O’Neill

Figlio di un attore di origine irlandese, famoso per un Conte di Montecristo replicato per decenni, Eugene O’Neill tentò nella prima giovinezza i più diversi mestieri – cercatore d’oro, marinaio, cronista – fin quando, ammalatosi di tubercolosi, fu ricoverato nel 1912 in un sanatorio, dove trascorse il tempo leggendo soprattutto Strindberg e i classici greci. Seguì poi per un anno i corsi di G.P. Baker a Harvard e nel 1914 pubblicò, col titolo Sete (Thirst), cinque atti unici, i cosiddetti `drammi marini’. A Provincetown, nel Massachusetts, dove si era stabilito, entrò allora in contatto con un gruppo teatrale – i Provincetown Players – che nel 1916 decise di metterli in scena, partendo da In viaggio per Cardiff (Bound East for Cardiff): un dialogo teso, anche se un po’ schematico, fra due marinai, uno dei quali moribondo, che evocano un passato di sofferenze e di sogni. I Provincetown Players portarono poi i loro spettacoli a New York, dove nei diciotto anni successivi O’Neill avrebbe fatto rappresentare più di trenta drammi, in uno o più atti, imponendosi come il maggior autore teatrale degli Usa. Lo si può definire il suo lungo apprendistato: lo scrittore alla ricerca di se stesso e di una propria cifra percorreva le strade più diverse.

Componeva solidi drammi realistici con risvolti melodrammatici, come Anna Christie (1921) e Desiderio sotto gli olmi (Desire under the Elms, 1924); sperimentava modi propri dell’espressionismo nell’ Imperatore Jones (Emperor Jones, 1920) e in Lo scimmione peloso (The Hairy Ape, 1922); faceva uso delle maschere in Il grande dio Brown (The Great God Brown, 1926), dei monologhi interiori pronunciati ad alta voce fra una battuta e l’altra in Strano interludio (Strange Interlude, 1928); tentava lo strindberghiano conflitto fra i sessi in Per sempre (Welded, 1924), il dramma storico a grande spettacolo in Marco Millions (1928), la commedia nostalgica sulla provincia americana in Fermenti (Ah, Wilderness!, 1933), la rivisitazione della tragedia greca in Il lutto si addice ad Elettra (Mourning Becomes Electra, 1931). Erano in genere opere di grandi ambizioni, di forte suggestione e di indubbia teatralità, anche se non sempre sorrette da un’adeguata eccellenza stilistica, che si possono considerare le premesse indispensabili ai suoi due capolavori, Arriva l’uomo del ghiaccio (The Iceman Cometh) e Lungo viaggio verso la notte (Long Day’s Journey Into the Night), rappresentati rispettivamente nel 1946 e nel 1956, ma scritti fra il 1934 e il 1943, cioè negli anni in cui il nome di O’Neill, dopo il fiasco di Giorni senza fine (Days without End), cessò di comparire sui cartelloni di Broadway (ma fu in quel periodo che gli venne conferito, nel 1936, il premio Nobel). Sono opere d’impianto realistico, dove i temi consueti del rapporto fra realtà e illusione, della miseria della condizione umana, della desolazione di un mondo privato di rassicuranti punti di riferimento, trovano la loro espressione più coerente; soprattutto nella seconda, che è la lunga cronaca di un inferno familiare – quello stesso della prima giovinezza dell’autore – evocato con lucida consapevolezza e tenera solidarietà. Postumi furono rappresentati anche altri testi: Una luna per i bastardi (A Moon for the Misbegotten, 1957), L’estro del poeta (A Touch of the Poet, 1958), l’incompiuto Più grandiose dimore (More Stately Mansions, 1962) e l’atto unico Hughie (1964).

Ohno

Assieme a Tatsumi Hijikata, Kazuo Ohno è anima ispiratrice del Butoh e, almeno qui in Occidente dove ha continuato a esibirsi ultraottuagenario l’indiscusso profeta di questo singolare genere di danza. Dopo un iniziale avvio sportivo nella scuola nazionale di atletica, viene folgorato nel 1929 da una performance della grande danzatrice spagnola La Argentina – che ispirerà cinquant’anni dopo il suo lavoro più famoso Admiring La Argentina (1977). Inizia a studiare danza moderna con Baku Ishii e, dal 1936 al 1946, con Takaya Eguchi, ex allievo di Mary Wigman, i cui stilemi espressionisti avevano già colpito il giovane Kazuo in uno spettacolo di Harald Kreutzberg. Ma è solo nel 1949 che decide di debuttare pubblicamente all’età di 43 anni con una serie di assoli brevi e intensi. La maturazione decisiva nel suo stile avviene però nel 1954, quando avvia una profonda collaborazione con Tatsumi Hijikata. Insieme danno vita a un movimento artistico provocatorio e denso di fermenti, un genere di danza, il Butoh, come poetica tenebrosa di corpi contorti e numinosi gesti. Una danza `arrabbiata’, contro gli accademismi polverosi e contro gli standard imposti dall’Occidente, dentro la quale freme e si contorce il fantasma dei sopravvissuti di Hiroshima. È scandalo nel 1959 con Colore proibito (Kinjiki) di Hijikata, dove si esibisce per la prima volta il figlio di O., Yoshito, mentre Kazuo sceglie e rivela un’ispirazione più estetico-letteraria con Il vecchio e il mare tratto da Hemingway segue l’assolo genettiano Divine e assieme a Hijikata firma Le canzoni di Maldoror (1960), La cerimonia segreta per Afrodite e Torte dolci (1961), Danza rossa (1965), Sesso: istruzioni per l’uso e Tomato nel 1966. Alla fine degli anni Sessanta, mentre Hijikata prosegue la sua linea furente e scandalosa, O. ha una pausa di riflessione durante la quale si dedica al cinema. Gira Ritratti di Mr. O (1969), Il Mandala di Mr. O (1971) e Il libro di un uomo morto: Mr.O (1973). Torna di prepotenza sul palcoscenico con Admiring La Argentina (1977), icona perfetta del suo stile cesellato e introverso, spesso incarnato sotto sembianze femminili. Da allora, non ha mai smesso di esibirsi in scena, accompagnato più volte dal figlio Yoshito. Fra le sue più recenti apparizioni in Italia: alla fine degli anni Ottanta con Water Lilies firmato dal figlio e ispirato a Monet e nel 1997 a Ferrara, sempre in compagnia di Yoshito, con The road in Heaven, the road in Earth (Tendo Chido).

Olivier

Laurence Olivier affrontò i primi ruoli shakespeariani (fra gli altri la Caterina di una Bisbetica domata presentata anche a Stratford) quando andava ancora a scuola, e iniziò la carriera professionale nel 1924, affascinando il pubblico in drammi e commedie di consumo (soprattutto in Vite private di Coward). Ma nel 1935 tornò a Shakespeare, l’autore cui rimase legato per tutta la carriera, con un memorabile Romeo e Giulietta in cui si alternava con J. Gielgud nei ruoli di Romeo e Mercuzio. Nel frattempo aveva già iniziato una fortunata carriera cinematografica, in patria e a Hollywood, che proseguì per tutta la vita, con frequenti ritorni alle scene. Dal 1937 al 1938 recitò per la prima volta all’Old Vic, affrontando personaggi come Amleto (che portò anche a Elsinore), Enrico V, Macbeth, Iago e Coriolano; nel 1940 riprese Romeo e Giulietta accanto alla seconda moglie, Vivien Leigh; dal 1944 al 1946 tornò all’Old Vic come condirettore, insieme a R. Richardson e al regista J. Burrell, in stagioni che passarono alla storia come il punto più alto della recitazione inglese del ventesimo secolo, e aggiunse al suo repertorio Riccardo III , Re Lear , Hotspur di Enrico IV , nonché Edipo e l’Astrov di Zio Vanja che avrebbe ripreso anche in seguito; nel 1951 interpretò, ancora con la Leigh, Antonio e Cleopatra e il Cesare e Cleopatra di Shaw; nel 1955 apparve a Stratford come Malvolio, Macbeth e Titus Andronicus. Nel frattempo aveva diretto, oltre ai suoi tre famosi film shakespeariani, spettacoli nei teatri di Londra e New York.

Poi nel 1958 la svolta, che sorprese i suoi fans e ravvivò il suo declinante interesse per il teatro: decise infatti di interpretare al Royal Court, allora il teatro più giovane di Londra, The Entertainer di J. Osborne, rivelando doti inattese di attore comico e di istrione da sale di varietà; affrontò poi Ionesco, facendosi dirigere da O. Welles ne Il Rinoceronte (1960). Nel 1963 fu nominato direttore dell’appena costituito National Theatre e, nel decennio in cui conservò questa carica, aggiunse alla sua impressionante galleria di interpretazioni memorabili Otello, Shylock e i protagonisti di Danza di morte di Strindberg e di Lungo viaggio verso la notte di O’Neill. Tornato alla libera professione, intepretò con la regia di Zeffirelli Sabato, domenica e lunedì di Eduardo accanto alla terza moglie J. Plowright, che diresse qualche anno dopo in Filumena Marturano . Sir dal 1947, Lord dal 1970, fu riconosciuto anche ufficialmente come il massimo attore del suo tempo, specie in quei ruoli shakespeariani che richiedevano presenza fisica, vigore, e capacità di misurarsi con i propri demoni. Pubblicò un volume di memorie e un libro d’appunti sulla recitazione.

Odissi

Odissi (talvolta indicato come Orissi) è uno stile di danza classica indiana, generalmente femminile e solistico, originario delle regioni che oggi costituiscono lo stato di Orissa. Come per il Bharata Natyam, l’origine è devozionale: per secoli fu danzato dalle sacerdotesse (`maharis’) nei templi di Orissa. Strettamente connesso col culto shivaita e con le varianti locali dell’induismo, in particolare col culto del dio Jagannath, questo stile di danza decadde progressivamente, fino a un’interruzione all’inizio del nostro secolo. Lo stile è stato letteralmente ricreato, dopo l’indipendenza dell’India, grazie a un lungo e puntiglioso lavoro di quattro guru (maestri) e alcune danzatrici, in particolare S. Panigrahi ( v ), che raccolsero le poche memorie dirette e studiarono gli antichi trattati, ma recuperarono soprattutto le pose raffigurate nelle numerosissime sculture dei templi di Orissa. Ne è nato uno stile estremamente rigoroso, probabilmente il più vicino ai canoni rigidi fissati dal Natya Sastra (il trattato fondamentale di teatro indiano del II secolo a. C.). Rispetto al Bharata Natyam (col quale condivide la partizione in `nritta’ e `nritya’, e dunque l’articolazione degli spettacoli in brani devozionali, di danza pura e brani narrativi, oltre al ricco vocabolario di gesti e passi) l’O. è più sensuale, tende cioè ad avere forme più tondeggianti nelle posture (fondamentale il sinuoso `tribhangi’, in cui il corpo della danzatrice disegna tre curve, una con l’anca, la seconda col torso in direzione opposta, la terza col capo) e più gesti a carattere circolare, rotazioni e torsioni, e ad addolcire i cambiamenti di postura. Inoltre, solo nell’O. la danzatrice ogni tanto s’arresta e mantiene una posa statuaria. Il culto vishnuita ha influenzato più profondamente la danza narrativa O., profondamente intrisa di un raffinato erotismo e di un peculiare misticismo. I testi delle rappresentazioni sono tratti prevalentemente dal Gita Govinda , il poema di Jayadeva dedicato agli amori di Radha e Krishna. La musica che accompagna l’O. è un sistema originale, in cui si fondono la tradizione carnatica del sud e quella indostana del nord.

Off-Off-Broadway

Off-Off-Broadway è un termine coniato all’inizio degli anni ’60 per definire quei gruppi teatrali newyorkesi che, a differenza di quelli di Off-Broadway, si contrapponevano radicalmente alle scene commerciali. Le loro sedi, ognuna con un massimo di cento spettatori, non erano di solito sale teatrali, ma caffè, chiese, magazzini o seminterrati, e vi agivano anche professionisti disposti a lavorare più o meno gratuitamente. Non si trattava però di un movimento unitario: ogni gruppo aveva idee, metodi e finalità proprie; li accomunavano il desiderio di tentare nuove strade senza dover sottostare alle aspettative del grande pubblico (anche se in qualche caso l’O.O.B. fu sostanzialmente un terreno di coltura per opere e artisti avviati verso le gratificazioni dello show-business), nonché l’aspirazione a misurarsi fino in fondo con i problemi dell’individuo e della società. Il primo in ordine di tempo fu il Caffè Cino (1959), cui seguirono il Judson Poets’ Theatre (1961), il Cafe La Mama (1962), il Theatre Genesis (1964) e altri. Alcuni di questi gruppi si dedicarono soprattutto alla scoperta di autori nuovi (fra i quali Shepard, Horowitz, Bullins), altri rivoluzionarono il modo stesso d’intendere il teatro, presentando – anziché allestimenti di drammi d’autore – spettacoli nati da improvvisazioni collettive, spesso guidate e coordinate da animatori di talento. Furono fra questi ultimi l’Open Theatre, il Bread and Puppet Theatre, i Mabou Mimes, il Performance Group, i teatri gay e quelli della protesta nera, nonché le prime rivoluzionarie proposte di artisti quali R. Foreman e B. Wilson.

