il dono poetico coltivato all’ombra di un estetismo schivo, e il presentimento della necessità di inoltrarsi nel mondo per dare autenticità e vita alla propria missione letteraria. Tra i drammi scritti nel 1897 L’imperatore e la strega (Der Kaiser und die Hexe) anticipava la tragedia La Torre (Der Turm), ispirata a La vita è sogno di Calderón, di cui Hugo von Hofmannsthal darà due versioni (1920 e 1925) che ne testimoniano la genesi tormentata da quesiti morali e filosofici; e Il ventaglio bianco (Der weisse Faulmcher) declinava già, nel minuetto dell’infedeltà di Fantasio e Miranda, le note della commedia portata alla piena riuscita in L’uomo difficile (Der Schwierige, 1921), dove nella rappresentazione dell’aristocrazia viennese al crepuscolo si uniscono due filoni hofmannsthaliani, l’opera leggera e il dramma mistico.

Era dunque ormai definito il destino di Hugo von Hofmannsthal nel teatro quando si andava esaurendo la sua precoce vena poetica, col conseguente smarrimento spirituale di cui diede testimonianza nella Lettera di Lord Chandos (1901). Nel primo dramma non breve, L’avventuriero e la cantante (Der Abenteurer und die Saulmngerin, 1898), scritto in seguito al viaggio in Italia sulle orme di Goethe che riavvicinerà il poeta alle proprie origini italiane, compare Venezia, la città che farà da sfondo ad altre opere di Hugo von Hofmannsthal, prose e drammi. Venezia è per il poeta il simbolo dell’ambiguo sovrapporsi di vita e apparenza, la città dove «tutti vi sono mascherati», come osserva l’Andrea del romanzo Andrea o i ricongiunti (Andreas oder Die Vereinigten, 1907-13), quella Venezia popolata di aristocratici austriaci che non è molto diversa dalla Vienna del Canaletto, e che fa da sfondo al tema, ricorrente in Hugo von Hofmannsthal, del tentativo di ricongiunzione di istanze etiche ed estetiche nei personaggi intimamente scissi tra i due versanti della realtà e dell’apparenza. E, procedendo come l’autore per disvelamenti, nelle sembianze dell’avventuriero di L’avventuriero e la cantante, ulteriore figura dell’esteta hofmannsthaliano, perennemente infatuato dell’artificio che gioca da virtuoso tra la vita e le apparenze, si cela il volto del `Grande italiano’, come Hugo von Hofmannsthal aveva definito D’Annunzio; mentre la cantante Vittoria delinea il profilo di Eleonora Duse, a cui il giovane poeta aveva tributato la propria ammirazione nelle pagine scritte in occasione delle tournée viennesi dell’attrice nel 1892 e nel 1903.

Il panorama lagunare si fa fosco e sinistro in Venezia salvata (Das gerettete Venedig, 1902-04), il dramma tratto dall’opera di Thomas Otway, dove il brutale realismo elisabettiano diventa raffinato estetismo agitato da barlumi sinistri e grotteschi. Qui Venezia è una trappola dove i condannati a morte, cuciti in sacchi, vengono affogati in una laguna putrida e stagnante. È il periodo in cui Hugo von Hofmannsthal studia i capolavori teatrali del passato, dalle tragedie greche ai misteri medioevali, dal teatro secentesco spagnolo a quello elisabettiano; studi che daranno vita, in epoche diverse, a numerosi rifacimenti. Dall’Elektra (1902) rivissuta nel crudo scenario espressionista, tra laceranti evocazioni di sangue e danze macabre, che avvierà il sodalizio con Max Reinhardt e in seguito con Richard Strauss, nella versione operistica del 1909, inaugurando il cammino di Hugo von Hofmannsthal librettista; a La leggenda di Ognuno (Jedermann, 1911), la `moralità’ ispirata all’ Everyman di un ignoto drammaturgo inglese del Cinquecento, rappresentata ogni anno al festival di Salisburgo di cui H. fu uno dei promotori. Figure allegoriche delle virtù e dei vizi (la Morte, le Opere buone, la Fede) e figure realistiche (il cuoco, i servi, il debitore) gravitano nell’atmosfera di ombroso chiaroscuro declinato dai presagi e dalle inconsce parole di Jedermann, fino al culmine drammatico, situato da Hugo von Hofmannsthal – come già dagli autori cinquecenteschi – verso il centro dello svolgimento della vicenda, nella scena del banchetto dove si dà l’annunzio terrificante e inatteso della Morte. Dopo una lunga e dolorosa perplessità, Jedermann si spoglia di ogni bene terreno e, sorretto dalla Fede e circondato da un alone di compassione, si inoltra fiducioso nella tomba.

A questo dramma dichiaratamente liturgico si affiancano i drammi mistici, che si alternano ad altri lavori dal 1897, anno di Il piccolo teatro del mondo (Das kleine Welttheater), primo esperimento calderoniano di rappresentare il mondo come sogno illusorio, a cui molti anni dopo farà seguito Il gran teatro salisburghese del mondo (Das Salzburger Welttheater, 1922), dove Hugo von Hofmannsthal rifà El gran teatro del mundo di Calderón, ampliandolo e rendendolo quanto più possibile spettacolare, nella vicenda del ricco che afferma il valore dell’ordine consacrato dalla tradizione e del povero che, pur sognando la rivoluzione, torna al lavoro nei boschi; e quando la Saggezza gli impedisce di levare la scure sull’empietà del ricco, incapace di comprensione per i deboli, rinuncia a infliggere la punizione e, divenuto infine santo, intercede per il ricco dinanzi alla morte. A conclusione del percorso calderoniano e della maturazione di H., ora alla crisi culminante delle proprie riflessioni, giunge La Torre, dove il mistero, non più sorretto da un precetto religioso, diviene tragedia.

Se Venezia è la città della maschera, della caducità, dell’io che viaggia alla ricerca di se stesso attraverso le avventure del Caso, la Spagna di Calderón è il regno della durata, dove i grandi problemi vengono innalzati all’universalità. Un theatrum mundi dove agiscono le figure eterne che incarnano i conflitti dello spirito e dove, infine, si impone l’ordine della divina grazia e saggezza. Così l’uomo, il re, liberato dalle illusioni mondane, è svegliato alla coscienza che la vita è sogno, illusione, gioco, nel senso che l’uomo agisce sempre in vincoli cosmici e religiosi, di fronte ai quali ogni manifestazione del singolo diviene vana. Nelle due versioni di La Torre Hugo von Hofmannsthal scandaglia la possibilità del riaffermarsi di quell’ordine cosmico nella nuova epoca dilaniata e sofferta, dove gli accenni alla situazione del dopoguerra sono numerosi e velati. Il crollo di questa possibilità e la conseguente necessità di comprendere «disperatamente», senza consolazione, le nuove potenze che si affermano, culminano in un cupo pessimismo, che sigilla irrimediabilmente la conclusione del dramma.

Valentin

Karl Valentin si colloca nella tradizione del cabaret bavarese al quale conferisce portata internazionale. Cresce in un sobborgo di Monaco abitato da contadini immigrati che aspirano a diventare artigiani o impiegati. A questi Valentin si ispira per creare i personaggi del suo teatro. Dopo aver frequentato una scuola di varietà a Monaco, nel 1907 si esibisce come clown musicale sotto lo pseudonimo di Charles Fey e nel 1908 ottiene una scrittura da un locale di Monaco, il Frankfurter Hof. Nel 1911 conosce L. Karlstadt che, dapprima sua allieva, diverrà poi sua partner. Assieme a lei Valentin scrive più di quattrocento sketch e farse, alcune delle quali verranno filmate. A partire dal 1915 si esibiscono in tutti i più noti cabaret e, dal 1922 anche ai Kammerspiele di Monaco. A Berlino vengono ospitati dal Kabarett der Komiker. Con le loro figure, lei piccola e grassottella, lui secco e longilineo, offrono l’immagine dei conflitti nell’ambito della famiglia, del lavoro e delle relazioni commerciali, rovesciando e distruggendo il conformismo con geniale spirito di complicazione.

Nel 1934 Valentin apre nei sotterranei dell’Hotel Wagner a Monaco una sorta di orrido e scurrile gabinetto delle curiosità o Panoptikum che dopo il 1938 viene trasferito al numero 33 del Faulmbergraben dove, sino al 1940, offre una combinazione di gabinetto delle curiosità, taverna e cabaret. In quel periodo sua partner è la giovane attrice A. Fischer. Negli anni ’40, Valentin tenta inutilmente di ripetere i suoi primi grandi successi. Dal 1941 al 1946 smette di esibirsi, ma redige numerose scenette, canzonette e monologhi. L’ultima esibizione è del 1948, al Simple di Monaco, ancora con L. Karlstadt come partner. Muore in un lunedì grasso per i postumi di un raffreddore.

Valentin, che si considera un cantore dl popolo, è uno dei più importanti comici di lingua tedesca. Benché abbia operato e vissuto soprattutto a Monaco e i suoi sketch fossero riferiti ai costumi della popolazione bavarese, la sua comicità non rimane limitata a una dimensione regionale, ma si spinge sino a toccare le corde di una filosofia del linguaggio e, attraverso i toni dell’assurdo, sino a distruggere la logica consueta del reale. K. Tucholsky riconosce nei testi di Valentin «una danza infernale della ragione ed entrambi i poli della follia»; Brecht lo considera allo stesso livello di Chaplin. Per molto tempo, dopo la sua morte, si è pensato che non avesse senso rappresentare i suoi testi senza la sua interpretazione. Oggi si contano numerose messe in scena delle sue opere, sia in Germania sia all’estero.

Williams

William Carlos Williams pubblicò nel 1961 alcuni drammi sperimentali non specificamente destinati alla rappresentazione, anche se il più importante (quello che dava il titolo alla raccolta), Molti amori (Many Loves), fu poi messo in scena dal Living Theatre nel 1969. Il fragile testo, che presentava alcune variazioni sul tema dell’amore, si componeva di tre parti in prosa vagamente collegate fra loro, cui si alternavano brani in versi; la struttura – che ricordava quella pirandelliana del teatro nel teatro – e la fisicità del linguaggio esercitarono una certa influenza sui giovani drammaturghi statunitensi.

Paolini

Marco Paolini è una delle figure più interessanti e originali del teatro di questo ultimo scorcio di secolo: reinventa il linguaggio della narrazione prendendo spunto dalla tradizione degli affabulatori e dal teatro di Dario Fo, raccontando vicende autobiografiche e della sua terra d’origine. Una sintesi a cui approda dopo diversificate esperienze raccolte da autodidatta, in molti settori del teatro: da quello politico a quello di strada, alla clownerie, alla commedia dell’arte. Inizia a lavorare partecipando all’esperienza del teatro politico (1974) e fino al 1982 fa parte dei gruppi Teatri di Base, prosegue in seguito nell’area chiamata del `terzo teatro’, lavorando con il gruppo di Pontedera e con Eugenio Barba. Fa parte del Tag Teatro di Venezia (1984-86). Dal 1987 al 1986 è con il Teatro Settimo diretto da G. Vacis nelle vesti di attore e coautore. A farlo conoscere è il suo spettacolo sul romanzo di L. Meneghello Libera nos a malo. Recita anche La storia di Romeo e Giulietta e La trilogia della villeggiatura in una originale e un po’ gigionesca interpretazione di Filippo. Si incammina in una scelta di lavoro autonomo di opere a-solo, con la cooperativa teatrale Moby Dick-Teatri della Riviera. I primi spettacoli sono Gli Album di Marco Paolini, dove nella parte del suo alter-ego Nicola (dal nome del protagonista del Petit Nicolas di Goscinny) mescola ricordi autobiografici, storie, memorie e personaggi della sua terra d’origine. Da Adriatico a Tiri in porta a Liberi Tutti (scritti con G. Vacis che ne ha curato anche la regia) e Aprile ’74 e 5 sono tappe di una crescita dall’infanzia alla giovinezza, e nello stesso tempo un affresco dell’Italia dal 1964 in poi. Lo ha reso famoso Il racconto del Vajont , la cronaca della frana di Longarone, con il quale vince il Premio Speciale Ubu 1995 e il premio Idi (diventato un evento televisivo nel 1997 nell’adattamento di Felice Cappa e Gabriele Vacis che ne è coautore e ne ha curato la regia teatrale). Prosegue il racconto di viaggio: Il milione, quaderno veneziano di Marco Paolini (1997). Realizza in tre puntate su opere di poeti veneti (Zanzotto, Meneghello, Marin): Bestiario in Brenta , Bestiario Parole Matte e L’orto per l’Olimpico di Vicenza (1998).

