Pirandello, Luigi

Drammaturgo, romanziere e poeta, Luigi Pirandello è uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento.

Drammaturgo, romanziere e poeta, Luigi Pirandello è uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento. Con Henrik Ibsen e August Strindberg ha rivoluzionato il dramma moderno in tutti i suoi aspetti, divenendo uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.

Il teatro di Luigi Pirandello

Sin dai primi scritti, Luigi Pirandello affianca alla propria produzione narrativa l’attività per le scene, che contribuisce a consacrare la sua fama fino al premio Nobel del 1934. La vocazione per la scrittura teatrale è assai precoce in lui: l’atto unico L’epilogo è del 1892 (poi in scena come La morsa) e Il nibbio del 1895, ripresa poi nel 1916 dalla compagnia milanese di Marco Praga, con il nuovo titolo Se non così. Ed è proprio in questi anni che Pirandello si orienta in maniera decisa verso l’attività di drammaturgo.

La fase del teatro siciliano: Liolà, Il berretto a sonagli e La giara

Nel 1916 l’incontro con Nino Martoglio e Angelo Musco sarà determinante per la sua carriera di drammaturgo. All’invito del catanese Nino Martoglio corrisponde, infatti, la riduzione teatrale della novella Lumìe di Sicilia. Cui fanno seguito Pensaci, Giacomino!, Liolà, Il berretto a sonagli e La giara. Queste opere, appartenenti alla fase del “teatro siciliano”, vedono Pirandello lavorare a stretto contatto con l’attore Angelo Musco, e in costante interscambio con novelle e capitoli di romanzo, che spesso costituiscono la base per l’invenzione drammaturgica vera e propria.

La collaborazione con Musco fu molto sofferta, ma fondamentale per far capire a Pirandello cosa volesse dire scrivere per un attore. La lezione gli serve quando comincia a scrivere per capocomici come Virgilio Talli o per attori come Ruggero Ruggeri. A loro si deve la messinscena e l’interpretazione di Così è (se vi pare), al Teatro Olympia di Milano, e di Il piacere dell’onestà, al Teatro Carignano di Torino.

La fase umoristica: La patente, Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti

Nel 1917 Pirandello inaugura con Così è (se vi pare) e Il piacere dell’onestà la fase “umoristica” della propria produzione. Attraverso una scrittura che si richiama al teatro da salotto di Ibsen, Pirandello innesta il suo tema centrale, quello del conflitto vita e forma. All’interno delle trame consuete inserisce delle riflessioni che finiscono per corrodere dall’interno la vicenda drammatica e per far prevalere il ragionamento e la visione paradossale di alcuni personaggi.

All’interno di questi drammi assume un’importanza fondamentale la figura del raisonneur, il personaggio che guarda dall’esterno la vicenda. Si fa portavoce della voce dell’autore, osservando la realtà che lo circonda spesso con una sottigliezza eccessiva, fino a diventare esasperante e a suscitare inquietudini negli altri personaggi.

Tra il 1918 e il 1919, troveranno la via del palcoscenico: La patente, Ma non è una cosa seria, Il giuoco delle parti. Sono opere in cui troviamo una prospettiva fortemente critica nei confronti delle convenzioni borghesi, che poggia su alcuni elementi ricorrenti che l’autore porta al massimo livello espressivo nell’unica opera da lui stesso definita “tragedia”, ovvero l’Enrico IV del 1922.

Una svolta nel teatro di Luigi Pirandello: Sei personaggi in cerca d’autore e il metateatro

L’anno dopo è quello dei Sei personaggi in cerca d’autore, al Teatro Valle di Roma (clamorosa caduta) e al Teatro Manzoni di Milano (clamoroso successo).

Assistiamo alla terza svolta significativa nel teatro pirandelliano, quella del metateatro. Come si vede nella trilogia che ai Sei personaggi in cerca d’autore fa seguire Ciascuno a suo modo nel 1924 e Questa sera si recita a soggetto nel 1930, il conflitto tra forma e vita viene trasposto oltre la “quarta parete” scenica, analizzando la possibilità stessa di una finzione separata dalla vita, nella distanza incolmabile tra ciò che i personaggi sono e ciò che sono chiamati ad essere in scena.

Nel 1922, Ruggeri interpreta Enrico IV, mentre a Londra, in versione inglese, qualche mese prima erano stati recitati i Sei personaggi. È l’inizio della rapida diffusione all’estero del teatro pirandelliano. Nel 1923, Crémieux traduce i Sei personaggi per la celebre messinscena di Pitoëff. Nel medesimo anno, la direzione del Fulton Theater di New York invita Pirandello per una serie di rappresentazioni del suo repertorio e intitola la stagione: Pirandello’s Theater. 

Il teatro dei miti: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna

Dopo la trilogia del teatro nel teatro la radicale innovazione che Luigi Pirandello ha apportato a tutto il linguaggio teatrale del tempo, si chiude nella quarta fase, quella dei “miti”. Qui Pirandello, scegliendo esplicitamente ambientazioni mitico-favolistiche, pare proiettare la propria riflessione in una dimensione “altra”, utopica ed immaginifica. Il motivo profondo dei tre miti pirandelliani è l’evasione: evasione nell’utopia politica (La nuova colonia), nella fede religiosa (Lazzaro), nell’arte (I giganti della montagna). In nessuno dei tre lavori l’evasione ha successo, ma ciò che conta, per il drammaturgo, è il tendersi a una dimensione alternativa, verso quell’oltre a cui guardano tante sue pagine.

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Yourcenar, Marguerite

Marguerite Yourcenar ha lasciato una traccia indelebile non solo nella storia letteratura d’Oltralpe, ma anche nella narrativa mondiale.

Marguerite Yourcenar è stata una scrittrice e poetessa francese. Il suo romanzo più noto, Memorie di Adriano, vide la luce dopo un lungo decennio di difficoltà e di privazioni e la consacrò definitivamente al successo di critica e di pubblico. Tutta la sua produzione letteraria è caratterizzata dai temi ricorrenti dell’esistenzialismo e della morte, con escursioni nella critica e nella saggistica.

Marguerite Yourcenar, l’amore per le lingue classiche e le prime opere

Nata a Bruxelles nel 1903, Marguerite de Crayencour si dimostra fin da bambina una lettrice precoce, interessandosi a soli otto anni alle opere di Jean Racine e Aristofane. A dieci anni impara il latino e a dodici il greco. All’età di diciassette anni, da poco trasferitasi a Nizza, Marguerite pubblica sotto lo pseudonimo di Marguerite Yourcenar, anagramma del suo vero nome, il suo primo libro di poesie.

Nel 1924, in occasione di un viaggio in Italia, visita per la prima volta Villa Adriana. Alloa iniziò la stesura dei primi Taccuini di note di Memorie di Adriano. Il suo primo romanzo, Alexis o il trattato della lotta vana, è del 1929.

Marguerite Yourcenar libri: il successo di Memorie di Adriano

Seguono anni di viaggi in Europa e negli Stati Uniti, paese in cui si trasferisce nel 1939. Negli Stati Uniti insegna letteratura francese e storia dell’arte. Inizia così un decennio di privazioni, che ella stessa definirà più tardi come il più difficile della sua vita. Questo periodo si conclude con la pubblicazione delle Memorie di Adriano, sicuramente il suo capolavoro.

Nel 1974 pubblica il primo volume della storia della sua famiglia, Care memorie, di cui Archivi del Nord costituisce il seguito cronologico. Nel 1981 viene eletta, prima e unica donna, tra gli «Immortali» dell’«Académie Française»..

I testi per il teatro

Nota soprattutto per la sua attività di romanziera, Marguerite Yourcenar ha tuttavia realizzato una breve serie di opere teatrali. Le dialogue dans le marecage (1930), Feux (1936), Electre ou la chute des maques (1943), La petite sirène (1943), Le mystère d’Alceste (1963, prima versione nel 1943), Rendre à César (adattamento del romanzo Denier du rêve ), Qui n’as pas son Minotaure? (1963, prima versione nel 1960). Chiamata a definire la propria attività drammaturgica e a motivare la scelta frequente di affidare i propri lavori a compagnie minori, o addirittura di dilettanti, Yourcenar ha affermato di considerare il teatro un’attività solo quantitativamente secondaria rispetto alla scrittura in prosa. Il teatro rappresenta in forma esplicita e diretta il gusto per le voci, per la sonorità del narrato che ha accompagnato tutta la sua attività di scrittrice e non ha importanza che a dare vita a questi testi siano voci note di attori affermati.

Il teatro della Yourcenar va inteso, nelle parole dell’autrice, come la realizzazione sulla scena di un labirinto di monologhi o di dialoghi “allo stato puro”. Lo stesso stile netto ed essenziale dei romanzi è dunque riprodotto dai suoi testi teatrali. Anche i temi essenziali dei romanzi vengono riproposti nei testi teatrali, quando non ne sono una trasposizione diretta. La cultura classica osservata dall’interno attraverso il filtro del vissuto dei personaggi, la ricerca ferma della verità, la morale stoica, intrisa di venature protestanti.

Sola variante, La petite sirène operina da camera scritta all’inizio dell’esilio volontario negli Stati Uniti. Come ha avuto modo di dichiarare l’autrice stessa, La petite sirène ha costituito un vero e proprio spartiacque tra la vita condotta prima del 1940, incentrata soprattutto sull’umano, e quella successiva al 1940, in cui l’essere umano si muove sullo sfondo del tutto.

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Xirgu, Margarita

Margarita Xirgu si affermò tra le migliori attrici comiche, ma fu anche insuperabile tragica della scena catalana.

Margarita Xirgu è stata un’attrice teatrale spagnola naturalizzata uruguaiana. Dotata di straordinaria versatilità, di sensibilità acutissima e di grande spontaneità di espressione, si affermò ben presto tra le migliori attrici comiche, ma fu anche insuperabile tragica della scena catalana.

Margarita Xirgu, una vita per il teatro

Formata una propria compagnia, Margarita Xirgu recitò dapprima al Teatro Principal di Barcellona, dove interpretò Mariana Pineda di García Lorca con scenografia di Salvador Dalí (1927). Da quel momento iniziò una stretta collaborazione sia col poeta granadino, di cui mise in scena tutte le opere più importanti, sia con altri giovani autori anticonformisti.

Il sodalizio con Federico García Lorca

Grazie al suo sodalizio con Federico García Lorca, Margarita Xirgu interpretò numerosi dei suoi lavori teatrali. Il suo repertorio vastissimo e una cultura di largo respiro le consentirono interpretazioni di una vasta gamma di personaggi.

Durante la guerra civile si trasferì in America Latina, continuando a recitare opere di García Lorca. Definitivamente esiliata dal 1939, visse in Argentina, Cile e Uruguay. A Buenos Aires interpretò Lo spauracchio di R. Alberti (1944) e La casa di Bernarda Alba di Lorca (1945).

A Montevideo diresse il Teatro Nazionale, promuovendo un ampio repertorio di autori classici e moderni. Fondò la Scuola municipale d’arte drammatica che formò intere generazioni di attori.

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Orson Welles

Considerato uno degli artisti più versatili e geniali del Novecento, Orson Welles ha da sempre tentato di stupire il suo pubblico.

Orson Welles è stato un attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense. Considerato uno degli artisti più versatili e geniali del Novecento, ha da sempre tentato di stupire il suo pubblico. Che si trattasse di gettare il panico leggendo via radio La guerra dei mondi di H. G. Wells o di realizzare a soli 25 anni uno dei più grandi film della storia della settima arte, Quarto potere.

Orson Welles in teatro e in radio

Genio eccessivo e precoce, Orson George Welles esordisce in teatro all’età di sedici anni, interpretando la parte del duca di Wurtemburg in Süss l’ebreo, al Gate Theatre di Dublino. Inizia da qui il suo viaggio verso notorietà. Dopo le prime difficoltà incontrate per riuscire a lavorare sulle scene di Londra e Broadway e dopo una serie di viaggi in giro per il mondo, Welles riesce ad entrare nella compagnia di Katherine Cornell. Debutta così a 19 anni a Broadway in un Romeo e Giulietta nel ruolo di Tibaldo.

La sua versione radiofonica di La guerra dei mondi di H.G. Wells nel 1938 crea involontariamente un’ondata di panico nazionale. Il fatto denuncia, agli occhi dei più attenti osservatori della società di massa, le potenzialità manipolatorie dei media sulle reazioni emotive e sui comportamenti collettivi.

Prima di investire nel cinema le sue eccezionali risorse, firma due controversi spettacoli, che fecero scalpore e lo resero famoso poco più che ventenne: un Macbeth `voodoo’ interpretato da attori neri per il Negro People’s Theatre di New York nel 1936. E, l’anno dopo, un Giulio Cesare trapiantato nell’Italia fascista per il Mercury Theatre, da lui fondato con John Houseman.

Orson Welles a Hollywood: Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson

Ormai famoso, Welles viene scritturato dalla compagnia cinematografica RKO, con la quale stipula un contratto a dir poco incredibile per un regista esordiente come lui. Welles potrà produrre, dirigere, scrivere e interpretare due film per 225.000 dollari oltre ad una percentuale dei profitti e, soprattutto, in totale libertà.

Orson Welles inizia la produzione di Quarto Potere, considerato uno dei film più belli della storia del cinema, la cui regia innovativa ha influenzato intere generazioni di registi.

Quarto potere di Orson Welles
Quarto potere di Orson Welles

Da allora la sua carriera fu una lotta incessante tra un talento artistico smisurato e le logiche asfissianti dell’industria cinematografica. Nel 194 esce L’orgoglio degli Amberson, disconosciuto dall’autore stesso perché la produzione tagliò quarantatré minuti di pellicola montandone una nuova versione senza la supervisione del regista che, con risentimento, abbandonò Hollywood per andare in Europa.

Il Macbeth e l’addio a Hollywood

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Welles ritorna alla regia con Lo Straniero, prodotto dal produttore indipendente Sam Spiegel e con La Signora di Shangai in cui spicca la splendida interpretazione di Rita Hayworth (all’epoca ancora sua moglie).

Nel 1948 esce Macbeth il primo film della trilogia dedicata a Shakespeare seguito dall’ Otello del 1952 e dal Falstaff del 1966. Ma il Macbeth si rivela l’ennesimo insuccesso commerciale e allontana quasi definitivamente Welles da Hollywood.

Otello di Orson Welles
Otello di Orson Welles

I riconoscimenti arrivano invece dal Vecchio Continente: l’Otello, film girato in tre anni, abbandonato e ripreso più volte per una serie di incredibili disavventure, tra produttori falliti e sequestri dei negativi, vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Nel 1958 è la volta di un altro capolavoro, L’Infernale Quinlan, rimontato contro i voleri del regista. Nel 1963 Welles gira Il Processo tratto dal romanzo di Kafka.

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Ubaldi, Marzia

Dopo aver mosso i primi passi al Piccolo Teatro di Milano, Marzia Ubaldi ha avuto una brillante carriera da doppiatrice e attrice.

Marzia Ubaldi è un’attrice, cantante e doppiatrice italiana. Dopo aver mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo al Piccolo Teatro di Milano, ha avuto una brillante carriera da doppiatrice, attrice teatrale e televisiva. Numerosissime le sue interpretazioni teatrali, fra le quali vanno ricordate Il gabbiano, Le tre sorelle, La donna serpente.

Marzia Ubaldi al Piccolo Teatro di Milano

Dopo essersi diplomata dalla Scuola del Piccolo di Milano, Marzia Ubaldi debutta nella compagnia dello Stabile nel 1960 con La congiura di Giorgio Prosperi diretta da Luigi Squarzina, che poi la scrittura allo Stabile di Genova. Inizia così una brillante carriera di attrice teatrale, televisiva, cinematografica e di doppiatrice.

A Spoleto recita in I carabinieri di Joppolo nell’unica regia teatrale di Roberto Rossellini. Dopo una pausa decennale, torna al palcoscenico con Lupi e pecore di Ostrovskij, regia di Sciaccaluga e con L’orologio americano di Arthur Miller. Con Alberto Lionello interpreta la seconda edizione del musical Ciao Rudy. Si dedica quindi a una intensa attività di doppiatrice, mentre a teatro fa compagnia con il marito Gastone Moschin (Delitto all’isola delle capre di Ugo Betti). Fra gli ultimi spettacoli L’impresario delle Smirne di Goldoni con la regia di Missiroli.

La carriera da doppiatrice e in televisione

Negli anni Sessanta ha avuto anche una breve carriera come cantante, incidendo tra l’altro per la Karim; la Ubaldi incise la prima versione di La ballata dell’amore cieco, scritta per lei da Fabrizio De André.

Oltre ad aver dato voce come doppiatrice a molte famose attrici straniere, come Judi Dench, Maggie Smith, Anne Bancroft, Gena Rowlands, Vanessa Redgrave, Jeanne Moreau, ha anche interpretato diverse pellicole cinematografiche, come Il medico delle donne (1962), o Controsesso (1964), di Marco Ferreri.

In televisione ha partecipato a numerosi sceneggiati televisivi e fiction come Giallo sera, Nero Wolfe, La coscienza di Zeno, Incantesimo, Elisa di Rivombrosa, o le sitcom Professione fantasma e 7 vite.

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Milva

Gemelle Kessler

Marisa Minelli

Totò

Con la sua recitazione esilarante e la sua comicità a tratti surreale,Totò fu tra gli attori più amati del 900.

Totò, pseudonimo di Antonio De Curtis, è stato un attore, commediografo e sceneggiatore italiano. Tra i più famosi e amati attori italiani del Novecento, con la sua recitazione esilarante e la sua comicità a tratti surreale, ha rappresentato l’incontro tra la grande tradizione della commedia dell’arte, la spontaneità dell’avanspettacolo e l’anima malinconica della città di Napoli.

Totò, lo “scugnizzo” del rione Sanità

Totò, il cui vero nome era Antonio De Curtis, nacque a Napoli nel 1898. Fu cresciuto dalla madre in povertà nel popolare rione Sanità e concluse a fatica gli studi liceali. Si appassionò, invece, agli spettacoli di strada e al teatro dialettale napoletano, e ben presto, grazie al suo innato talento comico, si cimentò in esilaranti imitazioni attingendo al repertorio di artisti già affermati.

Dal 1917 lo troviamo a Roma, al teatro Jovinelli con un repertorio di imitazioni. Già da allora si esibisce in quel personaggio di marionetta disarticolata che diventerà un suo vero e proprio marchio. Tra il 1920 e il 1925 frequenta il palcoscenico dei principali caffè-concerto italiani, sempre con un repertorio di macchiette e parodie. Sembra fosse alla Sala Umberto la prima apparizione di Totò in quella che doveva diventare con gli anni la sua divisa. Bombetta malandata, redingote frusta e nera, pantaloni a righe, ma corti sulle caviglie, a scoprire certe inverosimili calze colorate. Totò aveva inventato delle macchiette che erano a metà tra il comico di avanspettacolo e il clown. Dal repertorio più tradizionale dei clown aveva ricavato infatti quella sua marionetta che pian piano si insinuò, trasformandosi, in molte sue apparizioni.