Odets

Il più tipico drammaturgo americano degli anni Trenta, Clifford Odets cominciò come attore, entrando a far parte del Group Theatre fin dalla fondazione; ne divenne l’autore più significativo a partire dal 1935, quando fece rappresentare Aspettando Lefty (Waiting for Lefty), che raccontava, in un linguaggio molto parlato ma di grande suggestione e con tecniche mutuate dal teatro agit-prop, una riunione di taxisti in agitazione, conclusa con la decisione di entrare in sciopero. Ma l’autore allargava il discorso ad altre forme di sfruttamento o di pregiudizio, ponendo in stato d’accusa vari aspetti della società americana. Seguì nello stesso anno la sua opera forse più persuasiva, Svegliati e canta! (Awake and Sing!), ritratto di una famiglia ebrea negli anni della Depressione, tenuta assieme da una madre che, ossessionata dalla mancanza di denaro, finiva col perdere la propria umanità. Subito dopo O. si trasferiva a Hollywood come sceneggiatore e, a volte, regista, ma dava ancora alle scene drammi di buon successo, nessuno dei quali aveva però la forza dei suoi testi d’esordio; fra questi, Ragazzo d’oro (Golden Boy, 1937), Scontro nella notte (Clash by Night, 1941), Il grande coltello (The Big Knife, 1949) e La ragazza di campagna (The Country Girl, 1950).

Oxilia

Fu giornalista della “Gazzetta di Torino” e al “Momento”. Autore di ispirazione crepuscolare, scrisse per il teatro in collaborazione con Camasio La zingara (1909), un promettente esordio che però non riuscì a emergere dalla mediocre produzione del tempo; Addio giovinezza! (1911), un quadro di vita studentesca percorso dalla malinconia della giovinezza irrecuperabile, misto alla spensierata leggerezza degli amori, delle feste e degli svaghi, nel 1913 ne curò una versione cinematografica di cui fu anche il regista; La Donna e lo specchio (1914) che porta solo la sua firma. Ebbe in seguito successo con la rivista teatrale a filo conduttore Cose dell’altro mondo (1914), a cui lavorò con Camasio e Berrini, dal carattere decisamente satirico e parodistico ispirato alla viva cronaca letteraria e politica.

Onzia

Scritturato dal Béjart Ballet di Losanna, è stato per alcune stagioni uno dei suoi più brillanti danzatori. Oltre che in Opera si è distinto in Il mandarino meraviglioso dove, `en travesti’, ha interpretato con forte carica magnetica il ruolo della ragazza.

Oppini

Inizia la sua carriera con i Gatti di vicolo Miracoli fino al 1986, anno in cui il gruppo si scioglie. Continua da solo prima in televisione e, dal 1990, come attore teatrale, debuttando a Spoleto con Skandalon per la regia di Memè Perlini: un ruolo drammatico. Prosegue con numerosi spettacoli, tra cui le ultime produzioni (1997-98) Re Lear , La vita è un canyon e L’erede , tutte per la regia di Andrée Ruth Shammah.

Orfei

Figlio di Paolino Orfei ed Ersilia Rizzoli, si devono principalmente a Orlando Orfei la fama e il successo del nome Orfei e in parte il rinnovamento del circo italiano negli anni ’60. Seppur privo di grandi qualità tecniche, è dotato di un’enorme comunicativa, utile in pista e fuori, nel contatto con le istituzioni. Dopo la seconda guerra mondiale Orlando inizia la propria carriera di direttore di circo, cucendo assieme i brandelli dei teloni cerati dei mezzi belligeranti statunitensi. Dopo i primi, timidi successi, acquista un piccolo vero tendone e debutta a Modena (zona da allora prescelta dagli Orfei per importanti debutti): prende il nome di `Circo nazionale Orfei’ dei fratelli Orlando e Paride (quest’ultimo muore nel 1956, in pista, suonando la tromba). La crescita del complesso è inarrestabile, e con essa l’ingaggio di buoni artisti e l’acquisto di sempre nuovi animali. Attorno alla metà degli anni ’50 inizia la sua carriera di ammaestratore di belve che lo renderà celebre, segnalandolo per l’uso dello stile `in dolcezza’ e per il suo innato carisma di uomo di spettacolo. Nel proprio circo fa esibire l’acerba bellezza delle giovanissime Moira e Liana (chiamate sorelle Orfei, seppure solo cugine). Orlando prende parte a numerosi film, come attore o figurante, ed è ospite delle prime importanti trasmissioni televisive. Ormai famosissimo, imposta il proprio spettacolo in maniera insolita per il tempo, con molte concessioni alla grande rivista: fontane danzanti, parate, coreografie; estetica questa che rimane poi nel `Dna’ di tutti i grandi Orfei. Nel 1964 inizia a presentare un numero di iene ammaestrate che gli porta rinnovata notorietà. Sarà anche il primo circense ad avvicinare il circo alle istituzioni. Nel 1958 Giovanni XXIII incontra per la prima volta artisti circensi in Vaticano. Orlando, nominato presidente dell’Ente nazionale circhi, riesce anche a sensibilizzare la classe politica del tempo. Nel 1968 si trasferisce in Brasile, dove fonda con i propri figli, Alberto, Viviana, Mario e Maurizia, il `Circo nazionale italiano’ e dove gestisce un grande parco di divertimenti. Nel 1978 fa una breve rentrée come ammaestratore al circo del nipote Nando Orfei.

Odin Teatret

Odin Teatret è un gruppo teatrale fondato dal regista Eugenio Barba e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal nel 1964 a Oslo, e successivamente stabilitosi a Holstebro in Danimarca, dove ancora risiede dal 1966. Seguendo le indicazioni teoriche di Barba, il gruppo inizia da subito a porsi verso l’esterno come una identità del teatro anomala; una comunità di non professionisti che, sulla scia del Teatro-Laboratorio di Grotowski, comincia a lavorare sull’autoformazione attraverso il training, visto come un processo di consapevolezza e di esperienza individuale dell’attore, costruendo un preciso linguaggio estetico influenzato dal teatro orientale come dal teatro di strada. Il lavoro scenico e i temi affrontati dall’O.T. non hanno una tradizione nazionale alla quale fare riferimento, ma si mettono in collegamento con un più vasto panorama di culture minoritarie o diverse rispetto ai modelli imposti dalla società contemporanea: le stesse incontrate nei lunghi viaggi in Europa o nei paesi latinoamericani o a Carpignano (Lecce), dove nel 1974 l’O.T. ha soggiornato per cinque mesi. La scenografia essenziale, fatta di pochi e poveri elementi, la centralità evocativa del corpo dell’attore, il grottesco e la violenza che arricchiscono di altre simbologie l’azione e una aperta dialettica con lo spazio e lo spettatore ne hanno delineato il carattere degli spettacoli: dallo scavo nell’ipocrisia della civiltà in Ornitofilene alla superba rilettura di Dostoevskij in Min fars hus, alla metafora della conquista del selvaggio di Come! And the Day Will Be Ours (1976) , al rapporto fra speranza e ferocia nell’idolatria della religione che parla la lingua copta, yiddish e greca in Il vangelo di Oxyrhincus (1985).

Off-Broadway

Off-Broadway è un termine usato a partire dagli anni ’50 per indicare collettivamente i teatri e gli organismi produttivi che agivano a New York fuori dalla cosiddetta Broadway. Erano sale con meno di trecento posti, che presentavano – con investimenti economici relativamente limitati – opere considerate di solito non abbastanza commerciali (testi di autori nuovi, commedie importate dall’Europa, riprese di classici) e non erano costrette a rispettare le severe norme sindacali sui minimi di paga per attori e tecnici professionisti. Il fenomeno aveva già avuto una sporadica esistenza (ma non ancora un nome) negli anni ’20 con gruppi come i Provincetown Players, e negli anni ’30 con varie formazioni impegnate nel teatro politico. Nella sua nuova incarnazione, a parte poche eccezioni (la più importante fu il Living Theatre prima dell’esilio europeo), più che proporre un’alternativa radicale alle scene di Broadway, i gruppi che ne facevano parte (come il Circle in the Square, la Negro Ensemble Company, il New York Shakespeare Festival) riuscirono soltanto, per una decina d’anni, a offrire occasioni ad autori drammatici (come Albee), attori e registi, che furono presto assorbiti dai teatri commerciali senza dover modificare il loro modo di lavorare, e a dare un’idea (soprattutto alla minoranza intellettuale) di come Broadway sarebbe potuta essere se avesse lasciato spazi a repertori più coraggiosi e meno dettati dalle ragioni imperiose dei budget.

Osipenko

Terminati gli studi all’Istituto coreografico di Leningrado, dal 1960 al 1971 danza con il Teatro Kirov e contemporaneamente (1964-1965) fa parte del Kamernij Ballet diretto da Aleksidze; nel 1971-1973 si esibisce nella compagnia delle miniature coreografiche di Jakobson. È una delle danzatrici più significative della sua generazione, per il talento drammatico e per la specificità e modernità della sua danza. Affronta pochi titoli del repertorio classico, interprete soprattutto di balletti costruiti sulle sue doti ( Il fiore di pietra di Grigorovic, Antonio e Cleopatra di Cernysev); lavora con Boris Eifman e Mae Murdmaa. Nel 1988 lascia la Russia e si dedica all’insegnamento.

Obey

Si dedica al teatro grazie all’influenza di Jacques Copeau. La sua prima pièce, La souriante Madame Beudet , scritta in collaborazione con Denys Amiel, è un successo: rappresentata nel 1921 al Nouveau Théâtre, entra a far parte del repertorio della Comédie-Française. Sempre con Amiel scrive anche La carcasse (1926). Elabora una serie di drammi per la Compagnie des Quinze: Noë (1929); Le viol de Lucrèce (1930); La bataille de la Marne (1931); Vénus et Adonis (1932); Loire (1933). Nel 1940 un suo testo, Introduction au Cid , è rappresentato alla Comédie-Française, di cui nel 1946 diventa amministratore. Ma dopo qualche anno dà le dimissioni da quest’incarico per dedicarsi completamente alla drammaturgia. Tra le opere di questo periodo ricordiamo: Revenu de l’Étoile (1947); Lazare (1951); La fenêtre (1959); Le jour du retour (1972).

Orsini

Destinato alla carriera giuridica, già da studente di legge Umberto Orsini faceva pratica in uno studio notarile. Dopo aver visto recitare Giorgio De Lullo in Morte di un commesso viaggiatore di Miller, nella messa in scena di Luchino Visconti, scopre una potente vocazione al teatro. Brillante allievo dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, debutta nel 1957 nel Diario di Anna Frank di Goodrich e Hackett con la regia dello stesso De Lullo, nel personaggio di Peter, il giovane innamorato della protagonista. È l’inizio di una carriera segnata dal successo e da un rigoroso professionismo, fondato su una continua autocritica e su un’oculata amministrazione delle scelte artistiche. La dizione asciutta, il volto scavato e un talento interpretativo capace di variare dalla freddezza ironica alla passionalità, lo pongono subito fra i migliori interpreti della sua generazione. Nel 1961 fornisce la prima, grande prova d’attore recitando nell’ Arialda di Testori, con la regia di Visconti. Nel 1963 è al fianco di Sarah Ferrati in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee, con la regia di Zeffirelli. Seguono Metti una sera a cena (1966) di Giuseppe Patroni Griffi e Chi è Claire Lannes? , tratto da L’amante inglese di M. Duras, con la regia di José Quaglio. Sul finire degli anni ’60 Orsini si divide fra teatro, cinema e tv. Nel 1971 è fra gli interpreti del film di Visconti La caduta degli dei , che gli vale un Nastro d’argento al Festival di Venezia. Nel 1981 la grande svolta della sua carriera: con Rossella Falk diventa direttore del teatro Eliseo di Roma e, contemporaneamente, avvia una feconda collaborazione con Gabriele Lavia, che nel 1980 lo dirige in Servo di scena di Harwood, nel 1982 nei Masnadieri di Schiller e in Non si sa come di Pirandello, per la cui interpretazione riceve la Grolla d’oro. Attento alle esigenze del teatro che dirige, Orsini sceglie testi di grande presa sul pubblico: Delitto e delitto di Strindberg (1983), L’aquila a due teste di Cocteau, Volpone di Jonson, tutti diretti da Lavia; poi è la volta di Amadeus di Shaffer (1987), con la regia di Missiroli, e delle Liaisons dangereuses di Hampton (1988), con la regia di Calenda. La seconda, radicale svolta proviene dall’incontro con Luca Ronconi, sotto la cui guida interpreta Le tre sorelle di Cechov (1989) e Besucher di B. Strauss; qui, nella parte del vecchio attore Karl Joseph, filtra e vira in livido grottesco la lezione dei grandi mattatori del teatro italiano. Nel 1991 riceve il premio Ubu per Besucher e per L’uomo difficile di Hofmannsthal (ancora diretto da Ronconi), con i quali conferma la propria rinnovata maturità interpretativa, il proprio sperimentarsi, che adotterà anche in gamme espressive più legate al naturalismo e al verismo, come per esempio nel Piacere dell’onestà di Pirandello allestito nel 1990 da Luca De Filippo. Dopo Un marito di Svevo, per la regia di Patroni Griffi (1993), e Otello di Shakespeare per la regia di Lavia (1994), O. fornisce nel 1997-98 una straordinaria interpretazione di Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore di Miller, con la regia di Cobelli.