Augias

Il primo testo teatrale di Corrado Augias, Direzione memorie , andò in scena nell’ottobre del 1966, con Luigi Proietti tra i protagonisti; lo spettacolo fu accolto da un tale favore che Paolo Grassi lo ospitò subito a Milano nel suo Piccolo Teatro. Seguirono, nel novembre dell’anno successivo, Riflessi di conoscenza e Soluzione finale. Questi testi costituiscono la sua produzione migliore. A. ha continuato ad occuparsi di teatro come critico. Si è riaffacciato sui palcoscenici, dopo un lungo silenzio, scrivendo, per Adriana Martino e per il regista Augusto Zucchi Il fabbricatore di mostri (1983), uno spettacolo che ripropone i temi, le figure e gli ingenui orrori del grand-guignol, a metà tra ironia e analisi critica e L’onesto Jago (premio Idi 1984), una rielaborazione dell’Otello.

Topor

Pittore, disegnatore satirico (ha collaborato alla rivista “Hara-Kiri” e ha pubblicato Les Masochistes ), scrittore di romanzi (Le Locataire e Joko fête son anniversaire ) e di pièce teatrali (Vinci avait raison, messo in scena nel 1985 ai Kammerspiele di Monaco col titolo `Leonardo hat’s gewusst’) e scenografo fra i più originali della seconda metà del secolo, Roland Topor fonda, con Arrabal e Jodorowski, il gruppo neo-surrealista Théâtre Panique. Nel 1972 ottiene un premio speciale al festival di Cannes per Il pianeta selvaggio con René Laloux. La sua prima esperienza come scenografo e costumista risale invece alla creazione dell’opera Le grand Macabre che György Ligeti ha tratto dal testo di Ghelderode (Bologna 1978, regia di Giorgio Pressburger). Prosegue l’esperienza con Les mamelles de Tirésias di Poulenc (1986, Opéra di Lille); Antonio e Cleopatra (Kassel 1989); Tom Johnson, 200 ans , da un’idea di Esther Ferrer (Avignone 1989, coreografia di Giovanna Menegari); Il flauto magico (Essen 1990); Ubu roi , di cui Topor è stato anche regista (Théâtre National de Chaillot, 1992). Qui l’artista francese sottrae lo spettacolo di Jarry alla convenzionale fissità delle marionette grazie al ricorso a strani mutanti. L’essenzialità del tratto, che secondo lo stesso Topor racchiude «il massimo dell’intenzione nel minimo della materia», unita a una violenta forza espressiva che sfrutta la farsa e che talvolta sfiora la pornografia (se non la scatologia), conferiscono al suo stile narrativo un’incisività che va a toccare le più profonde e archetipiche corde dell’immaginario.

Zardi

Critico, giornalista e sceneggiatore cinematografico, l’attività di Federico Zardi come autore iniziò nel 1938 con la commedia E chi lo sa? , originale nei contenuti, ma troppo schematica nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, poco sfaccettati e diversi. Nel 1939 scrisse Gli imbecilli, la cui rappresentazione fu vietata dalla censura fascista. Dopo un lungo periodo nel quale si dedicò solo al giornalismo, nel 1951 mise in scena la satira sociale in La Livrea , versione rivisitata dell’opera censurata anni prima. L’anno dopo compose Emma (allestita da Strehler), testo che conteneva un ritratto attualizzato e spietato di Madame Bovary. La sua opera più nota, in cui rivalutò Robespierre, fu I Giacobini (1955). La galleria dei ritratti umani, dai toni groteschi continuò nel 1956, quando apparvero I Tromboni, una serie di quadri satirici, specchio dei misfatti della borghesia contemporanea. Collaborò con V. Gassman per la trasmissione televisiva Il mattatore . I suoi ultimi lavori furono Serata di gala (1958, regia di L. Squarzina) e I Marziani (1960).

Roversi

Roberto Roversi è stato redattore della rivista “Officina” con Leonetti e Pasolini. Nel 1961 fonda il periodico “Rendiconti”. Se la prima produzione poetica segue percorsi tradizionali: Poesie (1942), Poesie per l’amatore di stampe (1954), Il margine bianco per la città (1955), è con la raccolta Dopo Campoformio (1962) che la sua lirica, recuperando moduli ottocenteschi con venature ironiche e funzionalità antinovecentesche, affronta anche stilisticamente nuove tematiche. La sua narrativa, dopo Caccia all’uomo (1959) accentua con Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976), un tipo di realismo critico, più idoneo del naturalismo, a una visione disperata e ferma del degrado sociale contemporaneo. In questa ottica, ha composto, nel 1965, il testo teatrale Unterdenlinden , in cui la denuncia politica è espressa in forme drammatiche abilmente costruite. In polemica con l’editoria corrente, ha distribuito fuori commercio alcuni raccolte di versi ciclostilate: Le descrizioni in atto (1969) e Materiale ferroso (1977). Nel 1995 ha pubblicato Manhattan: racconti minimi per il teatro .

Pessoa

Fernando Pessoa trascorse l’infanzia a Durban, in Sudafrica e studiò all’Università di Città del Capo. Tornato a Lisbona divenne caposcuola del modernismo. Pur coltivando per anni l’ambizione di esprimersi come autore drammatico, lasciò al teatro un esiguo contributo. L’atto unico di stampo simbolista O Marinheiro (1913, pubblicato nel 1915) è un `dramma statico’ sul quale grava l’influenza di Maeterlinck, in cui l’azione, puramente verbale, nasce e si sviluppa nel dialogo di tre personaggi femminili, che vegliano in una stanza di un antico maniero il corpo di una morta. Sedute di fronte alla finestra, immobili per tutto il tempo, esse rievocano «un passato che non hanno mai avuto». Dal sogno emerge l’invenzione del marinaio sperduto in un’isola lontana. Scrisse anche un monologo Nella selva dell’alienazione e i frammenti di un incompiuto Faust in versi.

Courteline

Figlio di un noto umorista, Georges Courteline conservò nella sua pratica drammaturgica il gusto per la farsa e la parodia sociale e `di genere’: il suo primo esito letterario fu infatti Le allegrie dello squadrone (Les gaîtés de l’escadron, 1886), racconti comici ispirati alla sua esperienza nell’esercito. Funzionario ministeriale, C. continuò la sua carriera letteraria dedicandosi, libero dell’ansia per la sopravvivenza, al teatro: il successo non si fece attendere e con Boubouroche (1893) l’autore ottenne una vasta notorietà, confermata dalla riuscita di commedie come La peur des coups (1894), Le droit aux étrennes (1896), Hortense, couche-toi! , Théodore cherche les allumettes (1897) e Les Bouligrins (1898). Seguirono, fra il 1900 e il 1901, le satire di argomento giudiziario, come L’article 330 e Les balances . L’ingresso di due opere di C. nel repertorio della Comédie-Française ( La paix chez soi nel 1906 e Boubouroche nel 1910) suggella la sua consacrazione ufficiale, ribadita dal suo ingresso nell’accademia Goncourt (1926). Scegliendo quali assi portanti della sua produzione temi e situazioni tratti dalla vita quotidiana della piccola borghesia del suo tempo, C. ha realizzato opere taglienti, farse `nere’ con cadenze che quasi annunciano l’Ubu di Jarry, ma che non vanno a intaccare i meccanismi sociali di cui mettono in luce la mediocrità. Dal punto di vista della tecnica drammaturgica, C. mostra di partecipare al rinnovamento teatrale del primo Novecento: è il Théâtre Libre di Antoine a mettere in scena la sua prima pièce, Lidoire , e successivamente Boubouroche . Con il suo gusto per lavori brevi (un atto o due al massimo), la sua attenzione alla messa in scena e ai temi scelti, Georges Courteline si inserisce perfettamente nella corrente realista di questa fase. Piccolo borghese, egli descrive personaggi ‘medi’ e, soprattutto, vicini socialmente e culturalmente allo `spettatore-tipo’ della Francia della Terza Repubblica. Il teatro di Georges Courteline partecipa infatti alla tendenza detta della `comédie rosse’, dominata da temi familiari come le relazioni coniugali ed extraconiugali, e da temi etico-sociali, come quello della giustizia.

Viganò

Fondatore del teatro La ribalta di Merate, in coppia con M. Fiocchi e spesso in collaborazione con R. Rostagno, Antonio Viganò ha creato per il teatro-ragazzi alcuni degli spettacoli più innovativi e affascinanti degli anni ’90 ( Samarcanda , Scadenze , Fratelli , Ali ) mescolando, in modo suggestivo e ricco di richiami, la narrazione con la danza e la gestualità. Dal 1995 lavora in Francia con un gruppo professionista formato da disabili mentali, per il quale ha curato la regia di due spettacoli ( Exusez le , 1995; Personnages , 1998). Ha inventato e organizzato il suggestivo festival di Campsirago nell’omonima località in provincia di Lecco.

Capek

Dopo la laurea in filosofia (1915) Karel Capek scrisse per diversi giornali cechi; dal 1921 al ’23 collaborò stabilmente come drammaturgo con il Teatro municipale di Praga. Il primo successo fu Il brigante (1920), metafora della ribellione della giovinezza contro la vecchiaia immobile e tradizionalista. Dello stesso anno è il suo dramma più conosciuto, R.U.R., acronimo di Rossum’s Universal Robots (1920), una satira in chiave fantascientifica della società moderna, in cui uno scienziato (Rossum; dal ceco `rozum’, ragione) costruisce a servizio degli uomini degli automi, uomini-macchina, che finiscono per ribellarsi ai loro padroni-creatori distruggendoli. Il testo divenne famoso fra l’altro per aver coniato un termine diventato d’uso comune, `robot’ (dal ceco `róbota’, che significa lavoro, servitù della gleba).

In Dalla vita degli insetti (1921) gli animali vengono utilizzati come allegorie di alcuni vizi umani: la farfalla per la vanità dell’amore, gli scarabei per l’avidità e la brama di accumulare beni, le formiche per la superbia che sacrifica l’individuo alla massa. L’affare Makropulos (1922) – di cui ricordiamo l’allestimento di Luca Ronconi per lo Stabile di Torino, 1993 – racconta la storia di una donna che, in virtù di un elisir di lunga vita, rimane giovane e vitale per oltre trecento anni. La prospettiva di vivere tanto a lungo fa inorridire coloro ai quali la donna offre la ricetta, che alla fine viene bruciata da una ragazza. In Adamo creatore (1927) Adamo è un anarchico rivoluzionario che distrugge il mondo e viene punito da Dio con il compito di creare un mondo nuovo, migliore di quello precedente; accecato dalla propria superbia, Adamo entra in conflitto col proprio alter-ego, per finire distrutto dall’usurpatore.

Il teatro di Capek riflette i problemi e le inquietudini della sua epoca: gli effetti della distruzione bellica, l’avvento della tecnologia, l’ansia per il futuro. Pacifista e pragmatista, Capek innalza al di sopra di tutto i valori dell’esistenza umana, come il rispetto per la vita, la solidarietà civile, le tradizioni del vivere comune, contro le tendenze autodistruttive della superbia e del titanismo. Fra gli altri drammi ricordiamo Il morbo bianco (1937), sulla follia della guerra decisa da un fanatico dittatore, e La madre (1938), in cui l’amore materno entra in conflitto con i doveri civici e patriottici.

Hamsun

Di origini contadine, dopo aver lavorato come calzolaio si ingegnò in vari mestieri, facendo la spola tra la sua patria e gli Stati Uniti. Knut Hamsun riuscì a pubblicare novelle, articoli e il romanzo che decretò il suo successo, Fame (1890). Premio Nobel per la letteratura nel 1920, per il teatro ha scritto una trilogia ( La porta del regno , 1895; Il gioco della vita , 1896; Tramonto , 1898), che narra delle vicende dell’eroe nietzschiano Kareno, filosofo-poeta il cui pensiero è schiacciato dal trionfo inevitabile della natura sull’intelletto. Dopo il poema drammatico Il monaco Vendt (1902), esaltazione dell’atteggiamento naturalista, H. affronta il dramma romantico con La regina Tamara (1903) e grottesco con In balia della vita (1910), incentrati sul tema dell’amore. L’influenza di Nietzsche e il dichiarato filonazismo durante la seconda guerra mondiale lo porteranno a essere accusato di tradimento, rinchiuso in una casa di cura (1945-48), processato e privato dei beni.