Dal teatro popolare al cinema d’autore

Nel 1926, accanto a Isa Bluette, è per la prima volta in rivista e lavora con Mario Castellani, che sarà la sua spalla di sempre. La sua popolarità è in ascesa, nel 1931 e nel 1932 partecipa a spettacoli di varietà e, finalmente, nel 1933, diventa capocomico e agisce con la sua formazione nell’avanspettacolo.

Il pubblico di Totò è un pubblico popolare che il comico porta all’entusiasmo e al delirio con doppi sensi, lazzi, trascinanti marce sulla scena, con la golosa ferocia infine della sua volgarità. Il pubblico popolare arriva di slancio a capire la genialità di Totò; per il pubblico borghese, invece, non solo ci vuole più tempo, ma serviranno anche illustri mediazioni. I primi ad accorgersi del potenziale di Totò (per poi sfruttarlo in cinema) furono Carlo Ludovico BragagliaCesare Zavattini.

Film Totò: il successo cinematografico con Totò, Peppino… e la malafemmina

Il successo cinematografico arrivò con I due orfanelli (1947) di Mario Mattoli, dieci anni dopo l’esordio in Fermo con le mani! di Gero Zambuto. Presto Totò dimostrò di saper far esplodere la comicità del suo personaggio, sia in film più leggeri – 47 morto che parla (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia, Totò a colori (1952) di Steno e Mario Monicelli, Siamo uomini o caporali? (1955), Totò, Peppino… e la malafemmina (1956) e Tototruffa ’62(1961) di Camillo Mastrocinque; sia in opere più complesse, come Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli, I soliti ignoti (1958) di Monicelli, sino al poetico Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini.

Totò e Peppino in La Banda degli onesti
Totò e Peppino in La Banda degli onesti

L’avanspettacolo e il teatro di rivista

Ma il suo mondo più vero era il teatro. Lui stesso dichiarava che il pubblico, la sua presenza, gli dava una carica e voleva la sala abbastanza illuminata per vederlo, rispondergli, recitare per lui. Quando tornò a teatro, alla fine del 1940, l’avanspettacolo era già tramontato, sostituito dalla “rivista“. In un’Italia appena entrata in guerra e sotto la ferrea censura del fascismo, Totò debuttò al teatro Quattro Fontane di Roma insieme a Mario Castellani e una mirabile scatenata Anna Magnani in Quando meno te l’aspetti di Michele Galdieri. Totò strinse con Galdieri un sodalizio da cui presero vita Quando meno te l’aspetti, Volumineide, Orlando Curioso, Con un palmo di naso e Che ti sei messo in testa.

Proprio quest’ultima rivista creò problemi al comico napoletano, che dopo le prime rappresentazioni al teatro Valle di Roma, venne dapprima intimorito con una bomba all’entrata dal teatro, poi denunciato dalla polizia, insieme ai fratelli De Filippo. Si segregò in casa fino al 4 giugno, il giorno della liberazione della capitale.

Gli spettacoli del dopoguerra

Il 26 giugno riprese a recitare: tornò al teatro Valle con la Magnani nella nuova rivista Con un palmo di naso, in cui diede libero sfogo alla sua satira impersonando il Duce (sotto i panni di Pinocchio), e Hitler, che dissacrò ulteriormente dopo l’attentato del 20 luglio 1944, rappresentandolo in un atteggiamento ridicolo, con un braccio ingessato e i baffetti che gli facevano il solletico, e mandando l’intera platea in estasi.

Alla stagione 1947-48 risale C’era una volta il mondo: Totò al suo massimo, lo sketch del manichino, la carica dei bersaglieri, lo sketch inimitabile del vagone letto che dagli otto minuti di durata iniziale si dilatò, per la felicità del pubblico, fino a tre quarti d’ora. Nel 1949 Bada che ti mangio alternava a fastosi quadri coreografici lunghe scenette o monologhi di uno straordinario Totò, che stava per lasciare la rivista a favore del cinema. Più di trenta film in sei anni e, infine, un ritorno in palcoscenico, questo davvero l’ultimo, con la straordinaria rivista A prescindere nella quale il grande Totò recuperava il suo passato e rievocava i suoi migliori sketch e personaggi. 

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Alberto Sordi

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Vittorio Gassman

Sordi, Alberto

Alberto Sordi fu un perfetto esempio della commedia all’italiana e rappresentante di spicco della romanità.

Alberto Sordi fu uno dei più grandi interpreti della storia del cinema italiano, perfetto esempio della commedia all’italiana e rappresentante di spicco della romanità. Attore estremamente versatile, ha partecipato a circa 160 pellicole. Tra i film più rappresentativi della sua carriera cinematografica ricordiamo Un americano a Roma, I vitelloni, Il marchese del Grillo, La grande guerra, Lo sceicco bianco, Un borghese piccolo piccolo, Il vedovo, Il vigile, Il medico della mutua.

Alberto Sordi biografia: dalla gavetta all’incontro con Fellini

Alberto Sordi nasce il 15 giugno 1920 a Roma. Ultimo figlio di un professore di musica e di una maestra delle scuole elementari, coltiva la sua passione per la recitazione fin dalla tenera età e canta come soprano nel coro di voci bianche della Cappella Sistina. Nel 1936, Sordi incide un disco di fiabe per bambini per la casa discografica Fonit. Il ricavato di questa esperienza lavorativa gli consente di partire per Milano, dove si iscrive all’Accademia dei filodrammatici, da cui fu espulso a causa del suo accento romanesco.
Torna quindi a Roma l’anno successivo, lavorando come comparsa a Cinecittà. Straordinario attore di cinema, emblema dell’italiano medio e mediocre, ricettacolo di vizi e virtù del borghese piccolo piccolo, Alberto Sordi debutta nell’avanspettacolo e varietà, dove incrociò il suo destino con quello di Federico Fellini che lo scelse per i suoi primi film.

Film di Alberto Sordi: il successo degli anni Cinquanta

Dopo Lo sceicco bianco (1952) di Fellini, Alberto Sordi recita in I vitelloni (1953), Un giorno in pretura (1953), Un americano a Roma (1954) e Piccola posta (1955). In questi film assume il ruolo del ragazzo approfittatore, vigliacco, indolente e scansafatiche. E arriva così il grande successo, rendendo il volto di Sordi uno dei più conosciuti dagli spettatori italiani.

Con l’avvento della commedia all’italiana dà vita a una serie di personaggi che, secondo la critica, sono assimilabili all’italiano medio. Queste figure sono tendenzialmente prepotenti coi deboli e servili coi potenti. Da ricordare anche il suo ruolo in Bravissimo (1955) di Luigi Filippo D’Amico, in Venezia, la luna e tu (1958) di Dino Risi e in Il vedovo (1959) sempre di Dino Risi.

I ruoli drammatici e l’approdo alla regia

Negli anni Sessanta si verifica una svolta: Alberto Sordi si cala in ruoli drammatici, oltre che comici. Vanno ricordate le sue interpretazioni in La grande guerra (1959), Tutti a casa (1960), Una vita difficile (1961), Il boom(1963), Il medico della mutua (1968). Nel 1972 si aggiudica l’Orso d’argento al Festival di Berlino per il suo ruolo in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy.

Alberto Sordi e Monica Vitti in Aiutami amore mio
Alberto Sordi e Monica Vitti in Aiutami amore mio

Nel 1966 Alberto Sordi esordisce come regista con Fumo di Londra e Scusi, lei è favorevole o contrario?. Dirige poi altre sedici pellicole, delle quali in tre è anche co-protagonista insieme a Monica Vitti: Amore mio aiutami (1969), Polvere di stelle (1973) e Io so che tu sai che io so (1982).  Memorabili pure Un italiano in America (1967) e Finché c’è guerra c’è speranza (1974).

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Luigi Proietti

Vittorio Gassman

Quattrini, Paola

Da énfant prodige a regina delle commedie brillanti, la carriera di Paola Quattrini è costellata di successi.

Da énfant prodige a regina delle commedie brillanti, la carriera di Paola Quattrini è costellata di successi. Ha in particolare recitato nelle commedie della ditta “Garinei e Giovannini”, oltre a un repertorio che include pièce di Sartre, Pasolini e Tennessee Williams.

Paola Quattrini biografia: gli esordi tra grande e piccolo schermo

Paola Quattrini debutta nel mondo dello spettacolo a soli quattro anni nel film Il bacio di una morta di Guido Brignone. Pochi anni dopo affianca Corrado nella trasmissione radiofonica “Cavallo a dondolo” e a dieci anni è a teatro con la trasposizione di Il potere e la gloria di Graham Greene, per la regia di Luigi Squarzina.

A quindici anni frequenta le cantine romane interpretando Tanti fiammiferi spenti di Luciani, che le vale l’appellativo di `ninfetta del teatro di prosa’ dell’epoca.

La regina delle commedie brillanti

Nel 1968 è Jessica in Le mani sporche di Sartre allo Stabile di Torino, recita Pirandello in Diana e la Tuda, ma nelle sue corde c’è soprattutto il repertorio brillante, con titoli come Il gufo e la gattina al fianco di Walter Chiari, Due sull’altalena con Corrado Pani, La papessa Giovanna (1973) di Josè Quaglio con Andrea Giordana, Non è per scherzo che ti ho amato di Fabbri (1977) con Carlo Giuffrè. Lavora quindi con Ernesto Calindri, Stefano Satta Flores, e quasi tutti i grandi del teatro d’intrattenimento.

Con Stefano Santospago è protagonista di A piedi nudi nel parco (1982). Negli anni ’70 la troviamo in molte commedie prodotte dalla Rai direttamente per il piccolo schermo. Nel 1987 è con Dorelli nel musical Se devi dire una bugia dilla grossa. Poi, nel 1988 con Bramieri nel delizioso Una zingara mi ha detto. Nel 1993 torna a un testo impegnativo interpretando Affabulazione di Pasolini con la regia di Ronconi.

Paola Quattrini nelle vesti di doppiatrice e conduttrice

Al cinema è stata diretta da Vittorio Gassman in Di padre in figlio (1982) e con lo stesso Gassman recita in uno dei suoi ultimi film: La bomba (1999). Nel 1993 vince il Nastro d’Argento alla migliore attrice non protagonista per l’interpretazione di Lea in Fratelli e sorelle di Pupi Avati.

Anche doppiatrice, ha dato la voce, tra le altre a Halle Berry e Milla Jovovich. In tv partecipa a sceneggiati di successo e conduce con Johnny Dorelli il varietà “Finalmente venerdì” nel 1989.

Nel 2003 il presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi le conferisce l’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana, per una vita dedicata al cinema, alla televisione e al teatro.

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Milva

Gemelle Kessler

Marisa Minelli

Neruda, Pablo

Poeta dell’amore per eccellenza, ma anche uomo politico e militante, Pablo Neruda è stato tra le più importanti figure della letteratura latino-americana del Novecento.

Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, è stato un poeta, tra le più importanti figure della letteratura latino-americana del Novecento. Poeta dell’amore per eccellenza, ma anche uomo politico e militante, nel 1971 vince il Premio Nobel per la Letteratura. Tra le sue opere più importanti vi sono Residenza sulla terra, I versi del Capitano, Cento sonetti d’amore, Canto generale, Odi elementari, Stravagario, Le uve e il vento, il dramma Splendore e morte di Joaquin Murieta e il libro di memorie Confesso che ho vissuto.

Pablo Neruda poesie: i primi anni e gli esordi letterari

Nato nella cittadina di Parral nel 1904, Pablo Neruda già da adolescente scoprì il suo amore per la scrittura senza però essere incoraggiato a continuare.

Il suo primo poema La canzone della festa viene pubblicato quando aveva 17 anni. Nel 1920 il giovane non decise di adottare lo pseudonimo di Pablo Neruda in onore del poeta ceco Jan Neruda. Un anno dopo si trasferì a Santiago, dove sperava di cambiare vita diventando un insegnante.

La sua passione per la poesia, però, lo spinse a desistere e a pubblicare le sue prime raccolte in versiCrepuscolario, seguito a distanza di un anno da Venti poesie d’amore e una canzone disperata. Una raccolta di poesie d’amore di stile modernista ed erotico, motivo che spinse alcuni editori a rifiutarlo. Successivamente si dedicò alla carriera diplomatica. Come console del Cile vive per alcuni anni in Oriente, esperienza che lo ispira a scrivere Residenza nella terra.

La guerra di Spagna e la poesia politica

Allo scoppio della Guerra civile spagnola, anziché mantenersi neutrale, come diplomatico, si schierò con la Repubblica contro i franchisti e per questo venne destituito. La partecipazione alla Guerra civile spagnola segnò il passaggio alla poesia sociale e politica con la raccolta La Spagna nel cuore.

Nel 1945 viene eletto senatore in Cile nella lista del Partito comunista, ma tutto cambia quando il candidato ufficiale del Partito Radicale per le elezioni presidenziali, Gabriel González Videla intraprende una dura repressione contro i minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío, a Lota, nell’ottobre 1947. La disapprovazione di Neruda culmina in un discorso davanti al Senato cileno, chiamato in seguito Yo acuso, dove legge l’elenco dei minatori tenuti prigionieri.

Videla emana un ordine d’arresto contro Neruda, costringendo il poeta ad una fuga di 13 mesi. Dovette lasciare il Paese e, durante il lungo esilio, fu anche in Italia, dove scrisse I versi del capitano e Le uve e il vento.

Nel 1971 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura; poi già sofferente per una grave malattia, ritornò a Santiago, dove morì il 23 settembre 1973. Dopo la sua morte uscirono le sue memorie, Confesso che ho vissuto.

Pablo Neruda drammaturgo: Splendore e morte di Joaquin Murieta

Il teatro non è stato sicuramente al centro delle attenzioni di Pablo Neruda. Di fatto il suo contributo si riduce ad una sola opera, Splendore e morte di Joaquím Murieta bandito cileno giustiziato in California il 23 luglio 1953. Scritta da Neruda nel 1966, fu allestita a Santiago, presso l’Istituto del Teatro dell’Università del Cile, nel corso dell’anno successivo, con la regia di Pedro Orthous e le musiche di Sergio Ortega. La pièce è incentrata sulla figura del diseredato contadino sudamericano, che ottiene la gloria con il suo martirio, diventando il simbolo di tutti i popoli che lottano per la libertà. Il primo allestimento italiano si è tenuto al Piccolo Teatro di Milano, a cura di Patrice Chéreau, nel corso della stagione 1969-70.

Nel 1972, con adattamento e regia di Adriano Musci, è stato rappresentato Pelleas e Melisande, recital di ballate, canzoni e poesie di Pablo Neruda.  Nel 1964 Neruda ha effettuato la traduzione di Romeo e Giulietta che, nel corso dello stesso anno, è stata messa in scena a Santiago.

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Milva

Milva è una delle poche cantanti italiane ad aver lavorato sia nel mondo della musica leggera che nell’impegnato teatro di Brecht e Strehler.

Milva, pseudonimo di Ilvia Maria Biolcati, è stata una cantante e attrice teatrale, protagonista della musica italiana negli anni Sessanta e Settanta. I suoi 50 anni di carriera l’hanno portata su alcuni dei palchi più prestigiosi del mondo, dalla Scala al Piccolo Teatro di Milano dallo Châtelet all’Opéra di Parigi, fino alla Carnegie Hall a New York. Ad oggi detiene il record di artista italiana con il maggior numero di album realizzati in assoluto, ben 173, ed è una delle poche cantanti italiane ad aver lavorato sia nel mondo della musica leggera che nell’impegnato teatro di Brecht e Strehler.

Milva canzoni: da Sanremo al Piccolo teatro

Milva, inizia giovanissima a cantare nelle balere del basso ferrarese con il nome d’arte Sabrina, e lì viene notata per la sua grinta e la sua straordinaria voce. Dopo aver trionfato in un concorso di voci nuove della Rai nel 1959, arrivando prima su ben 7600 partecipanti con le canzoni Acque amare di Carla Boni e Dicembre m’ha portato una canzone di Nilla Pizzi, comincia ad incidere per la Cetra, la casa discografica di Stato, partecipando al Festival di Sanremo 1961, nel quale arriva terza con Il mare nel cassetto. Alla competizione sanremese parteciperà poi, nel corso della sua lunga carriera, undici volte.

Nel 1962 interpreta il suo primo filmLa bellezza d’Ippolita con Gina Lollobrigida. Ma è la carriera di cantante che procede a gonfie vele, incidendo prima in Germania nel ’62 il disco Liebelei e poi in Italia nel ’63 Canzoni da cortile, seguito l’anno dopo da Canzoni da tabarin. Grazie anche alla vicinanza di Maurizio Corgnati, che sposa nel ’61, alterna all’attività nel mondo della canzone commerciale, anche l’impegno in un repertorio di canzoni della tradizione popolare italiana, che nel ’64 culmina nello spettacolo Canti della libertà, che l’anno dopo presenta sempre con Arnoldo Foà al Lirico di Milano, invitata da Paolo Grassi. È lì che la nota Giorgio Strehler.

Il sodalizio Milva – Strehler

Il regista dirigerà Milva in due recital, Poesie e canzoni di Bertolt Brecht e Ma cos’è questa crisi. Ancora Strehler nel ’68 le cucirà addosso il recital Io, Bertolt Brecht, che le darà un successo europeo. Nello stesso anno ha il suo vero e proprio debutto teatrale come attrice, nel Ruzante diretto da Gianfranco De Bosio.

L’anno successivo segue Strehler transfuga dal Piccolo Teatro di Milano, e nel Teatro Azione da lui diretto è tra le interpreti di La cantata del mostro lusitano di Peter Weiss; ma ancora nel ’69 partecipa al festival di Sanremo e alla commedia musicale Angeli in bandiera di Garinei e Giovannini, a dimostrazione della versatilità del suo talento e della sua voce. Nel ’70 si esibisce per la prima volta alla Carnegie Hall di New York.

L’addio alla musica leggera

Il ’73 può essere considerato un anno di svolta: ancora Strehler la sceglie per il ruolo di Jenny delle Spelonche in L’opera da tre soldi. Da questo anno abbandonerà sempre di più il mondo della musica leggera per specializzarsi in un repertorio di grandi autori: nel ’75 canta Io, Bertolt Brecht n.2, nel ’78 è alla Piccola Scala in Diario dell’assassinata di Gino Negri e al Regio di Torino in Orfeo all’inferno di Offenbach, nel ’79 interpreta Io, B.B., n.3 e nell’82 è alla Scala per La vera storia di Luciano Berio. Nell’84 alla Bouffes du Nord, il teatro di Peter Brook, è insieme ad Astor Piazzolla in El tango.