Oppo

Esordì nel 1921 con il Teatro dei Piccoli di Podrecca. La sua attività professionale, influenzata dalla cultura scenica parigina, si lega al teatro dell’Opera di Roma, con produzioni di cui ricordiamo: La donna serpente di Casella (1932), La favola del figlio cambiato di G. F. Malipiero (1933), Il flauto magico di Mozart (1937), La donna senz’ombra di Strauss e Sakuntala di Alfano (entrambi nel 1938). Al Maggio Fiorentino esordisce con le scene per Le nozze di Figaro di Mozart (1937); in seguito cura la messinscena di numerosi spettacoli, tra cui nel 1938 il Simon Boccanegra di Verdi. Collabora con minor intensità anche con il Teatro alla Scala; ricordiamo le scene per l’ Orfeo di Monteverdi (1934). Con la sua visione scenografica – si vale di campiture cromatiche che definiscono volumi nitidi, architettonicamente costruiti – partecipa all’ammodernamento della tradizione pittorica novecentesca italiana; fu tra i promotori del movimento Secessione romana.

Odéon,

Il Théâtre Odéon fu il primo teatro pensato per un pubblico di 1900 persone. Le sue vicende sono legate a quelle della Francia: venne più volte chiuso, riaperto e ristrutturato (1798 e 1828). Solo alla metà del XIX secolo iniziò a stabilizzare il suo repertorio e a trovare direttori all’altezza della sua statura nazionale e internazionale. Prima sotto la direzione di Lirieux (1841), poi con André Antoine (1906-1914), l’Odéon mostra le sue grandi possibilità, ampliando il repertorio di prosa e allestendo 364 spettacoli in meno di sette stagioni. Dopo Antoine continua la girandola dei direttori fino al secondo dopoguerra; in Firmin Gémier, il fondatore del Théâtre National Populaire, rimasto in carica all’Odéon dal 1921 al 1925, si trova un degno continuatore di Antoine e della sua politica, seguita anche da Paul Abram. Nel 1946 l’Odéon diventa la Salle Luxemburg e viene restituito alla Comédie-Française; nel 1959 Malraux, segretario alla cultura del governo francese, entra in conflitto con la Comédie e ferma le sue attività in questo Teatro. L’Odéon passa così a Barrault e alla sua compagnia, che per dieci anni creano un repertorio con produzioni originali e nuovi allestimenti di classici, che riscuotono successi internazionali. Nel 1967 si inaugura un teatro studio, il Petit-Odéon, conosciuto oggi come il teatro Roger Blin. Nel maggio del 1968, il teatro subisce un’incursione di protesta: qualche giorno più tardi Barrault, abbandonato da Malraux, si dimette. Nel 1971 Pierre Dux, amministratore della Comédie-Française, assume la direzione di entrambi i teatri; gli succede Jacques Toja, che nel 1980 invita molte produzioni straniere. Nel 1983 lo statuto viene nuovamente modificato e trova la sua forma odierna. L’attività è divisa in due aree: il Théâtre de l’Europe è creato per produrre e ospitare spettacoli francesi e stranieri, sotto la guida di Giorgio Strehler; per la seconda metà della stagione invece il Théâtre National de l’Odéon, diretto da François Barrachin, ospita diverse compagnie da tutta la Francia. Nel 1986 Jean Le Poulain, amministratore della Comédie-Française, diviene anche amministratore dell’Odéon, che continua a ospitare spettacoli da tutto il mondo; nel 1988 Strehler lascia la direzione a Lluís Pasqual, al quale viene affidato l’uso esclusivo dell’O.

Orlan

Orlan sta attuando su se stessa una metamorfosi fisica e di identità tra le più radicali e controverse nel panorama artistico contemporaneo. Ha acquisito notorietà negli anni ’70 per alcune sue provocatorie performance, come Mesurages , in cui misurava spazi urbani e istituzionali con il proprio corpo trascinato per terra (rue Chateaubriand misura 55 `orlan’); Uno studio documentario: la testa della Medusa , dove una lente d’ingrandimento mostrava la vagina dell’artista con i peli pubici dipinti di blu e i monitor inquadravano i volti degli attoniti spettatori; Le baiser de l’artiste , realizzata per la Fiac (Foire international d’art contemporain): accanto a O. c’era una silhouette di plastica raffigurante un torso femminile nudo, che si trasformava in una macchinetta a gettoni da cinque franchi per la vendita di baci con lingua dell’artista (per questa performance O. venne licenziata dalla Académie des beaux arts di Lione); e Drappeggio barocco , nella quale si vestiva da Madonna e si circondava di simboli religiosi e mitologici. Successivamente ha realizzato lavori quali La reincarnation de Saint-Orlan où image. Nouvelles images (1990), con l’utilizzo del computer e del morphing. O. ibrida il suo volto con parti anatomiche di icone classiche femminili come la fronte di Monna Lisa di Leonardo, gli occhi di Psiche di Gérard, il naso di Diana dalla scuola di Fontainebleau, la bocca di Europa di Gustave Moreau e il mento della Venere di Botticelli. In Cinquème-operation (1993), con la lettura di La robe della psicoanalista lacaniana Eugénie Lemoyne-Luccioni, inizia il suo `work in progress’ di ridefinizione facciale archetipica e di desacralizzazione del corpo con la chirurgia plastica. Con Septième-operation (1993), alla Sandra Gering Gallery di New York, O. estremizza il suo progetto di `art charnel’ contro le convenzioni morali e il concetto stereotipato di `bello’: sui due lati della fronte le vengono impiantate due protesi che la trasformano in una specie di donna-satiro. In queste `mises en scéne’ performatiche l’artista francese è lucida testimone, sotto anestesia locale: legge testi (da Antonin Artaud, Julia Kristeva e Lemoyne-Luccioni), fa disegni con il suo sangue, dirige le riprese video, interagisce con il pubblico in collegamento satellitare in altre gallerie, raccoglie reliquie di carne liquefatta e campioni di sangue drenato; inoltre, espone foto a colori del suo volto garzato e con tumefazioni rosso-violacee post-operatorie. In un prossimo intervento O. è decisa a farsi mettere il naso anatomicamente più lungo possibile in relazione alla sua struttura ossea, così ponendo il problema dell’identità sul piano giuridico e giudiziario ( Exogène ). Infine donerà il suo corpo a un museo per la mummificazione.

Obuchov

Laureatosi all’Istituto teatrale di Pietroburgo, ha danzato al Teatro Marijinskij dal 1913 al 1920, interpretando i principali titoli del repertorio ottocentesco e i balletti di Fokine. Nel 1914 è stato partner di Anna Pavlova e nel 1920 ha lasciato la Russia. È stato attivo prima all’Opera di Bucarest e poi, con la moglie Vena Nemcinova, nel Nemcinova Dolin Ballet, nel Balletto dell’Opera di Kaunas e nei Ballets Russes de Monte-Carlo. Dal 1940 è stato insegnante a New York presso la School of American Ballet.

Opera cinese

Opera cinese (Xiqu o semplicemente xi: letteralmente `gioco, dramma, rappresentazione, divertimento’) è il termine che l’Occidente ha tradotto convenzionalmente con `opera’, con il quale ci si riferisce al teatro tradizionale cinese. L’uso del termine opera, in riferimento al teatro cinese, non indica una forma analoga al nostro melodramma, bensì un genere articolato composto da diversi modelli e stili regionali. Spettacolo nato attorno al XII secolo, in parte parlato ma soprattutto cantato, è fondato sulla musica, ma di essenziale importanza è l’aspetto coreografico, con personaggi archetipici divisi in ruoli fissi, che utilizzano specifiche tecniche del corpo, del gesto e della voce, nonché costumi e trucchi caratteristici e costitutivi. L’importanza dell’elemento musicale deriva dalla lingua stessa, poiché in cinese l’altezza (intonazione) a cui una sillaba viene pronunciata è un carattere distintivo; ossia, parole per ogni altro aspetto identiche si distinguono per l’intonazione. Dato che una frase o un verso possiedono di per sé un profilo melodico, oltreché metrico, il testo stesso genera modelli ritmici e melodici, diventati presto stereotipi e costitutivi per il teatro cinese.

Le considerevoli varianti di intonazione nei diversi dialetti sono basilari anche nella diversificazione degli stili teatrali regionali; attualmente quelli ancora praticati sono circa trecentocinquanta. A partire dal X secolo si possono distinguere due stili principali: al sud il più popolare nanxi (letteralmente `teatro meridionale’), dove già sono riconoscibili, fra le altre, le quattro principali figure tipologiche del teatro cinese sheng (personaggio maschile), dan (femminile), jing (faccia dipinta) e chou (buffone); e al nord lo zaju (letteralmente `teatro vario o variato’), sviluppatosi dapprima sotto la dinastia Song, fra il X e il XII secolo, e che ebbe la massima fioritura sotto la dinastia Yuan, nel XIII secolo. Una nuova stagione aurea si ha a partire dal XVI secolo, sotto la dinastia Ming, principalmente ad opera dell’attore e musicista Wei Liangfu, che unifica e adatta vari stili musicali preesistenti – originari principalmente dalla Cina meridionale – a una nuova forma, il kunqu (le melodie del Kun-shan, la zona a ovest dell’attuale Shanghai), estremamente raffinata, caratterizzata musicalmente da melodie lente e melismatiche, da un linguaggio elegante e stilizzato e da una certa lentezza anche della gestualità e dell’azione scenica. Mentre il kunqu è un teatro aristocratico, affidato a compagnie spesso private (perlopiù maschili, talora solo femminili, mai miste), una larga varietà di stili popolari si sviluppa durante le dinastie Ming (XIV-XVII secolo) e Quing (XVII-XX secolo), dei quali il principale è tuttora l’Opera di Pechino.

Open Theatre

Open Theatre era in origine un laboratorio per esplorare le potenzialità espressive dell’attore, con esercizi d’improvvisazione che chiamavano in causa tutti i suoi strumenti, dalla voce al corpo. Ne facevano parte anche drammaturghi, con il compito di sviluppare, partendo da questi esercizi, testi fondati più sul gesto e sul suono che sulla parola. Presentò dapprima montaggi di brevi scene, in una delle quali, Motel , un uomo e una donna incapsulati in pupazzoni di cartapesta prima coprono di scritte oscene le pareti di una camera di motel, poi procedono allegramente a distruggerla. Rielaborata da J. C. Van Itallie, costituì nel 1966 con altri due atti unici lo spettacolo America Hurrah , che impose il gruppo come uno dei più stimolanti del nascente movimento di Off-Off Broadway, al quale lo accomunavano sia lo sperimentalismo limguistico sia l’impegno politico. Nello stesso anno andò in scena Viet Rock di M. Terry, una specie di rivista che prendeva posizione contro l’intervento americano nel Vietnam, con una tecnica che prevedeva la trasformazione a vista degli attori in più personaggi o addirittura in oggetti. Frutto d’improvvisazioni successivamente organizzate furono anche gli altri spettacoli del gruppo: The Serpent (1968) di Van Itallie, un evento a carattere rituale che in una tematica tratta dalla Genesi inseriva i lutti recenti per la tragica morte di Kennedy e di Martin Luther King; Terminal (1969) di Susan Yankowitz, un’indagine sulle varie reazioni personali e collettive alla morte; e poi The Mutation Show (1971) sul tema dell’adattabilità umana e Nightwalk (1973) sul sonno e sul sogno. Lo strumento linguistico fondamentale era sempre la presenza e l’azione degli attori, che agivano in spazi privi di supporti scenografici, facendo uso delle tecniche della danza, del mimo e della coralità. Dopo varie scissioni, scioglimenti provvisori e ricostituzioni, il gruppo cessò definitivamente la sua attività nel 1974.