Simenon

L’unico momento teatrale della fertilissima carriera di Georges Simenon è l’adattamento di La neve era sporca (La neige était sale), allestito a Parigi nel 1950 con l’interpretazione di Daniel Gélin e Lucienne Bogaert. La riduzione del romanzo (pubblicato nel 1948) – ambientato durante la guerra in una imprecisata città occupata dal nemico, protagonista un giovane che discende tutti i gradini dell’abiezione – era stata effettuata dall’autore con la collaborazione di Frédéric Dard e la successiva supervisione (che suscitò l’ira di Simenon) di Raymond Rouleau. Il successo di pubblico fu notevole, ma l’episodio non ebbe seguito: a detta di Simenon la differenza tra teatro e narrativa è la stessa che separa la pittura dalla scultura. E lui affermò di sentirsi esclusivamente narratore.

Siciliano

Nelle due stagioni 1966-68, con Moravia e Dacia Maraini, Enzo Siciliano dà vita a Roma alla Compagnia del Porcospino, con l’intento di rinnovare il nostro teatro, polemicamente dichiarato morente. In quegli anni S. scrive tre atti unici, Tazza, Tempesta e La mamma com’è. L’obiettivo è realizzare «un teatro affidato interamente alla parola; un teatro di idee, un teatro dibattito, che tenti di ricondurre il pubblico all’attenzione per la realtà, fuori da ogni condizionamento sociale cui siamo spinti dai mass-media». Rosa (pazza e disperata) – allestito da R. Guicciardini nella stagione 1979-80, pièce incentrata sul tema della parola – diventerà un romanzo proprio per le difficoltà che ne condizionano la messinscena. Scritto su commissione è invece Vita e morte di Cola di Rienzo (Arezzo 1973; regia di Alessandro Giupponi), in cui Siciliano indaga l’animo di Cola, sondandone soprattutto la smania di grandezza e la paura della morte. Negli anni successivi la sua attività di scrittura si mantiene intensa; tra le opere più significative citiamo La vittima (1984), Tournée (1984), La parola tagliata in bocca (1985), Concerto per Medea (1985), Jacopone (1986), Singoli (1988), Ciano, cella 27 (1993), Accidia (1993), Un olmo dalle foglie troppo chiare (1993), Scuola romana (1994), Dio ne scampi (adattamento da Dio ne scampi dagli Orsenigo di U. Imbriani, allestito a Roma con la regia di L. Ronconi nel 1995) La morte di Galeazzo Ciano (1998). Oltre che autore, Siciliano è stato ed è impegnato come regista e, negli anni ’80, ha diretto il Teatro stabile di Catania.

Scimone

Giovane rivelazione del teatro dialettale di ricerca siciliano, arrivato alla notorietà con Nunzio (premio Idi autori nuovi, 1994), messo in scena da Carlo Cecchi che lo ha presentato per la prima volta al teatro Niccolini di Firenze e coprodotto da Taormina Arte. Interprete insieme a Francesco Sframeli (Messina 1964) , Spiro Scimone è stato anche premiato con il premio Idi per la drammaturgia (1989). Artista di notevole sensibilità è autore di Bar (1995) e Festa (1997). La caratteristica di S. è una scrittura drammaturgica asciutta e nervosa di arcaica sicilianità, sospesa tra verismo e naturalistico ottocentesco e modernità che si esprime mirabilmente in Bar e Nunzio , in cui lo stretto rapporto di amicizia tra i due protagonisti riflette intime inquietudini e disagio sociale. Grande, vera forza è il dialetto messinese che si impone come una lingua a sé con le sue spigolosità ma anche con dolci mollezze che scavano nella psicologia dei personaggi. Nelle pieghe della lingua si annidano infatti significati nascosti; nelle iterazioni, ma anche in un dialogo non formalizzato da parole, che usa il registro dei gesti e degli sguardi, c’è tutta la tragicità di personaggi al limite dell’emarginazione e della solitudine esistenziale. Nei brevi spazi drammaturgici (le pièce non superano i cinquanta minuti), uno spaccato di realtà siciliana tra Pinter e Beckett: i protagonisti si muovono in un’atmosfera rarefatta senza tempo, fissati in un immaginario che trova radici in un teatro di grandi tradizioni. S. ha vinto il premio Ubu nuovi autori 1997 e ha recitato inoltre in Amleto (1996), Sogno di una notte di mezza estate (1997) e Misura per misura (1998) di Shakespeare con la regia di Carlo Cecchi.

Joppolo

Narratore, poeta, saggista, pittore, singolare figura di intellettuale antifascista, Beniamino Joppolo condannò gli atteggiamenti repressivi della società; collaborò alla rivista “Corrente” e partecipò intensamente alla vita culturale milanese degli anni ’40. I suoi toni, spesso diretti e violenti, lo avvicinano allo stile espressionista. Per il teatro scrisse: L’ultima stazione (1941), Domani parleremo di te (1943), La tazza di caffè (1960), Le acque (1963) e La tana (rappresentata postuma nel 1973). Da I soldati conquistatori (o I carabinieri , 1949) trasse spunto Godard per il film I carabinieri del 1963.

Ambrogi

Dopo un esordio come romanziere, Silvano Ambrosi approdò al teatro prima con Carissima Italia , poi con I Burosauri (Milano, 1963), feroce satira della burocrazia che, vincitrice del premio Idi, incontrò uno straordinario successo (135 recite in Italia e molte versioni all’estero: Germania, Jugoslavia, Romania, Portogallo, Polonia). Dopo questo fortunato lavoro, scrisse numerosi altri testi secondo i canoni del più avanzato teatro grottesco. Testi i cui titoli – almeno alcuni – continuavano la sua singolare ed eccentrica zoologia e che, ancorché pungenti, non registrarono lo stesso clamore: Il capodoglio (1965), Il topo verde (1966), Il politicatore (1968), Neurotandem (1968, anche versione cinematografica), L’alluvionella (1968), Il sacco (1968), Romamarch (1972).

Sarti

Dopo aver frequentato la Scuola d’arte drammatica ‘P. Grassi’, Renato Sarti lavora al Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e poi, dal 1979 al 1987, al teatro dell’Elfo, con regie di Gabriele Salvatores ed Elio De Capitani. Come drammaturgo, consegue il premio Idi nel 1987 con Carla Nicoletti e il premio Vallecorsi nel 1988 con Ravensbrück rappresentato nel 1989 da Valeria Moriconi con la regia di Massimo Castri. Nel 1991 e nel ’95 consegue due segnalazioni al premio Riccione rispettivamente con Filax Anghelos e I me ciamava per nome 44787, presentato nel 1997 al Teatro di Porta Romana di Milano con la sua regia. Nel 1989 scrive Libero, andato in scena con Giuliana De Sio come interprete per la regia di Strehler. Altre regie sono: Il magnifico Barella con la Filarmonica Clown e La testa nel forno (1998).

Longoni

Diplomato alla Scuola d’arte drammatica ‘P. Grassi’ di Milano, Angelo Longoni dopo alcune esperienze come attore e autore-regista sia in teatro ( Necronomicon , L’età dell’oro ) sia in televisione (la serie Atelier ) e radio (i gialli Brivido italiano ) alla fine degli anni ’80 vince alcuni premi – in occasione di festival anche all’estero – con il suo dramma Naja (1987, nuovo allestimento con E. Lo Verso) da cui realizza anche un film. In seguito è autore e regista di Money , Uomini senza donne , Testimoni (questi due ultimi con A. Gassman e G. Tognazzi), Caccia alle mosche (dal suo romanzo omonimo), Hot line (con I. Di Benedetto), Bruciati. Ha adattato e diretto I ciechi di Maeterlinck. Tra i temi affrontati nella sua produzione, la vita quotidiana e i problemi sociali dei giovani, dal servizio militare al rapporto con il partner e le crisi di coscienza.

Sbragia

Giancarlo Sbragia si diploma nel 1947 all’Accademia d’arte drammatica di Roma e nella stagione 1947-48 esordisce al Piccolo Teatro di Milano con Don Giovanni di Molière. Successivamente passa al Piccolo Teatro di Roma e poi lavora in grandi compagnie private tra le quali Pagnani-Cervi poi nella Compagnia del Teatro Nazionale diretta da Guido Salvini in testi di Anderson (Anna per mille giorni), Kingsley (Detective story), Betti (Ispezione), Shakespeare (Sogno di una notte di mezza estate) dove ha modo di farsi notare per la sua recitazione estremamente essenziale e sobria, ma sempre molto incisiva. Tornato al Piccolo di Milano (1952-54) recita in Sei personaggi in cerca d’autore, Elisabetta d’Inghilterra, L’ingranaggio, Sacrilegio massimo, Appuntamento nel Michigan, Le nozze di Giovanna Phile e Il giardino dei ciliegi . Poi è con Renzo Ricci e Eva Magni in Lunga giornata verso la notte di E. O’Neill.

Affronta la sua prima regia con Ricorda con rabbia di J. Osborne con Giuliana Lojodice, Nino Dal Fabbro e Angela Cavo. Con Volonté, Salerno, Garrani, Valeria Valeri mette in scena testi importanti e di denuncia sociale (Sacco e Vanzetti). Risale alla metà degli anni Sessanta la sua ultima collaborazione con il Piccolo di Milano (Duecentomila e uno ,1966 di S. Cappelli e L’istruttoria, 1966-67 di P. Weiss. La seconda parte della sua carriera si apre nel 1960, con la fondazione unitamente a Garrani e a Salerno della compagnia Gli Associati, complesso per il quale cura diverse e importanti regie, anche con esempi di teatro-cronaca. Dopo il nuovo periodo al Piccolo (Enrico V e Il fattaccio di giugno , di cui fu autore, attore e regista) interpreta per Gli Associati, riformatisi nel 1969, Caligola (1970) di Camus, l’Urfaust – di Goethe, Edipo re (1973), Strano interludio di O’Neill nel 1972, di cui cura anche regia e musiche. Tra i continui impegni in teatro s’inserisce anche l’esperienza della televisione con grande successo di pubblico con sceneggiati come Delitto e castigo e Cime tempestose mentre in coppia con Enrico Maria Salerno riscuote unanimi consensi con la lettura a leggio del Concerto di prosa. Dell’ultimo periodo sono Faust di Goethe e La morte e la fanciulla di Dorfman al festival di Taormina.

Bellei

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ nel 1959, Mino Bellei ha debuttato nell’ Adelchi di Manzoni, con la compagnia Gassman (1960). Il primo ruolo di coprotagonista nel 1961 lo vede accanto a Renzo Ricci ed Eva Magni ne Il cardinale di Spagna di H. de Montherlant. Ha recitato con Randone, Parenti, Salerno e nei teatri Stabili di Palermo, Roma e Trieste. Nel 1968 costituisce con Fabrizio Vanni, Mario Bussolino e Laura Rizzoli la Compagnia del Malinteso, dal testo di Camus, Il malinteso, presentato per primo, cui fanno seguito, in sette anni, autori quali Feydeau, Brancati, Pirandello, Svevo e Moravia che segna anche con Gli indifferenti la prima regia di Bellei. Nel 1974 entra a far parte della compagnia De Lullo-Valli con cui per quattro stagioni interpreta, fra gli altri, Manvolio ne La dodicesima notte di Shakespeare. Nel 1979 scrive, dirige e interpreta Bionda fragola (da cui nel 1980 è stato tratto anche un film) a cui seguono La vita non è un film di Doris Day e Pacchi di bugie. Per due stagioni insegna al Centro sperimentale di cinematografia. Nel 1989 firma la regia di Vortice di N. Coward per il Teatro Eliseo con Rossella Falk. Dopo quattro anni di inattività, dal 1992 al 1996, ritorna al teatro con Candida di G.B. Shaw e Can Can di Cole Porter. Ha lavorato molto anche in televisione e nel cinema interpretando ruoli di secondo piano in sei film dei quali l’ultimo con la regia di Zeffirelli, Tè con Mussolini .

