Cechov

Di famiglia modesta, Anton Pavlovic Cechov si laurea in medicina e contemporaneamente (ancora da studente) inizia a scrivere brevi racconti umoristici sotto vari pseudonimi. «La medicina, che è una cosa seria, e la letteratura, che è un gioco, vanno esercitate sotto cognomi diversi», sostiene; e, nonostante il successo in letteratura, continua la professione di medico fino ai suoi ultimi giorni. Al teatro si dedica fin dall’inizio della sua carriera: insieme ai primi racconti, nell’inverno 1880, abbozza un lungo dramma in quattro atti, che non finisce e lascia nel cassetto. È Platonov (titolo postumo, dal nome del protagonista), ritrovato nell’archivio dello scrittore solo nel 1920 e pubblicato nel 1923: storia di un dongiovanni cinico, scroccone e disperato sullo sfondo di una noiosa, apatica vita provinciale. Dopo il fallimento del primo lavoro, passa alle forme brevi: tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 scrive una serie di atti unici e di vaudeville in poche scene che hanno un inatteso successo, sia nella capitale sia in provincia (Sulla strada maestra, 1884; I danni del tabacco, 1886; Il canto del cigno, 1887; Una domanda di matrimonio, 1888; L’orso, 1888; Le nozze, 1889; Tragico controvoglia, 1889; Tatjana Repina, 1889; L’onomastico, 1891). Alcuni di questi testi suscitarono negli anni ’20 del nostro secolo l’interesse di registi d’avanguardia come Vachtangov e Mejerchol’d, che ne diedero versioni piene di fantasia, sottolineandone i lati grotteschi e il ritmo travolgente.

Contemporaneamente ritenta la via dei lavori in più atti: su sollecitazione di F.A. Kors, direttore del teatro omonimo, scrive Ivanov (1887). «Ho scritto il lavoro senza accorgermene… Ho concentrato la mia energia su alcuni momenti veramente forti, memorabili, però i personaggi che uniscono le varie scene sono spesso insignificanti, fiacchi, banali. Comunque sono contento». Nessuna serietà da parte della compagnia, approssimazione e faciloneria, quattro prove invece delle dieci previste, attori superficiali, ottusi, fuori ruolo, pronti a inventarsi battute pur di strappare risate: due repliche e il lavoro è tolto dal repertorio. Due anni dopo riprende in mano il testo, convinto della necessità che il teatro debba passare «dalle mani dei bottegai a quelle dei letterati, altrimenti è condannato»: nella nuova versione Ivanov viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo e ha un successo strepitoso. Incoraggiato, scrive subito una nuova commedia, Lo spirito della foresta (1889), che ha per protagonista una curiosa figura di medico amante della natura e deciso a salvare le foreste dall’insensata opera di distruzione. Nuovo fiasco: assoluta indifferenza di pubblico e critica. Dimentica il teatro per intraprendere l’avventuroso viaggio all’isola di Sachalin, luogo di deportazione tristemente famoso (la circostanziata, cruda relazione sulle condizioni di vita dei forzati e delle loro famiglie suscita scandalo); prosegue poi la prolifera attività di narratore.