Obrazcov

Dopo aver studiato da pittore ai Laboratori tecnico-artistici superiori di Mosca, Sergej Vladimirovic Obrazcov si dedicò al teatro frequentando il Teatro d’Arte. Nel 1931 fondò il Teatro centrale statale dei fantocci, che presto divenne il più importante teatro d’animazione dell’Urss e uno dei più conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, con i suoi spettacoli per bambini e adulti. L’affermazione internazionale del teatro di O. si ebbe con la tournée in Europa e negli Usa alla fine degli anni ’60, soprattutto con lo spettacolo Un concerto straordinario. Nel 1970 O. ottenne dal governo sovietico un nuovo teatro a Mosca, una nuova serie di laboratori e una nuova scuola, nei quali potevano lavorare e studiare decine di persone. A parte le capacità creative di O., il segno di questa potente organizzazione è evidente nella perfezione degli spettacoli, in ogni loro parte. La sua autobiografia, Il mestiere di burattinaio (1950), è stata tradotta e pubblicata anche in Italia.

Orfei

Figlio di Paride `Pippo’ e di Alba Furini, Nando Orfei fu dapprima buon suonatore di tromba e, in seguito, giocoliere e domatore, sulle tracce del celebre zio Orlando . Nel 1960 fonda un proprio circo con il fratello Rinaldo e la sorella Liana; nel 1962 sposa Anita Gambarutti dalla quale ha Paride (1963), musicista e ammaestratore di elefanti, Ambra (1965), giocoliera, cavallerizza e soubrette televisiva, e Gioia (1973), antipodista e cavallerizza, forse la più dotata dei tre dal punto di vista delle tecniche circensi. Numerose le sue partecipazioni a film, fra i quali I clowns (1970) e Amarcord (1974) di Federico Fellini. Dopo la separazione dalla sorella Liana, avvenuta nel 1984, continua la sperimentazione, con alterna fortuna, di spettacoli circensi `a copione’, secondo cioè un determinato `script’, con La pista dei sogni (1991) e Antico circo Orfei (1994), con la regia di Ambra e Antonio Giarola.

Orlando

Orazio Orlando inizia la sua carriera molto giovane: a diciotto anni è in palcoscenico con la compagnia Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi. La sua prima partecipazione importante è nel Re Lear di Shakespeare. Nella sua carriera ha collezionato numerosi ruoli, passando con disinvoltura dal repertorio classico a quello moderno; ha partecipato anche ad alcune riviste. La sua morte è avvenuta in scena, al Teatro Flaiano di Roma, durante le prove di Ad Eva aggiungi Eva . Intensa anche la sua carriera televisiva, dove spesso si è calato nella parte del duro e senza scrupoli. Tra queste spicca quella del ricattatore in La donna di fiori (1965); la notorietà gli giunge con il poliziotto Solmi, bonario protagonista della serie Qui squadra mobile (1973). Nel 1977 conduce anche un varietà televisivo e, nel 1990, partecipa alla Piovra 5 . Numerose le sue apparizioni cinematografiche, soprattutto con personaggi drammatici, tra cui ricordiamo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), in cui interpretava l’aiuto poliziotto di Volontè, e La proprietà non è più un furto (1973), entrambi di Elio Petri.

Orfei

La più conosciuta fra gli artisti di circo italiani e praticamente l’unica in grado di reggere il confronto, in quanto a indice di popolarità, con personaggi di altre e più frequentate forme di spettacolo. La fama di Moira Orfei si consolida fin dagli anni ’60 grazie a diverse circostanze: la partecipazione a film di buon successo commerciale, le numerosissime apparizioni a programmi televisivi popolari, i milioni e milioni di manifesti con il suo volto sorridente affissi in tutta Italia; e, soprattutto, il suo essere un personaggio con caratteristiche precise, sempre uguali, sia esteriori come la pettinatura, il trucco, i vestiti, sia interiori come la dedizione alla famiglia e al lavoro. Caratteristiche ripetute all’infinito, senza sbavature, con la costanza di mantenere immutabili punti di riferimento negli anni, con la forza di un marchio. Nata in un carrozzone a Codroipo nel piccolo circo del padre Riccardo, alla morte del genitore viene accolta nel circo dello zio Orlando; a sei anni è già buona generica. Negli anni ’60 intraprende la carriera cinematografica, che la porterà ad apparire in una cinquantina di film. Nel 1961 sposa Walter Nones, conosciuto in Kuwait nel 1959; nel ’62 i due intraprendono una poco fortunata società con le sorelle Medrano, ma è nel 1963 che arriva il vero successo con l’inaugurazione del Circo di Moira Orfei .

Oltre a presentare spettacoli di altissimo livello, il complesso segna alcune tappe importanti nella storia del circo italiano, passando dall’estetica della grande attrazione dei primi anni ’70 (come `l’uomo proiettile’) al colossale Circo sul ghiaccio (con due piste, una ghiacciata e una tradizionale), ispirato alle sfarzose riviste americane e considerato dalla critica uno dei migliori spettacoli circensi italiani del dopoguerra; dallo spettacolo di rivista con Alighiero Noschese ( Follie sul ghiaccio , 1974) alla scelta di attingere ad artisti dell’enorme serbatoio sovietico negli anni ’80 ( Moira più Mosca ); per arrivare infine alla produzione odierna, particolarmente attenta al ritmo, all’eleganza e all’organicità dello spettacolo. Dal 1975, sotto diverse insegne, il complesso comincia a effettuare numerose tournée all’estero: da ricordare quella del 1977 in Iran, quando il circo rimase bloccato con cento artisti e cinquanta animali in seguito all’insurrezione popolare; si mobilitò il ministero degli esteri, che fece inviare la `Achille Lauro’ a recuperare personale, animali e attrezzature. Importante primato del complesso è quello di essere stato il primo circo italiano a conquistare, nel 1987, un Clown d’oro al festival internazionale del circo di Montecarlo, con un numero di dodici tigri progettato e prodotto da Walter Nones con l’ammaestratore olandese Jean Michon e presentato nel Principato dal fratello più giovane, Massimiliano Nones. Nel 1989 un altro importante riconoscimento: un Clown d’argento per il numero di animali esotici e per l’alta scuola d’equitazione, presentati dai figli di Moira e Walter, Stefano e Lara Orfei-Nones. Questi ultimi sono considerati fra i più completi artisti di circo italiani della nuova generazione: grazie all’aiuto di esperti maestri hanno acquisito una buona conoscenza di numerose discipline circensi, arrivando in alcuni casi a padroneggiarle del tutto; inoltre entrambi si dedicano, con attenzione sempre crescente, alla cura dei particolari dello spettacolo, impiegando gran parte del loro tempo a provare nuovi numeri o a perfezionare quelli già presentati.

Osborne

Dopo un breve apprendistato come giornalista, poeta, attore in compagnie di provincia, John Osborne scrisse le prime commedie, Il diavolo dentro di lui (The Devil Inside Him, 1948) e Nemico personale (Personal Enemy, 1955, in collaborazione con A. Creighton). Nel 1955-1956 la English Stage Company diretta da George Devine iniziò la sua attività al Royal Court Theatre; rispondendo a un annuncio di Devine pubblicato su “The Stage”, O. inviò Ricorda con rabbia (Look Back in Anger, 1956), a cui resta legata la sua fama e la rinascita del teatro inglese degli anni ’50 e ’60. Il protagonista, Jimmy Porter, divenne il simbolo di uno scontento e di un disagio abbastanza indeterminato, ma che rispecchiava la reale condizione di larghe fasce sociali, conseguente anche alla crisi economica e d’identità della Gran Bretagna, decaduta dal rango di grande potenza mondiale; le novità furono l’ambientazione popolare, la giovane età dei personaggi, la violenza del linguaggio colmo di urla, insulti e oscenità, mentre la struttura restava quella tradizionale del well-made-play . Le opere successive hanno ridimensionato l’autore ad abile artigiano, capace di aggiornare le formule e le convenzioni della tradizione. L’istrione (The Entertainer, 1957, portato sulle scene da Laurence Olivier) alterna momenti della vita privata di una famiglia di attori (i Rice) a numeri di music-hall, recitati da Archie Rice, che non hanno la forza straniante dei songs brechtiani ma restano all’interno dell’illusione scenica. La denuncia del declino e dell’impoverimento del music-hall non si traduce in termini di vera critica, bensì in nostalgia dell’Inghilterra edoardiana. Seguono Epitaffio per George Dillon (Epitaph for George Dillon, 1958, in collaborazione con Creighton), Il mondo di Paul Slickey (The World of Paul Slickey, 1959) e il dramma tv Un argomento di scandalo e preoccupazione (A Subject of Scandal and Concern, 1960), dove si riaffaccia il tema del ribelle, nella figura di George Holyache, l’ultima persona a essere condannata per ateismo in Inghilterra.

La qualità dell’opera di Osborne dopo il 1960 è stata molto discontinua. Accanto a drammi inferiori quali Le commedie per l’Inghilterra : Il sangue dei Bambergh e Per pacco postale (Plays for England: The Blood of The Bambergh, Under Plain Cover, 1962), Patriota per me (A Patriot for Me, 1965), Tempo presente (Time Present, 1968), Hotel Amsterdam (The Hotel Amsterdam, 1968), A ovest di Suez (West of Suez, 1971), ci sono momenti positivi e di ripresa: Lutero (Luther, 1961) e Prova inammissibile (Inadmissible Evidence, 1964). O. è affascinato da Lutero per la sua lotta solitaria contro l’epoca e la società in cui vive, ma non lo interessano le ragioni storiche e ideologiche della sua ribellione. Prova inammissibile è l’ultimo lavoro in cui sia presente una certa ricerca teatrale. Il protagonista Bill Maitland è un avvocato in crisi che nel corso del dramma perde via via il contatto con la realtà. I dialoghi, e soprattutto i monologhi di Bill, passano da un livello naturalistico a una progressiva stilizzazione linguistica fino a toccare toni quasi surreali. Di O. sono da ricordare anche alcuni adattamenti: Impegno mantenuto (1966, da Lope de Vega), Hedda Gabler (1972, da Ibsen), Il ritratto di Dorian Gray (1973, da Wilde). Ha ridotto per lo schermo i suoi Ricorda con rabbia (1959, regia di Tony Richardson, protagonista Richard Burton) e L’istrione (1960, regia di Richardson, protagonista Laurence Olivier). Sempre per la regia di Richardson ha scritto la sceneggiatura di Tom Jones , dal romanzo di Henry Fielding (1963, protagonista Albert Finney). Dopo l’insuccesso di Watch It Come Down (1976) non ha più scritto nulla per il teatro, limitandosi a qualche lavoro televisivo. Nel 1992 il Teatro Parioli di Roma ha allestito Ricorda con rabbia trentacinque anni dopo di e con O., che in un’intervista al `Corriere della Sera’ ha dichiarato: «È il seguito di Ricorda con rabbia , dove i personaggi sono ormai invecchiati. Non c’è più rabbia ma solo nostalgia per ciò che si è perduto».