Matarazzo

Raffaello Matarazzo iniziò la sua carriera come giornalista e commediografo (Simmetria , 1935; La moglie di papà , 1939; Cena al Ritz , 1962). Incomincia a lavorare per il cinema come segretario di edizione presso la Cines e nel 1931 come assistente di Camerini per Figaro e la sua gran giornata , oltre che regista di documentari. Diresse il suo primo film, Treno popolare , nel 1933, tutto girato in esterni, ma, dato lo scarso successo commerciale ottenuto, si dedicò in seguito a produzioni meno impegnative, incentrate sulla partecipazione di attori famosi (Il marchese di Ruvolito con E. De Filippo, 1939). Dopo la guerra, in clima di neorealismo imperante, si è specializzato in una serie di film popolari, con la coppia Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson; di genere lacrimoso ma drammaticamente strutturati questi film non ebbero il favore della critica di sinistra, ma ebbero comunque un enorme succeso: Catene , 1949; Tormento , 1950; I figli di nessuno , 1951; ecc.).

Scarpetta

Eduardo Scarpetta si forma nel celebre Teatro San Carlino, a contatto con la grande tradizione popolare napoletana incarnata da Antonio Petito. Una volta impadronitosi dei meccanismi drammaturgici della farsa e della recitazione a soggetto, nel ruolo del `mamo’ Felice Sciosciammocca che non abbandona più, lavora con compagnie proprie. Ben presto ottiene grandi successi sia a Napoli sia in Italia, grazie al suo genio imprenditoriale e alle sue capacità drammaturgiche. Scarpetta realizza infatti una vera e propria riforma, innestando sulla tradizione farsesca partenopea il teatro del boulevard parigino.

Il suo teatro non si rivolge più al popolare pubblico del San Carlino di Petito; le messe in scena sono attentamente curate sia nella recitazione degli attori sia nella studiata eleganza delle scene, mentre le commedie satireggiano la borghesia umbertina di Napoli: «La plebe – scrive Scarpetta- è troppo misera per poter comparire ai lumi della ribalta». È precisamente questo che gli rimproverano intellettuali come S. Di Giacomo, L. Bovio, R. Bracco, F. Russo, i quali polemizzano più volte con l’autore, in nome di un teatro d’arte in cui il verismo è tradotto in bozzettismo di ispirazione sentimental-popolare. Le commedie di Scarpetta contaminano pièce di Hennequin, Labiche, Feydeau, Meilhac e Halévy, ma adattandole a tal punto al ‘milieu’ napoletano da diventarne immagini esemplari, come Lo scarfalietto (1881), `E nepute d”o sinnaco (1885), `Nu turco napulitano (1888), `Na santarella (1889), ‘O balcone `e Rusinella (1902), `O miedeco d”e pazze (1909); felice eccezione il suo capolavoro Miseria e nobiltà (1888).

Sempre attento alle novità del mercato teatrale, tenta con alterno successo anche la rivista, con Allegrezza e guaie (1895, con E. Bartolin) e L’ommo che vola (1909, con R. Galdieri); e il genere delle parodie, con un memorabile Figlio di Jorio (1904) che scatena una chiassosa polemica, conclusasi con la vittoria in un processo per plagio intentatogli dalla società degli autori. Si ritira dalle scene nel 1909, ma continua a dirigere la compagnia del figlio Vincenzo, erede del suo teatro in cui si sono formati attori come i fratelli De Filippo, A. Salvietti, E. Passarelli, M. Gioia e F. Sportelli.

Hochhuth

Tra le opere più significative di Rolf Hochhuth Il vicario (Der Stellvertreter), messo in scena alla Freie Volksbühne di Berlino nel 1963 con la regia di E. Piscator, e Soldati. Necrologio per Ginevra (Soldaten. Nekrolog auf Genf, 1967), presentato nello stesso teatro con la regia di H. Schweikart; entrambe le opere sono basate su materiali documentari. La prima tratta delle omissioni della chiesa cattolica sotto Pio XII di fronte all’olocausto degli ebrei; la seconda presenta la figura di Churchill come responsabile dei bombardamenti contro la popolazione civile tedesca e dell’assassinio, per mano dei servizi segreti britannici, del presidente del consiglio polacco Sikorski. H. pone così categorie di ordine politico-morale, ma oggi entrambi i lavori vengono ritenuti, dalla critica più avvertita, voluminosi e sovraccarichi; nonostante ciò Il vicario , messo in scena a Parigi e Londra da P. Brook, è stato uno dei maggiori successi teatrali del dopoguerra, mentre Soldati fu, a suo tempo, fortemente contestato in Inghilterra. Guerrillas , del 1970, è il tentativo di H. di staccarsi dalla drammaturgia documentaria dei suoi lavori precedenti; La levatrice (Die Hebhamme, 1972) ruota attorno al problema della politica degli alloggi per i senzatetto; Lisistrata e la Nato (Lysistrate und die Nato, 1974) è una commedia in quattro atti, ambientata su un’isola greca poco prima del colpo di stato dei colonnelli del 1967; Morte di un cacciatore (Tod eines J&aulm;gers, 1977) mette in scena le ultime ore di un Hemingway immaginario. Tra le sue ultime opere sono da citare Giuristi (Juristen) e Donne medico (&Aulm;rtztinnen), entrambe del 1980.

Ninchi

Annibale Ninchi frequentò la scuola di Luigi Rasi a Firenze, dietro incoraggiamento di Carducci. Fu primo attor giovane nella compagnia Stabile di Milano ed in quella dell’Argentina di Roma, con Irma Gramatica e Ruggeri. Dal 1914 fu direttore di compagnia e capocomico. Interprete di grande personalità e forza comunicativa grazie ai suoi mezzi fisici e vocali, si cimentò in un vasto repertorio, passando dai greci a Shakespeare, da Morselli (nel cui Glauco riscosse uno straordinario successo) a Shaw, da D’Annunzio (del quale fece vivere sulla scena memorabili personaggi) ad una serie di autori poco conosciuti. Come autore drammatico debuttò con Caino al Teatro della Pergola di Firenze nel 1922.Vanno ricordati poi l’ Orfeo , L’altra verità (1923), La ballata degli impiccati (1927), Il poeta malandrino (1929) e Maschera d’oro (1931). La sua carriera cinematografica cominciò nell’era del muto con una Carmen del 1909. Poi fu applaudito interprete di Scipione l’Africano (1937) e, con Fellini, girò La dolce vita (1960) e Otto e mezzo (1963).

Tarantino

Quello di Antonio Tarantino è un caso più unico che raro nel teatro italiano. Bolzanino di nascita ma torinese d’adozione, Tarantino sin dall’infanzia si dedica alla pittura. Il suo nome appare di prepotenza all’attenzione del mondo teatrale quando nel 1993 conquista, con verdetto unanime, il premio Riccione Ater per il teatro con i suoi due testi Stabat mater e La passione secondo Giovanni. La stagione seguente il monologo Stabat mater viene messo in scena da Chérif e interpretato da un’ispirata Piera Degli Esposti. Lo spettacolo, le cui scene sono curate da A. Pomodoro, diventa un caso nazionale: la scrittura del cinquantaseienne `esordiente’ drammaturgo viene paragonata a quella di Testori e suscita un entusiasmo raramente riscontrato nella critica italiana.

L’anno seguente, Chérif allestisce anche La passione secondo Giovanni ; questa volta gli interpreti sono E. Bonucci e A. Piovanelli. Il giudizio è ancora una volta più che lusinghiero. Questi lavori sono le prime due parti di quella che l’autore definisce la sua «tetralogia della cura», un progetto che, partendo dalla suggestione evangelica, arriva alla rivisitazione dei grandi miti tragici di Antigone e Medea, miti che l’autore considera sommersi nelle oscure profondità di quel subconscio collettivo che per gli europei è il mondo antico. Nel 1995, sempre Chérif cura la regia di un terzo testo di Tarantino, Vespro della Beata Vergine, interpretato da un inedito Lino Banfi che conquista critica e pubblico con un’interpretazione magistrale. L’ultimo lavoro andato in scena è Lustrini (1997) con Paolo Bonacelli e Massimo Foschi, con l’immancabile regia di Chérif: storia di due anime perse (Lustrini e Cavagna) che instaurano un soffocante e rozzo rapporto amoroso che, più che basato sul godimento dei corpi, si nutre solo di impetuose e impronunciabili esclamazioni.

Buzzati

Dino Buzzati inizia la sua attività come giornalista al “Corriere della sera”, dove è assunto nel 1928, per diventare l’anno successivo redattore interno e vice-critico musicale per il Teatro alla Scala. Quindi diventerà inviato speciale. Intanto comincia a scrivere romanzi; nel 1940 esce Il deserto dei Tartari, primo grande successo. Il 14 maggio 1953, Giorgio Strehler mette in scena, al Piccolo Teatro, Un caso clinico, che verrà anche presentato a Parigi in una versione di Albert Camus. Ma la sua vera carriera di drammaturgo era iniziata nel 1942, quando, al Teatro Nuovo di Milano, viene rappresentata Piccola passeggiata, con la regia di Fulchignoni; continua con La rivolta contro i poveri, realizzata da Strehler, al Teatro Excelsior di Milano nel 1946.

Tra atti unici e commedie regolari, Buzzati ha scritto ben quindici testi teatrali, più due libretti d’opera: Ferrovia sopraelevata e Procedura penale , per le musiche di Luciano Chailly (Bergamo, 1955; Como, 1959). Altri testi sono: Il mantello (Teatro Convegno, 1960, regia Ferrieri), Drammatica fine di un noto musicista (Teatro Olympia, 1955, regia Brissoni), Sola in casa, 1958, e L’orologio , 1959, ambedue scritti per Paola Borboni e da lei rappresentati al Teatro Gerolamo. Le finestre (Teatro Gerolamo, 1958, regia Zeffirelli); Un verme al Ministero (Teatro S. Erasmo, 1960, regia di Blasi); I suggeritori (Teatro Lirico, 1960, regia D’Anza); L’uomo che andrà in America (Teatro Mercadante, 1962, regia di Colli); La colonna infame (Teatro S. Erasmo, 1966, regia di Lualdi). Scrisse anche La telefonista, non rappresentato, per Laura Adani e il soggetto per un balletto, oltre che disegnarne le scene e i costumi: Fantasmi al Grand Hotel , in collaborazione con Luciana Navaro, con le musiche di Chailly, rappresentato al Teatro alla Scala nel 1960, con Carla Fracci.

Buzzatti arriva al teatro negli anni ’40-50 portandovi le sue emozioni personali, oltre che le sue curiosità; ma soprattutto un senso di libertà, che nasce da una felice commistione di stile e di linguaggio e dalla sapienza con cui riesce ad alternare l’impianto realistico con quello simbolico. Egli ha cercato di guardare la realtà in faccia e di raccontarla allo spettatore con una scelta drammaturgica personale, con una lingua alquanto vicina alla quotidianità e, nello stesso tempo, sperimentale, che sa dar voce ai fantasmi presenti dentro ogni uomo. Per Buzzati, il teatro era un’evasione, una specie di transfert che né il romanzo, né altra forma d’arte potevano dare. Martin Esslin, dopo aver analizzato Un caso clinico , che considerò un moderno miracle-play, nella tradizione di Everyman , lo pose tra gli autori del `teatro dell’assurdo’, formula un po’ ambigua, ma certamente calzante.

Lelli

Noto anche con lo pseudonimo Kir-Loe, Renato Lelli ha prodotto testi sia in italiano che in dialetto bolognese. Direttore del teatro Minimo di Bologna, nel 1955 ottenne il premio Riccione con la commedia Sulle strade di notte, la cui versione cinematografica del 1957 prese il titolo I colpevoli. Tra le opere dialettali più riuscite spiccano – V’avcurdav? rappresentata dalla compagnia Gandolfi nel 1929 e O la vétta o la mort , rappresentata nel 1950. La commedia che gli valse il maggior successo fu All’insegna delle sorelle Kadar interpretata da Emma e Irma Gramatica nel 1938 (rappresentata anche in dialetto bolognese col titolo El surel Bentivoglio).