In teatro torna nell’86 a Parigi con Giorgio Strehler per l’edizione francese dell’Opera da tre soldi con uno straordinario successo personale, cui seguirà un’esperienza non così felice con la Lulu di Wedekind diretta da Giancarlo Sepe. Tra le sue interpretazioni più recenti, La storia di Zazà nel ’93 diretta ancora da Sepe, e nel ’95 Tosca, ovvero prima dell’alba di T. Rattigan, spettacolo interrotto tragicamente per la morte del deuteragonista Luigi Pistilli.

Nel ’95 è anche la volta di un nuovo recital di canzoni brechtianeNon sempre splende la luna, che porta in giro per il mondo, per tre anni. Tra le altre attività recenti, la partecipazione al film Celluloide di Lizzani (1995) e al documentario di Werner Herzog sulla vita di Carlo Gesualdo da Venosa. Nel ’97 con la regia di Filippo Crivelli mette in scena una nuova versione del recital El tango de Piazzolla.

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Virna Lisi

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Lisi, Virna

La vita e la carriera di Virna Lisi, l’attrice italiana che rifiutò Hollywood per tornare in Italia.

Virna Lisi, nome d’arte di Virna Pieralisi, è stata un’attrice italiana. Nella sua carriera ha collezionato sei Nastri d’argento, quattro David di Donatello, il premio come migliore interpretazione femminile a Cannes e il titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Una carriera costellata di successi che l’hanno condotta fino al tempio del cinema, a Hollywood, per poi prendere la decisione di tornare in Italia.

Virna Lisi biografia: i precoci passi nel mondo del cinema e della pubblicità

Virna Lisi trascorre l’infanzia a Jesi, in provincia di Ancona, fino a quando il padre commerciante non decide di trasferirsi con tutta la famiglia a Roma. A 17 anni inizia la sua carriera nel cinema grazie a un famoso amico di famiglia che la nota per il portamento e la bellezza. Recita in diversi film commerciali per poi lavorare prima coprotagonista con Marisa Allasio e poi con Alberto Sordi.

Ma è con la pubblicità che raggiunge la popolarità nazionale, nel 1957, a 21 anni, dove in Carosello presenta un dentifricio il cui slogan è ancora conosciuto, e ai tempi un vero tormentone nazionale: “con quella bocca può dire ciò che vuole”.

Virna Lisi, un’antidiva a Hollywood

È il 1957 e l’attrice sempre più apprezzata, recita in diversi sceneggiati per la Rai: Orgoglio e PregiuzioOttocento e in alcuni film in costume molto in voga ai tempi dove si fa notare per il portamento elegante. Viene notata anche da Giorgio Strehler che la vuole al Piccolo di Milano nei Giacobini. Lavora a teatro anche per Michelangelo Antonioni.

Nonostante sia sempre stata un’antidiva, riservata e schiva, la sua immagine diventa sempre più conosciuta. Lisi è un’attrice che buca lo schermo come poche, ma è anche professionale e di talento. Nel 1964 è al fianco di Alain Delon nel Tulipano nero di Christian Jaque.

Viene quindi chiamata ad Hollywood dove lavora per diversi anni. Recita in Come uccidere vostra moglie, U 112 – assalto al Queen Mary, Due assi nella manica. Ma la attrice non ama il cliché che lo star system americano vuole darle e sceglie di rinunciare a ruoli importanti.

Il ritorno in Italia

Lisi torna quindi in Europa dove riprende a lavorare in importanti produzioni italiane e straniere. Nel 1989 vince il Nastro d’Argento con il film di Luigi Comencini Buon Natale, Buon anno; successo che ripete nel ruolo di Caterina De’ Medici nella Regina Margot di Patrice Chèreau, che le regala la Palma d’Oro a Cannes. Nel 1996 recita nel film Va dove ti porta il cuore, mentre nel 2002 è diretta da Cristina Comencini in Il più bel giorno della mia vita. Nel 2009 ha ricevuto il David di Donatello alla carriera.

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Milva

Gemelle Kessler

Marisa Minelli

Ibsen, Henrik

Henrik Ibsen fu l’inventore del teatro del salotto borghese e padre della drammaturgia moderna.

Henrik Ibsen è stato un drammaturgo, poeta e regista teatrale norvegese, considerato il padre della drammaturgia moderna. L’opera di Ibsen segnò la fine del teatro romantico e l’affermazione del dramma borghese, esercitando una profondissima influenza sulla produzione dei più importanti autori del Novecento. Tra i suoi testi più noti Brand, Peer Gynt, Un nemico del popolo, Cesare e Galileo, Casa di bambola, Hedda Gabler, Spettri, L’anitra selvatica e La casa dei Rosmer.

Henrik Ibsen biografia: le prime fasi della carriera

Henrik Ibsen fu l’inventore del teatro del salotto borghese. L’approdo al dramma borghese, però avviene solo dopo una prima fase in cui Ibsen ha modo di esercitare la funzione di drammaturgo per i teatri di Cristiana. Questo periodo gli consente di approfondire la drammaturgia contemporanea francese, impadronendosi dei meccanismi di scrittura e svelandone i limiti.

Alcuni viaggi nell’Europa del sud concorrono a sviluppare in lui una grandissima conoscenza delle tematiche e delle tecniche di scrittura teatrale dell’epoca. Così, nella sua prima serie di testi, che vanno da drammi storici a poemi drammatici, coniuga la novità della sua ispirazione con le conoscenze pregresse.

Gli anni di Bergen

L’attività di drammaturgo inizia nel 1848 con il dramma, Catilina, che traeva ispirazione da Schiller. Nel 1851 è scritturato dal teatro di Bergen, con la qualifica di direttore artistico. Qui avverrà la sua vera maturazione di autore drammatico. Vengono rappresentati La notte di San Giovanni, Il tumulo del guerriero, Donna Inger di Olstraat, Olaf Liljekrans, Il festino a Solhaug, tutti ispirati alle tradizioni popolari norvegesi. Tra il 1858 e il 1864 scrive I guerrieri a Helgoland, La commedia dell’amore, I pretendenti al trono.

Questa prima fase della sua produzione, tuttavia, lo delude al momento della rappresentazione in scena. Numerosi gli insuccessi che fanno maturare in lui la convinzione che occorre cambiare approccio.

L’inizio della drammaturgia moderna

Dopo l’insuccesso dei poemi drammatici, lo stesso Henrik Ibsen dichiara in una lettera che si dedicherà al “teatro fotografia”.  Si tratta di un teatro che restituisca sulla scena una rappresentazione veritiera della realtà, fino alla crudezza delle relazioni interpersonali dei suoi contemporanei, con particolare riguardo ai rapporti familiari. È l’inizio del dramma borghese. Quello che gli interessa è una drammaturgia di ambientazione contemporanea in cui l’attenzione sia rivolta al personaggio, allo scandaglio della sua psicologia e al suo rapporto con le convenzioni sociali.

La prima conseguenza è che nei suoi drammi l’azione diventa secondaria. Quello che importa è la reazione all’azione. La resa dei conti di personaggi che hanno sbagliato, magari nel passato, sacrificando le loro aspirazioni in nome delle buone convenienze, di scelte economicamente o personalmente vantaggiose. Di qui una rappresentazione della società borghese critica, amara e spesso polemica.

Casa di bambola e il teatro del salotto borghese

Il primo testo che rivela Henrik Ibsen ai contemporanei come un drammaturgo controcorrente e scomodo è Casa di bambola. Al centro del dramma la storia di una giovane moglie, Nora, sposata all’avvocato Torvald Helmer, che la coccola come una bambola. Custodisce però un segreto: per poter curare il marito malato ha falsificato la firma del padre e si è così garantita un prestito, ma non è riuscita a ripagarlo. La scoperta del suo errore dà avvio a un dramma familiare. Finalmente consapevole della farsa che è stato il suo matrimonio, Nora prende una decisione scandalosa e irrevocabile.

Testo celeberrimo e molto rappresentato, Casa di bambola fece scalpore e fu giudicato un manifesto del femminismo. In realtà, al di là di ogni polemica contingente, ciò che Nora con la sua scelta rappresenta è il distacco dalle convenzioni borghesi, indifferenti alle giustificazioni individuali e alle aspirazioni più sincere dell’animo umano.

Henrik Ibsen opere: i capolavori degli anni Ottanta

Dal 1879 Ibsen fornirà al teatro i suoi capolavori. Dopo Casa di bambola, che rese Ibsen una figura centrale del teatro europeo, scrive Spettri, il dramma che lo consacra a livello internazionale; e ancora Un nemico del popolo, L’anitra selvatica, Rosmersholm, La donna del mare, Hedda Gabler. Anche queste opere vanno nella direzione dello scandaglio dell’interiorità del personaggio a scapito dell’azione.

Il passato diventa l’elemento scatenante su cui i personaggi sono chiamati a confrontarsi e l’azione diventa sempre più inconsistente. Gli scambi dialogici servono a mettere in luce i drammi nascosti all’interno della psiche. Questo ci spiega perché accanto alla fama di autore naturalista e che si basa sulla ricostruzione perfetta dell’ambiente, matura anche la fama di autore capace di un’analisi psicologica che si apre anche al simbolismo.

Anche l’ultimo Ibsen va nella direzione di un superamento dell’azione e una concentrazione assoluta sulla figura del personaggio, che negli anni Novanta incarna la figura del capitalista, del self-made man. Proprio su questo modello si concentra la sua attenzione negli ultimi drammi: Il costruttore SolnessIl piccolo EyolfJohn Gabriel Borkmann e Quando noi morti ci destiamo.

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August Strindberg

Gabriele D’annunzio

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Gassman, Vittorio

Soprannominato il Mattatore, Vittorio Gassman è ritenuto uno dei più grandi interpreti della commedia all’italiana.

Vittorio Gassman è attore, regista e sceneggiatore, protagonista del cinema e del teatro italiano del Novecento. Con Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi, Gassman è ritenuto uno dei più grandi interpreti della commedia all’italiana. Soprannominato il Mattatore (dall’omonimo spettacolo televisivo da lui condotto nel 1959), è ricordato per l’assoluta professionalità (al limite del maniacale), per la versatilità e per il magnetismo.

Vittorio Gassman biografia: dagli esordi ai vertici della gerarchia di palcoscenico

Genovese di nascita ma romano d’elezione e formazione, Vittorio Gassman ha debuttato ventenne a Milano nella Nemica di Niccodemi con Alda Borelli. Si è affermato subito dopo all’Eliseo di Roma, tanto da associare ben presto il suo nome a quelli di Adani-Calindri-Carraro. Passa con pari bravura dal genere brillante al drammatico, dal divertimento sofisticato alla commedia borghese.

Vittorio Gassman è salito ai vertici della gerarchia di palcoscenico con la compagnia diretta da Luchino Visconti. Con lui Ruggero Ruggeri, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Paola Borboni, Vivi Gioi. Esuberante Kowalski in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, è capace di trascorrere dagli shakespeariani Rosalinda o Come vi piace e Troilo e Cressida a un alfieriano Oreste. È stato poi protagonista, con il Teatro Nazionale diretto da Salvini, dell’ibseniano Peer Gynt, della Commedia degli straccioni di Caro, di Detective Story di Kingsley, del Giocatore di Betti.

Il Teatro d’Arte Italiano di Vittorio Gassman e Luigi Squarzina

Con Luigi Squarzina, Gassman ha fondato e co-diretto il Teatro d’Arte italiano (1952-53). Insieme misero in scena un Amleto in versione integrale, il fin allora mai ripreso Tieste di Seneca, I Persiani di Eschilo, Tre quarti di luna di Squarzina. Interprete tragico per antonomasia, in familiarità con i classici greco-latini, è stato particolarmente attratto da Shakespeare, contribuendo a rendere memorabile l’Otello (1956-57) in cui si scambiava con Randone i ruoli del Moro e di Jago.

Una professionalità al limite del maniacale

La sua esuberanza giovanile lo ha indotto talvolta a concedere un po’ troppo al virtuosismo del grande attore di matrice ottocentesca. Lo abbiamo visto moltiplicarsi, ad esempio, nei nove personaggi dei Tromboni di Zardi (quasi coevi alla serie televisiva Il mattatore). O lasciarsi tentare dal congeniale Kean nel suo O Cesare o nessuno (1975), specchio del genio e sregolatezza degli anni verdi, poi pienamente governato nella più sorvegliata maturità.

Fino all’ultimo fedele al teatro di parola, restìo ad avanguardismi di facciata, cresciuto con il culto della foné, ha avuto in odio il minimo difetto di pronuncia, un accento sbagliato, un’inflessione dialettale. Il suo credo artistico è rimasto sostanzialmente fedele a una drammaturgia di scrittura alta. Fino a cimentarsi nell’avventura generosa dell’Adelchi di Manzoni fatto conoscere a mezzo milione di spettatori, dal suo itinerante Teatro Popolare con ‘chapiteau’ circense (1960-63).

Vittorio Gassman film: dal teatro al cinema con I soliti ignoti e L’armata Brancaleone

Tentato dal cinema, Vittorio Gassman ha interpretato oltre cento film, riscuotendo particolare successo sul versante comico-farsesco con film come I soliti ignoti L’armata Brancaleone.

Vittorio Gassman film: I soliti ignoti
Vittorio Gassman film: I soliti ignoti

È tornato in palcoscenico a più riprese per riproporre Otello venticinque anni dopo, affrontare Macbeth (con la Guarnieri), inscenare un collage dostoevskijano con gli allievi della Bottega del teatro da lui fondata a Firenze e portare a Los Angeles e ad Avignone i sempre più prediletti assemblaggi di autori vari.

Con il figlio Alessandro Gassman avuto da Juliette Maynel, ha ripreso Affabulazione di Pasolini (1986);  è stato Achab nel Moby Dick tratto da Melville (1992); ha affrontato lo scontro generazionale nell’autobiografico Camper (1994), avversato dalle sue ricorrenti crisi depressive.

Particolarmente rilevante è stato lo spazio concesso, nei sempre più frequenti recital, a poeti d’ogni età e Paese, soprattutto alle consentanee cantiche dantesche. È stato sposato con le attrici Nora Ricci (da cui nel 1945 ha avuto la figlia Paola, anch’essa attrice), Shelley Winters, Diletta D’Andrea.

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Ruggero Ruggeri

Paolo Stoppa

Rina Morelli

Futurismo

Il futurismo in teatro, tra manifesti, teatro di varietà e sintesi futuriste.

Il teatro futurista comprende tutte quelle esperienze teatrali che si svilupparono in seno al movimento futurista e che investirono i diversi campi dell’arte teatrale: dalla drammaturgia alla scenografia, dalla recitazione fino alla relazione teatrale che lega l’evento allo spettatore. Il futurismo italiano fu la prima avanguardia in Europa a intuire l’importanza del teatro quale luogo socialmente privilegiato per trasmettere al grande pubblico nuove idee e manifestare pienamente le moderne tecnologie.

I manifesti del teatro futurista

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la drammaturgia europea aveva trovato espressione nel teatro naturalista,  nel teatro psicologico e di atmosfera (Henrik Ibsen, Anton Cechov) e nel teatro simbolista. In Italia, accanto al teatro verista (Giuseppe Giacosa, Giovanni Verga) e a quello dialettale, si era avuta la significativa esperienza decadentista di Gabriele D’Annunzio, autore anche di drammi in versi, ispirati all’antica tragedia classica. In contrasto con queste forme di teatro tradizionale, si pone la linea avanguardistica del futurismo.

Il futurismo in teatro è scandito, come per la pittura, la letteratura e le altre arti, dalla pubblicazione di una serie di dichiarazioni poetiche di carattere radicale e polemico. Filippo Tommaso Marinetti, già personalità principale dell’intero movimento, a partire dal 1913, teorizza il teatro futurista attraverso la stesura di tre manifesti: quello del Teatro di varietà (1913); del Teatro sintetico futurista (1915); del Teatro della sorpresa (1921).

In questi scritti viene sottolineata la volontà di ripudiare le rappresentazioni naturalistiche, di evitare qualsiasi tentativo di illusione realistica e di realismo psicologico. Il teatro futurista si svolge in un tempo e in uno spazio teatrali apertamente diversi da quelli reali. Si prediligono situazioni che si risolvono in tempi brevissimi, spesso di un unico rapido quadro. Le scenografie e la coreografia, strettamente collegate al testo, non sono mai ambientazioni realistiche, ma generalmente astratte o metaforiche, allusive.

Lo spettatore, spesso, diventa protagonista attivo di quanto avviene sulla scena. Gli stessi attori, provocandolo, arrivano a creare un dialogo serrato che può sfociare in vere e proprie contestazioni verbali vicine alla rissa.

Futurismo teatrale: le serate futuriste e il teatro di varietà

A partire dal gennaio del 1910, Marinetti diede il via al programma delle “Serate futuriste“. Si trattava di eventi spettacolari che si svolgevano in teatri o, per cerchie più ristrette di spettatori, in gallerie d’arte. Questi incontri consistevano in letture di poesie e di manifesti futuristi, ascolti musicali, presentazione di quadri.

Il futurismi in arte
Il futurismi in arte

Lo spirito che le animava era volutamente provocatorio, nei confronti sia delle istituzioni culturali sia del pubblico, coinvolto e partecipe dell’evento, che spesso degenerava in scontri verbali, lanci di oggetti e risse.

Negli anni successivi, Marinetti individuò nel “Teatro di Varietà” una forma di spettacolo particolarmente adatta a rappresentare i princìpi del futurismo. Il ritmo veloce, l’utilizzo di varie discipline (tra cui l’importante cinematografo, simbolo di modernità) che lavorano in sinergia tra loro, la rumorosità; ma anche il punto di incontro tra differenti strati sociali, l’abbandono del bon-ton a favore della parola libera.

Le sintesi futuriste

All’elaborazione teorica si accompagna la composizione drammaturgica di un numero abbastanza esiguo di opere. Le cosiddette “sintesi” futuriste scritte da Marinetti (Simultaneità, 1915), Settimelli, Corra, Chiti, Balla, Cangiullo, Depero e altri. Rappresentate dalla compagnia Berti-Masi in diverse città italiane, ottennero le volute reazioni polemiche e violente del pubblico.

Costituite su micro situazioni paradossali o grottesche, le sintesi sono fatte di brevi dialoghi o di sequenze di pure azioni fisiche per la durata di pochi minuti. Significative sul piano teorico per la trasgressione alle convenzioni rappresentative del naturalismo,  furono spesso in sé deludenti su quello rappresentativo.  Risultarono, invece, efficaci le appropriazioni spettacolari che ne fece il varietà degli anni Trenta. Fu nel balletto-pantomima di Prampolini e Depero (Balli plastici, 1918) e nella ‘scenotecnica’ luministica  che il futurismo raggiunse in Italia i risultati esteticamente più significativi.

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Gabriele D’annunzio

D’annunzio, Gabriele

Esteta e superuomo, autore de Il piacere e La pioggia nel pineto, Gabriele D’Annunzio è tra i poeti che più hanno segnato la letteratura italiana di fine 800 e inizio 900.