O’Casey

Di famiglia operaia e protestante, la carriera di Sean O’Casey si apre all’Abbey Theatre nel 1922 con Il falso repubblicano (The Shadow of a Gunman), cui seguono Juno e il pavone (Juno and the Paycock, 1924) e L’aratro e le stelle (The Plough and the Stars, 1926), trilogia sul proletariato irlandese durante la guerriglia per l’indipendenza dall’Inghilterra. L’indirizzo realistico è evidente sia nella scelta del linguaggio, che ricalca cadenze, ritmi e gergo della realtà urbana di Dublino, sia per le minuziose indicazioni di scena. Nella Tazza d’argento (The Silver Tassie, 1929) O’Casey usa, per raccontare l’esperienza di tre giovani irlandesi arruolatisi nell’esercito inglese, un forte espressionismo carico di simboli, evocando la guerra sotto forma di una tetra messa dove i soldati venerano il dio cannone. L’opera fu rifiutata dall’Abbey Theatre per il contenuto ardito; O’Casey fu costretto a un esilio volontario a Londra dove, nelle successive opere, affiancò ai temi sociali e politici irlandesi una forma nuova e sperimentale, senza smarrire il suo talento linguistico. Le opere più interessanti di questa fase sono: Dentro i cancelli (Within the Gates, 1933), La stella diventa rossa (The Star Turns Red, 1940), Polvere di porpora (Purple Dust, 1940), Rose rosse per me (Red Roses for Me, 1942), Il bel chicchirichì (Cock-a-double Dandy, 1949), Il falò del vescovo (The Bishop’s Bonfire, 1955) e I tamburi di padre Ned (The Drums of Father Ned, 1956). O’C. continuò a scrivere per il teatro fino al 1960, senza più ritrovare il successo iniziale: l’ideologia marxista gli alienò il pubblico borghese del West End, mentre l’anticattolicesimo gli rendeva difficile un ritorno in patria.

Orlando

Gli esordi di Silvio Orlando sono teatrali: lavora infatti con i migliori giovani registi e autori della scuola napoletana, da Carpentieri ( Kabarett , da Valentin, 1979) a Taiuti ( La stanza , 1981) a Neiwiller (Anemic cinema , 1983), prima di conoscere G. Salvatores che al Teatro dell’Elfo lo dirige in Comedias e Eldorado gli apre le porte del grande cinema ( Kamikazen , 1987). Da allora è diventato il volto simbolo del cinema italiano dell’ultima generazione, da Palombella rossa (1988) di Moretti a Sud (1993) e Nirvana (1997), sempre di Salvatores, da Il portaborse (1990) e La scuola (1995) di Luchetti a Ferie d’agosto (1995) di Virzì. In teatro, agli inizi degli anni ’90 ha avuto molto successo in tandem con Angela Finocchiaro (Sottobanco ); ha partecipato in televisione a diverse trasmissioni comiche che gli hanno dato una grande popolarità televisiva (Araba fenice, 1998; Emilio , 1989; Vicini di casa ), ma anche a fiction di Pozzessere ( Felipe ha gli occhi azzurri, 1992; La storia siamo noi, 1998). Nell’estate del 1998 a esordito come regista, oltre che interprete, mettendo in scena due farse di Peppino De Filippo.

Ovadia

A Milano, dove emigra da bambino, avviene la formazione artistica di Moni Ovadia, dapprima come cantante e musicista e poi come attore-autore. L’appartenenza ebraica e l’esilio segnano profondamente la sua esperienza e sono a fondamento della sua opera di artista e del suo `teatro musicale’, che racconta con struggimento e ironia la condizione dello sradicamento personale e collettivo, religioso e culturale dell’ebreo moderno, metafora di una più vasta condizione spirituale dell’uomo contemporaneo. Canto e musica popolare, riscoperta della tradizione musicale yiddish e impegno politico attivo segnano la prima attività di O., alla fine degli anni ’60. Decisiva l’esperienza con l’etnomusicologo Roberto Leydi nell'”Almanacco popolare” e con la cantante etnica d’origine ebrea Hana Roth. Con la fondazione nel 1972 del gruppo Folk internazionale inizia lo studio della musica tradizionale dei paesi dell’area balcanica e la vita da musicisti militanti, con lunghe tournée in tutta Europa. Nel 1977 avviene il primo contatto con il mondo del teatro attraverso la collaborazione con l’Elfo di Milano e Gabriele Salvatores. In quegli anni collabora tra gli altri con il cecoslovacco Bolek Polivka, con Tadeusz Kantor e Franco Parenti. Nell’ambito del Festival della cultura ebraica al Teatro Pier Lombardo di Milano (1987), con la collaborazione di Mara Cantoni, O. crea il suo primo `dramma musicale’: Dalla sabbia dal tempo. Breve viaggio nell’ebraitudine . Composto da un intreccio di canto, musica e narrazione, lo spettacolo segna l’inizio della sua sperimentazione più recente e ne anticipa la forma teatrale, che trova piena realizzazione in Oylem Golem (1993), Dybbuk (1995), Ballata di fine millennio (1996), dei quali O. realizza insieme alla sua TheaterOrchestra anche l’incisione discografica; nel 1997 collabora con il regista Roberto Andò alla realizzazione di Il caso Kafka .

Olmo

Appartiene alla cosiddetta `generazione realista’, che negli anni ’50 e ’60 cerca tra mille difficoltà di opporsi al genere di teatro dominante durante il periodo franchista. Il suo primo testo, La camicia (1962), commedia di impianto tradizionale ma che affrontava il tema scottante dell’emigrazione, rappresentò uno degli eventi più significativi di quegli anni. In seguito O. rimase fedele alla formula di un teatro popolare basato su un realismo poetico, senza riuscire a ripetere il successo della sua prima commedia. Pochissimo rappresentato negli anni ’70, ottenne un discreto successo nel 1984 con Pablo Iglesias , biografia di un’importante figura del socialismo storico spagnolo.

Omboni

Ida Omboni è nella storia del teatro per aver dato vita a un nuovo genere comico. Milanese, laureata in lettere alla Statale, inizia presto a collaborare con le grandi case editrici italiane. Nel 1962, insieme a Paolo Poli, elabora la formula del nuovo teatro comico, che intende rivisitare in chiave dissacrante e ironica tutti i miti e i luoghi comuni del repertorio ottocentesco. Tra i titoli di maggior successo, Carolina Invernizio , Magnificat , Farfalle , dedicato al piccolo grande mondo di Guido Gozzano. Scrive inoltre per il cabaret. Da ricordare anche il testo Rita da Cascia , che fu messo all’indice per irreligiosità.

Orfei,

Recenti studi sembrano attestare che il nome Orfei appare nell’ambito delle compagnie teatrali itineranti, eredi della commedia dell’arte, già prima del 1820. È questa però la data indicata per l’inizio della dinastia, visto che segna la nascita del capostipite, Paolo, il quale lascia la vocazione religiosa (era sacerdote a Massalombarda) per tentare la carriera di saltimbanco. Da Pasqua Massari (Argenta, Ferrara, 1834) ha Ferdinando, suonatore di tromba, il quale crea il primo modesto circo Orfei che, nella consuetudine dei saltimbanchi dell’epoca, presenta spettacoli basati su commedie e acrobazie. Ferdinando sposa Maria Torri, che gli dà sei figli: Enrico, Orfeo, Vittoria, Paolo, Giovanna e Cecilia. Sarà Orfeo ad aprire il secolo dirigendo, negli anni ’30, il Circo Orfeo Orfei, che passa poi sotto il figlio NandinOrfei Discende però da Paolo (detto `Paolino’) l’odierna attività circense. Paolo sposa Ersilia Rizzoli (`cantatrice’ e comica, sorella del burattinaio Aldo Rizzoli) che gli dà cinque figli, quasi tutti importanti nell’affermazione del nome: Riccardo `Bigolon’ (1908-1942), comico saltatore e suonatore, padre di Miranda (vero nome di Moira), Paolo II e Mauro; Paride `Pippo’ (1909-1956), clown e saltatore, padre di Ferdinando (Nando), Liana e Rinaldo; Miranda (1913-1988), madre di Massimo Manfredini e Daniele Orfei, avuto in secondo matrimonio; Irma (1916), funambola che si ritira dal circo a seguito del matrimonio; e Orlando, il più celebre della sua generazione, colui che, attorno agli anni ’50, afferma definitivamente la casata con il Circo nazionale Orfei, diretto inizialmente assieme a Miranda e Paride. Nel 1968, quando Orlando parte per il Brasile, il complesso prende il nome di Miranda Orfei e viene diretto da Massimo Manfredini (1929) e Daniele Orfei (1950). Ma dagli anni ’60 in poi sono i complessi di Moira e quelli di Liana, Nando e Rinaldo a mantenere alto il nome della famiglia. Negli anni ’80 nasce poi il deleterio fenomeno dei `finti Orfei’ o `orfeini’. Si tratta di parenti alla lontana, omonimi o addirittura persone che cambiano il cognome all’estero (dove ciò è concesso) e lo `affittano’ a complessi circensi di bassa categoria, che riescono così a millantare un credito che in realtà non hanno. Questo fenomeno crea non pochi problemi al settore: il pubblico si reca al circo convinto di assistere a uno spettacolo di un certo livello e viene invece deluso da esibizioni che nulla hanno a che fare con la tradizione della grande famiglia circense. A nulla valgono gli appelli in tribunale della famiglia Orfei: pare che le normative vigenti non siano in grado di tutelare i marchi circensi.

Osiris

Figlia di un palafreniere del re Umberto, la mitica regina del teatro di rivista italiano, Wanda Osiris, equiparabile a personaggi come Mistinguett e la Baker, si è presto trasferita a Milano, sua patria elettiva fino alla morte, curata con amore dalla sua unica figlia Cicci: l’inverno nella bella casa di via Verri, l’estate in vacanza ad Alassio, la pizza d’obbligo al `Santa Lucia’, il classico ritrovo del dopo spettacolo. La passione per il teatro era per lei motivo di vita, ma da ragazza ebbe solo il permesso di studiare il violino: un po’ poco per le impetuose esigenze di quella giovane piena di volontà destinata a diventare la leggenda della passerella, il misterioso prototipo del teatro leggero visto nel suo fulgore misto di lusso e di sogni, così come apparve laggiù nel dopoguerra. Scappò (o quasi) di casa per debuttare a sedici anni al teatro Eden di Milano, ed era il 1923: fu battezzata Wanda Osiris da un impresario che mescolò i nomi di due divinità egizie, Iside e Osiride, ma l’autarchia linguistica del fascismo le tolse la `s’ finale, mentre fu Orio Vergani, in un celebre articolo, a coniare per lei l’appellativo insuperato di Wandissima. Un superlativo che si adatta alla prima soubrette che creò, col copyright della sua fantasia professionale, proverbiali effetti speciali da palcoscenico: la cipria color ocra di cui si cospargeva tutto il corpo alla ricerca dell’effetto esotico, il turbante, il capello ossigenato, il rituale delle rose Baccarat senza spine e profumate di Arpège (rigorosamente a sue spese, non sul budget della compagnia: «il teatro fu per me un magnifico deficit»), pronte da distribuire ai fortunati spettatori delle prime file durante la passerella d’inizio o, eventualmente, sugli animali di scena che Garinei e Giovannini volevano come portafortuna, vedi il somarello di Copacabana .

Le sue canzoni restano proverbiali, nello stile romantico kitsch degli anni Quaranta, e sempre rivolte al sogno, nell’immagine barocca di una vita fotoromanzata e idealizzata: “Ti parlerò d’amore”, “A Capocabana” («la donna è regina, la donna è sovrana…»), “Femmina”, “Io sogno un nido rosa”, “Notturno d’amore”, “Chèri”, “Le gocce cadono, ma che fa” («se ci bagniamo un po’…», refrain brillante cantato e ballato con Macario e Rizzo, in stile “Singin’ in the rain”), “Luna d’Oriente”, “Ti porterò fortuna”, “Siamo quelli dello sci sci”, “Tutto amore”, “In due si sogna meglio”, “Personalità”. E poi naturalmente il momento magico, l’apparizione della Diva Divina sulle scale, sempre più fantasmagoriche, sempre più lunghe, sempre più hollywoodiane, per scendere sorridente attorniata dai celebri boys dal sesso incerto che la Signora sceglieva sempre di persona, giurando di anteporre le qualità intellettuali al bell’aspetto. «Le scale non furono un incubo» disse la soubrette, «le scendevo con tranquillità, occhi negli occhi al pubblico, nonostante i tacchi e le crinoline». La Wanda fu un insieme di rituali che colpirono al cuore il pubblico negli anni a cavallo della guerra, disposto a tutto pur di sognare a teatro con le creazioni degli `stilisti’ ante litteram Folco e Boetti. I titoli di una lunga carriera. Nel 1936-37 la soubrette appare, a Roma, in E se ti dice vai, tranquillo vai di Michele Galdieri, già truccata color cioccolata; indi è nel cast di Ma adesso è un’altra musica , sempre di Galdieri (1937-38) e poi in Aria di festa , dove perde la sua `s’ ma appare in una gabbia d’oro. A Milano, nel 1938-39 e negli anni seguenti, è al fianco del suo partner ideale, Macario, in Follie d’America e nello stesso anno in 30 donne e un cameriere , poi in Caroselli di donne e Tutte donne (1940), in cui esce da un astuccio di profumo; ancora nel 1941-42 recita col comico torinese in Una sera di festa . In Sogniamo insieme (1943), a Roma, scopre un altro comico di razza, Dapporto, con cui interpreta Che succede a Copacabana (1944) e L’isola delle sirene , nel 1945, anno in cui recita anche in La donna e il diavolo . Tornata a Milano, dopo la Liberazione, è la vedette di Gran varietà , sempre con il maliardo Dapporto; appare in show di beneficenza postbellica anche per i partigiani, nonostante Mussolini fosse sceso un giorno dalla carrozza, nel 1933, per farle di persona i complimenti. In due stagioni, dal 1946 al ’48, debutta nei primi grandi spettacoli di Garinei e Giovannini, al fianco di Enrico Viarisio: Si stava meglio domani e Domani è sempre domenica , la prima rivista italiana che espatriò per un breve giro in Svizzera.