De Filippo

Eduardo De Filippo nasce da una relazione amorosa tra Eduardo Scarpetta e Luisa De Filippo, nipote della sua legittima moglie. Debutta a quattro anni come giapponesino in La geisha di E. Scarpetta. Sarà Peppiniello in Miseria e nobiltà . Nel 1920 viene chiamato alle armi e presta servizio militare nel corpo dei bersaglieri a Roma. Comincia nel frattempo a scrivere i primi sketch e un atto unico: Farmacia di turno. Nel 1922 scrive la prima commedia in tre atti, Uomo e galantuomo, il cui titolo originario è Ho fatto il guaio? Riparerò. Nel 1923, insieme al fratello Peppino, rientra nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Avverte le prime insoddisfazioni nei riguardi di un certo repertorio e si interessa maggiormente al teatro di S. Di Giacomo, di R. Bracco e R. Viviani. Tra il 1924 e il 1925 comincia a scrivere Ditegli sempre di sì e Chi è cchiù felice ‘e me?, che troveranno la via del palcoscenico solo qualche anno più tardi. Nel 1929 fa parte della Compagnia Molinari, cui collaborano anche Titina e Peppino. L’anno successivo diventa coautore della rivista Pulcinella principe in sogno di M. Mangini, con l’atto unico Sik-sik, l’artefice magico (scritto con lo pseudonimo Tricot). Il successo è clamoroso e nel 1931 decide con i fratelli di dar vita alla Compagnia del teatro umoristico ‘I De Filippo’, che si esibisce in avanspettacoli presso il cine-teatro Kursaal (oggi Filangieri). Negli stessi anni intensifica la scrittura degli atti unici, tra i quali Natale in casa Cupiello (1931, successivamente sviluppato in tre atti). Nell’autunno del 1932 avviene il debutto della Compagnia al Sannazzaro, con la commedia Chi è cchiù felice ‘e me?. Anche Pirandello si interessa ai De Filippo, offrendo loro la versione napoletana di Liolà . La collaborazione con il grande scrittore siciliano ha un seguito: sempre in edizione napoletana viene infatti rappresentato Il berretto a sonagli e, qualche anno dopo, L’abito nuovo , scritto da Eduardo e tratto dalla novella omonima di Pirandello, che assistette alle prove senza tuttavia poter intervenire alla prima, a causa dell’improvvisa scomparsa avvenuta nel 1936.

La compagnia ‘I De Filippo’ gira tutta Italia, sovvenzionata anche dai proventi dell’attività cinematografica, intrapresa a partire dal 1932 con i film Tre uomini in frack , Il cappello a tre punte (1935, regia di M. Camerini) e Quei due (1935, regia di G. Righelli). Nel 1938 i successi dei De Filippo diventano unanimi in tutta Italia; le commedie preferite sono: Sik-Sik , Ditegli sempre di sì , Chi è cchiù felice ‘e me?, Gennariello e Natale in casa Cupiello. Nel 1940 l’Italia entra in guerra; le difficoltà per `I De Filippo’ sono tante. De F. scrive, nel 1942, Io, l’erede . Nel 1944 i rapporti tra Eduardo e Peppino si deteriorano, fino allo scioglimento della Compagnia del teatro umoristico. Nel 1945 scrive Napoli milionaria , e dà vita alla Compagnia di Eduardo, che rappresenta Questi fantasmi nel 1946, senza un grande successo di pubblico; in pochissimo tempo Eduardo la rimpiazza con Filumena Marturano : un trionfo e, per Titina, un grande successo personale. La commedia viene recitata anche dinanzi a Pio XII. Dopo Filumena Marturano , nascono altri capolavori: Le bugie con le gambe lunghe (1947), La grande magia (1948), Le voci di dentro (1948), La paura numero uno (1951). Si arriva agli anni ’50. Eduardo, intanto, per ricostruire il teatro San Ferdinando svolge un’intensa attività cinematografica. Così ad Assunta Spina , interpretata da Anna Magnani, fa seguire Fantasmi a Roma , L’oro di Napoli , Napoli milionaria , Filumena Marturano , Il marchese di Ruvolito , Ragazza da marito , Napoletani a Milano. Nel 1954 regolarizza l’unione coniugale con Thea Prandi, dalla quale ha avuti i figli Luca e Luisella. Dopo la morte della Prandi, si legherà a Isabella Quarantotti. Nel 1958, a Mosca, con la regia di R. Simonov viene rappresentata Filumena Marturano ; nel 1962, Il sindaco del rione Sanità . Le ingiustizie della situazione teatrale italiana vengono riproposte in L’arte della commedia (1964), che dai critici è ravvicinata a L’improptu di Molière e al Teatro comico di Goldoni. Tra il 1965 e il 1970 scrive Il cilindro , Il contratto e Il monumento. Nel 1972 riceve dall’Accademia dei Lincei il premio Feltrinelli; nel 1973 rappresenta Gli esami non finiscono mai e, nello stesso anno, all’Old Vic di Londra viene rappresentata Sabato, domenica e lunedì , con la regia di F. Zeffirelli e l’interpretazione di L. Olivier. Il 1977 è un anno particolarmente importante: sposa I. Quarantotti, presenta al Festival dei due mondi di Spoleto Napoli milionaria , adattata a libretto d’opera per Nino Rota e, dopo un’anteprima presso il Teatro di Norwich, la sua Filumena Marturano trionfa, messa in scena al Lyric di Londra, nell’interpretazione di J. Plowright. Il 15 luglio riceve la laurea in lettere honoris causa all’università di Birmingham, per i suoi meriti di drammaturgo, attore e regista.

Nel novembre del 1980, nell’aula magna dell’università degli Studi di Roma, gli viene conferita la laurea in lettere honoris causa, insieme all’accademico francese H. Gouthier, mentre nel settembre del 1981, a Palazzo Madama, la Repubblica Italiana lo onora con la nomina di senatore a vita. Il primo intervento in senato avviene il 23 marzo 1982 ed è proprio sui fanciulli abbandonati: Eduardo ritorna alle origini. Il teatro di Eduardo spazia su cinquant’anni di storia italiana (1920-1973), attraverso una serie di protagonisti nei quali si riflette lo stesso autore, «col suo difficile rapporto con quel contesto sociale su cui egli innesta la propria ricerca drammaturgica, oltre che la tecnica espressiva che attinge, in un evolversi continuo, alla farsa, alla comicità di carattere, all’umorismo, ben diverso da quello pirandelliano, attento a scomporre, piuttosto che a comporre o a rapportare, la natura storica dell’uomo. Per intenderci, i sofismi pirandelliani in Eduardo si concretizzano, diventano realtà sofferta, non più a livello di pensiero o di logica, ma a livello di vita. Eduardo rende lineare tutto ciò che in Pirandello si doppia; la sua maschera non è nuda, ma strettamente legata alla storia del personaggio; alla stessa maniera, la finzione diventa `trucco’ premeditato. Eduardo sa che il mondo è il luogo dove l’errore umano maggiormente si esplica, dove la verità viene facilmente offesa; da questo mondo egli ha tratto il suo repertorio, l’umor comico, che spesso si trasforma in accusa e in invettiva. Dinanzi alle colpe, agli errori, all’ingiustizia, Eduardo assume un atteggiamento di denuncia con mezzi ora tipicamente teatrali (la magia, il gioco, il trucco), ora con un’analisi approfondita dei caratteri e quindi dei personaggi che ne sono invischiati. La vita, per Eduardo, cambia continuamente volto; è necessario, quindi, adattarsi alle sue trasformazioni, che sono sempre contemporanee all’uomo. Proprio l’uso di questa contemporaneità e il modo di trasferirla sulla scena, hanno sempre reso attuale e `rivoluzionario’ il suo teatro.

Marino

Allievo di O. Costa all’Accademia d’arte drammatica di Roma, Umberto Marino si è anche laureato in legge. L’ambientazione dei suoi lavori è di impronta realista e mette in scena i sentimenti, le vicissitudini e le nostalgie della generazione degli attuali quarantenni, soprattutto ex sessantottini. Alcuni titoli: Non aspettando Godot (1978), Un’anomalia ventricolare (1980), Sputo (1986), La stazione e Italia-Germania 4-3 (entrambi del 1987, diventati poi anche film di successo), Accademia (1989).

Perriera

Esponente dell’avanguardia letteraria, Michele Perriera è stato tra i fondatori del Gruppo ’63. A Palermo nel 1971 ha fatto nascere il Teatro Tèates, che dirige: è un centro che si rifà alla lezione di Artaud, conciliandola con la vocazione narrativa e l’attenzione alla parola. Alla base dei testi di Perriera c’è la passione per la ricerca, che si sviluppa in una scrittura dalla forte tensione. Perriera attraversa diversi generi: dal dramma storico alla commedia, fino al monologo, creando un ponte tra l’amore per i classici e la sete di ricerca. Fra le opere: Signor X (1962), Lo scivolo (1963), Fischia, fischia, ancora (1963), La chiave del carretto (1965), No, io non… (1965), Tu, tu e tu… relax! (1965), L’edificio (1968), Morte per vanto (1973), Anticamera (1992). Come regista si è formato alla scuola del maestro norvegese Arne Svenneby.

Stoppard

Nato in Cecoslovacchia, Tom Stoppard (vero nome Tomáš Straüssler) si è trasferito con la famiglia a Singapore e, dopo la morte del padre, ha vissuto in India con la madre e il suo nuovo marito, un ufficiale inglese, di cui ha preso il cognome. Nonostante l’inglese sia la sua seconda lingua, Stoppard ne è diventato un maestro, uno sperimentatore raffinato, come già Conrad e Nabokov. Caratteristici della sua opera sono il gioco del `teatro nel teatro’, attraverso citazioni e parodie dei grandi classici, e il gioco linguistico che presenta una sistematica sfasatura tra significato e significato (Dogg’s Hamlet, Cahoot’s Macbeth, 1979). Dopo alcuni drammi radiofonici e televisivi (per “The Albert’s Bridge” gli fu assegnato nel 1968 un premio Italia), l’opera d’esordio che impone Stoppard fu Rosencrantz e Guildestern sono morti (R. and G. are Dead, 1967), allestita dal National Theatre. I due personaggi minori della tragedia shakespeariana assistono, chiacchierando e filosofeggiando, alla vicenda di Amleto, pedine in un gioco più grande di loro che li porterà alla morte: di questo testo, nel 1990, Stoppard ne ricaverà un film, che vinse il Leone d’oro a Venezia. Sull’onda di questo successo.

Stoppard ha rielaborato per la scena un suo lavoro televisivo, “Enter a Free Man” (1968), e ha scritto l’atto unico Il vero ispettore Hound (The Real Inspector H., 1968), in cui due critici teatrali mentre assistono a un dramma giallo vengono coinvolti nell’azione e uccisi. Seguono Dopo Magritte (After M., 1970) e Dogg’s Our Pet (1971). In Acrobati (Jumpers, 1972), allestita da Peter Wood al National Theatre, due professori di filosofia disquisiscono nel corso di una conferenza sull’esistenza di Dio con acrobazie intellettuali che non dimostrano e non significano nulla. I mostri sacri (Travesties, 1974), scritto per la Rsc, è una parodia dell’ Importanza di chiamarsi Ernesto di Wilde. Seguono Panni sporchi (Dirty Lines, 1976), che segna un avvicinamento al teatro politico, e Ogni bravo ragazzo merita un favore (Every Good Boy Deserves Favour, 1977), scritto in collaborazione con Previn e la Symphony Orchestra ed eseguito dalla Royal Festival Hall. Stoppard ritorna alla commedia classica con Notte e giorno (Night and Day, 1978) e La cosa reale (The Real Thing, 1982), in seguito si dedica per alcuni anni a lavori di adattamento da Havel, Ibsen, Schnitzler e da Molnár con Traversata burrascosa (Rough Crossing, 1984) che A. Corsini ha messo in scena per il Teatro La Pergola di Firenze (1988). In quell’anno Stoppard è tornato al teatro con Hapgood, una specie di summa degli stilemi stoppardiani.

Nel 2012 ha debuttato in “prima” nazionale al Carignano di Torino – coprodotto da Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma e Zachàr Produzioni di Michela Cescon – The Coast of Utopia, fluviale opera in tre parti terminata da Stoppard nel 2002, dedicata a ripercorre attraverso le vicende di alcuni celebri personaggi russi, le radici e il milieu culturale in cui crebbe l’utopia socialista e rivoluzionaria. Regista dell’allestimento è stato Marco Tullio Giordana, che ha guidato per l’occasione una troupe composta da trentuno interpreti e altrettanti tecnici.