Gabriele D’Annunzio è, insieme a Giovanni Pascoli, il principale esponente del Decadentismo italiano. Originario di Pescara, ha un ruolo fondamentale nella sua vita e nella sua poetica la città di Roma, dove l’autore scopre e nutre il suo amore per il lusso e la vita mondana, e dove scrive il suo romanzo più noto Il piacere. Soprannominato il Vate, cioè “poeta sacro, profeta”, occupò una posizione preminente nella letteratura e nella vita politica italiana di fine 800 e inizio 900.

Gabriele D’annunzio biografia: gli esordi letterari e Il piacere

Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia più che benestante. Già dai primi studi mostra subito un grande interesse per la letteratura ed è proprio negli anni del collegio che pubblica la sua prima raccolta di poesie, Primo Vere. Si trasferisce a Roma per frequentare l’università, ma il periodo romano sarà soprattutto un periodo di lavoro giornalistico e di vita mondana nei salotti letterari e aristocratici. 

Il grande successo letterario arrivò con la pubblicazione del suo primo romanzo, Il piacere. Incentrato sulla figura dell’esteta decadente, rompe con i canoni estetici del naturalismo e del positivismo allora imperanti.

La vita che conduce a Roma lo sommerge di debiti e per scappare ai creditori comincia un periodo di viaggi per la Penisola. Giunto a Venezia conoscerà colei che diventerà il grande amore della sua vita, la bellissima attrice Eleonora Duse.

L’incontro con Eleonora Duse

Fino al 1894, l’attività di Gabriele D’Annunzio alternò opere di poesia con opere di narrativa. L’incontro con Eleonora Duse fu determinante per l’attività di autore teatrale, e soprattutto per il teatro italiano che stentava a rinnovare un repertorio ormai logoro e ripetitivo. Insieme a Eleonora Duse, cominciò ad approfondire la lettura dei classici. Orestea, Edipo, Antigone e Fedra rappresentano le tappe più significative di un percorso di ricerca destinato a sviluppare l’idea di una tragedia moderna, modellata su suggestioni contemporanee.

Eleonora Duse, la musa di Gabriele D’annunzio
Eleonora Duse, la musa di Gabriele D’annunzio

Con Sogno di un mattino di primavera (1897) e Sogno d’un tramonto d’autunno (1901), veri e propri capolavori di sperimentazione scenico-linguistica, D’Annunzio contribuisce in maniera determinante a inserire il teatro italiano nel clima europeo dominato dalle figure di Claudel, Strindberg, Ibsen, Hofmannsthal, Wedekind e Schnitzler. Con i due Sogni, scelse la via del teatro patologico: costruito su una struttura onirica, carico di colori, con personaggi che si muovono ai limiti di una follia che, a volte, si tinge di panismo, a volte di soluzioni metamorfiche, altre di passione. La figura della Demente e della Dogaressa anticipano, oltre che altre creature dannunziane, anche quelle del teatro espressionista, in quanto vivono situazioni d’incubo, di sogno, di magia. Si muovono sul palcoscenico come fiere prese nella rete: hanno gli occhi smarriti, il volto esangue, i capelli scarmigliati, la carne che vibra.

Un avanguardismo particolare, dunque, che ritroviamo ne La città morta (1898), andata in scena al Teatro Lirico (1901, con la Duse e Zacconi), certamente il tentativo più esplicito di coniugare la tragedia ellenistica con quella moderna.

I testi teatrali di Gabriele D’Annunzio

La Duse, intanto, gli aveva fatto conoscere il teatro di Ibsen, sulla cui fascinazione modellò La Gioconda (1899). Seguono due tragedie che alla prima rappresentazione fecero molto scalpore: La Gloria (1899) e Francesca da Rimini (1902). Due insuccessi ai quali seguirono due grandi vittorie: La figlia di Jorio (1904) e La fiaccola sotto il moggio (1905). Il successo della compagnia Talli, a Milano, fu straordinario. La Duse si trovava all’Eden Palace di Genova, per gli amici ammalata; in verità recitava la tragedia che era stata scritta per lei all’amica Matilde Serao, con tanta rabbia per essere stata esclusa.

Un anno dopo il successo de La figlia di Jorio, sempre al Teatro Lirico, andò in scena La fiaccola sotto il moggio. Tra fiaschi, incertezze e trionfi seguirono Più che l’amore (1906) e La nave (1908). Il ritorno al mito classico e al mito cristiano avviene con Fedra (1909) e Le martyre de Saint Sébastien(1911). Tra le ultime composizioni: Parisina (1921), La pisanella (1913). Il ferro (1914) può essere senza dubbio considerata una delle sue più belle tragedie, non solo per come tratta l’argomento dell’incesto, ma anche per uno stile e un linguaggio più trattenuti.

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Benigni, Roberto

Roberto Benigni è un attore, regista, scrittore e sceneggiatore italiano.

Roberto Benigni è un attore, regista, scrittore e sceneggiatore italiano. Numerosi i riconoscimenti che l’hanno portato fino alle vette più alte di Hollywood, diventando l’unico interprete maschile italiano a ricevere l’Oscar come Miglior attore protagonista. Sin dai suoi esordi, alterna le sue apparizioni su palcoscenici teatrali, set cinematografici e studi televisivi. Così Roberto Benigni si è imposto nel panorama dello spettacolo italiano come una figura di riferimento senza eguali, in virtù della sua esuberanza e gioiosa irruenza.

Roberto Benigni biografia: gli esordi tra teatro e televisione

Roberto Remigio Benigni nasce a Castiglion Fiorentino, un piccolo paese della Toscana, il 27 ottobre 1952, dai contadini Luigi Benigni e Isolina Papini. Dopo un’esperienza in seminario e il diploma da ragioniere, comprende che la sua vera passione è una sola: lo spettacolo. La decisione di tentare la carriera di attore avviene nel 1972. A vent’anni, con la sola chitarra per bagaglio, lascia la Toscana e si trasferisce a Roma, insieme agli amici fedeli, Donato Sannini, Carlo Monni e Lucia Poli.

Dopo alcune comparsate in televisione (Le sorelle Materassi) e in ruoli secondari, è Giuseppe Bertolucci a “scoprirlo”. Nel 1975, gli cuce addosso all’Alberichino di Roma, il teatro più off dell’epoca, il monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. Sotto la luce di una nuda lampadina, le mani in tasca, il giovane raccontava la sua grama vita di paese, il sesso, gli amici, il partito, la madre morta, con una smisurata esuberanza gestuale e soprattutto verbale.

Fu il successo immediato e crescente che, dalla saletta del teatro d’avanguardia, portò in tutta Italia il monologo di  Roberto Benigni. Bertolucci trasformò lo spettacolo in un film, Berlinguer ti voglio bene, divenuto nel tempo un vero e proprio cult. La popolarità più estesa però arrivò con la televisione, grazie a un programma domenicale di Renzo Arbore, L’altra domenica, in cui Roberto Benigni si fingeva critico di cinema.

Film Benigni: l’esordio alla regia, Nicoletta Braschi e Massimo Troisi

Per il suo debutto alla regia bisogna aspettare il 1983, quando dirige e interpreta Tu mi turbi. È durante le riprese di questo film che Roberto Benigni conosce Nicoletta Braschi che diventerà sua moglie nel 1991 e che da quel momento sarà praticamente presente in tutti i film diretti dal marito.

Da quel momento in poi Benigni recita sempre più spesso in film da lui stesso scritti e diretti. Nascono così Non ci resta che piangere, accanto a Massimo Troisi, Il piccolo diavolo, con Walter Matthau, Johnny Stecchino e Il mostro. Tutti film che ottengono un vasto successo tra il pubblico italiano.

Roberto Benigni in Il mostro
Roberto Benigni in Il mostro

Da allora Benigni alterna l’attività cinematografica a quella teatrale. Ed è ancora Giuseppe Bertolucci a filmare con Tuttobenigni un’antologia dal vivo delle esibizioni del comico condotte in varie piazze d’Italia. Un a solo a ruota libera, in cui sferzanti battute si susseguono impietose a colpire personaggi e fatti d’attualità, spaziando dagli aspetti della ritualità cattolica ai vizi e alle ipocrisie della società e del potere politico.

L’Oscar e il successo internazionale con La vita è bella

Nel 1998 firmerà il suo capolavoro, La vita è bella, la storia del cameriere ebreo Guido Orefice che finisce in un campo di concentramento con moglie e figlio e che cerca di mascherare volontariamente la realtà dei fatti al proprio bimbo. È un progetto ambizioso che gli assicurerà il successo internazionale. Grazie a La vita è bella, Roberto Benigni vince l’Oscar come migliore attore, premio che va a ritirare dalle mani di Sophia Loren, camminando sulle poltroncine della sala. Al film, in una notte indimenticabile per il cinema italiano, vanno anche altre due statuette: quella per il miglior film in lingua straniera e quella per la musica di Nicola Piovani.

Roberto Benigni e Nicoletta Braschi in La vita è bella
Roberto Benigni e Nicoletta Braschi in La vita è bella

Pinocchio, il film più costoso del cinema italiano

Nel 2002 porta sullo schermo la storia del burattino Pinocchio di Carlo Collodi, di cui è regista e attore protagonista. La pellicola si rivelerà il film più costoso della storia del cinema italiano (45 milioni di euro). In Italia il film ottenne ottime recensioni da parte della critica aggiudicandosi due David di Donatello,un Nastro d’argento e uno strepitoso successo al botteghino. Nel resto del mondo, e in particolare in Usa, il film fu invece un flop.

Il Dante Alighieri di Roberto Benigni

Benigni si è impegnato anche come lettore, interprete a memoria e commentatore della Divina Commedia di Dante Alighieri, in un tour Tutto Dante, spettacolo che parte da piazza Santa Croce a Firenze nell’estate 2006 per girare molte piazze e teatri italiane per approdare poi su RaiUno in 14 serate di grande successo. Nelle vesti di divulgatore ha, inoltre, recitato il Canto degli Italiani, i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana e i dieci comandamenti biblici ricevendo consensi di pubblico e critica.

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Folies Bergère

Il 2 maggio 1869 Albert Boislève inaugura un locale in un edificio in precedenza dedicato alla vendita di mobili, non distante dal centro di Parigi, in un quadrilatero compreso fra rue Richer, rue Saulnier, rue Bleue e rue de Trevise che viene curiosamente chiamato `les Folies Bergère’, dal nome di una via vicina. È un café-spectacle che ospita alcuni cantanti mentre gli avventori mangiano e bevono. Nel 1871 arriva alla direzione Leon Sari, già segretario di Alexandre Dumas al Delassements Comiques, e in quindici anni porta il locale alla celebrità soprattutto come teatro di varietà presentando vedette dell’epoca (grazie anche all’operato di Rosinski, un collaboratore di Barnum): fra queste il giocoliere Agoust e gli Hanlon Lees. Nel 1881 il teatro cambia attività e si dedica alla musica classica col nome `Le concert de Paris’: tonfo immediato, che provoca anche un fallimento economico. Nel 1885 sono i coniugi Allemand a rilevare il locale affidando la direzione artistica a Edouard Marchand che dà spazio per la prima volta anche al genere che diventerà il vessillo del teatro: la rivista a grande spettacolo. Il 30 novembre del 1886 debutta Place aux jeunes! . Ma le Les Folies Bergère restano per il momento soprattutto un teatro di varietà. Edouard Marchand viaggia in tutto il mondo alla ricerca di artisti particolari: tra questi il gigante Chang, la famiglia di acrobati icariani Kremo, il celebre clown e ammaestratore di animali Dourov. Poi il giocoliere Paul Cinquevalli, i comici Little Tich e Carl Baggessen, le Sisters Barrison e Loie Fuller, che debutta nel 1892 e torna più volte nell’arco di una quindicina d’anni; inoltre le belle Liane de Pougy e Caroline Otéro.

Una delle ultime fiammate di Edouard Marchand è l’ingaggio di Cléo de Mérode, già stella dell’Opéra. Nel 1901 subentrano alla gestione i fratelli Emile e Vincent Isola, ex prestigiatori e reduci dalla direzione di numerosi locali parigini. I fratelli Isola affermano la modalità di produzione della rivista che si chiamerà La Revue des Folies Bergère ‘. Una nuova produzione viene allestita ogni primavera o per le feste natalizie, mentre il resto dell’anno è ancora dedicato al varietà, nel corso del quale vengono anche proiettate delle pellicole appositamente realizzate da George Meliès. Assurge a ruolo di stella il cantante Harry Fragson, che si accompagna da solo al pianoforte. Dal 1905 per due anni dirige il locale Paul Ruez, che lascia però un segno assai labile. Tornano i fratelli Isola e ingaggiano nuovi nomi prestigiosi. Il cartellone del 1910, grazie all’operato del nuovo amministratore Clement Bannel, vede il debuttante Maurice Chevalier e i clown Grock e Antonett, oltre a un trascurato giovane mimo acrobata della troupe inglese di Fred Karno: Charles Spencer Chaplin. Altre stelle del periodo sono Margaretha Gertruida Zelle, in arte Mata Hari, il giocoliere Salerno e i Fratellini. Ma in quegli anni le F.B. devono il loro successo anche al fatto di costituire una sorta di casa di appuntamenti non ufficiale e all’essere divenute un tempio dello déshabillage , lo spogliarello, ospitato per la prima volta nel 1912. La situazione cambia all’inizio degli anni ’20, quando, dopo un breve periodo di crisi in corrispondenza della prima guerra mondiale, la direzione viene assunta dal celebre Paul Derval che la manterrà per oltre mezzo secolo, attraversando indenne persino un’altra guerra mondiale. `Monsieur Folies Bergère’, come viene chiamato, afferma l’estetica dello sfarzo nelle riviste parigine: ne produce trentadue, tutte con un titolo di tredici lettere, comprendente la parola ‘folie’ o ‘folies’ (a parte due Revue d’Amour ): En pleine Folie, Coeurs en Folie, Un soir de Folie, La Folie du jour, Un vent de Folie, La grande Folie, De la Folie pure, Un coup de Folie, L’usine en Folie, Nuits de Folie, Femmes en Folie, La Folie d’Amour, Folies en fleur, ecc.

Le Les Folies Bergère sono fra i pochi locali che tengono viva la tradizione dei grandi spettacoli parigini anche alla fine degli anni ’30, quando altri famosi locali (come il Moulin Rouge) chiudono o si trasformano in cinema. Altri artisti notevoli presentati nella gestione sono la ballerina jazz `dadaista’ Nina Payne, il mitico Jean Gabin, la strana coppia Mistinguett-Fernandel e la diva per eccellenza della rivista: Joséphine Baker. Negli anni ’50 il locale comincia a essere conosciuto in tutto il mondo, anche grazie a una serie di tournée all’estero abilmente gestite da Derval. Quando questi scompare, nel 1966, è la vedova Antonia a mantenere la gestione del locale incaricando della direzione artistica Michel Gyarmathy. Inizia però una certa disaffezione del pubblico; i nomi celebri si diradano. Emergono comunque Zsa Zsa Gabor, Magali Noël e Liliane Montevecchi (già ballerina con Roland Petit). Nel 1974 la direzione passa a Helene Martini, che la gestisce senza particolari scossoni per un ventennio, rassegnata al sorpasso del Lido e del rinnovato Moulin Rouge. A metà degli anni ’90, con l’incarico di regista all’argentino Alfredo Arias, viene prodotta Fous des Folies , tentativo, solo in parte riuscito, di restituire il locale alla sua leggenda.

laboratorio,

Il laboratorio è luogo e condizione concreta di ricerca teatrale legata alla formazione etico-pedagogica dell’attore e alla esplorazione dell’identità espressiva di un gruppo in situazioni non necessariamente produttive. Storicamente l’idea del laboratorio nasce con la fondazione degli Studi del Teatro d’Arte di Mosca di Stanislavskij, dove lavorano tra gli altri Vachtangov e Mejerchol’d. Presente anche nel progetto di rinnovamento teatrale tentato da Copeau al Vieux-Colombier, e in particolare con la fondazione di una comunità teatrale in Borgogna, il l. si configura nel pensiero di questi grandi maestri del Novecento come la condizione necessaria alla rifondazione etico-antropologica del teatro, attraverso una messa a nudo e una ridefinizione del lavoro dell’uomo-attore. Nell’opera teatrale e parateatrale di Grotowski il laboratorio radicalizza la sua identità di luogo separato, quasi rituale, dove il performer è messo nelle condizioni di compiere un processo di autorivelazione totale, oltre la maschera delle consuetudini sociali o interpretative. Nel lavoro sul training dell’Odin Teatret e in quello più complessivo dentro all’Ista, Barba sviluppa l’istanza laboratoriale di Grotowski ed elabora una concezione del teatro stesso in termini di laboratorio di gruppo, dove l’autodisciplina e l’autoformazione permanente divengono specifiche componeneti della ricerca teatrale. Luogo insieme separato e aperto, dove è possibile compiere un incontro con se stessi e nello stesso tempo istituire relazioni con l’altro (uomini, ambiente, cultura, tradizioni, ecc.), il workshop costituisce anche l’orizzonte metodologico e teorico della `animazione’ e dei processi di formazione di natura espressiva, festiva, sociale che si riferiscono al teatro come strumento e modello di elaborazione dell’esperienza. Dentro al laboratorio il teatro incontra la scuola, il carcere, il disagio fisico e psichico, individuale e sociale, permettendo, nella sua dimensione protetta e ludica, ai soggetti coinvolti di dare forma concreta e simbolica alla propria esperienza. Interno dapprima alla storia dei gruppi teatrali e dei Centri di ricerca teatrale, oggi il laboratorio teatrale è considerato elemento strutturale non solo della ricerca e della pedagogia teatrale, ma modello di intervento formativo per ogni approccio che privilegia la dimensione del corpo, della relazione e del linguaggio simbolico.

Albertazzi

Giorgio Albertazzi debutta a Firenze fra partite di pallone e primi amori ne Il candeliere di De Musset al Teatro della Meridiana con Bianca Toccafondi, regista F. Enriquez; interpreta Fessenio nella Calandria di Bibbiena, ed è Soranzo in Peccato che sia una sgualdrina di Ford, diretto da L. Lucignani, sempre a Firenze, dove L. Visconti – che prepara Troilo e Cressida di Shakespeare a Boboli – lo vede e lo scrittura per il ruolo di Alessandro, paggio di Cressida (Rina Morelli), in una famosa edizione (1949) che allineava, oltre Gassman, De Lullo, Stoppa, Ricci, Tofano, Elena Zareschi e Memo Benassi. È sempre Visconti a procurargli la scrittura nella compagnia del Teatro Nazionale diretta da G. Salvini (1950-52), dove recita in Detective story di Kingsley, La signora non è da bruciare di Fry, Peer Gynt di Ibsen ed è il protagonista del Faustino di Dino Terra.