Arriviamo al 1948, anno in cui la Wandissima appare in uno spettacolo cult, al massimo dello sfarzo e dei costi, Al Grand Hotel , produzione G.G. con Dolores Palumbo, Giuseppe Porelli, Vera Carmi e Gianni Agus, con cui ebbe una lunga relazione di vita e di palcoscenico. Sempre con Garinei e Giovannini è la star di Sogni di una notte di questa estate (1949), con un cast che comprende anche il giovane artista tuttofare Renato Rascel e i Nicholas Brothers: sono gli anni in cui il pubblico, soprattutto a Milano, elegge la Osiris, con la ritrovata `s’, a regina dei propri sogni di lusso hollywoodiano e le sue `prime’ al Teatro Lirico pareggiano, per mondanità, snobismo, costi produttivi e di botteghino, quelle della Scala. Nel 1950-51 è nel Diavolo custode , sempre con i fidi Garinei e Giovannini, sempre con Viarisio e Palumbo, le Bluebell e i sontuosi, incredibili costumi di Folco; nel 1951-52 la Wanda è in Galanteria di Galdieri, rivista che ha problemi con la censura per la satira politica. Ma nel 1952-53 la soubrette torna in Gran Baraonda , in cui si ritrova al fianco – oltre al Quartetto Cetra, Turco e Dorian Gray – il giovane comico proveniente dall’avanspettacolo, Alberto Sordi, che negli stessi mesi della tournée teatrale girava con Fellini I vitelloni . Wanda nel 1953-54 riforma la storica `ditta’ con Macario per Made in Italy , lo spettacolo in cui il comico chiedeva l’età alla soubrette e si sentiva a ogni replica rispondere: «Sempre sei meno di te, caro». In Festival , debutto al Nuovo nella stagione 1954-55, vanta la consulenza registica di Luchino Visconti, all’unica sua prova con la passerella; ma, nonostante gli autori (Age, Scarpelli, Vergani, Marchesi), la direzione e il cast (il cantante Henri Salvador e il quartetto comico Lionello-Manfredi-Pisu-Pandolfi), lo spettacolo ha un esito soltanto discreto. Nel 1955-56 è la volta di una sua rivista famosa, già con un filo conduttore molto simile all’operetta, La granduchessa e i camerieri , che la vede per l’ultima volta con Garinei e Giovannini e per la prima con Billi e Riva (e Alba Arnova per la danza, Ernesto Bonino per le musiche di Kramer, il giovane `cumenda milanese’ Bramieri, Diana Dei).

Accade l’impensabile quando una sera, al Lirico, la Wanda scivola giù dalla passerella provocando, al di là di leggere contusioni che obbligheranno la compagnia a pochi giorni di riposo, titoloni sui giornali. In qualche modo è l’inizio del secondo tempo, del finale di carriera: non ci saranno più titoli leggendari. Nel 1956-57 Terzoli e Puntoni le scrivono Okay fortuna con un trio comico indovinato (Bramieri, Vianello, Durano), ma anche stavolta un incidente fa crollare un cornicione in scena sulle soubrettine (niente di grave). Lo stesso cast per I fuoriserie e, ancora una volta un colpo gobbo del destino, bruciano nell’incendio del Politeama i costumi e il materiale di scena e c’è una gara di solidarietà del mondo del teatro, della canzone, dello sport (la squadra del Napoli) in favore della sfortunata Wanda. Nel 1958-59 Doppio rosa al sex di Corbucci e Grimaldi con Billi, impegnato a imitare la sua soubrette, e Flauto: ma la Wandissima della leggenda non c’è più. Torna in scena, ma come `suocera’, nella seconda edizione di Buonanotte, Bettina di Garinei e Giovannini (1963), con Walter Chiari e Alida Chelli; poi la vuole Aldo Trionfo, come stereotipo e parodia, in Nerone è morto? di Hubay (1974). La filosofia di un personaggio inimitabile, come il birignao della prolungata vocale `e’ (seeenz’altro). Per la O., nota anche per alcune presunte e celebri gaffe, il teatro è stato una passione esclusiva, quasi di clausura. Era attesa al varco delle sue trionfali entrate in scena, quando i suoi fan misuravano col cronometro la durata dell’applauso (il record furono i dieci minuti di Made in Italy con Macario). Wanda non cessava mai di stupire, nella logica del `di più, sempre di più’: arrivava ruotando su un enorme disco, come nei musical americani di Busby Berkeley, sbucando da una gabbia d’oro o tra le campane di San Giusto, dondolando su un cammello, uscendo da una maxi abat-jour , addobbata come Caterina di Russia o mimando un enorme ruotante carillon. Le scale non erano semplici scale, erano anche riproduzioni famose, Montmartre o Trinità dei Monti. Il record storico fu nella rivista Al Grand Hotel , quando apparve cantando “Sentimental”, una canzone romantica destinata a diventare un po’ il suo inno, il suo stereotipo e infine anche la sua parodia (magari imitata dalla Mabilia, alias Tony Barlocco, la soubrette en travesti dei Legnanesi). Eccessiva nei gesti, misurati sui riflettori del palcoscenico, Wanda Osiris – pur non avendo specifiche qualità artistiche, non eccellendo nel ballo, né nel canto e recitando da soubrette – possedeva però il carisma innato della luce del varietà fino a diventare, come suggerisce il nome, una dea dispensatrice di fortuna al pubblico. Gli inizi furono naturalmente modesti: erano i tempi in cui le soubrettine le chiamavano `donne di spolvero’, donne chic, eleganti, che stavano bene in scena, ma quasi soprammobili.

Nata il 3 giugno, sotto il segno dei Gemelli, la Wanda ha avuto una trionfale carriera, sempre adorata dal pubblico, ricordata dai fedeli spettatori a lei coevi, amata dai colleghi per la generosità con cui ha vissuto la vita randagia ed esaltante del teatro di giro, adattandosi agli orari notturni degli spettacoli, che finivano oltre l’ultima corsa dei tram, e rispettando celebri superstizioni (mai il colore viola, mai uccelli neppure di stoffa). Una vita al neon sempre rimpianta, quando raccontava che la rivista era stata uccisa dagli alti costi e dai mutati gusti del pubblico. È stata al fianco dei più grandi attori comici (ma in sua presenza poche volgarità, doppi sensi ridotti al minimo), ha scoperto i giovani Manfredi e Lionello, Sordi e Rascel, ha adorato l’imitazione. Ha lavorato per il gusto dello stupore e dell’illusione, per l’oh di meraviglia di un pubblico ingenuo, affascinato e stordito dal profumo e dagli abiti; ma anche per l’ardore con cui la seguivano intellettuali e industriali (in camerino arrivavano fiori, gioielli, perfino un assegno in bianco prontamente restituito al mittente). Amava il cinema, soprattutto quello dei suoi tempi, prediligeva pochi di buono come Raft e Gabin, si identificava nella Dietrich e nella Garbo, ma ebbe poche esperienze: qualche apparizione nei panni di se stessa e una fugace sequenza ferroviaria in Polvere di stelle (1974) di Alberto Sordi, suo vecchio adoratore.

Ophüls

Dopo l’esordio come attore nel 1919, Max Ophüls si orienta verso la regia teatrale. Lavora a Dortmund, Vienna e dal 1927 a Francoforte, dove allestisce testi di Jonson, Gogol’, Büchner, Schnitzler, Bourdet e diverse operette. Nel biennio 1928-29 lavora a Breslavia, mettendo in scena Molière ( Il malato immaginario ), Shakespeare ( Il mercante di Venezia , Come vi piace ), Kleist, Shaw, Pagnol ( Marius , Fanny ), Achard ( Jean de la lune ). Nel 1930 si trasferisce a Berlino ed entra in contatto con il mondo del cinema, diradando gli impegni teatrali. Esordisce lo stesso anno con il cortometraggio È meglio l’olio di fegato di merluzzo . Dopo La sposa venduta (Die verkaufte Braut, 1932), che già rivela un sicuro dominio del mezzo cinematografico, lo splendido Amanti folli (Liebelei, 1932) gli dà notorietà internazionale. Di origini ebraiche, Ophüls deve lasciare la Germania nazista ed emigrare in Francia, dalla quale, dopo aver girato La signora di tutti (1934), Werther (1938), Tutto finisce all’alba (Sans lendemain, 1939) e Da Mayerling a Sarajevo (1940), deve nuovamente fuggire a causa dell’occupazione tedesca. Ripara negli Usa, dove rimane per un certo tempo inattivo dal punto di vista cinematografico e si dedica alla stesura delle sue memorie ( Spiel im Dasein, pubblicate postume nel 1959) finché, nel 1947, firma Re in esilio (The Exile) e l’eccellente Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, 1948), tratto da un racconto di Stefan Zweig.

Tornato in Francia, Ophüls dirige tre capolavori: La Ronde (1950), Il piacere (1952), I gioielli di madame de… (1953). Prima di morire realizza Lola Montès (1955), interpretato da Martine Carol e Peter Ustinov, opera ricca di spunti stilistici originali, ma poco apprezzata al suo apparire; si riaccosta così alla regia teatrale con un’acclamata e rutilante edizione di Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (Amburgo 1957). Finissimo interprete della psicologia femminile, Ophüls pone al centro della sua opera la donna, mostrando «la crudeltà del piacere, i drammi dell’amore, le trappole del desiderio» (Truffaut). Ammirato da Kubrick («Ho sempre adorato i suoi stravaganti movimenti di una cinepresa che possedeva il segreto di avanzare senza posa in quelle scenografie da labirinto, accompagnata da una musica meravigliosa») e dalla nouvelle vague francese, Ophüls è un artista elegante e raffinato, ma la sua grazia è stata spesso scambiata per superficialità. Pochi, invece, hanno saputo fondere così felicemente malinconia e sorriso, dramma e buffoneria, tragedia e levità e far emergere, dietro un’apparenza frivola, un fondo tragico e dolente. La sua predilezione per gli amori infelici, i conflitti del cuore, le disillusioni si sposa a un linguaggio cinematografico di straordinaria originalità. Con i suoi magistrali e spettacolari movimenti di macchina, l’attenzione al ritmo, la cura della colonna musicale e la passione per la danza, la verità delle ambientazioni, la predilezione per le linee diagonali e oblique, il decorativismo dell’immagine, la ricerca e la sperimentazione continua sugli spazi, il gioco degli specchi e dei riflessi, Ophüls incontra quell’«arte del miraggio che è il barocco» (E. Decaux), barocco non come gusto del superfluo e dell’orpello, ma inteso come ricerca di nuove, ardite e seducenti possibilità dello sguardo.

Out Off

Il teatro Out Off è una delle realtà più consolidate e ricche di stimoli del teatro italiano. Nato a Milano nel 1976 nello spazio di viale Montesanto, ha trasferito la sua sede nel 1987 in una sala di cento posti in via Dupré, dove ha continuato la sua instancabile attività di produzione e di organizzazione. Attraverso le stagioni dell’O.O. e le rassegne `Sussurri e grida’ e `Limitrofie’ (nove edizioni), ha portato a Milano tutte le più interessanti esperienze del teatro di sperimentazione, non solo italiano, creando una vera e propria `factory’ di artisti. Coordinato da Mino Bertoldo e Antonio Syxty, a cui si sono aggiunti in seguito Lorenzo Loris e Roberto Traverso, il percorso artistico della compagnia ha scandagliato in tutte le direzioni la drammaturgia del contemporaneo, con una rilettura anche del teatro classico, come nel caso della tragedia greca e del teatro americano. Tra gli spettacoli più significativi del primo periodo bisogna ricordare Lontani dal Paradiso (1987), Tartarughe dal becco d’ascia di A. Syxty (1986) e Tempo d’arrivo di L. Loris (1986).