Santagata

Prima di fondare una delle compagnie più interessanti del teatro di ricerca italiano, Alfonso Santagata è stato allievo alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha lavorato per anni con D. Fo e C. Cecchi. Con quest’ultimo in particolare ha recitato in L’uomo la bestia e la virtù di Pirandello, nel Borghese gentiluomo e nel Don Giovanni di Molière. Dieci anni di palcoscenico, un’istintiva e magnetica caratura di interprete, e la preziosa `scuola’ di Cecchi che rielabora in termini moderni la tradizione, consentono a Santagata il grande salto dell’autonomia creativa che comincia nel 1979, quando fonda con Claudio Morganti la compagnia Katzenmacher. Con lo stesso titolo dell’associazione culturale debutta il primo, commovente e abrasivo spettacolo della coppia che fin dall’inizio del sodalizio esplora e rielabora la marginalità e la devianza, raggiungendo, attraverso autori come Büchner, Cervantes, Dostoevskij, Beckett, con riscritture e elaborati work in progress autonomi e originali, vertici di alto valore poetico e comunicativo.

La consacrazione avviene nel 1984, dopo Büchner Mon Amour (1981) e En Passant (1983), con il premio Ubu e il Premio della critica per Il calapranzi di Pinter diretto da Cecchi. Mucciana City (1984), Hauser Hauser (1986) e Dopo (1987) precedono il lavoro con i detenuti della casa circondariale di Lodi ( Andata e ritorno, del 1987), esperienza-spettacolo da cui è tratto il video Un giorno qualsiasi (Rai di Milano). A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la coppia, di cui Santagata è spesso anche autore e regista oltre che attore, è ormai conosciuta in Italia e all’estero e Nanni Moretti lo vorrà nel cast di Palombella Rossa. Dopo Saavedra ispirato a Cervantes, Pa Ublié, Omsk , Redmun, Finale di partita di Beckett e Il guardiano di Pinter (quest’ultimo del 1992), la coppia decide di sciogliersi.

Santagata resta direttore artistico della compagnia Katzenmacher e prosegue la propria ricerca con un gruppo di giovani attori, tra cui Massimiliano Speziani e Giuseppe Battiston, entrambi premio Ubu 1997 per la singolare interpretazione in Petito strenge del 1996. Il lavoro che con Terra sventrata e Polveri (1994), Tamburnait e King Lear (1996) coniuga, attraverso una ricerca shakespeariana, la vocazione alla trasmissione del mestiere dell’attore con la produzione artistica vera e propria, si indirizza nelle ultime stagioni verso la rivisitazione della farsa (Petito) e del teatro di Jarry (Ubu scornacchiato del 1997 e Ubu `u pazz del 1998), prodromi di una esplorazione a venire sugli archetipi della tragedia.

Gide

L’esperienza drammaturgica di André Gide precede e affianca quella narrativa e raggiunge i risultati più convincenti soprattutto nelle tragedie, tutte ispirate al mondo classico e dedite a esplorare la vita interiore di personaggi percorsi da oscuri desideri, passioni evidentemente omosessuali e scrupoli di natura religiosa. Filottete, Trattato delle tre morali (Philoctète,Traité des tris Morales), scritta tra il 1894 e il 1898, è una tragedia incentrata sul tema caro ad André Gide della scelta del sacrificio come strategia per ottenere la propria libertà spirituale. Saul , realizzata tra il 1897 e il 1898, è invece tutta giocata sul contrasto tra la forza della mente e la debolezza dei sensi, tra decadenza fisica e eterna giovinezza del desiderio. Il re Candaule (Le roi Candaule), scritta dal 1899, si sviluppa attorno alla paradossale figura del ricchissimo re della Lidia che, sulla scorta di Erodoto, trova il suo massimo piacere nel dare tutto ciò che è suo agli altri, fino a donare la sua stessa bellissima sposa al pescatore Gygès e a trovare la morte. Con questa tragedia ha piena realizzazione la problematica della ricerca della felicità attraverso l’assurdo e il rischio. Ad un’altra fase dell’attività gidiana appartiene invece la tragedia scopertamente autobiografica Edipo (Oedipe), scritta tra il 1929 e il 1930. Ritornano ancora una volta i temi della rinuncia, della fine delle sicurezze e della conseguente rinascita. Le altre esperienze teatrali di G. sono sicuramente di portata minore. Tra queste si ricordino Persefone (Perséphone), libretto del 1934 realizzato per un balletto di Jacques Copeau e Ida Rubinstein; il divertimento Il tredicesimo albero (Le treizième Arbre; 1942), la commedia di carattere Roberto o l’interesse generale , (Robert ou l’intéret général) e i due adattamenti dal Processo di Kafka (1947, scritto con la collaborazione con Jean Louis Barrault ), e dai Sotterranei del Vaticano (Les Caves du Vatican) del 1950. In Italia il teatro di André Gide è stato conosciuto soprattutto grazie alla traduzione delle tragedie di Corrado Pavolini pubblicata nel 1950.

Puntoni

Renzo Puntoni rivendica fattiva collaborazione in due copioni dove la sua firma non compariva: il primo, L’assilllo infantile (con tre ‘l’) di Marcello Marchesi, di scena nella stagione 1965-66, con G. Bramieri e M. Del Frate, efficace scorribanda nel mondo giovanile, con il contrasto yé yé -matusa, collettoni e collettine, nei balletti di Don Lurio e musiche con tanto shake di Aldo Buonocore; il secondo, nella stagione successiva, sempre con la coppia Bramieri-Del Frate, La sveglia al collo , che reca solo le firme di Marchesi e Terzoli. Primo esempio di rivista che tenta di agganciarsi alla realtà del Terzo Mondo, con miti e riti africani interpretati da un balletto di colore. In Cavalcata di donne di Puntoni e Tristani (1946-1947), quadri esotici ed eccentrici per le tre sorelle Nava, e un sottofinale patetico di stampo neorealista con Carlo Rizzo, Pinuccia Nava, triste e povera donnina allegra, Macario soldatino imbranato.

Per fare film, Macario spesso si faceva sostituire da un `doppio’ truccato come lui, compreso il ricciolo incollato sulla fronte: il giovane Ugo Tognazzi. Ancora Macario in Pericolo rosa (1952-53) di P.-Rovi-Verde; nel cast, Flora Lillo, la fedele `spalla’ Carlo Rizzo, la cantante Nicla Di Bruno. Si eleva Mario Carotenuto a protagonista in Occhio per occhio, lente per lente , che P. scrive con Silva, Terzoli e Spiller. Grande successo con il ritorno alla rivista tradizionale: Okay fortuna di Puntoni-Terzoli, con Wanda Osiris e il trio Giustino Durano, Gino Bramieri e Raimondo Vianello, con quaranta girls e danze a ritmo di cha-cha-cha (1955-1956). Si passavano in rivista, appunto, veri tipi di fortuna, tra parodie e amarcord. Ancora per Wanda Osiris, nella stagione 1957-1958, ancora nel solco della tradizione (mentre trionfavano coeve commedie musicali, da Un paio d’ali con Rascel a Irma la dolce con Anna Maria Ferrero), con Terzoli, P. scrive I fuoriserie : bis a richiesta per un quadro coreografico di calypso, applausi per Wandissima in abito bianco e garofano rosso che canta “Personalità”. Un incendio distrusse a Napoli scene e costumi, ripristinati a tempo di record grazie alla solidarietà degli altri teatranti.

Nella stessa stagione, Puntoni collabora con Marchesi e Terzoli per Sayonara Butterfly, commedia musicale intricata che si richiamava a Puccini ma anche a Sayonara , film con Marlon Brando; interpreti, Sandra Mondaini giapponesina che scovava il suo seduttore Raimondo Vianello, spalleggiato dall’attendente Gino Bramieri. Scene e costumi di Pier Luigi Pizzi; balletti esotici di Paul Steffen. Stessa formazione la stagione successiva (1959-1960) per Un juke box per Dracula , e successo bissato per Mondaini-Vianello-Bramieri. Applaudito il quadro disneyano con Vianello-Pluto, Mondaini-Paperino e Bramieri-Pippo. L’intelligente apporto creativo alla rivista e al varietà di Puntoni si è anche notato nella sua lunga attività di dirigente del Centro di produzione della Rai di Milano.

Gombrowicz

Witold Gombrowicz studia giurisprudenza all’università di Varsavia, in seguito filosofia ed economia a Parigi. Tornato a Varsavia, collabora a riviste letterarie come critico. Nel 1939 lo scoppio della guerra lo sorprende in Argentina, dove rimane fino al 1963, per risiedere in seguito a Berlino, Parigi e Vence. L’attività drammaturgica di Witold Gombrowicz è strettamente legata a quella di scrittore di romanzi come Ferdydurke (1937) e Bakakaj (1957), incentrati sul tema dello smascheramento dei modelli di comportamento sociale, o come Pornografia (1960), dove il protagonista-narratore si assume esplicitamente una funzione registica. Autore affascinato da ciò che accade tra gli uomini, dai problemi della forma e della immaturità, Witold Gombrowicz sembra essere stato naturalmente predestinato alla scrittura dialogica e teatrale: «tutta la mia opera artistica – è lui stesso a spiegarlo – tanto i romanzi quanto i racconti, è teatro. In ognuna delle mie opere è possibile trovare un regista che organizza l’azione, i miei personaggi indossano maschere, il mio modo grottesco di espressione assume una certa plasticità». D’altra parte, il carattere demistificatorio della sua Weltanschauung, l’attenzione maniacale per i cerimoniali e i rituali formalizzanti l’esistenza umana non potevano che spingerlo verso le forme teatrali più convenzionali: la farsa e l’operetta.

«Se ho voluto affrontare una forma così leggera è stato per controbilanciarla e perfezionarla con la serietà e il dolore», è la spiegazione dello stesso Witold Gombrowicz Ivona, principessa di Borgogna, pubblicata su “Skamander” nel 1938 e rappresentata nel 1958, è un’opera a tesi che sembra anticipare l’esistenzialismo sartriano. La comparsa di Ivona alla corte reale è un apologia sul «desiderio di uccidere il ridicolo che vive in noi» (J. Pomianowski). La pièce è strettamente legata ai postulati filosofici di Witold Gombrowicz, per il quale la vita fluisce tra gli estremi di una forma sclerotizzata e agonizzante da una parte e di un caos informe dall’altra, e dove l’unico fattore progressivo è l’immaturità, una `inferiorità’ carica di energia, qui rappresentata da Ivona, `elemento di contraddizione’ con la sua sgraziata goffaggine. Il matrimonio (1957, rappresentato nel 1974) è stato concepito come una trascrizione di un sogno e insieme una parodia delle tragedie shakespeariane: la pièce ha una struttura onirica dove il piano più alto del linguaggio si contamina con il lessico più volgare, e nell’ambito della trama gli avvenimenti più triviali si intrecciano ad accadimenti mortalmente seri. Eventi e personaggi sono caratterizzati da un’esibita artificialità. Nelle stesse parole dell’autore «tutte queste persone recitano sempre», tutti fingono di essere se stessi e mentono per dire la verità, mossi dall’unico – inconfessato – desiderio di dominare. Ogni cultura, infatti, non è altro che un insieme di rituali che hanno lo scopo di formalizzare in una messa in scena la lotta per la sopravvivenza.

Dopo aver così ferocemente tratteggiato l’obbligo socio-culturale delle convenzioni, in Operetta (1969) Witold Gombrowicz celebra l’apoteosi della nudità, simbolo di verità, sincerità, semplicità. Deciso a trasmettere attraverso la pochezza intellettuale dell’operetta il pathos della storia, Witold Gombrowicz descrive in Operetta nient’altro che l’apocalisse, il crollo del vecchio mondo, la rivoluzione, l’insorgere di un mondo nuovo e terribile. Da un punto di vista della personale filosofia di Witold Gombrowicz («non credo in una filosofia non erotica, in un pensiero che si libera dal sesso»), si tratta della fine di un percorso: alla sostituzione della convenzionalità della forma con la nudità da segni e orpelli corrisponde il trionfo, a lungo negato, del giovane sul vecchio, dell’universale sul nazionale, del sogno sull’ideologia. Anticipatrice dell’esistenzialismo, l’opera teatrale di  Gombrowicz se ne distanzia per l’esibito scetticismo e un certo anarchismo, ma soprattutto per la forma espressiva, per il suo carattere parodistico, per il suo senso del grottesco e dell’umorismo, che ne hanno decretato un successo pressoché ininterrotto sulle scene di tutto il mondo.