Il successo arriva con Il seduttore di Fabbri nella tournée americana della Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi-Buazzelli. Con la compagnia, dalla quale si stacca per dar vita nel ’56 alla ditta Proclemer-Albertazzi, interpreta anche il Matto nel Re Lear e il regista ne La ragazza di campagna di Odets. Fra i tanti successi della ventennale ditta, dove ha modo di imporre la sua recitazione moderna e graffiante, ispirata e medianica creando con la Proclemer una delle coppie più seguite dal pubblico e dalla critica: una memorabile Figlia di Iorio di D’Annunzio e L’uovo di Marceau (1957), Requiem per una monaca di Faulkner-Camus e Spettri di Ibsen (1958), I sequestrati di Altona di Sartre (1960), Amleto , diretto prima da Franck Hauser poi da Zeffirelli (1963), Dopo la caduta di Miller (1967), La fastidiosa (1965) e Pietà di novembre di Brusati (1967); dirige Come tu mi vuoi (1967) di Pirandello e il suo discusso Pilato sempre (1971); per una stagione la compagnia si era associata allo Stabile di Genova (Maria Stuarda di Schiller, con la Brignone nel ruolo di Elisabetta) dove, staccatosi dalla Proclemer, sarà protagonista del Fu Mattia Pascal da Pirandello ridotto da Kezich (1974); da qui derivano le grandi interpretazioni fra vita e teatro quali Riccardo III , Re Nicolò di Wedekind, Enrico IV di Pirandello (1982, regia di Calenda), Le memorie di Adriano dal romanzo della Yourcenar, regia di Scaparro (ripreso per più stagioni), La lezione di Ionesco, a Spoleto, regia di Marcucci, e l’ultimo Giacomo Casanova comédien filosofo, libertino, viaggiatore, avventuriero di voce, fantasie, divertimenti e angosce diretto da Scaparro all’Olimpico di Vicenza (1997). Fra i pionieri della tv, seduce il primo pubblico televisivo con Delitto e castigo, Romeo e Giulietta, I capricci di Marianna di De Musset, Come le foglie di Giacosa, Liliom di Molnár e l’indimenticabile Idiota da Dostoevskij, diretto da G. Vaccari. Lettore di fascino e di carisma, spazia dalla novella (Palazzeschi, Mann, Cecov, Maupassant, Pirandello) all’ Inferno di Dante. In cinema da un giovanile Lorenzaccio di Poggioli passa a L’anno scorso a Marienbad di Resnais e al suo Gradiva.

Buratto

Fondato a Milano da Velia e Tinin Mantegazza nel 1975, il Teatro del Buratto agisce nella sala del Teatro Verdi dove rappresenta i suoi spettacoli e le stagioni di teatro di ricerca, sempre di grande interesse. Specializzatosi ben presto in un teatro di figura inteso come rappresentazione totale dove parola, musica e immagine tendono a formare un vero e proprio teatro popolare d’arte (L’histoire d’un soldat, 1975; Quell’Astolfo da Ferrara, 1981). Dopo l’uscita di Tinin e Velia Mantegazza (1986), il Teatro del Buratto ha da una parte approfondito il discorso del teatro su nero (Pane blu, Fly Butterfly), dall’altra ha creato spettacoli che hanno cercato di reinventare lo spazio scenico, per un diverso rapporto con i bambini, collaborando anche con artisti di varie discipline come Munari, Manuli, Cerami (Cappuccetto bianco, Sotto la tavola? , Una piazza, due piazze, un castello). Protagonisti di questa nuova fase sono Jolanda Cappi, Gianfranco Bella, Franco Spadavecchia e Monica Gattini Bernabò.

Taormina,

Dal 1983, nel periodo estivo, si svolge il festival di Taormina, rassegna articolata nelle quattro sezioni di teatro, musica, balletto e cinema. Accanto a iniziative collaterali quali mostre, convegni, retrospettive, seminari (la più importante è il premio Europa per il Teatro), sono state create alcune nuove sezioni artistiche, che hanno permesso che il f. si proponesse come produttore di spettacoli, realizzando inoltre scambi e collaborazioni con altri organismi nazionali ed esteri. Per alcune manifestazioni la sezione Taormina Teatro è stata dedicata a Shakespeare, celebrato con tavole rotonde e allestimenti: negli anni si sono susseguite messe in scena come Otello interpretato da Enrico Maria Salerno, Il mio regno per un cavallo , da Riccardo II e III , interpretato da Flavio Bucci, Paola Borboni è Lear, nell’interpretazione dell’attrice, Amleto, Macbeth, Riccardo III, diretti e interpretati da G. Lavia, G. Mauri in La dodicesima notte e Sogno di una notte di mezza estate , testo ripreso nel 1990 nello spettacolo di J. Savary.

Nello stesso anno figura una rassegna di italiani contemporanei, da Maria dell’Angelo di Maricla Boggio a Testamento di sangue di Dario Bellezza, da Atlantico di E. Siciliano a Agonia di Luisa di R. Wilcock. Nel 1991 la vetrina del festival offre contemporaneamente Sei personaggi in cerca d’autore , per la regia di Zeffirelli, il debutto degli spettacoli di Giorgio Barberio Corsetti (Il giardino delle delizie) e di Leo de Berardinis (L’impero della ghisa) , infine Pasqua di A. Strindberg. L’anno seguente si presenta con un cartellone virato al femminile, dove, accanto ad allestimenti come Signorina Julie, interpretato da Monica Guerritore, e La bisbetica domata , con M. Melato, si annoverano le prove di V. Moriconi in Don Sand e Don Juan di E. Groppali, e di Marina Malfatti in coppia con Ivana Monti in Corpo d’altri di Manfridi: entrambi gli spettacoli scritture prime per la scena. Unico mattatore Albertazzi con Lear . Il 1997, infine, prevedeva un appuntamento inconsueto: Pavese coi Dialoghi con Leucò, diretti da Chérif, con le scene di A. Pomodoro; seguivano due novità messinesi quali Bar , spettacolo interpretato da Spiro Scimone e Francesco Sframeli e Ventitré e venti di A.R. Ciccone, per la regia di Carlo Quartucci, interpretato da Nino Frassica e Maurizio Marchetti.

Borboni

Grande attrice monologhista, figlia dell’impresario lirico Giuseppe Borboni, Paola Borboni frequenta l’Accademia dei Filodrammatici a Milano sotto la guida di Teresa Boetti Valvassura e debutta a 16 anni nella compagnia di Alfredo De Santis in sostituzione dell’attrice giovane rimasta infortunata, nel Dio della vendetta di Shalomon Asch. Nel 1918 è prima attrice giovane accanto a Romano Calò e Elena de Wnorowska e poi con la grande Irma Gramatica. Dal ’21, pochi mesi dopo l’Anna Page delle Allegre comari di Windsor di Shakespeare dove si fa notare per la sua bella voce, è primattrice a fianco di Armando Falconi in un repertorio leggero che ne acuisce la prepotente bellezza e la grazia: a fianco di Falconi resta per nove anni con un repertorio di trenta commedie all’anno, italiane e francesi dove sfoggia parrucche e toilettes e – non vestita – da Onorato appare a seno nudo nel 1925 – il primo nella storia del teatro – nel ruolo di una sirena nella fortunatissima Alga Marina di Carlo Veneziani. Il suo disappunto per un repertorio prevalentemente leggero espresso già dal 1923 a Alberto De Andreis andato ad intervistarla per un ‘profilo’ e la sua dizione chiara e perfetta dopo un biennio in un repertorio di chiaroscuri con Nicola Pescatori e Ruggero Lupi trovano la giusta collocazione nel ’32 a fianco di Ruggero Ruggeri dove si afferma maturata interprete di personaggi pirandelliani (dall’inquieta Silia Gala del Giuoco delle parti alle due figlie intense e diverse del Piacere dell’onestà e di Tutto per bene). Ormai è pronta per avere una sua compagnia con la quale debutta al I festival della Prosa di Venezia nel 1934 nella Padrona del mondo di Giuseppe Bevilacqua.

Mesi di studio ed ecco il trionfo con Come prima, meglio di prima ; e se i quattro anni di capocomicato a fianco di Piero Carnabuci, Luigi Cimara, Marcello Giorda, Annibale Betrone (La moglie ideale e La crisi di Marco Praga, Tovarisch di Deval, Una cosa di carne e La bella addormentata di Rosso di San Secondo, Il ferro di D’Annunzio, La milionaria di Shaw e ancora il Pirandello de L’uomo, la bestia e la virtù) le fanno investire i leggendari gioielli per far fronte alla compagnia la consegnano però ormai alla storia del teatro italiano. Eccola dunque ancora a fianco di Ruggero Ruggeri e nel ’42 al Teatro dell’università di Roma inimitabile interprete di Donn’Anna Luna nella Vita che ti diedi del prediletto Pirandello del quale interpreta, con la sua dizione inconfondibile e con l’attenzione caparbia al dettato pirandelliano per sei anni in tre diverse compagnie intitolate al grande agrigentino L’amica delle mogli , Vestire gli ignudi , Cosi è (se vi pare) , Come tu mi vuoi , Sei personaggi in cerca d’autore. A fianco di Salvo Randone, al quale si lega dal ’42 al ’46 è anche Elettra nell’ Orestiade di Eschilo, con Maria Melato, Clitennestra, ruolo che affronterà nell’ Oreste di Alfieri nell’allestimento di Luchino Visconti a fianco di Gassman, Rina Morelli, Mastroianni e Ruggeri (1949). Prima e sola in Italia, gioca la carta del monologo dal ’54 al ’65 in `madri, zitelle e donne sole al tramonto’ su testi di Pirandello, Alvaro, Bacchelli, Savinio, Buzzati, Landi, Terron, Nicolai, nella difesa e promozione dell’autore italiano anche affrontato con compagnie proprie (Vento notturno di Ugo Betti e Inquisizione di Diego Fabbri), Il muro di silenzio di Paolo Messina, La rosa di zolfo di Antonio Aniante e La giustizia di Giuseppe Dessì. La sua esperienza con il Carro di Tespi nel ’37, in giro per l’Italia dal nord al sud, con Quella di Cesare Giulio Viola e Il pozzo dei miracoli di Corra e Achille, la consacra attrice di piazza in grandi spettacoli all’aperto: Le allegre comari di Windsor , al Parco di Nervi con la Pagnani, la Proclemer e Pilotto (1949); Romeo e Giulietta a Verona in piazza dei Signori con Edda Albertini, Vittorio Gassman e Salvo Randone; Le corna di don Friolera di Ramon del Valle Inclàn (regia di Anton Giulio Bragaglia); La casa di Bernarda Alba di Lorca ai giardini di Palazzo Reale a Torino; Edipo re di Sofocle ad Asolo, con Andrea Bosic. Contesa dagli Stabili lega il suo nome a grandi personaggi in Nozze di sangue di Lorca e Il don Pilone di Gerolamo Gigli (Firenze, regia Menegatti), Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (Trieste, regia Enriquez), Il rosario di Federico De Roberto (Catania, regia di Umberto Benedetto), L’anima buona di Sezuan di Brecht (Milano, regia di Strehler), La professione della signora Warren di Shaw e La scuola della maldicenza di Sheridan (Roma, regie di Leonardo Bragaglia e Sergio Tofano).

Dagli anni Sessanta con acutezza ingegnosa sa imporre il primo Pinter italiano (Una notte fuori) , il Beckett di Tutti quelli che cadono (diretta da Beppe Menegatti), Ionesco de La fame e la sete rinnovando la sua cifra interpretativa, «capace di trasformarsi a poco a poco, e se così si può dire, incessantemente, con la gradualità fatale che fatalmente accompagna il compiersi di una vocazione e di un destino, in interprete `senza ruolo’, nel personaggio, anzi nel mito di se stessa» (Raboni). Si intensificano le interpretazioni radiofoniche e le apparizioni televisive da Macht ad Harem e alle serate di Maurizio Costanzo che le deve una parte del suo successo di conduttore. Negli ultimi anni (l’ultima apparizione è del ’93 nel segno di Pirandello – nel Berretto a sonagli , regia Bolognini – e alla radio di Lugano nella Vita che ti diedi , regia di Battistini) interpreta Lo stratagemma dei bellimbusti (diretta da De Bosio), Così è (se vi pare), diretta da Z effirelli, Tartufo (diretta da Bosetti all’Olimpico e poi da Guicciardini) e ancora Hystrio di Mario Luzi, Paola Borboni è Lear da Shakespeare, Clitennestra o del crimine della Yourcenar, Savannah Bay della Duras e la performance Io e Pirandello. Inutile elencare i premi – li ha ricevuti tutti – dal primo San Genesio per La morale della signora Dulska di Gabriella Zapolska al Simoni. Eclettica e volitiva, capace di gesti coraggiosi (la sua discesa al Tritone con la bandiera sulla camicia da notte l’indomani della liberazione le è valsa, con la Repubblica di Salò, l’interdizione dalle scene), lapidaria e istrionica, ha fatto la felicità dei giornalisti per la sua disponibilità e le sue scelte apparentemente stravaganti (il matrimonio a 72 anni con Bruno Vilar più giovane di trent’anni). Ha affrontato la rivista (Mani in tasca e naso al vento di Galdieri, 1939 con Spadaro) per finanziarsi una compagnia pirandelliana) e il cabaret (1973 dove ha cominciato a raccontare di se stessa). Per lei Mario Luzi ha scritto Io, Paola, la commediante. Fra le tantissime interpretazioni cinematografiche «di nessun valore», diceva, amava ricordare La locandiera di Chiarini, Gelosia di Germi, I vitelloni di Fellini e Per grazia ricevuta di Nino Manfredi.

ragazzi,

Con il termine teatro per i ragazzi o teatro-ragazzi, come sempre più spesso negli ultimi anni lo si è definito, si indicano in genere quelle opere teatrali realizzate per un pubblico infantile, molto spesso scolastico. La fascia dei fruitori si è via via allargata col tempo e oggi il pubblico che assiste a questi spettacoli viene comunemente diviso in fasce d’età: dalle scuole materne a quelle superiori con repertorio, metodologie e stilemi diversi tra loro, tanto che è invalsa anche la dizione `teatro per l’infanzia e la gioventù’. Il teatro-ragazzi contemporaneo inizia in Italia come movimento e progetto alla fine degli anni ’60, in stretto rapporto con il cambiamento della società e dei modelli culturali che stava avvenendo in quegli anni. Si individua nel bambino sia uno spettatore attivo e sensibile che è al di fuori di tutte le rigide convenzioni del teatro ufficiale, sia un attore che si esprime liberamente facendo uscire da sé tutte le proprie potenzialità. È il momento dell’animazione teatrale, dove, nella scuola che cambia, il teatro-ragazzi si fonde con il teatro per i ragazzi. In questo senso a Torino nascono le esperienze di Franco Passatore, Remo Rostagno e Sergio Liberovici. È da questo nuovo modo di concepire la scuola e il teatro, che ha le sue radici il teatro-ragazzi italiano (assai diverso per concezione da quello degli altri stati europei) che diventa adulto e professionista attraverso l’attività di alcuni operatori, non a caso spesso provenienti dalla ricerca, che decidono di rivolgersi esclusivamente ai ragazzi.

Il teatro-ragazzi esce quindi dalla scuola e diventa autonomo, pur essendo parte integrante dello sviluppo del bambino, e in più, attraverso il lavoro di questi professionisti, usa stilemi propri, molto diversi dal teatro per adulti: non è un teatro rimpicciolito, ma sperimenta sempre nuovi linguaggi al servizio dell’immaginario bambino. Negli anni ’70 nascono decine e decine di compagnie che sia dal punto di vista delle tecniche e delle poetiche, sia dal punto di vista organizzativo e della produzione, rinnovano i linguaggi (teatro d’attore, il teatro di figura, la narrazione) e i meccanismi del teatro italiano. Nascono le associazioni di categoria, i festival di Muggia, Cascina (Vetrina Italia) e Parma (Vetrina Europa), il premio Stregagatto, i centri nazionali. Oggi il teatro-ragazzi italiano conta decine e decine di operatori e di compagnie che vi si dedicano e si sta consolidando come vero e proprio teatro popolare, adatto a tutti i pubblici e a tutte le età.

Molti e variegati sono i festival di teatro-ragazzi che si svolgono in Italia e che hanno raccolto l’eredità della storica manifestazione di Muggia che per diversi anni è stata un punto di riferimento per gli operatori. Senza dubbio il più importante è Vetrina Italia, organizzata a Cascina dal 1986 da uno dei centri nazionali più operativi, Sipario, da qualche anno diventato Fondazione. Accanto a questa iniziativa, il Teatro delle Briciole di Parma ha realizzato Vetrina Europa, rara occasione per vedere in Italia le migliori produzioni estere. Il teatro-ragazzi del Sud ha la possibilità di farsi conoscere e apprezzare con Angeli a Sud, Festival che si svolge da cinque anni prima a Vico Equense, poi a Salerno, organizzato da due compagnie, L’Arcolaio e I teatrini con il concorso del Teatro pubblico campano. Altri festival in forte ascesa sono: Una città per gioco, organizzato cinque a Vimercate dalla cooperativa Tangram e I teatri del mondo di Porto S. Elpidio ideato dalla compagnia Teatri Comunicanti. Infine ci sono vetrine regionali nel Veneto, in Puglia, in Emilia Romagna e in Lombardia dove Segnali, la manifestazione organizzata dai Centri di teatro-ragazzi lombardi si sta ora configurando in un vero e proprio festival. Un posto a parte merita il Festival nazionale del teatro per ragazzi di Padova, organizzato dal 1981 dall’Istituto italiano di sperimentazione e diffusione del Teatro per Ragazzi che prevede premi assegnati da giurie formate da ragazzi.

Elfo

Il Teatro dell’Elfo è una compagnia teatrale fondata a Milano nel 1972 da un gruppo di giovani provenienti per lo più dalla scuola del Piccolo Teatro. Lo scopo è quello di dar voce al mondo giovanile, non per assecondarlo, ma per stimolarlo criticamente. Appartengono ai primissimi anni di attività gli spettacoli 1789: scene dalla rivoluzione francese, Pinocchio Bazaar, Le mille e una notte. Nel 1978 l’Elfo ottiene dal comune di Milano la sede di via Ciro Menotti. Comincia una crescita organizzativa e artistica che si manifesta con il primo spettacolo cult: Sogno di una notte d’estate, un musical rock classificato come autentico fenomeno di inizio decennio, ma soprattutto uno spettacolo che segna il passaggio da un immaginario puramente giovanile a un mondo espressivo più complesso. La direzione del teatro è affidata a Gabriele Salvatores, a cui si affianca nel 1982 Elio De Capitani, che assume la responsabilità unica nel 1983. Gli anni ’80 sono fervidamente creativi e contribuiscono al lancio di molti attori destinati a imporsi al grande pubblico: da Paolo Rossi a Silvio Orlando, da Claudio Bisio a Luca Barbareschi. L’Elfo, divenuto nel frattempo Teatro stabile di produzione, mette in scena Nemico di classe di N. Williams (regia di De Capitani), Visi noti, sentimenti confusi di B. Strauss (regia di De Capitani), Comedians di Griffith (regia di Salvatores), Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder (regia di Bruni e De Capitani). Nel 1992 si associa con un altro stabile privato di Milano, il Teatro di Porta Romana. Il nuovo organismo prende il nome di Teatridithalia.