O’Brien

O’Brien venne definito «una delle soubrette più eccitanti dell’avanspettacolo». Sulla locandina, solo il nome O’Brien stampato a vistosi caratteri tipografici. Durante lo spettacolo, quadri soprattutto coreografici, con una certa sontuosità nelle toilette, che rimandavano ai costumi di Wanda Osiris. Fece esordire, nel suo corpo di ballo, Raffaella Carrà. Memorabile il `numero’ del tango in cui O’Brien indossava un costume diviso in due parti: smoking a destra (e metà viso aveva capelli e baffi impomatati) e corpetto con gonna a balze a sinistra (l’altra metà del viso con rossetto, occhio bistrato e parrucca bionda e fluente). Seguito da un cono di luce, ruotando vorticosamente su se stesso, dava l’impressione di una coppia allacciata in “La cumparsita”. Anni dopo, la coreografa Gisa Geert sostenne d’essere stata l’ideatrice di quel numero. Primo esempio, negli anni ’50-’60, sulle ribalte minori di travestitismo, O’Brien sosteneva il ruolo femminile per tutta la durata dello spettacolo. Alla fine, dopo i ringraziamenti, guadagnava il centro della passerella, si sfilava in un baleno il sontuoso abito femminile e restava in giacca e cravatta. Ultimo colpo di scena: via la parrucca bionda, ed ecco esibita senza timore una `pelata’ da ragioniere. A quel punto in teatro si scatenava davvero il finimondo, tra urla, fischi e applausi, un mix di reazioni dettate da stupore, meraviglia e risentimento. Da una cronaca del 1963: «O’Brien, di scena all’Oriente di Roma, si muove sempre con equivoca morbidezza, passando agevolmente dalla voce di soprano a quella di baritono. Malgrado le rughe, il siciliano si diverte ancora. Sullo schermo, L’assalto degli Apaches ». Un ‘numero’ che fu anche del ballerino Harry Feist, e che in tv venne riproposto da Delia Scala nel varietà Il signore di mezza età con Marcello Marchesi. Sarebbero arrivate poi, in Italia, le compagnie di travestiti francesi `La grande Eugène’ e subito dopo `La vere Eugène’ (due formazioni parigine nate dallo stesso gruppo, divisosi per rivalità artistiche); e in seguito ci sarebbe stata l’affermazione dei Legnanesi di Felice Musazzi (Teresa) e Tony Barlocco (Mabilia) nei primi anni ’60: anche loro, nel gran finale, a sfilare in passerella finalmente in abiti maschili.

Old Vic Theatre

Edificato nel 1816, in Waterloo Road, il Royal Coburg divenne Royal Victoria Theatre nel 1833, poi R. V. Hall and Music Tavern dopo la ristrutturazione del 1880 ed infine semplicemente Old Vic Theatre. Originariamente destinato ad accogliere spettacoli popolari, nel corso del Novecento divenne sede di programmazione del miglior teatro d’autore classico. La prima stagione scespiriana risale al 1914. Il teatro era da due anni sotto la direzione di Lilian Baylis, che rimase alla guida fino al 1937. Durante questo periodo e negli anni successivi alla morte della Baylis, la fama dell’O. V. come teatro scespiriano andò consolidandosi, grazie all’apporto di attori e registi di talento: Ben Greet e Sybil Thorndike dal 1915, gli attori John Gielgud, Lawrence Olivier, Charles Laughton, Peggy Ashcroft, Flora Robson e i registi Tyrone Guthrie e Michel Saint-Denis negli anni Trenta e Quaranta. Nel 1941 il teatro fu danneggiato dai bombardamenti tedeschi, ma venne ristrutturato e riaperto nel 1950 con La dodicesima notte di Shakespeare. Dal 1953 al 58 il direttore Michel Benthall mise in scena le trentasei opere del Primo Folio dei drammi scespiriani (da Amleto ad Enrico VIII ). Nel 1963 il Teatro divenne la prima sede del National Theatre diretto da Lawrence Olivier, con una programmazione che annoverava anche altri autori: La regale caccia del sole (The Royal Hunt of The Sun, 1964) e Equus (1973) di Peter Shaffer, Rosencrantz e Guildestern sono morti (R. and G. are Dead, 1967) e Jumpers (1972) di Tom Stoppard, Edipo (1968) di Seneca diretto da Peter Brook. Nel 1974 Peter Hall assunse la direzione del National Theatre e la compagnia si trasferì in una nuova sede. Dal 1976 la fama dell’Old Vic cominciò a decadere: sede londinese della Prospect Theatre Company (1977-81), il teatro subì in seguito un taglio delle sovvenzioni statali e rimase inattivo fino al 1983, quando venne acquistato da una società canadese, che tornò ad un programma di repertorio per garantirsi profitti sicuri. Dopo la passata stagione, tuttavia, le sorti del teatro inglese sembrano di nuovo incerte, nonostante la direzione artistica sia tornata a Peter Hall. I prorietari hanno infatti dichiarato: “Avere in sala 743 persone per Il gabbiano di Cechov, in un teatro che può contenerne 1000, per noi non è abbastanza. Vogliamo vedere la sala piena tutte le sere” ( The Times , 8.9.97).

Orfei

Figlia di Paride `Pippo’ e di Alba Furini, Liana Orfei esordisce giovanissima come clown, con il personaggio di `Lacrima’ che porta avanti nel tempo. A quattro anni una grave malattia la allontana dalla pista fino all’ottavo anno di età; in seguito diventa buona generica. Nel 1954 si sposa giovanissima con Angelo Piccinelli, uno dei più grandi giocolieri dell’epoca, scritturato ovunque, con il quale ha modo di girare il mondo e conoscere le novità in arrivo dall’Europa. Il matrimonio con Piccinelli è messo in crisi dalla carriera cinematografica di Liana, che gira una cinquantina di pellicole, fra cui molte commedie all’italiana ma anche alcuni film d’impegno con registi come Orson Welles, Dino Risi, Antonio Pietrangeli e Mario Monicelli. Intraprende anche la carriera teatrale, lavorando con la compagnia di Eduardo De Filippo e, in seguito, con Emma Gramatica. Nel 1960 si separa dallo zio Orlando e crea un circo in società con i fratelli Nando e Rinaldo. Il complesso si distingue per le colossali produzioni: il Circo a tre piste (1969), Circorama (1970) con un grande schermo per `stereocineanimazioni’, il Circo delle mille e una notte (1973), da un’idea di Fellini, con le coreografie di Gino Landi e i costumi di Danilo Donati, il Circo delle amazzoni (1976), composto di sole donne. Parallelamente Liana è spesso impegnata in spettacoli teatrali, come Liana Orfei show (1978, regia di Gino Landi). Anche nella metodologia di marketing segna passi importanti, attraverso un moderno impatto con i media e accurate strategie pubblicitarie. Nel 1975 Liana sposa Paolo Pristipino, suo compagno in tutte le future iniziative. Alla fine degli anni ’70 comincia una crisi diffusa del settore circense che porta, nel 1977, all’ulteriore divisione da Rinaldo. Dopo aver importato nel 1982, per la prima e unica volta in Italia, il Circo della Corea del Nord, nel 1984 avviene la definitiva scissione con Nando. Nello stesso anno Liana e il marito fondano il Golden Circus, una rassegna di artisti internazionali che si tiene a Roma nel periodo natalizio.

Otero

Figlia di madre gitana andalusa e di padre greco – un commerciante morto in un duello con l’amante della moglie – Carolina Otero vive un’infanzia dura, che la porta a fuggire di casa prima di essere segregata in un collegio. Quattordicenne, durante una nuova fuga, si esibisce in uno squallido café chantant di Lisbona iniziando una carriera che entrerà nella leggenda. Interpreta danze spagnole e canzoni popolari che mandano in delirio gli spettatori di sesso maschile nei teatri di varietà d’Europa e d’America. Dotata di discrete doti vocali e di un conturbante sex-appeal è dapprima chanteuse leggera, quindi anche cantante lirica in Carmen , Cavalleria rusticana e Tosca. Le sue scandalose vicende biografiche e artistiche riempiono le cronache della Belle Epoque come un romanzo: è nel mito il suo duello a petto scoperto con l’attrice inglese Valton, che finisce ferita al seno. Ammiratissima e ricercatissima, porta ininterrottamente in giro per il mondo i suoi spettacoli, incantando col suo fascino plebei e nobili. Le vengono attribuiti per amanti Guglielmo II di Prussia, Edoardo De Filippo VII d’Inghilterra, Nicola II di Russia, Nicola I di Montenegro, D’Annunzio e il finanziere Vanderbilt. Accumula immense fortune che sperpera ai tavoli da gioco, e solo grazie a un vitalizio ereditato da uno spasimante può vivere gli anni della vecchiaia in condizioni decorose. Poco è storicamente decifrabile tra i veri eventi della sua vita e l’alone di leggenda che aleggia intorno alla sua figura, ma il suo fulgore nel café chantant è assoluto. È la regina incontrastata dei più importanti teatri a cavallo del secolo a Parigi, Vienna, Berlino, Mosca, Pietroburgo, New York; in Italia è per due volte, nel 1896 e nel 1901, al Salone Margherita di Roma e all’Eden di Milano. Seguendo la sua lezione, sciantose e soubrette del nostro palcoscenico imparano ad attribuirsi nomi esotici, lignaggi misteriosi e stragi di amanti di sangue blu.

Orta

Si è formato alla Escuela superior de teatro di Caracas e si è dedicato allo studio della danza moderna alla scuola Cantorum di Parigi e alla Folkwang Schule di Essen. Ha danzato nel Folkwang ballet dal 1970 al 1973 passando poi al Wuppertal Dance Theatre (1973-74) dove ha partecipato alle prime creazioni della Bausch per il suo Tanztheater ( Fritz e Iphigenie auf Tauris ). Successivamente ha fatto parte del Tanzforum di Colonia (1974-79) e della compagnia di Limón. Nel 1975 ha iniziato l’attività coreografica. Tra i suoi lavori si ricorda The mistake (1976) che ha vinto il premio al concorso di Colonia.

Oida

Dopo aver studiato filosofia all’università di Kelo Yoshi Oida inizia a interessarsi al teatro tradizionale del suo paese: frequenta le scuole Nô, Kyogen, Buyo (danza Kabuki), studia il Gidayu sotto la guida del maestro Juzo Tsuruzawa (diventa narratore del teatro delle marionette, il Bunraku). Intraprende così una fortunata carriera d’attore in Giappone nel teatro moderno, in televisione e al cinema. Nel 1968 accetta l’invito di J.L. Barrault e si trasferisce in Francia, dove comincia la sua straordinaria collaborazione con Peter Brook. Con il suo lavoro si integra perfettamente con le attività del Centre international de recherches théâtrales (Cirt) e appare in molte produzioni atipiche e non convenzionali. Ricordiamo una Pièce expérimentale sur La tempête (1968), da Shakespeare; Orghast (1971) di T. Hughes, messo in scena da Brook a Persepoli (Iran); La conférence des oiseaux (1973) a New York, Les Iks (1975) per C. Turnbull, il Mahabharata (1985) con Brook al festival di Avignone e la versione de La tempête (1990) con debutto a Zurigo. Nel 1993 a Parigi è L’homme qui in una pièce adattata da O. Sachs, sempre con la regia di Brook. Fin dal 1975 però O. ha affiancato alle sue collaborazioni un’intensa attività teatrale con una sua personale compagnia, con cui ha battuto i sentieri di quasi tutti i generi, sempre all’insegna della ricerca. Della Yoshi and Company si ricordano Hannya Shingyo (1975) , Le sac ridicule (1978), adattamento da Molière, Ame Tsuchi (1978) sulla mitologia giapponese di M. Takahashi, Le livre des morts tibétain (1982), La Divine Comédie (1982), Über den Berg kommen (1983), una pièce del teatro nô di K. Komachi a Monaco, La marche du caméléon (1988) ispirata al folklore africano, L’histoire de Kantan (1989) da un testo nô, Madame de Sade (1995) di Y. Mishima. Sempre nel 1995 lavora con P. Greenaway al film The Pillow Book. Nel 1997 O. ha messo in scena Fin de partie di Beckett in Olanda, Molly Swoeney di B. Friel e La femme de sable , tratto dal romanzo di Kobo Abe. Nel 1992 viene nominato cavaliere dell’Ordine delle arti e delle lettere dal ministero francese della cultura e della comunicazione. O. dirige dal 1975 laboratori di formazione sulla tradizione giapponese e vanta diverse pubblicazioni di rilievo tradotte in diverse lingue, come L’acteur flottant e L’acteur invisible .