Lunari

Il contributo di Luigi Lunari al teatro ha spaziato dall’insegnamento universitario alla critica, alla saggistica, alle sceneggiature televisive. A partecipato attivamente alla rinascita del cabaret milanese, scrivendo due spettacoli storici dei Gufi: Non spingete, scappiamo anche noi e Non so, non ho visto, se c’ero dormivo. È autore delle commedie Il senatore Fox (1986), La bella e la bestia , Arlecchino e gli altri (adattamento con la regia di F. Soleri, nella stagione 1989-90), Tre sull’altalena , e del compendio Cento drammi italiani , pubblicato nei primi anni ’90. Ha collaborato a lungo con il Piccolo Teatro, prima di entrare in polemica con la direzione di Strehler (la polemica è diventata anche un libro, Il Maestro e gli altri ). Lunari gode di maggior successo all’estero che in Italia: la commedia Tre sull’altalena è stata tradotta in tredici lingue; ha suscitato un interesse internazionale anche per i suoi lavori precedenti, come Il senatore Fox .

Rovetta

Celebre nella Milano a cavallo tra i due secoli, dove trascorse quasi tutta la sua vita, Gerolamo Rovetta riscosse parecchio successo sia per la sua attività di romanziere sia per le sue opere teatrali. A contribuire alla sua fama di drammaturgo fu soprattutto la commedia intitolata Romanticismo (1901), in cui con toni patriottico-sentimentali, a volte scadenti nel melodrammatico, vengono rievocati i fasti e gli ideali del Risorgimento. Altre sue opere sono La trilogia di Dorina (1889), I disonesti (1892) e La realtà (1895). Questi tre drammi, in particolare, ruotano intorno al tema della `disonestà’, che porta inesorabilmente al successo i corrotti, facendosi beffe di chi si regge a una più onesta condotta di vita. In Rovetta predomina dunque una prospettiva di forte caratterizzazione pessimistica, ma sono anche da ricordare le sue opere comiche, come Il re burlone (1905), ritratto di un borbone di Napoli, e Cameriera nova (1891), commedia scritta in dialetto veneto. Appartiene a questo genere anche Molière e sua moglie (1909).

Copeau

Quando Jacques Copeau inaugura nel 1913 la piccola sala del Vieux-Colombier ha 34 anni e alle spalle un’esperienza letteraria (è stato direttore della “Nouvelle Revue Française”), di critico teatrale e di drammaturgo (ha firmato il fortunato adattamento del romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov , andato in scena nel 1911). Il Vieux-Colombier è costruito su un’idea di teatro come missione, che richiede onestà intellettuale, rifiuto del divismo, culto della poesia e della parola contro il naturalismo di Antoine, contro il superfluo delle scene, la faciloneria del teatro di boulevard. Per questa vera e propria rivoluzione Jacques Copeau cerca e forma, con la scuola legata alla nuova sala, un nuovo attore, che viva il teatro come la dimensione fondamentale della propria vita. Per sé, come regista, privilegia un ruolo di mediatore – attraverso l’attore – fra la parola del poeta e lo spettatore; ma sogna anche di trasformare il Vieux-Colombier in una `casa’ dalle porte aperte, in cui non si facciano solo spettacoli ma si discuta, si presentino libri. Per ottenere questi risultati studia un repertorio che mescola i classici, come l’elisabettiano Thomas Heywood (è con un suo testo, Una donna uccisa con la dolcezza , che inaugura il suo teatro), Molière, ma anche lo Shakespeare meno scontato (in Italia, al giardino di Boboli, metterà in scena nel 1938 Come vi piace ), ai testi dei contemporanei Claudel, Gide, Vildrac.

Severo, quasi giansenista, Jacques Copeau – considerato da molti un maestro, oltre che il capostipite di un modo di fare teatro che si esalta nel suo rapporto con il testo (e che, sul suo esempio, si raggrupperà nel cosiddetto Cartel, in cui confluiranno le esperienze più nuove della scena francese, da Charles Dullin a Louis Jouvet, da Georges Pitoëff al più giovane Jean Vilar) – è costretto a chiudere l’esperienza del Vieux-Colombier, dopo una tournée negli Usa che ha messo in luce le contrapposizioni che cominciano a minare il gruppo, già nel 1924, per sopraggiunte difficoltà economiche che si sommano a quelle ideative. Ritiratosi in Borgogna, organizza una compagnia di giovani attori, i Copiaus che, fra il 1925 e il ’29, presentano farse e commedie in occasione di fiere e feste di paese; ma anche questa esperienza è destinata al fallimento. Nel 1940-41 Jacques Copeau sarà direttore della Comédie-Française, ma verrà cacciato perché sgradito agli occupanti nazisti. Il seme gettato da questo teatrante schivo e severo non svanirà nel nulla. Partendo dal suo magistero, dalla sua idea di formazione di un nuovo attore, nel 1935 Silvio D’Amico fonderà l’Accademia d’arte drammatica, dove insegnerà, fra gli altri, quello che unanimemente è considerato il discepolo italiano di Jacques Copeau: Orazio Costa.

Benelli

Nato da famiglia povera, Sem Benelli si coltivò da autodidatta con letture appassionate ma non sempre ordinate, avvicinandosi alla scrittura con un entusiasmo inizialmente non bilanciato dai risultati. Ispirato dalla sua stessa traiettoria esistenziale, preparò la prima opera teatrale, la commedia Tignola (1908), in cui, con andamento crepuscolare, descrisse la vita fallimentare di un commesso di libreria, sorretto soltanto dai suoi impossibili sogni. L’anno successivo, con accoglienza subito trionfale, fu portata in scena al Teatro Argentina di Roma La cena delle beffe , che divenne rapidamente un successo di dimensione planetaria, come testimoniano gli allestimenti con Sarah Bernhardt a Parigi e i due anni di repliche a Broadway con i Barrymore (nel 1941 A. Blasetti ne ricavò un celebre film). La tragedia, ambientata nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, seppe riflettere le insoddisfazioni di un’intera nazione, compendiate dal personaggio di Giannetto, vittima delle angherie dei fratelli Neri e Gabriello e artefice della loro rovina. Di qui, probabilmente, le ragioni della fortuna di un’opera che `rompeva’ con gli schemi veristi e borghesi, cercando, nello stesso tempo, di non concedersi all’artificiosità declamatoria di stampo dannunziano.

Negli anni successivi Benelli decise di insistere con la tragedia storica, realizzando L’amore dei tre re (1910; anche libretto per l’opera di I. Montemezzi, 1913), aperta sfida al genio di Shakespeare, Il mantellaccio (1911), Rosmunda (1911), La Gorgona (1913) e Le nozze dei centauri (1915). Si tratta di opere sature di enfatici simbolismi, di morboso erotismo e di sofferto psicologismo, che, col sostegno di fastosi apparati scenografici, imposero una moda più che un nuovo percorso di ricerca. Le ultime opere nulla aggiunsero alla sua drammaturgia, attorno alla quale intanto si era andata formando una vasta rete di imitatori.

Berkoff

Steven Berkoff frequenta la Hackney Downs Grammar School, nell’omonimo quartiere londinese; studia teatro e poi mimica a Parigi. Emerge negli anni ’70 nell’ambito del filone ‘fringe’ della controcultura teatrale, con la compagnia London Theatre Group. A differenza di altri gruppi analogamente impegnati in politica, la compagnia propone un tipo d’arte rappresentativa che impieghi tanto gli elementi visivi quanto quelli verbali. Nei suoi drammi (East, 1977; Greek, 1983) Steven Berkoff propone un linguaggio non standardizzato che smonti l’opinione consolidata, e che sia capace di suscitare risposte conflittuali e problematiche nella cooperazione tra gli individui. Artista fuori da ogni schema, istrione ecclettico e iconoclasta, Steven Berkoff è considerato un classico del teatro contemporaneo sperimentale; nella rassegna 1997 di Intercity London a Firenze, con lo spettacolo One Man (un assolo tratto da due suoi testi e da un adattamento di Il cuore rivelatore di E.A. Poe), ha riscosso un grande successo. Tra gli altri lavori si ricordano Lunch (1983), S ink the Belgrano (1986), Kvetch, presentato al festival di Edimburgo nel 1991; e ancora gli adattamenti per il teatro delle opere di Kafka: Nella colonia penale (1968), La metamorfosi (1969), Il processo (1970); Amleto di Shakespeare.

Gor’kij

Maksim Gor’kij il maggior rappresentante del realismo di inizio secolo e, dopo la rivoluzione d’Ottobre, teorico del ‘realismo socialista’, indirizzo letterario (proclamato nel primo Congresso degli scrittori del 1934) che deve riflettere i conflitti ma soprattutto i successi della società nata dalla rivoluzione. Orfano, dopo aver fatto i mestieri più disparati, debutta in letteratura con il racconto Makar Cudra, primo del ciclo dei `vagabondi’, dove Maksim Gor’kij ripercorre la sua avventurosa esistenza tra banditi e disperati. Inizia la sua attività di drammaturgo, sollecitato da Cechov, che apprezza molto le sue prove narrative, e da Nemirovic-Dancenko, uno dei direttori del Teatro d’Arte di Mosca, sempre pronto ad aiutare i giovani talenti. I due primi drammi, Piccoli borghesi (1902) e Bassifondi (1902, conosciuto anche come L’albergo dei poveri), dedicati agli aspri conflitti nelle classi più povere della società russa, vengono messi in scena con grande successo e molte polemiche al Teatro d’Arte, con la regia di Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko. La violenza eversiva delle situazioni, la forza incisiva del linguaggio suscitano enorme scalpore e fanno di G. l’autore più coraggioso di questi anni inquieti per la società russa. A partire dal 1904 scrive una serie di drammi dedicati all’ascesa politica e finanziaria della borghesia mercantile, sempre più avida, rozza, ottusa, di fronte a cui si fa sempre più grave la crisi dell’ intelligencija , una classe che sta perdendo il suo ruolo di guida, divisa tra integrazione passiva e rivolta contro l’autocrazia zarista, soprattutto dopo i moti rivoluzionari del 1905: I villeggianti (1904), I figli del sole (1905), I barbari (1906), Nemici (1906), Gli ultimi (1908), Vassa Železnova (1910), La moneta falsa (1913). Dopo un lungo periodo dedicato alla stesura di opere narrative e autobiografiche, Maksim Gor’kij torna al teatro all’inizio degli anni ’30, con una serie di lavori dedicati alla decadenza e alla corruzione della società borghese pre-rivoluzionaria, dominata dalla cupidigia e dalla violenza: Egor Bulycov e altri (1931), Dostigaev e altri (1932), la seconda versione di Vassa Železnova (1936). Il teatro di Maksim Gor’kij ha avuto molto successo in Italia a partire dai primi anni del secolo fino alla fine degli anni ’30, grazie soprattutto ad alcuni grandi attori (Eleonora Duse, Alfredo De Sanctis, Tatjana Pavlova) che hanno portato al successo i suoi lavori.

Lowell

Nel 1964 Robert Lowell fece rappresentare col titolo The Old Glory , che faceva riferimento alla bandiera degli Usa, una trilogia drammatica in versi, comprendente due adattamenti da racconti di Hawthorne: Endecott e la Croce Rossa (Endecott and the Red Cross), e Il mio parente, maggiore Molyneux (My Kinsman, Major Molyneux,) e, soprattutto, un eccellente rifacimento del Benito Cereno di Melville, dove con grande forza poetica e drammatica si riesaminava, riandando alle sue radici storiche, l’atteggiamento degli americani nei confronti dei neri e dello schiavismo. Tradusse inoltre la Fedra di Racine e il Prometeo incatenato di Eschilo.