Calendoli

Considerato uno dei padri fondatori della storia dello spettacolo modernamente intesa, Giovanni Calendoli ha sempre fatto del teatro militante il punto di riferimento della sua attività di storico. Nel 1960 ha cominciato a insegnare a Padova Storia del cinema e Storia del teatro: si fa risalire a lui la nascita di una disciplina allora guardata con sospetto. Tra le sue opere ricordiamo una delle prime monografie su Rosso di San Secondo; la raccolta, in tre volumi, di tutto il teatro di Marinetti; il primo studio sulla figura dell’attore dalle origini al Novecento (La suggestione del grottesco). Negli ultimi anni della sua attività si è molto interessato al Ruzante, a cui ha dedicato un volume, curando anche gli atti di un convegno internazionale. Tra le sue iniziative va segnalato il festival del Teatro dei ragazzi che costituisce, oggi, una preziosa eredità.

Adani

Esordisce quindicenne nella compagnia Pavlova, passando poi alla Za-Bum n.9 e alla compagnia degli Spettacoli Gialli diretta da Romano Calò. Nel 1934 ricopre il ruolo di primattrice con la ditta Cimara-Adani-Melnati, mentre è dell’anno successivo l’incontro con Renzo Ricci, col quale forma fino al 1940 una delle coppie più affiatate della scena italiana; con lui, scostandosi dal genere brillante, affronta interpretazioni di grande impegno (Ofelia, Giulietta, Caterina nella Bisbetica domata , Margherita Gauthier, Mila di Codro). Dopo la guerra si confronta con un repertorio soprattutto moderno: da Kaiser (Giorno d’ottobre , regia Paolo Grassi con V. Gassman) e Shelley (Pick-up-girl ), compagnia Ruggeri-Adani, regia G. Strehler), ad Achard, Caldwell, Cocteau, Kaufmann e Hart, Kanin, Feydeau e De Filippo, con prove di particolare rilievo in: Oh papà, povero papà la mamma ti ha appeso nell’armadio e io mi sento tanto triste di Kopit, regista M. Missiroli (1964); Giorni felici di Beckett (1965, regia di R. Blin) e ne La Venexiana con la regia di M. Scaparro (1966). Laura Adani si è ritirata dalle scene dopo il secondo matrimonio (aveva sposato in prime nozze il duca Luigi Visconti di Grazzano, fratello di Luchino), con il conte Balbo Bertone di Sambuy.

Ejzenstejn

Maestro indiscusso della storia del cinema, Sergej Michailovic Ejzenstejn si è formato in teatro nell’ambito delle avanguardie russe di inizio secolo e della temperie culturale scaturita dalla rivoluzione d’Ottobre, traendone molti spunti e suggerimenti che metterà in pratica nella sua carriera registica. Poco più che ventenne frequenta la scuola di Mejerchol’d e contemporaneamente frequenta il gruppo Feks (Fabbrica dell’attore eccentrico) di Pietrogrado. Nel 1922 è direttore dell’atelier degli allenamenti del Proletkult di Mosca (oltre alla recitazione si insegnava anche pratica sportiva), dove lavora anche come scenografo e costumista. Suoi lavori come scenografo sono: Il messicano (1921), riduzione di un racconto di J. London in cui collabora alla regia insieme a Valerij Smysliajev, Macbeth (1921), regia di V. Tichonovic e Nad Obryvom (1922) di V. Pletnev, con la regia di M. Altman. Nel 1922 lavora per nove mesi alle scenografie per lo spettacolo di Mejerchol’d Casa Cuorinfranto di G.B. Shaw, che però non andò mai in scena.

La sua prima regia teatrale è Anche il più saggio sbaglia (1923), riduzione dell’omonima commedia di Ostrovskij, presentata al Teatro del Proletkult. Lo spettacolo comprende numeri da circo come acrobazie e funambolismi, che richiedevano agli attori un’ottima preparazione atletica, e l’accompagnamento di una `orchestra di rumori’. All’interno della rappresentazione veniva proiettato il suo breve film Il diario di Glumov , che dava al tutto l’impressione di un insieme barocco e frastagliato. Nello stesso anno allestisce, sempre per il Proletkult, Mosca ascolti? , un `agit-guignol’ di Sergej Tret’jakov. Ritorna al teatro nel 1940, quando già ha alle spalle gran parte dei suoi capolavori cinematografici come La corazzata Potëmkim (1925), Ottobre (1927), Aleksandr Nevskij (1938), curando la regia di Die Walküre di Wagner, messa in scena al Bol’šoj di Mosca. All’attività artistica E. ha sempre affiancato quella di saggista e insegnante; è proprio grazie alla trascrizione di parte delle sue lezioni, completate da contributi originali del grande regista, che nasce la sua ponderosa opera di teoria cinematografica).

Hippodrome

Nel 1905 l’architetto Frederic Thompson e il promoter Elmer S. Dundy – già creatori di `Luna Park’, un enorme parco di divertimenti di Coney Island, il cui nome diventa (ed è tuttora) sinonimo del genere – decidono di creare la più grande e imponente sala di spettacolo del tempo. Fondano così l’Hippodrome, non un normale teatro ma un enorme agglomerato con annesso zoo, sotto forma di edificio teatrale che occupa un intero isolato, fra la 43ª e la 44ª strada, all’incrocio con la Sesta, in piena Manhattan. Un edificio che si inserisce nella diffusa tendenza del kolossal americano d’inizio secolo e che ricalca le orme del vecchio Franconi’s Hippodrome, costruito anni prima accanto a Madison Square (ben presto soppiantato dal più celebre Garden). Da notare che numerosi edifici con lo stesso nome erano già presenti in altre importanti città, tra tutti quelli di Parigi o di Londra (dove debutta un giovanissimo Chaplin); ma è l’H. di New York a diventare celebre.

L’edificio viene a costare un milione e mezzo di dollari; è in grado di ospitare 5.200 spettatori (con palchi capaci di 40 persone e organizzati in modo da poter ospitare feste private). Il palcoscenico misura 13 metri per 32, ma il proscenio è ancora più vasto: ospita una grande vasca che permette spettacolari giochi d’acqua e la celebre scomparsa del corpo di ballo che vi si immerge. Pistoni idraulici consentono, oltre al rapido riempimento e svuotamento della vasca, lo spostamento verticale di una grande sezione del palco. Le quinte, grazie a moderni sistemi elettrici, permettono lo spostamento di innumerevoli ed enormi scenari. Lo stile architettonico, infine, contribuisce a fare dell’Hippodrome il simbolo del kitsch americano dell’epoca, con enormi stucchi rappresentanti teste di elefante, miriadi di insegne d’argento e oltre ottomila lampadine elettriche. Anche l’estetica degli spettacoli è in linea con questo stile non proprio sobrio. L’Hippodrome apre il 12 aprile 1905 con due enormi riviste (presentate contemporaneamente), A Yankee Circus on Mars e Andersonville. Le produzioni comprendono oltre mille fra artisti e animali; enormi cifre vengono spese per costumi, scenografie e coreografie, che debbono risaltare al massimo sull’immenso palcoscenico, scrutato da lontano dagli occhi degli spettatori.

L’Hippodrome ospita numerosi artisti celebri dell’epoca, da Vernon e Irene Castle a Anna Pavlova, e presenta per la prima volta la celebre `sparizione dell’elefante’ di Houdini. Proprio per le ingenti spese, l’attività dell’Hippodrome è caratterizzata da problemi economici e numerosi cambi di gestione. Negli anni la direzione passa in parecchie mani: a Lee e J.J. Shubert, che affermano le Hippodrome’s Extravaganzas, con parate di carri trainate da elefanti, dirigibili in scena e gare di auto sportive. Dal 1915 al 1923 tocca a Charles Dillingham (la gestione forse più elegante); ma nel 1923, con l’avvento del gruppo Keith-Albee, l’Hippodrome, privato della celebre vasca e di altri ornamenti che lo avevano reso celebre, comincia a perdere le proprie caratteristiche trasformandosi in teatro di vaudeville. Nel 1926 viene acquistato dalla Rko, che lo trasforma in un cinema; dal 1929 la sala rimane pressoché inutilizzata, per esser riportata temporaneamente allo splendore dei primi anni da Billy Rose con Jumbo (1935), diretto da George Abbott, con Jimmy Durante: bella produzione, che però provoca un nuovo fallimento finanziario. L’Hippodrome cessa la sua attività di luogo di spettacolo e viene trasformato in un enorme parcheggio. Nel 1952 l’edificio viene abbattuto.

Friuli Venezia Giulia

Fondato nel 1954 a Trieste, il Teatro Stabile di Friuli Venezia Giulia ha iniziato le proprie attività nel dicembre dello stesso anno al Teatro Nuovo, presentando La donna di garbo di Goldoni. Nel corso degli anni al palcoscenico del Nuovo sono stati affiancati gli spazi dell’Auditorium e del Politeama Rossetti, potenziando via via la funzione di ponte verso la drammaturgia e le culture dell’area centro-europea ( Questa sera si recita a soggetto di Pirandello e La rosa di zolfo di A. Aniante, 1958, regia di F. Enriquez; Un marito di Svevo, regia di S. Bolchi, 1960-61, che ha iniziato il lavoro di recupero dei testi teatrali dell’autore triestino fino ad allora dimenticati; Vera Verk di F. Tomizza, regia di F. Tolusso, 1963) peculiare cifra distintiva dell’attività produttiva dello Stabile. Teatro essenzialmente di frontiera, ha cercato di privilegiare l’attenzione per autori della cosiddetta Mitteleuropa, presentando in prima assoluta sul territorio nazionale testi quali Avvenimento nella città di Goga di Slavko Grum (di 1971-72), Anatol di A. Schnitzler (regia di R. Guicciardini, 1975-76), Attraverso i villaggi di Peter Handke (regia di R. Guicciardini, 1983-84), Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal (regia di G. Pressburger, 1992-93), Intrigo e amore di Friedrich Schiller (regia di N. Garella, 1992-93), Medea di Franz Grillparzer (regia di N. Garella, 1994-95), e L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro ancora di Handke (regia di Pressburger, 1994-95). Parallelelamente, sulla scia dei principali teatri pubblici nazionali, è stato sviluppata e promossa la diffusione del cosiddetto teatro d’arte. Attori, registi, scenografi e musicisti fra i più importanti della scena italiana si sono alternati nelle produzioni dello Stabile. Attualmente è direttore artistico A. Calenda, che ha iniziato il suo mandato promuovendo nell’ambito di un convegno (1996) il primo Festival della giovane drammaturgia italiana.

Bordon

Laureato in Legge, Furio Bordon ha lasciato la professione forense a 25 anni per dedicarsi all’attività di narratore (quattro romanzi), drammaturgo (ha vinto il Premio Idi nel ’94), sceneggiatore (al cinema ha lavorato con V. Zurlini) e regista teatrale: Tradimenti di H. Pinter con Bonacelli-Bacci; Lo zoo di vetro di T. Williams con P. Degli Esposti, Oblomov da Goncarov con G. Mauri e T. Schirinzi, La vita xe fiama di Marin con G. Moschin, Amici, devo dirvi da D. M. Turoldo con R. Sturno. Dal 1988 al 1992 ha diretto il Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia (che gli aveva allestito la prima commedia). Tra le opere, Giochi di mano (1974), Il canto dell’orco (1985), Il favorito degli dei (1988), La città scura (1994), Le ultime lune , addio al palcoscenico di M. Mastroianni, prodotto nella stagione 1996-97 dal Teatro stabile del Veneto con la regia di G. Bosetti.

Odéon,

Il Théâtre Odéon fu il primo teatro pensato per un pubblico di 1900 persone. Le sue vicende sono legate a quelle della Francia: venne più volte chiuso, riaperto e ristrutturato (1798 e 1828). Solo alla metà del XIX secolo iniziò a stabilizzare il suo repertorio e a trovare direttori all’altezza della sua statura nazionale e internazionale. Prima sotto la direzione di Lirieux (1841), poi con André Antoine (1906-1914), l’Odéon mostra le sue grandi possibilità, ampliando il repertorio di prosa e allestendo 364 spettacoli in meno di sette stagioni. Dopo Antoine continua la girandola dei direttori fino al secondo dopoguerra; in Firmin Gémier, il fondatore del Théâtre National Populaire, rimasto in carica all’Odéon dal 1921 al 1925, si trova un degno continuatore di Antoine e della sua politica, seguita anche da Paul Abram. Nel 1946 l’Odéon diventa la Salle Luxemburg e viene restituito alla Comédie-Française; nel 1959 Malraux, segretario alla cultura del governo francese, entra in conflitto con la Comédie e ferma le sue attività in questo Teatro. L’Odéon passa così a Barrault e alla sua compagnia, che per dieci anni creano un repertorio con produzioni originali e nuovi allestimenti di classici, che riscuotono successi internazionali. Nel 1967 si inaugura un teatro studio, il Petit-Odéon, conosciuto oggi come il teatro Roger Blin. Nel maggio del 1968, il teatro subisce un’incursione di protesta: qualche giorno più tardi Barrault, abbandonato da Malraux, si dimette. Nel 1971 Pierre Dux, amministratore della Comédie-Française, assume la direzione di entrambi i teatri; gli succede Jacques Toja, che nel 1980 invita molte produzioni straniere. Nel 1983 lo statuto viene nuovamente modificato e trova la sua forma odierna. L’attività è divisa in due aree: il Théâtre de l’Europe è creato per produrre e ospitare spettacoli francesi e stranieri, sotto la guida di Giorgio Strehler; per la seconda metà della stagione invece il Théâtre National de l’Odéon, diretto da François Barrachin, ospita diverse compagnie da tutta la Francia. Nel 1986 Jean Le Poulain, amministratore della Comédie-Française, diviene anche amministratore dell’Odéon, che continua a ospitare spettacoli da tutto il mondo; nel 1988 Strehler lascia la direzione a Lluís Pasqual, al quale viene affidato l’uso esclusivo dell’O.

Royal Court Theatre

Costruito nel 1871, distrutto nel 1887, Royal Court Theatre viene riedificato nel 1888 ed è tuttora il teatro inglese che vanta la più lunga tradizione di incoraggiamento verso la produzione di nuove opere drammaturgiche. Dopo essere stato trasformato in cinematografo nel 1932, riapre nel 1952 e nel 1956 diviene la dimora stabile della English Stage Company ideata e diretta da George Devine. La compagnia, ancora oggi in piena attività, nasce e si consolida con il fine di riportare sulla scena la scrittura impegnata e di qualità, di incoraggiare la scrittura di nuovi testi e di creare un teatro vitale e popolare. Il Royal Court Theatre diviene il simbolo della nuova drammaturgia inglese nel 1956, in seguito alla messa in scena di Ricorda con rabbia , e ha mantenuto il suo ruolo di trampolino di lancio per autori come Wesker, Pinter, Bond, Hare, la Churchill e il più recente Mark Ravenhill, sfruttando la flessibilità di due spazi (Theatre Upstairs per laboratori e debutti, Theatre Downstairs). Nel 1995 attraverso l’Arts Council ha ottenuto un finanziamento per la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’edificio; per questo la sede è stata temporaneamente trasferita nel WestEnd presso i teatri The Duke of York’s e Ambassadors.

Komi Teatr

L’Unione teatrale Komi, derivata da alcuni circoli sorti spontaneamente nelle scuole e nelle case della cultura, mise in scena con attori non professionisti le prime opere di Savin e gli atti unici di Lebedev. Dal 1930 si formò una compagnia di professionisti, che portò nei villaggi opere di propaganda scritte da autori come Ermolin e Djakonov. Temi ricorrenti erano le lotte contro i nemici del popolo e i sanguinosi episodi di guerra civile che continuavano a segnare il Paese. Nel 1936 a Syktyvkar nacque il Teatro Stabile, dove debuttò la prima opera nazionale ( La Tempesta su Ust-Kulom di Dechtjarov).

Eliseo

Teatro Creato come Teatro Apollo nel 1910, subito ribattezzato Teatro Cines (1914), l’Eliseo di via Nazionale a Roma assume questo nome solo nel 1918. Teatro di felice e lunga storia, ha ospitato i più grandi artisti di questo secolo, da Mistinguett a Petrolini (che vi presentò la prima versione di Nerone ), Dario Niccodemi, Nanda Primavera, Anna Fougez, Totò, Anna Magnani. Oggetto delle attenzioni di critici come Savinio e Flaiano, l’E. divenne un punto di incontro culturale antifascista durante il Ventennio: nelle famose `stanze’, salotto buono di intellettuali e artisti, si incontravano Cervi, Stoppa, Brancati, Chiaromonte, Suso Cecchi d’Amico, Visconti, che proprio all’E. presentò la prima di I parenti terribili di Cocteau, il 30 gennaio 1945. Negli anni ’50 l’E. fu teatro privilegiato per la Compagnia dei Giovani (De Lullo-Valli-Falk-Guarnieri, cui si unirono presto Patroni Griffi e Orsini): qui presentarono Gigi (1955) e Il diario di Anna Frank (1957). Negli anni successivi arrivò all’E. e all’attigua sala del Piccolo E. il Teatro Club di Gerardo Guerrieri, e sempre qui Eduardo De Filippo diede il suo simbolico addio alle scene. Dagli anni ’80 si sono succedute diverse direzioni artistiche: dal 1977 al 1996 Giuseppe Battista ha diretto il teatro coadiuvato da Patroni Griffi, De Lullo e Valli, fino alla scomparsa di quest’ultimo nel 1980; poi è stato affiancato da Orsini, Falk, Lavia; infine da Maurizio Scaparro, che ha assunto la direzione nel 1997.

Federal Theatre

Federal Theatre è un’organizzazione produttiva istituita nel 1935 dal Congresso degli Usa nell’ambito delle misure contro la disoccupazione. Fu il primo esempio americano di teatro interamente finanziato dal denaro pubblico. Affidato alla direzione di Hallie Flanagan (1890 – 1960), già responsabile del teatro sperimentale della Vassar University, diede lavoro a circa diecimila persone che svolsero le loro attività in quaranta Stati, fornendo a bassissimo prezzo spettacoli d’ogni genere e nelle sedi più diverse. Fra le sue molte iniziative si possono citare: l’istituzione di un teatro nero, per il quale O. Welles, ventunenne, allestì un famoso Macbeth in versione voodoo; l’ideazione di un nuovo genere teatrale, il `Living Newspaper’ (giornale vivente) che affrontava temi dell’attualità politica e sociale con le tecniche del teatro agit-prop; la rappresentazione contemporanea in ventiduemila città di Qui non può succedere (It Can’t Happen Here), scritto per l’occasione dal romanziere Sinclair Lewis. Poco gradito alle destre, l’organizzazione venne sciolta, per decisione del Congresso, nel 1939. La Flanagan ne avrebbe raccontato la storia nel volume Arena (1940).