Obaldia

In Génousie (1960) – la sua prima pièce teatrale – inventa un suo linguaggio, il genusiano: caratteristica dell’intera produzione di O. è l’elaborazione del tessuto linguistico, attraverso giochi di parole e la creazione di aforismi assurdi, fino al completo stravolgimento della comune sintassi. All’aspetto linguistico si affianca la componente parodistica, che rompe le convenzioni. O. si prende gioco dell’entusiasmo per i viaggi spaziali in Le cosmonaute agricole (1965), del genere western in Du vent dans les branches de sassafras (1965), del perbenismo borghese in Edouard et Agrippine (1967) e in Les bons bourgeois (1981). Ha vinto il Gran premio dell’Académie française per il teatro (1985) e il Grand prix littéraire dramatique della città di Parigi (1991).

Olesa

I primi versi e feuilleton satirici di Jurij Karlovic Olesa escono a partire dal 1922 sulla rivista dei ferrovieri “Il fischietto” (“Gudok”), a cui collaborano scrittori come Bulgakov, Il’f e Petrov; ottiene grande popolarità con i romanzi Tre grassoni (scritto nel 1924 e pubblicato nel 1928) e Invidia (1927), dove non nasconde una divertita polemica nei confronti del nuovo sistema sovietico e dai quali fa subito due applaudite riduzioni teatrali (Tre grassoni nel 1930 per il Teatro d’Arte di Mosca e La congiura dei sentimenti , tratto da Invidia , nel 1929 al teatro Vachtangov). Lontano dall’ottimismo di gran parte della produzione sovietica è il successivo lavoro teatrale, L’elenco delle benemerenze (1931), con la regia di Mejerchol’d, reduce dai non meno controversi allestimenti di La cimice (1929) e Il bagno (1930) di Majakovskij. Emarginato dalla critica ufficiale, O. fu arrestato e costretto al silenzio: sopravvissuto al lager, si occupò di traduzioni e sceneggiature cinematografiche.

Orton

Joe Orton è noto alle cronache anche per la sua vita scandalosa: omosessuale, condannato a sei mesi per furto e danneggiamento di libri in una biblioteca pubblica, e infine ucciso dal suo amante, Kenneth Halliwell, che subito dopo si suicidò. Ha esordito nel 1964 con Il ceffo sulle scale (The Ruffian on the Stair), scritto per la radio e trasformato nel 1966 in un atto unico per il Royal Court con il titolo Il campo di Erpingham (The Erpingham Camp): un campo di vacanze è paragonato a un lager. Mr Sloane ovvero Dell’ospitalità (Entertaining Mr Sloane, 1964) e Il malloppo (Loot, 1965-1966) hanno riscosso particolare successo, segnalandolo come maestro della commedia macabra. Nella prima un giovane, dopo aver ucciso il padre, crede di trovare rifugio presso il fratello e la sorella; questi, per nulla scossi dal parricidio, sfruttano la situazione e riducono il protagonista a loro schiavo sessuale: lei è ninfomane, lui omosessuale.Seguono La buona e fedele serva (The Good and Faithfull Servant, 1967), scritto per la televisione, e due opere allestite postume: Funeral Games e Ciò che vide il maggiordomo (What the Butler Saw, 1967), dove sono messi in ridicolo le convenzioni sessuali e l’istituto matrimoniale. Orton è stato il primo a imprimere alla commedia tradizionale inglese degli anni ’50 una nuova vitalità, grazie al suo talento linguistico e alla padronanza dei meccanismi della comicità. Nelle sue opere si irride ai valori borghesi, mostrando la loro scarsa importanza quando si scontrano con il tornaconto personale.

Oreglio

Approda al cabaret nel 1986. Nel 1987 esce il primo album, Melodie & Parodie: ovvero pensieri di un rivoluzionario moderato e l’anno successivo il secondo LP, Clownstrofobia . Numerose le sue partecipazioni in tv e in teatro. Vince nel 1994 il premio della critica al festival di Sanscemo. Nel 1997 lo vediamo su Italia 1 in Facciamo cabaret e l’anno successivo in Scatafascio .

Owens

Tema fondamentale del suo teatro è il conflitto fra gli impulsi primari dell’individuo e una società che cerca di reprimerli. Il linguaggio è dichiaramente sperimentale e, avvalendosi di elementi simbolici e rituali, tende al paradossale, al provocatorio e al grottesco. Fra i suoi testi più noti, tutti rappresentati Off-Off Broadway, lo scandaloso Futz (1967), sulle ripercussioni in un villaggio della dichiarata passione di un contadino per la propria scrofa, e The Karl Marx Play (1973) che inseriva nella famiglia Marx il noto cantante folk nero Leadbelly.

Owen

Le prime opere di Alun Owen sono ispirate per l’ambiente e per il linguaggio alla sua terra d’origine, il Galles: la trilogia Liverpool (Liverpool) – teledramma che comprende Nessun tram per Lime Street (No Trams to Lime Street, 1959), Dopo il funerale (A Funeral, 1960) e Lena mia Lena (Lena oh My Lena, 1960) -, Avanzata verso il parco (Progress to the Park, 1959), dramma sui conflitti religiosi e culturali, e Maggie May (1964), commedia musicale realizzata in collaborazione con L. Bart. Interessanti sono anche Un piccolo amore invernale (A Little Winter Love, 1963), Il gioco (The Game, 1965), L’oca (The Goose, 1967) e La stanza di Giorgio (George’s Room, 1968). Negli ultimi anni O. ha lavorato soprattutto per la televisione; nel 1974 ha adattato per il teatro il suo dramma televisivo Il maschio delle speci (The Male of the Species), sullo sfruttamento maschile nei confronti delle donne, e nel 1982 Lucia . Autore di buon mestiere e molto produttivo, ha utilizzato gli stili più diversi, dal canone naturalistico a strutture drammaturgiche più complesse. È inoltre sua la sceneggiatura di Tutti per uno (A Hard Day’s Night, 1963) di R. Lester, interpretato dai Beatles.

Occhini

Ilaria Occhini coltiva, fin da bambina, la sua passione per lo spettacolo, divertendosi ad allestire piccole rappresentazioni in casa. Nel 1954 debutta al cinema con Terza liceo di L. Emmer, quindi si diploma all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’. Approda al teatro nel 1957, ottenendo un ruolo importante nell’ Impresario delle Smirne di Goldoni diretto da Visconti; dallo stesso regista e suo primo grande maestro viene guidata, nelle due stagioni successive, in Uno sguardo dal ponte di Miller (1958) e in Figli d’arte di D. Fabbri (1959). Intanto inizia a lavorare per la televisione, acquistando grande popolarità con sceneggiati quali Jane Eyre da C. Brontë e Delitto e castigo da Dostoevskij (1963), entrambi per la regia di A.G. Majano. Nella stagione 1960-61 lavora con Gassman in Un marziano a Roma di Flaiano e Edipo re di Sofocle. Nel 1965-66 si cimenta nella commedia musicale prendendo parte a Ciao Rudy di Garinei e Giovannini, accanto a Mastroianni. Una tappa importante della sua carriera è rappresentata dall’incontro con O. Costa che, dopo averla diretta in Francesca da Rimini di D’Annunzio (1960) e in Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos perla televisione (1962), la chiama a interpretare Tre sorelle di Cechov (1974) e Le allegre comari di Windsor di Shakespeare (1976). Nel 1977 ottiene i riconoscimenti del pubblico e della critica per la sua interpretazione in William Shakespeare di A. Dallagiacoma. Negli anni ’80 un altro incontro importante con Patroni Griffi la porta a recitare due testi di Pirandello (Sei personaggi in cerca d’autore 1988 e Ciascuno a suo modo 1989) all’interno del progetto ‘Trilogia del teatro nel teatro di Pirandello’ dello stesso regista. Ancora con Patroni Griffi interpreta, nel 1991, La moglie saggia di Goldoni. Attrice che ama studiare il testo nelle sue sfumature, affascinata dalla `parola’ capace di creare il personaggio, nella sua ultima interpretazione si è confrontata con l’opera di Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1996, ripreso nel 1997) con la regia di Ronconi con il quale assieme a Corrado Pani, Nora Ricci, Carla Gravina, Sergio Fantoni e Gianmaria Volontè aveva costituito negli anni Sessanta una sfortunata cooperativa al Valle di Roma presentando Castello in Svezia di F. Sagan e il dittico La putta onorata e La buona moglie di Goldoni.

Opera di Pechino

Opera di Pechino  (Jing xi, letteralmente `teatro della capitale’) è il modello scenico più noto dell’Opera cinese, ovvero lo stile regionale, estremamente spettacolare e fondato sulla tecnica degli attori-danzatori, sviluppatosi a Pechino. Il graduale prevalere del dialetto pechinese ha favorito l’assunzione dell’O.d.P. come teatro nazionale. Non utilizza in genere pièce intere, ma un’antologia di episodi tratti da drammi diversi, a loro volta già concepiti per poter essere rappresentati a pezzi e assemblati volta a volta secondo un filo narrativo (un’avventura di Sun Wu Gong, il celebre re delle scimmie, la leggenda del serpente bianco che si incarna in una donna innamorata), in genere derivato dalla materia popolare. Il testo è parlato e cantato (si canta perlopiù in falsetto sul registro acuto, più raramente di petto nel grave), senza partitura fissa e con grande spazio per l’improvvisazione del cantante. Gli strumenti, in genere da cinque a sette (a corde, a fiato e a percussione), hanno esclusivamente la funzione di accompagnamento del canto e dell’azione; i suonatori siedono in genere a destra della scena, in modo da poter vedere gli attori. La narrazione però è affidata in gran parte alla mimica, alla gestualità e all’azione scenica (perciò l’Opera di Pechno è leggibile sostanzialmente anche da un pubblico non cinese); queste sono fortemente stilizzate, talora nella direzione di un’amplificazione (salti mortali e acrobazie in genere per le battaglie o il superamento di ostacoli), talvolta in quella di una riduzione (il gesto del remare indica l’azione che descrive, ma anche simbolicamente la barca e addirittura il fiume).

Attraverso stilizzazione e simbolismo sono indicati non solo gli eventi narrati e i sentimenti, anch’essi fortemente tipizzati, ma anche il contesto scenico: nell’Opera di Pechno non c’è scenografia, ma uno spazio vuoto, delimitato da una tenda sul fondo, con due passaggi laterali (gli attori entrano sempre da sinistra all’inizio di una scena ed escono sempre da destra) e il luogo dell’azione è indicato da qualche attrezzo (una bandiera con una ruota per una carrozza) o da un personaggio (un imperatore seduto indica che siamo a corte). I costumi – più leggeri per i ruoli acrobatici, più sontuosi ed elaborati per le divinità – così come il trucco sono pure standardizzati; grazie a essi il pubblico identifica immediatamente i personaggi, che corrispondono a quattro tipi fondamentali (Opera cinese). L’Opera di Pechno, portata per la prima volta fuori dai confini nazionali all’inizio del nostro secolo grazie soprattutto dell’attore Mei Lanfang, affascinò e influenzò alcuni dei principali innovatori del `nostro’ teatro, da Ejzenstejn e Mejerchol’d a Brecht, che ravvisò in alcune convenzioni dell’Opera cinese (in particolare quella degli attori principali di rivolgersi direttamente al pubblico e presentarsi col proprio nome) le medesime radici del proprio principio di straniamento. Durante la Rivoluzione culturale, dal 1966 e per tutto il decennio successivo – soprattutto ad opera della moglie di Mao, Jiang Quing, che ne era stata attrice – l’Opera di Pechno dovette abbandonare costumi e vicende tradizionali, in favore di narrazioni esaltanti degli eroi della guerra civile e della costruzione del nuovo stato socialista, e prestarsi perciò a un fine educativo in luogo di quello tradizionale, estetico e ricreativo. Dalla fine degli anni ’70 è tornata alle forme classiche.

Olivieri

Dopo aver studiato con L. Darsonval al Conservatorio di Nizza, è stato scritturato all’Opéra di Parigi. Danzatore in possesso di notevoli qualità tecnico-espressive, si è distinto nel repertorio classico, passando agevolmente dai ruoli più conosciuti del balletto ottocentesco a quelli balanchiniani (fu particolarmente apprezzato in L’enfant prodigue ). Alla fine degli anni ’80 è passato ai Ballets de Monte-Carlo, finché un incidente ha bloccato prematuramente la sua brillante carriera scenica. È quindi divenuto un apprezzato maître de ballet, incarico che ha ricoperto anche al Teatro Comunale di Firenze.