Maeterlinck

Maurice Maeterlinck è con Van Lerberghe Verharen e Rodenbach uno dei più imporanti rappresentanti della cultura simbolista belga. Nel 1899 pubblica la raccolta di poesie Serres chaudes , vera e propria ‘icona’ del simbolismo e va in scena La principessa Malena (Princesse Maleine), la prima di una serie di pièces che fanno di M. uno dei più significativi esponenti del teatro simbolista di area francofona. Il suo teatro cerca di riproporre – utilizzando i mezzi caratteristici della rappresentazione – la capacità di evocazione della poesia, sfruttando i silenzi, e la semplicità del décor, per `suggerire’ e `mostrare’ piuttosto che per `descrivere’ e `raccontare’. Le sue opere sono dunque dense di mistero: personaggi evanescenti e rispondenti ai topoi del simbolismo (algide principesse, artisti misteriosi, mistici, ecc.), ambientazioni feeriche, linguaggio dalle cadenze incantatorie. In questa linea si inseriscono oltre a La principessa Malena del 1889, L’intrusa (L’intruse, 1890) e I ciechi (Les aveugles, 1891). Del 1892 è invece la sua opera più nota, Pélleas et Mélisande che, grazie alla più tarda versione musicale di Debussy, riuscirà a conservare una fama che le altre opere non hanno più. In un’ambientazione medievale, Maeterlinck evoca le forze imperscrutabili della vita: la fatalità e la morte. Pelléas e Mélisande, personaggi dall’origine misteriosa – quasi stupiti di essere vivi – sono sedotti da forze sconosciute che prendono la forma di un amore disperato e impossibile. La morte è in agguato e un’atmosfera di ineluttabilità aleggia su tutti i personaggi del dramma: un vero incubo simbolista in cui il non detto coincide con la cecità dell’esistenza umana, la sua disperata mancanza di senso. Negli ultimi anni della sua vita, Maeterlink stempererà i toni cupi e incantati della sua prima produzione per avvicinarsi a una maggior semplicità tematica – sovente d’ispirazione bucolica, come testimonia Aglavine et Selisette (1896) – cui corrisponde tuttavia una ancor maggiore rarefazione del linguaggio secondo i parametri stilistico-retorici dell’ormai affermata ‘scuola’ simbolista. La sua relazione con l’attrice Georgette Leblanc – che sarà l’interprete di gran parte delle sue opere – non è forse estranea alla maggior serenità che contraddistingue opere come Monna Vanna (1902) e Joyzelle (1903). Le ultime opere per il teatro di Maeterlinck furono scritte durante la seconda guerra mondiale, ma mai pubblicate né messe in scena.

Evreinov

Nikolaj Nikolaevic Evreinov studia diritto e musica, poi debutta in teatro con una serie di commedie: L’origine della felicità e Stepik e Manjurocka (1905), Il bel despota e La guerra (1906), La nonna (1907) e Una tale donna (1908). A partire dal 1907 dirige il Teatro Antico, dove vengono ricostruite sacre rappresentazioni medioevali francesi e spettacoli del secolo d’oro spagnolo. Lavora come regista prima al teatro di Vera Komissarzevskaja in Salomè di Wilde (1909) e Francesca da Rimini di D’Annunzio (1909), poi al teatro ‘Lo specchio curvo’, dedicato alla caricatura e al grottesco, per cui scrive fra il 1911 e il ’15 una serie di arlecchinate (La gaia morte , Il revisore , su motivi gogoliani, da lui stesso definito ‘buffonata da regista’, La scuola delle stelle, La cucina del riso ) e di `monodrammi’, genere da lui inventato, dove il protagonista rappresenta il mondo come lo percepisce in un dato momento della sua esistenza: Una Colombina dei nostri giorni , Tra le quinte dell’anima, Le rappresentazioni dell’amore e la trilogia Ciò che più importa, La nave dei giusti e Il teatro della guerra eterna. Evreinov è anche autore di saggi dove sostiene la teoria di un teatro fortemente soggettivo e orientato al recupero di una libera teatralità: Introduzione al monodramma (1912), Il teatro come tale (1912), Il teatro per sé (1915-17). Emigrato a Parigi nel 1925, continua la sua opera di commediografo (scrive anche canovacci per balletti), regista (dirige un teatro in lingua russa), saggista e storico del teatro (Le théâtre en Russie sovietique, 1946; Histoire du théâtre russe, 1947).

Anouilh

Una trentina di opere costituiscono il ricco bagaglio di questo fertile drammaturgo, che dal 1931, ha continuato ad avere successo di pubblico. Jean Anouilh si era accostato al teatro facendo, alla Comédie des Champs-Elysées, il segretario di Louis Jouvet, dal quale tuttavia si allontanò nel 1931 per aperte divergenze. Nello stesso anno, il felice debutto della sua prima commedia L’hermine segna la sua decisione di dedicarsi interamente alla scena. Alla fine degli anni ’30, Anouilh collabora, oltre che con Lugné-Poe, anche con Pitöeff, che curerà la regia de Le voyageur sans bagages (1937), il cui tema si apparenta al Siegfried di Giraudoux. Nel suo teatro Anouilh fa convergere temi e soggetti legati alla tradizione teatrale `alta’ (Sofocle, Shakespeare, Molière, Marivaux, Pirandello) con le esigenze commerciali della tradizione francese del teatro di boulevard: motivi mitici, inchieste poliziesche, toni mélo e accenti grotteschi convivono dunque in opere come Eurydice (1942) e Antigone (1943), scritte durante gli anni dell’occupazione tedesca; e in esempi successivi, come Roméo et Jeannette (1946), Médée (1953) o Ornifle ou le courant d’air (1955), ispirato al Don Giovanni di Molière e perfetta esemplificazione del ricorso sistematico alla dissonanza e alla devalorizzazione dei temi scelti.

Appare evidente come Anouilh si accosti ad un certo teatro fondato sulle ascendenze della tradizione francese del vaudeville, ma anche sulla vicinanza con autori come Giraudoux, con i quali condivide il gusto per il ripensamento del mito classico. Da queste influenze composite deriva il colore cangiante di un teatro in cui artificio e verità dei sentimenti si orchestra in un gioco di rimandi, la cui ascendenza è – secondo le esplicite dichiarazioni dell’autore – da Pirandello. Nel 1961-62, in occasione della pubblicazione delle opere di A. presso le edizioni della Table Ronde, l’autore stesso ha proceduto ad una suddivisione della sua produzione drammaturgica in cinque categorie di genere che sintetizzano perfettamente la compresenza di tendenze opposte: pièces noires e nouvelles pièces noires (opere ‘nere’ e ‘nuove opere nere’, tra cui rispettivamente, Le voyageur sans bagages, Eurydice e Médée ), pièces roses (opere ‘rosa’, tra cui Le bal des voleurs , 1938), pièces grinçantes (opere ‘stridenti’, tra cui Ornifle ), e, ancora, opere `brillanti’ e `in costume’ (tra cui Becket ou l’honneur de Dieux , 1955).

Mauclair

Jacques Mauclair è direttore del teatro Rive-Gauche dal 1971 al 1975; nel 1976 diventa direttore del teatro Marais. Dagli anni ’50 il suo nome è legato agli autori del Nouveau Théâtre, in particolare a Adamov – è regista di Comme nous avons été (1953) e di Ping-Pong (1955); recita in Il professor Taranne (1953), sotto la direzione di Planchon – e a Ionesco mette in scena Vittime del dovere (1953); Le sedie (1956) e Il re muore (1962); nel 1959 si avvicina al teatro di Brecht: Maurice Sarrasin, direttore del Teatro Grenier di Tolosa, lo invita ad allestire Madre Coraggio. Nel suo repertorio compaiono anche testi classici: Elettra (1977); L’avaro (1989, per cui gli è assegnato il premio Molière); La scuola delle mogli (1992). Nel 1982 riscrive un classico: Le Misanthrope chez Molière ou l’impromptu du Marais (ne è anche regista e attore). Negli ultimi anni ha curato la regia e ha interpretato diversi testi di Eduardo de Filippo: Antonio Barracano (1993); Natale a casa Cupiello (1995); Sik-Sik (1997).

Reinhardt

Max Reinhardt nasce da una famiglia di bottegai ebrei ma quando diventa famoso, nel 1904, tutta la famiglia ha il diritto di fregiarsi del suo nome d’arte). `L’educazione teatrale’ del giovane Max inizia dal loggione del mitico Burgtheater di Vienna. A diciassette anni, frequenta una scuola di recitazione e sostiene in provincia le sue prime parti. Mentre recita in compagnie secondarie, lo vede O. Brahm, allora direttore del Deutsches Theater, e ne resta favorevolmente impressionato a tal punto che, rincontrandolo l’anno dopo a Salisburgo, in una stagione che obbliga il giovane R. a quaranta ruoli, lo porta con sé a Berlino. Nella capitale, dove approda con un contratto che lo lega al Deutsches dal 1895 al 1901, Reinhardt perfeziona gli ultimi rudimenti del mestiere, ma ben presto sente l’esigenza di allontanarsi dal naturalismo di Brahm e si avvicina al teatro simbolista ed espressionista. Nel 1901 con un gruppo di attori prende la direzione dello Schall und Rauch, che nell’anno seguente cambierà il suo nome in Kleines Theater, dove verranno rappresentati gli scrittori contemporanei, da Strindberg a Wedekind, da Wilde a Maeterlinck – e Pelléas et Mélisande infatti sarà la sua prima regia firmata, nel 1903, anno in cui fonda il Neues Theatre che dirige. Nel 1905, diventato praticamente il signore del teatro tedesco (ha assunto nel frattempo anche la direzione del Deutsches), mette in scena la prima edizione del Sogno di una notte di mezza estate shakespeariano che riprenderà più volte, mentre è del 1906 la prima rappresentazione del Risveglio di primavera di F. Wedekind.

Per un breve periodo, Reinhardt concentra nelle sue mani un potere illimitato, riunendo attorno a sé un gruppo di attori fra i maggiori della scene tedesca, da A. Moissi a T. Durieux, a G. Eysoldt. Sempre in cerca di riscontri alla propria idea di un teatro diversificabile, secondo il luogo e lo spazio, allestisce spettacoli in circhi (per esempio al Circo Schumann dove va in scena nel 1911 in prima mondiale Jedermann di Hofmannsthal), o in enormi spazi come la Grosses Schauspielhaus (1919), o nelle cattedrali, dove rappresenta Il miracolo di K. Vollmoeller a partire dal 1911. Questo testo lo farà conoscere in America: vi verrà infatti rappresentato, a partire dal 1924, per sei anni consecutivi. Nel 1920, intanto, con Hofmannsthal e Strauss fonda il Festival di Salisburgo, ancora oggi manifestazione tra le più celebri del mondo, inaugurato con Jedermann nell’interpretazione di Moissi. Apre a Vienna il Theater am Josefstadt con Il servitore di due padroni di Goldoni (1924). Fra il 1927 e il 1928 è in tournée negli Usa con gli spettacoli dei suoi teatri berlinesi e austriaci.

L’avvento del regime nazista in Germania lo costringe ad abbandonare tutti i suoi beni e i suoi teatri. L’ultima messa in scena berlinese è Il gran teatro salisburghese del mondo di Hofmannsthal, nel 1933, una serata memorabile con tutto il pubblico commosso in piedi ad applaudire il regista costretto a fuggire. Fa ancora in tempo, a Salisburgo, a mettere in scena la prima parte del Faust di Goethe fra il 1933 e il 1937; e a dirigere anche due Shakespeare in Italia, a Boboli Sogno di una notte di mezza estate (1933) e a Venezia Il mercante di Venezia (1934). L’annessione dell’Austria lo costringe alla fuga negli Stati Uniti. A Hollywood con il suo assistente di un tempo destinato a diventare un grande regista cinematografico, Wilhelm `William’ Dieterle, dirige Sogno di una notte di mezza estate con M. Rooney e O. de Havilland, ma il film non ha successo. Fonda anche un workshop per cinema, teatro e televisione sul Sunset Boulevard (dal quale usciranno attori come Robert Alda), costretto a chiudere nel 1942 per problemi finanziari. Nel corso dell’esilio americano (diventerà cittadino statunitense nel 1940) metterà in scena, fra l’altro, al Festival californiano il Faust di Goethe. Nel 1943, anno della sua morte, firma la sua ultima regia, Figli e Soldati di I. Shaw, testo pacifista che ha in un giovane Gregory Peck il suo principale interprete. Amatissimo dagli attori che guida con mano ferrea, ai quali richiede una recitazione poetica, in grado di restituire sentimenti ed emozioni, signore incontrastato di una scena come luogo di magie, infaticabile organizzatore, poeta del quotidiano, Reinhardt è uno dei grandi, insuperati maestri della scena del ‘900, l’inventore di un’idea di regia (il regista `fratello gemello dell’autore’) che sarà il punto di riferimento obbligato di tutti i grandi `signori della scena’ venuti dopo di lui.