Albanese

Dotato di grandi capacità mimiche ed espressive, Antonio Albanese ottiene successi sia in teatro che in cinema e televisione. Si forma alla Scuola d’arte drammatica ‘P. Grassi’ al fianco di registi teatrali appartenenti all’area della sperimentazione e della cultura meno tradizionale come Dario Manfredini, Gabriele Vacis, Jesus Carlos Martín, Santagata e Morganti e Giampiero Solari. Dopo una breve ma folgorante stagione al cabaret Zelig di Milano, A. raggiunge il grande pubblico televisivo grazie a Su la testa di Paolo Rossi (1993) nei panni dei suoi famosissimi personaggi Alex Drastico (il meridionale spocchioso) e Epifanio (il suo poetico e insicuro contraltare, eredità di un suo precedente studio teatrale), due tipi che si inseriranno ben presto per i modi di dire e di muoversi nel linguaggio comune. Anche a teatro i suoi personaggi ottengono grandi consensi di critica e di pubblico e il suo spettacolo Uomo (1992), che lo vede unico interprete in scena, verrà ripreso nel 1994 registrando il tutto esaurito in ogni piazza per ben due stagioni. Continua a alternare televisione (Mai dire gol) e palcoscenico: nel 1994 interpreta la commedia di Francesco Freyrie Salone meraviglia con Vito e Tita Ruggeri, diretto da Daniele Sala. Nel 1997, dopo essere stato protagonista del film Vesna va’ veloce di Carlo Mazzacurati, affronta al cinema nella doppia veste di regista e interprete Uomo d’acqua dolce e inizia una fortunata tournée con il nuovo spettacolo teatrale Giù al nord di cui firma, assieme a Michele Serra ed Enzo Santin, la drammaturgia, mentre la regia è di Giampiero Solari. A. è anche autore del libro Patapim e Patapam che raccoglie alcuni suoi monologhi.

Popolare di Roma,

Il Teatro Popolare di Roma fu fondato nel 1975 da Scaparro e un gruppo di attori tra cui P. Nuti, A. Innocenti, P. Micol, F. Pannullo. Nei primi anni di attività, la compagnia si segnala per spettacoli di notevole rilevanza ( Riccardo II, di Shakesperare, 1975; Lunga notte di Medea , di C. Alvaro, 1976; Cirano di Bergerac , di E. Rostand, 1977 e Giulio Cesare, di Shakespeare, 1978). Una seconda fase di vita si apre con il passaggio alla direzione della compagnia di Piero Nuti, chiamato a sostituire Scaparro, nel frattempo divenuto direttore della sezione Teatro della Biennale di Venezia (1979). Il Teatro Popolare di Roma si caratterizza come fucina di giovani talenti e come nucleo stabile al quale collaborano artisti dalla caratteristiche diverse: da Giovanni Testori (che vi esordì come regista con Erodiade e Oreste ), a Memè Perlini (regia di Ifigenia in Aulide ), Roberto Guicciardini, Orazio Costa, F. Crivelli, G. Gaslini, I. Papas, E. Zareschi, C. Pani, P. Villoresi, R. Giovampietro, L. Negroni, F. Branciaroli, M. Dapporto, P. Barra, A. Giordana, P. Milani, R. De Carmine, ecc. Tra gli allestimenti – numerosi dei quali al Teatro Olimpico di Vicenza – si ricordano Andria di Machiavelli, La Cortigiana dell’Aretino, Agamennone (regia di A. Innocenti), La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio (regia di P. Maccarinelli), Lazzaro (regia di M. Perlini), I Lai (di G. Testori al Festival di Spoleto).

Bulandra

Costituito da nove attori, il Bulandra Lucia Sturdza Teatrul diventa subito un organismo fondamentale della vita culturale della Romania. Diretto inizialmente da Lucia Sturdza Bulandra – alla quale è stato dedicato – per quindici anni dispone di due sale che vengono utilizzate contemporaneamente. In seguito, dal 1963 al 1977 il teatro e la compagnia passano sotto la guida di Liviu Ciulei che impone la sua visione e il suo stile. Durante la lunga direzione di Ciulei, il regista stabile è Lucian Pintilie che presenta molti spettacoli di classici rumeni e non; gli autori più frequentati sono: Ion Luca Caragiale, il fondatore del teatro comico rumeno, Cechov e Gogol’. I direttori permanenti della compagnia sono successivamente Tocilesco – del quale si ricordano: Tartuffe (1983), Barbul Vacaresco di Bulgakov (1984) e Hamlet (1985) – e Catalina Buzoianu che allestisce A lost morning (1986) di G. Adamsteanu, I giganti della montagna di Pirandello (1987), Merlin (1991) di Tankred Dorst. L’ultima generazione è invece rappresentata da Valeriu Moisescu: Il concetto di felicità da Salomone , Il segreto della famiglia Posket di Pinero, Il Misantropo di Molière; e da Ion Caramitru, che è regista e interprete di spettacoli come: The third stake (1988) di Marin Soresco e Shape of the table (1991) di David Edgar. Il B. è sempre stato molto controllato dal regime che lo considerava un punto di riferimento per i dissidenti; dopo la censura de Il revisore di Gogol (1972), Lucien Pintilie va in esilio in Francia e Ciulei si dedica alla regia. Dal 1979 alla compagnia viene di fatto impedita qualsiasi tournée all’estero, e solamente nel 1990 riescono a viaggiare e lavorare liberamente.

handicap

La fenomenologia dell’incontro tra teatro e handicap si presenta variegata e complessa. L’utilizzo stesso del termine h. porta con sé una equivalenza nata nel linguaggio comune, che confonde il deficit con l’h., vale a dire l’origine con le conseguenze, dovute alle risposte al deficit date dall’ambiente fisico e sociale e dalla psicologia della persona. Accogliendo questa precisazione, è evidente come l’esperienza di teatro handicap non si riassuma nella presenza di attori portatori di una disabilità fisica o mentale, ma coinvolga profondamente le istituzioni socio-educative, culturali, artistiche e politiche, gli operatori che in esse intervengono e, soprattutto, le rappresentazioni sociali e i vissuti collettivi che accompagnano e spesso originano l’handicap. L’orizzonte dell’esperienza di teatro handicap, nella situazione italiana degli anni ’90, si estende tra i due estremi della produzione artistica professionale e della teatroterapia. I ritmi dilatati, l’iper/ipotonicità muscolare, la naturalezza di azioni che coniugano profondità arcaiche e comportamenti socialmente denotati come devianti, le azioni in bilico tra ludico e gioco, e il corpo segnato da una mancanza che diviene ineludibile presenza, sono i segni delle disabilità che ci con-muovono nell’universo sospeso e delirante di Pippo Delbono, o che si fanno icone delle istanze di crisi profonda che attraversano la società, come per gli interpreti tracheotomizzati del coro della Socìetas Raffaello Sanzio, o che rappresentano la poetica del regista Enzo Toma.

In altri casi, come per Danio Manfredini, l’esito teatrale diviene il precipitato personale di intensi processi laboratoriali dove l’artista, nell’incontro con l’altro, ritrova un dialogo profondo con sé e con l’uomo. Sul confine che unisce l’esperienza teatrale alle sue matrici sociali e pedagogiche si colloca il lavoro di alcuni educatori che, nella quotidianità rigorosa e preordinata dei Centri diurni che ospitano disabili adulti, stanno introducendo, coadiuvati dall’esperienza teatrale di artisti come Giuseppe Badolato e Piera Principe, le metodiche laboratoriali del teatro; consapevoli della necessità del teatro, essi ricreano l’esperienza nell’incontro con il gruppo e il contesto, senza snaturare le metodiche per realizzare obiettivi terapeutici o riabilitativi. Sono, invece, proprio questi gli obiettivi di alcune esperienze teatrali, caratterizzate da una decisa impronta educativa o terapeutica. Per quanto compete le prime è, tra le istituzioni, soprattutto la scuola dell’obbligo a intuire le valenze `integrative’ dell’esperienza teatrale, situazione in cui esplorare e apprendere la diversità come componente fondativa dell’esistenza. Da un punto di vista terapeutico, vari servizi sociosanitari propongono attività di psicodramma, mentre sono rare le esperienze di dramatherapy, che stimolano la dinamica rappresentativa e ludico-immaginativa (Teatro Reginald di Torino).

Sipario

Fondata nel 1946 a Genova da Ivo Chiesa, Sipario è stata diretta negli anni ’50 e ’60 da Valentino Bompiani, con Franco Quadri come caporedattore, segnando una stagione fondamentale per il rinnovamento del teatro italiano. In seguito la direzione è stata assunta da Tullio Kezich (1970), Giacomo De Santis (1974), Stefano De Matteis e Renata Molinari (1980). Dopo una brevissima sospensione, nel dicembre 1981 la rivista riprendeva le pubblicazioni, ancora diretta da Giacomo De Santis; infine l’attuale direttore è l’attore e regista Mario Mattia Giorgetti, in carica dal 1984. In oltre cinquant’anni di attività la rivista ha ospitato articoli dei più importanti critici e drammaturghi di questo secolo; inoltre ha pubblicato centinaia di testi di commediografi italiani e stranieri. È stata ed è un punto di riferimento per addetti ai lavori e semplici appassionati.

Volksbühne

Volksbühne è un teatro fondato nel 1890 a Berlino da un gruppo di dirigenti socialdemocratici come Libero teatro popolare (Freie V.); è uno dei primi tentativi di democratizzazione del teatro che ispira poi le moderne forme di attività sovvenzionata. La proposta parte da B. Willie, un intellettuale, membro della sezione giovanile del Spd (il partito socialdemocratico tedesco) e vicino alla Freie Bühne, un teatro nato sul modello del francese Théâtre Libre. L’idea è quella di spezzare il monopolio culturale della borghesia organizzando in modo cooperativistico un pubblico di lavoratori. A costoro, dietro versamento di una quota minima di partecipazione, si vuole garantire il diritto a una rappresentazione al mese in sale che devono essere prese in affitto con posti a sedere, da assegnarsi con un sistema a rotazione o tirando a sorte.

Il repertorio deve essere di alto livello, con autori classici e moderni, da Goethe e Schiller a Ibsen e Hauptmann, e interpretato da attori di provata professionalità. Nonostante la comune aspirazione a un’arte per il popolo, ben presto sorgono conflitti tra i responsabili del partito (che intendono dare priorità alle lotte politiche e alle problematiche dell’economia) e B. Willie, primo presidente dell’organizzazione teatrale. Ne segue una scissione: B. Willie fonda nel 1892 la Neue Freie V. che si avvanteggerà della rottura tanto che nel 1913 conterà già cinquantamila aderenti. I dirigenti socialdemocratici, infatti, tendono a operare scelte artistiche improntate a un certo tradizionalismo (Schiller piuttosto che il naturalismo, per esempio), con poche aperture a un effettivo rinnovamento del teatro, convinti che un’arte proletaria non sia di fatto possibile in un regime di capitalismo. Questa scissione viene superata con il contratto del `cartello’ nel 1913 e la riunificazione in seno alla V. diventa un dato di fatto nel 1920. L’organizzazione, a quel punto, dispone di un proprio teatro a Berlino (chiamato appunto Volksbühne).

Alla vigilia della guerra, nel 1914, gli aderenti diventano settantamila e oltre mezzo milione nel 1927; le tournèe del teatro si estendono all’intero territorio tedesco, ma le scelte si adattano sempre più a un certo spirito di neutralità sia riguardo agli aspetti economici sia riguardo alle scelte artistiche. Nel 1927, la rottura di E. Piscator – regista principale – segna il culmine di un nuovo conflitto tra due orientamenti diversi. La gioventù di Berlino fa fronte comune continuando a rivendicare un teatro militante a cui K.H. Martin (divenuto intendente nel 1929) provvede inserendo nei programmi pièce d’attualità (Zeitstücke) di cui si contano numerosi esempi soprattutto verso la fine degli anni ’20. Sotto il nazismo l’organizzazione viene sciolta e il teatro viene statalizzato a partire dal 1937.

L’associazione rinasce dopo la guerra, nella Rdt, ma perde la sua indipendenza (1953) a vantaggio dell’organizzazione sindacale sino a quando, nel 1954, il teatro ricostruito può riprendere la sua attività a Berlino sotto l’intendenza di F. Wisten. Negli anni ’70 torna a essere un teatro di primaria importanza sotto la direzione artistica di B. Besson. Nel 1963, nella Germania federale, l’associazione conta ancora quattrocentotrentamila membri, ma soltanto poco più della metà venti anni più tardi. Una nuova sala con il nome di Volksbühne viene inaugurata a Berlino Ovest nel 1962 sotto la direzione di E. Piscator che, sino al 1966 anno della sua morte, vi presenta, tra l’altro, il nuovo teatro documentario tedesco. Dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della città viene scelto come nuovo intendente il regista F. Castorf.

popolare,

Il termine popolare è applicato a una serie grandissima di avvenimenti, manifestazioni e comportamenti che coinvolgono livelli sociali, culturali ed economici molto differenti. Ciò discende in primo luogo della genericità storica della stessa definizione di popolo, parola che nel tempo ha avuto riferimenti diversi e spesso fra loro contrastanti. Mentre in inglese esistono due termini, folk e popular , in italiano la parola popolare viene applicata, ingenerando ovviamente confusione ed equivoco, tanto alle manifestazioni che appartengono alla tradizione popolare vera e propria, che a manifestazioni proprie della cultura di massa. Così, vengono definiti oggi musica popolare, con una evidente intenzione nobilitante, anche i prodotti della musica di consumo e della musica di massa. Nell’ambito dello spettacolo l’utilizzazione del termine teatro popolare è assai più vecchio e così abbiamo l’indicazione di teatro popolare già dal secolo scorso per definire gli spettacoli non destinati ad un pubblico elevato e non ospitati nei teatri di un certo prestigio, pur non connessi alle pratiche effettivamente popolari/tradizionali. In quella che è stata definita la `fascia folkloristica’, cioè il mondo contadino (in senso lato) sono state presenti (e in parte sono sopravvissute) varie forme, anche assai complesse e articolate, di teatro che possiamo considerare propriamente popolare, per lo più connesse e pratiche rituali, ormai più o meno riconosciute consapevolmente come tali. Non è possibile citare tutte queste manifestazioni, ma è sufficiente ricordare le principali scadenze calendariali nelle quali il teatro popolare si è manifestato e in parte ancora, in modi più o meno modificati, si manifesta. Abbiamo così vari cicli legati al calendario, con realizzazioni spettacolari ora manifestamente religiose e ora invece manifestamente laiche.

Non va dimenticato che anche la maggior parte degli spettacoli popolari che si realizzano con intenzioni e forme religiose/cattoliche hanno radici antecedenti alla cristianizzazione e di queste radici, in modo più o meno scoperto, i segni. Di carattere propriamente laico sono gli spettacoli legati a quattro periodi dell’anno, il capodanno (doppio laico del Natale), la mezza quaresima, il carnevale e la fine dell’inverno e l’inizio della primavera (i maggi e i bruscelli). In termini di spettacolo in questi periodi troviamo sia veri e propri avvenimenti teatrali, sia pratiche di questua con musiche, canti, comportamenti formalizzati, talora costumi, sempre percorsi rituali. La cristianizzazione ha svorapposto a pratiche rituali preesistenti e legate al ciclo della produzione agraria le sue scadenze calendariali, assorbendo in un ambito religioso comportamenti spettacolari già esistenti. Avvenimenti teatrali di evidenza religiosa sono quelli connessi al ciclo natalizio e al ciclo della Settimana santa, con vere e proprie realizzazioni teatrali, ad esempio le sacre rappresentazioni e molte processioni che sono veri e propri spettacoli. Di notevole interesse culturale e sociologico sono, nella fascia del teatro popolare, le processioni, spettacoli senza spettatori in quanto anche chi assiste al passaggio del corteo processionale è attore dell’avvenimento. Affermando che queste manifestazioni teatrali o spettacolari sono da assumere come effettivamente popolari non si vuol certo disconoscere le relazioni di dipendenza che molte fra esse (per esempio il maggio drammatico o le sacre rappresentazioni) hanno con il teatro e lo spettacolo delle egemonie culturali ed economiche del passato.

Biondo

Il Teatro Biondo è stato inagurato il 15 ottobre 1963 con una commedia realizzata dalla Compagnia Drammatica italiana diretta da Ermete Novelli. Dopo aver ospitato numerose e prestigiose compagnie che hanno segnato la storia del Teatro drammatico italiano venne trasformato nel 1968 in Fondazione Andrea Biondo. Nel 1978 alla direzione del teatro subentrò Pietro Carriglio. In quell’anno il B. realizzò la sua prima produzione: Cagliostro dei buffoni dell’autore palermitano Salvo Licata. Grazie alla direzione di Carriglio e a una progettualità di ampio respiro e a una progettaualità di ampio respiro, la Fondazione Biondo si trasformò in un teatro di produzione. Nel 1983 il Ministro del Turismo e dello spettacolo inserì il B. tra gli organismi teatrali stabili a gestione pubblica. Quattro anni dopo, il 31 dicembre 1986 venne sottoscritto l’atto costitutivo dell’Associazione Teatro Biondo Stabile di Palermo. Nel 1991 Pietro Carriglio lascia la direzione del Teatro per andare a dirigire il Teatro Stabile di Roma; gli subentra Roberto Guicciardini fino al settembre del 1998. Nell’ottobre dello stessso anno Carriglio ritorna a Palermo nuovamente guida dello Stabile, che si avvale anche di un Ridotto di trecento posti, diventando un vero e proprio laboratorio della drammaturgia italiana ed europea del Novecento.

Rizzoli

Laura Rizzoli si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano sotto la guida di Esperia Sperani nel 1953. Interprete di temperamento drammatico, debutta con la compagnia del Teatro Manzoni di Milano (Benassi, Santuccio, Brignone) ne I fratelli Karamazov di Copeau-Dostoevski; seguono L’allodola di Anouilh, Tartufo di Molière (Dorina), La Dodicesima notte (Maria). Con il Teatro Stabile Duse di Genova prende parte a Ivanov di Cechov, I mariti di Torelli, La coscienza di Zeno di Svevo (regia L. Squarzina). Nel 1957 riceve la Noce d’oro per La ragazza della giostra di Bassani. Del 1958 è l’esordio televisivo come protagonista di La donna di nessuno; lavora con la compagnia teatrale di E. Calindri, a fianco del quale interpreta in tv diverse commedie. Nel 1968 a Roma dà vita con Mino Bellei alla Cooperativa del Malinteso (Il malinteso di A. Camus, Senilità di I. Svevo, La donna di casa di V. Brancati, regie N. Rossati). Negli anni ’70 partecipa alla stagione femminista del Teatro della Maddalena (Roma) con spettacoli di B. Alberti, D. Maraini, A. Ceriani (Eguaglianza e libertà). Dopo Maschere nude da Pirandello, regia L. Puggelli, nel 1978 lascia il teatro e da allora si dedica al doppiaggio, a Milano con la cooperativa ADC (serial e soap-opera tv; sue le voci di V. Redgrave, J. Moreau, I. Bergman).