Nel 1895 scrive un nuovo lavoro, Il gabbiano : «Ho cominciato il dramma forte e l’ho terminato pianissimo. Ne sono più scontento che soddisfatto; dopo averlo riletto, mi rendo sempre più conto che non sono un drammaturgo». Un dramma quasi senza trama che si conclude con il suicidio del protagonista, giovane scrittore depresso e incompreso. Il lavoro viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij per la stagione successiva: nonostante la presenza della grande Vera Komissarzevskaja nella parte di Nina, e di altri celebri attori, nessun successo. Lo scrittore è desolato: «Vivessi ancora settecento anni, non scriverò mai più per il teatro». Due anni dopo l’amico Vladimir Nemirovic-Dancenko, che da pochi mesi ha fondato a Mosca con il giovane regista e attore Konstantin Stanislavskij un nuovo teatro, il Teatro d’Arte, vuol ritentare la messa in scena del Gabbiano e gli chiede l’autorizzazione: gli assicura impegno e serietà degli interpreti, tutti giovani e entusiasti, un numero di prove dieci volte superiore agli altri teatri, massima attenzione ai dettagli dell’allestimento. C. prima rifiuta categoricamente, poi si lascia convincere: ed è un trionfo. Un trionfo dell’autore, ma anche un trionfo del nuovo metodo di messinscena, attento, orchestrato in tutti i movimenti e in tutti i registri. Ogni battuta acquista il giusto peso, ogni scena la tensione e l’intensità pensata dall’autore e mai realizzata. D’ora in poi, Cechov affida tutti i successivi lavori teatrali al Teatro d’Arte, che ne fa messinscene accuratissime, lungamente preparate, con slancio e partecipazione commossa di tutta la compagnia, attori e scenografi, registi (sempre Nemirovic e Stanislavskij insieme) e costumisti, elettricisti e trovarobe. Messinscene esemplari, ancor oggi punto di riferimento ineliminabile.

L’anno successivo è la volta di Zio Vanja, rielaborazione de Lo spirito della foresta (1899): tra le interpreti, Ol’ga Knipper, che si lega sentimentalmente allo scrittore. Si sposano poco dopo la prima rappresentazione del lavoro successivo, scritto in parte sull’onda di questo amore: Tre sorelle (1900). «Ho faticato parecchio a scrivere Tre sorelle. Tre sono infatti le protagoniste e ciascuna deve avere un suo carattere»: dall’estero, dove va per curare la tisi che da anni lo tormenta e che peggiora sempre più, manda preziosi consigli sull’interpretazione delle scene più complesse e delicate. Il grande successo spinge i direttori del Teatro d’Arte a chiedere un nuovo lavoro per la stagione successiva; ma per C. scrivere è ormai uno sforzo enorme, concentrarsi diventa faticosissimo. Il giardino dei ciliegi ha una gestazione lunga: è pronto solo alla fine del 1903 e va in scena il 17 gennaio 1904, alla presenza dell’autore che esce alla ribalta, distrutto dalla tensione e dalla malattia, ad accogliere onori e applausi. C. parte subito per la Germania, nel disperato tentativo di una cura che gli dia sollievo; morirà il 2 luglio. Il suo teatro, nell’arco del nostro secolo, non ha smesso di stimolare lettori, critici, spettatori e registi: si è sempre dimostrato, nonostante l’ineliminabile legame con il tempo, la società e i luoghi in cui fu scritto, di una attualità e una pertinenza sconcertanti. I grandi interpreti del nostro tempo, da Strehler a Visconti, da Ronconi a Peter Stein, da Dodin a Nekrosius si sono misurati con i suoi testi, traendone spettacoli di straordinaria suggestione, rispondendo di volta in volta a nuovi interrogativi, aprendo nuove dimensioni. La ragione va forse cercata in queste parole dello stesso Cechov: «Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere lavori in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo, giocano a wint … Non perché questo sia necessario all’autore, ma perché così avviene nella vita reale».

Lo sfondo di tutti i grandi drammi cechoviani è la provincia russa, dove, tra inaspettati guizzi di follia, di eccentricità, la vita impigrisce e gli uomini instupidiscono, ma dove, pur senza far nulla per reagire, non si smette di chiedersi il perché; e tuttavia qualcuno, sia pur raramente, lotta contro l’appiattimento, l’azzeramento delle velleità, delle volontà di riuscire. Cechov riesce con straordinaria perspicacia a rappresentare l’agonia di un mondo, travolto dall’insipienza e dalla noia, prima che eventi politici ne decretino di lì a pochi anni la cancellazione definitiva. Forse la grandezza e la contemporaneità del teatro cechoviano sta proprio nella acuta, lucida lettura della crisi di una società, i cui sintomi non hanno fatto che accentuarsi nei nostri inquieti anni.