Indipendenti,

Il Teatro degli Indipendenti – luogo privilegiato di alcune tra le più interessanti forme di sperimentazione – fu fondato nel 1922, a Roma, da Anton Giulio Bragaglia; la sua sede fu uno scantinato di palazzo Tittoni, in via degli Avignonesi. Oltre al repertorio sperimentale ospitò pantomime e spettacoli di danza. Rimase chiuso un anno quando, nel 1924, Bragaglia andò a dirigere la Stabile sarda. Nel 1926 e nel ’28 Carlo Ludovico Bragaglia, fratello di Anton Giulio, vi diresse alcuni spettacoli, mentre tra il 1929 e il ’30 vi firmò tutte le regie (compresa L’opera da tre soldi di Brecht, con il titolo La veglia dei lestofanti ). Al Teatro degli Indipendenti lavorarono, tra gli altri, Umberto Sacripante, Teresa Franchini, Carlo Duse, gli scenografi Ivo Pannaggi e Virgilio Marchi, letterati in veste d’attori come Marcello Gallian. Vi si tennero anche spettacoli di fantocci, allestiti da Giuseppina Bragaglia. L’intensa attività del teatro terminò nel 1931.

illusionismo

L’illusionismo è l’insieme di tecniche teatrali per cui, tramite apparati ed effetti generalmente propri del palcoscenico, è possibile in modo apparentemente miracoloso dare vita ad apparizioni, sparizioni, levitazioni, sdoppiamenti e smembramenti di corpi. In seguito alle intuizioni avute alla fine dell’800 dai parigini Jean-Eugène Robert-Houdin e George Meliès nel loro teatro, l’i. da intrattenimento di salone diviene arte del palcoscenico, soprattutto grazie agli ingegnosi spettacoli dell’Egyptian Hall di Londra, dove i direttori e illusionisti David Devant e John Nevil Maskelin scoprirono le potenzialità teatrali della moda ‘spiritista’ (con apparizioni di fantasmi ed elaborate pantomime magiche). Da qui l’illusionismo si sposta sui palcoscenici americani con compagnie specializzate e precedute da imponente pubblicità, dirette da illusionisti come Hermann e Thurston. Negli anni ’10 e ’20, a fianco ai numeri singoli del vaudeville, la grande rivista di illusionismo americana è aggiornata dagli spettacoli di Harry Kellar, di Horace Goldin (innovatore nella velocità delle presentazioni) e da quelli orientaleggianti del sontuoso Ching Ling Foo, con tournée in parecchi continenti ed in seguito di Harry Blackstone, a lungo tra i più inventivi e noti.

In Europa l`illusionismo diviene popolare negli anni ’40 soprattutto grazie ai grandi spettacoli del tedesco Kalanag che ispirano in Italia quelli, seppure più modesti, di Ranieri Bustelli, la cui rivista itinerante è popolarissima fino agli anni ’60. Negli anni ’80, grazie alla televisione e alla tecnologia, l’illusionismo ha una grande svolta tecnica e stilistica con le moderne intuizioni teatrali del canadese Doug Henning e della sua équipe di inventori indipendenti come Jim Stenmeyer o John Gaughan, con cui avrà successo la nuova generazione capeggiata da David Copperfield. A parte quest’ultimo, la rivista magica itinerante non esiste più, e il teatro di illusionismo è diventato stazionario in città del gioco come Las Vegas, dove esistono i tre più importanti teatri di i. contemporaneo: il Monte-Carlo, dove si esibisce Lance Burton, il Mirage, dove regna la rivista del duo Sigfried & Roy (forse la più spettacolare produzione di i. di ogni tempo) e il Caesar’s Magical Empire, con vari artisti di prim’ordine. In Italia la popolarizzazione dell’i. si deve soprattutto a Silvan, Tony Binarelli e Alexander con le loro innumerevoli apparizioni televisive e grandi spettacoli dal vivo. Tra i più preparati della nuova generazione italiana, Stefano Arditi e Raul Cremona.

psicoanalisi e teatro

Psicoanalisi e teatro si riferisce a una linea di pensiero novecentesca che individua nella creazione di relazioni autentiche (tra sé e sé e tra sé e il mondo esterno) l’obiettivo comune a teatro e terapia. Il gioco si presta bene a quest’obiettivo. In Al di là del principio del piacere S. Freud riconosce nel `gioco del rocchetto’ un simbolico tentativo di elaborare l’angoscia del lutto: egli osserva un bimbo di diciotto mesi che lancia ripetutamente lontano un rocchetto legato a un filo per poi riavvicinarlo a sé. Il gioco simboleggia l’allontanamento della madre, motivo d’angoscia per il piccolo, e il suo riavvicinamento. La ripetuta esperienza ludica gli permette di passare da una posizione passiva a una posizione attiva, da spettatore ad attore di una scena giocata e rielaborata in prima persona. Per D.W. Winnicott, specializzato in psicoanalisi clinica infantile, il teatro è – così come il gioco per il bambino – uno `spazio transizionale’ (cioè di passaggio) tra desiderio e realtà, mentre la maschera e gli oggetti scenici fungono – così come i giocattoli per il bimbo – da `oggetti transizionali’, poiché consentono all’individuo di sperimentarsi nei diversi ruoli per poi `giocare’ quello a sé più confacente. E. Goffman, studioso delle istituzioni sociali soprattutto psichiatriche, paragona la vita quotidiana a una rappresentazione dove gli individui `recitano’ ruoli diversi in base a situazioni diverse, mossi dall’inconscio desiderio di essere appagati dall’applauso della società. V. Turner, antropologo teatrale, intravede nel `come se’ del gioco teatrale un potenziale elemento terapeutico, quando esso riesce a trasformarsi in `come è’.

Come nei riti di passaggio: l’individuo/attore, in comunione con una collettività partecipante/pubblico, fa esperienza di una diversa dimensione vitale, passando da una previa fase di normalità a una fase mediana di `liminalità’, periodo a-normativo dove la trasgressione diventa liceità (come nel Carnevale) per, infine, essere reintegrato all’interno della comunità, ora in un’ottica più adulta e matura. Per quanto riguarda più da vicino il teatro, cenni comuni a p. e t. sono già rintracciabili nella psicotecnica di Stanislavskij, training basato sull’incontro creativo tra sé (uomo/attore) e l’altro (personaggio), di cui bisogna vestire i panni pur sapendo rimanere se stessi. Invece J. Beck e J. Malina, fondatori del Living Theatre, riprendono in parte il teatro della crudeltà di Artaud, riconoscendo nella sua follia esibita (nonché realmente vissuta) una potenzialità terapeutica: la demolizione della crudeltà attraverso la sua rappresentazione, ossia l’esorcizzazione della violenza reale.

Il teatro socio-politico del Living interviene direttamente sulla realtà, trasformando l’intenzione in azione. ‘Fare teatro’ significa essere totalmente coinvolti in ciò che accade dentro e intorno a te. J. Grotowski, con il teatro povero, fonda il proprio metodo teatrale eliminando ogni sovrastruttura scenografica per andare alla scoperta del corpo in scena. L’attore è un `attore santo’ portatore di `luce spirituale’, che come un capro espiatorio assume su di sé le colpe e il male di tutti. La condivisione delle emozioni non passa però dalla psiche, ma dal corpo. Le prove diventano più importanti dello spettacolo, il processo vince sul prodotto: la nuova via sperimentale del Teatro Laboratorio è fondata. L’attore, se pronto alla disciplina e all’offerta di sé, può giungere all’autopenetrazione e allo “scarico dei complessi proprio come in un trattamento psicoanalitico”. E. Barba, già discepolo di Grotowski e poi fondatore dell’Odin Teatret, rifiuta la prospettiva psicoanalitica di Freud (il problema del soggetto è psicodinamico e intrapsichico, cioè sostanzialmente rimane dell’individuo) per avvicinarsi a una prospettiva psicosociale (il problema del soggetto è interpsichico: dev’essere partecipato dalla comunità, in quanto corresponsabile). Si diffonde la pratica del `terzo teatro’, fatto né per chi va a teatro né per chi lo rifiuta aprioristicamente, bensì per chi è ai margini, per chi vive per strada. E così il teatro di strada diventa un veicolo per rimettere in circolo le emozioni di chi viene allontanato nelle zone d’ombra che riecheggiano le zone più ambigue della nostra psiche, dove ribolle silenziosamente ciò che preferiamo negare. P. Brook, con lo spettacolo Marat/Sade di P. Weiss, apre una breccia sulla riflessione tra teatro e psichiatria. Si rappresenta l’assassinio di J.-P. Marat, ammazzato da un manipolo di malati mentali di una clinica francese, dove il marchese de Sade li farà costituire in compagnia teatrale. Il linguaggio e le immagini sono acri, ma a Brook preme un teatro immediato, vero, denso di chiaroscuri come la vita. Il teatro non può essere terapeutico se cela, ma se svela.

Dagli anni ’60, con la diffusione degli happening e dunque con l’integrazione tra attori e spettatori (da Boal chiamati `spettattori’), nasce l’animazione teatrale che, attraverso laboratori teatrali attenti al processo più che al prodotto, ben presto si insedia nelle zone del disagio: manicomi, carceri, centri per l’handicap Questo diviene il bacino d’utenza per animatori (psicologi, educatori ecc.) che, partendo da certi capisaldi della psicoanalisi, se ne discostano per avvicinarsi sempre più ai paradigmi teatrali, dove la dimensione dell’incontro e della relazione viene salutata come terapeutica di per sé. La legge Basaglia del 1978 consente l’apertura dei cancelli dei manicomi e il successivo sorgere delle artiterapie, laboratori di espressività per piccoli gruppi tesi a trasformare i pazienti in attori, realizzatori dei propri desideri. Il Velemir Teatro di Trieste, capitanato da un ex degente di manicomio, ne è un esempio.

scuola,

L’importanza di un rapporto fra teatro e scuola è riconosciuta dalla fine del Cinquecento, nella Ratio studiorum dei Gesuiti, e trova nell’Ottocento uno spazio rilevante nella pedagogia dei collegi salesiani di don Giovanni Bosco. All’inizio del Novecento gli allestimenti delle grandi compagnie storiche di teatro delle marionette, come i Colla, non sono specificamente mirati allo spettatore bambino, ma a un pubblico popolare: basti pensare a spettacoli come il Gran ballo Excelsior , celebrazione positivista del progresso della tecnica, o all’ Aida . Sergio Tofano, nel suo articolo “Recitare per bambini” (1937), è fra i primi a interrogarsi sulla specificità di un teatro rivolto a un pubblico in età scolare. Nel 1955 il termine `drammatizzazione’ entra nei programmi didattici per la scuola primaria, dove si suggerisce inoltre «che l’alunno partecipi attivamente a spettacoli di burattini».

Ma è dalla fine degli anni ’60 che il doppio legame fra scuola e teatro si fa più esplicito, con spettacoli per bambini che nascono spesso da laboratori teatrali realizzati con gli scolari e gli studenti, principalmente nella scuola dell’obbligo. Sono gli anni dell’animazione che, con il decentramento e la nascita delle prime giunte di sinistra, si inserisce in una politica culturale attenta alla partecipazione dei cittadini e ai luoghi del vivere: le piazze, le fabbriche, le scuole. A Torino, che costituisce il crogiolo di questo movimento, sono da citare fra i pionieri Gian Renzo Morteo, Giuliano Scabia, Franco Passatore, Loredana Perissinotto, Remo Rostagno, Sergio Liberovici. Negli anni ’70 in quasi tutte le grandi città nascono compagnie caratterizzate da tale impronta: a Torino Assemblea Teatro, Stilema, il Teatro dell’Angolo; a Milano il Teatro del Sole; a Roma il Gruppo del Sole e Ruota Libera; a Parma Le Briciole. All’interno di questa medesima temperie culturale, nel 1976 il Movimento di cooperazione educativa diffonde con successo la formula `a scuola con il corpo’. Col Progetto giovani per la prevenzione del disagio giovanile, rilanciato dal ministero della pubblica istruzione nel 1989, il laboratorio teatrale, forte delle sue valenze di progettualità, ritualità, socializzazione, esplorazione di registri non verbali, introspezione, si impone anche nelle scuole superiori, assumendo e consolidando modalità estetiche ed espressive autonome che, al pari di altre forme di teatro nel sociale, consentono di situare alcune esperienze significative su un terreno contiguo a quello della ricerca e della sperimentazione.

Il 6 settembre 1995, auspici Maurizio Scaparro e il pedagogista Luciano Corradini, viene firmato dal ministero della pubblica istruzione, dal dipartimento dello spettacolo e dall’Eti un protocollo d’intesa relativo all’educazione al teatro che, concepita sia come fruizione sia come pratica attiva, viene riconosciuta quale «componente importante nella formazione dei giovani». Il 12 giugno 1997 un secondo protocollo (detto Veltroni-Berlinguer), siglato dal dipartimento dello spettacolo, dal ministero della pubblica istruzione e da quello dell’università e della ricerca scientifica, estende il riconoscimento a tutte le discipline dello spettacolo. A seguito di tali documenti nascono le prime iniziative organiche di formazione, afferenti al teatro della scuola, rivolte a operatori scolastici e teatrali.

TIM

Il TIM (Teatr Imeni Mejerchol’da, Teatro Mejerchol’d) venne teatro fondato e diretto dal regista Mejerchol’d dal 1920 al 1938. Nasce come Teatro RSFSR 1 nel 1920 con due spettacoli in cui il regista dichiara apertamente la sua adesione incondizionata alla Rivoluzione d’ottobre (Albe di Verhaeren, 1920 e la seconda edizione di Mistero-Buffo di Majakovskij, 1921); nel 1922 diventa Teatro del GITIS con uno spettacolo sperimentale che utilizza le nuove ricerche mejerchol’diane sull’attore (la ‘biomeccanica’) e una scenografia costruttivista, Il magnifico cornuto di Crommelynck (1922); nel 1923 diventa Teatro Mejerchol’d, dove il regista continua, senza soluzione di continuità, con la stessa compagnia e con gli stessi collaboratori, il programma ‘Ottobre teatrale’ (da lui proclamato nel 1920) dove si dichiara sostenitore di un drastico rinnovamento in ogni campo dell’attività teatrale. Dimostra tale volontà proseguendo le ricerche su testi di giovani autori sovietici (che spesso sollecita alla scrittura e con cui collabora alla messa a punto di testi non sempre letterariamente soddisfacenti), attuando messiscene rivoluzionarie dal punto di vista sia delle soluzioni registiche (gestualità, rapporto attore-spazio, musiche e ritmo dello spettacolo) sia della scenografia d’avanguardia (La terra in subbuglio di Martinet e Tret’jakov, 1923; D.E. di Podgaeckij, 1924; Il maestro Bubus di Fajko, 1925; Komandarm 2 di Selvinskij, 1929; La cimice , 1929 e Il bagno di Majakovskij, 1930; L’ultimo decisivo di Višnevskij, L’elenco delle benemerenze di Oleša, 1931; L’introduzione di German 1933).

Contemporaneamente prosegue l’indagine sui classici, cercando di farne affiorare dimensioni inaspettatamente contemporanee con riletture personalissime, dove riferimenti all’attualità politica si mescolano a sottolineature grottesche o a soluzioni spiazzanti (La foresta di Ostrovskij, 1924; Il revisore di Gogol’, 1926; Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, 1928; Le nozze di Krecinskij di Suchovo-Kobylin, 1933; La signora dalle camelie di Dumas, 1934; 33 svenimenti , spettacolo di atti unici di Cechov, 1935). A partire dal 1934, con l’irrigidirsi delle posizioni governative in campo culturale e con il rafforzarsi della dittatura staliniana, nemica di ogni avanguardia e di ogni sperimentalismo, il teatro viene regolarmente attaccato dalla critica ufficiale, accusato di `formalismo’, di atteggiamenti antirealistici, di deviazone ideologica. Molti spettacoli, messi in prova (Boris Godunov di Puškin, Voglio un bambino di Tret’jakov), vengono vietati dalla censura, il progetto di un nuovo edificio, con soluzioni innovative sia per la struttura del palcoscenico sia per la disposizione della platea, viene bloccato già in fase di realizzazione: nel 1938 il teatro viene chiuso, Mejerchol’d arrestato l’anno successivo e fucilato.

Old Vic Theatre

Edificato nel 1816, in Waterloo Road, il Royal Coburg divenne Royal Victoria Theatre nel 1833, poi R. V. Hall and Music Tavern dopo la ristrutturazione del 1880 ed infine semplicemente Old Vic Theatre. Originariamente destinato ad accogliere spettacoli popolari, nel corso del Novecento divenne sede di programmazione del miglior teatro d’autore classico. La prima stagione scespiriana risale al 1914. Il teatro era da due anni sotto la direzione di Lilian Baylis, che rimase alla guida fino al 1937. Durante questo periodo e negli anni successivi alla morte della Baylis, la fama dell’O. V. come teatro scespiriano andò consolidandosi, grazie all’apporto di attori e registi di talento: Ben Greet e Sybil Thorndike dal 1915, gli attori John Gielgud, Lawrence Olivier, Charles Laughton, Peggy Ashcroft, Flora Robson e i registi Tyrone Guthrie e Michel Saint-Denis negli anni Trenta e Quaranta. Nel 1941 il teatro fu danneggiato dai bombardamenti tedeschi, ma venne ristrutturato e riaperto nel 1950 con La dodicesima notte di Shakespeare. Dal 1953 al 58 il direttore Michel Benthall mise in scena le trentasei opere del Primo Folio dei drammi scespiriani (da Amleto ad Enrico VIII ). Nel 1963 il Teatro divenne la prima sede del National Theatre diretto da Lawrence Olivier, con una programmazione che annoverava anche altri autori: La regale caccia del sole (The Royal Hunt of The Sun, 1964) e Equus (1973) di Peter Shaffer, Rosencrantz e Guildestern sono morti (R. and G. are Dead, 1967) e Jumpers (1972) di Tom Stoppard, Edipo (1968) di Seneca diretto da Peter Brook. Nel 1974 Peter Hall assunse la direzione del National Theatre e la compagnia si trasferì in una nuova sede. Dal 1976 la fama dell’Old Vic cominciò a decadere: sede londinese della Prospect Theatre Company (1977-81), il teatro subì in seguito un taglio delle sovvenzioni statali e rimase inattivo fino al 1983, quando venne acquistato da una società canadese, che tornò ad un programma di repertorio per garantirsi profitti sicuri. Dopo la passata stagione, tuttavia, le sorti del teatro inglese sembrano di nuovo incerte, nonostante la direzione artistica sia tornata a Peter Hall. I prorietari hanno infatti dichiarato: “Avere in sala 743 persone per Il gabbiano di Cechov, in un teatro che può contenerne 1000, per noi non è abbastanza. Vogliamo vedere la sala piena tutte le sere” ( The Times , 8.9.97).