Maccari

Fondatore e direttore dal 1926 del “Selvaggio” e collaboratore del “Mondo”,Mino Maccari iniziò nel teatro con i costumi per Il campanello di Donizetti nel 1941 al Teatro delle Arti di Roma dove, dieci anni dopo, realizzò le scene e i costumi del Turco in Italia di Rossini. Sempre nel 1951 collaborò al festival di Venezia per Commedia sul ponte di Martinù. Nel 1961 lavorò al Signor di Pourceaugnac di Molière per il Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Eduardo De Filippo, col quale lavorò ancora al Maggio musicale fiorentino per il Naso di Šostakovic (1964) e per il Falstaff di Verdi (1970).

Vinogradov

Oleg Michajlovic Vinogradov si è diplomato all’Istituto coreografico di Leningrado e dal 1958 al 1965 danza al Teatro di Novosibirsk dove realizza le sue prime prove coreografiche ed è nominato coreografo sino al 1968. Dal 1968 al ’72 è coreografo al Teatro Kirov; dal 1973 al ’77 è coreografo al Malyj Teatr di Leningrado. Nel 1977 è nominato direttore artistico e coreografo principale del Balletto del Kirov. Nel periodo in cui è attivo al Malyj la sua più importante coreografia è Jaroslavna (realizzata con la regia di J. Ljubimov, 1974). Fra le sue coreografie Cenerentola (varie edizioni), La ballata dell’ussaro (1979), Il revisore (1980), Il cavaliere dalla pelle di tigre (1985) La corazzata Potëmkin (1986), Petruška (1990), Coppélia (1992), La fille mal gardée (1994). È negli anni ’50 e ’60 che mette in luce le sue qualità di coreografo innovatore della tradizione classica, mentre nei lavori più si riavvicina al genere ottocentesco del balletto pantomima. Durante la direzione del Kirov conserva meritoriamente il repertorio ottocentesco del teatro. Lascia la direzione del Teatro Marijnskij (così è chiamato il Kirov, dagli anni ’90) dopo uno scandalo per corruzione nel 1996; è attivo come coreografo e direttore di compagnie negli Usa e in Corea.

Lievi

Artisti raffinati e sensibili, aperti ai confronti interculturali, dopo aver raccolto riconoscimenti soprattutto in Germania, Austria e Svizzera, sono stati scoperti anche in Italia. Cesare Lievi, dal 1996, è direttore artistico del Centro Teatrale Bresciano. La loro idea di teatro trova radice in Germania e nei paesi di lingua tedesca. Per i Lievi mettere in scena uno spettacolo significa entrare in sintonia con l’autore, capirne profondamente il linguaggio, cercare tramite la sua traduzione scenica di farne fiorire le potenzialità espressive. Compito degli attori è rendere vivo il testo, facendolo proprio per consentire sulla scena la ‘resurrezione’; una vitalità scenica sostenuta e consolidata dalle splendide scenografie di Daniele Lievi che cercava vita nella parola, trasformava in immagini evocative i sentimenti sottesi a essa. La mobilità dei fondali, i colori, i meccanismi più articolati e in generale tutti gli arredi scenici creati dall’artista scomparso erano in grado di trasporre liricamente i drammi e le gioie, i sogni e le utopie vissuti dai personaggi. La carriera teatrale dei Lievi ha avuto inizio nei primi anni ’80 nei locali di un’antica caserma, alle spalle del loro paese natio. Mitologie personali, brani di autobiografia, ma anche citazioni di classici caratterizzavano l’originale poetica di Cesare e Daniele.

Nel 1979 la coppia fonda insieme al costumista Mario Braghieri il Teatro dell’Acqua per il quale realizzano lavori di grande interesse, che culminano con l’allestimento di Paesaggio con Barbablù di Lievi Tieck, giunto nel 1984 alla ribalta internazionale. Con questo spettacolo si definisce la contraddizione vitale che sta all’origine del teatro dei due fratelli: l’iterazione del gesto omicida di Barbablù – tra amore e morte – che uccide tutte le sue sette mogli, rievoca il senso stesso della rappresentazione teatrale che si ripete e si consuma ineludibilmente ogni sera. Invitati in Germania, i Lievi nell’anno successivo hanno realizzato per la Hochschule di Francoforte la messinscena di Le miniere di Falun di Hofmannsthal (che porteranno anche in Italia a Udine per un’unica tappa, 1985): è stato questo l’inizio di una memorabile avventura nei paesi di lingua tedesca, con regie commissionate fra gli altri dalla Schaubühne di Berlino e dal Burgtheater di Vienna. Tra gli spettacoli di maggior successo si ricordano Il ritorno a casa di Cristina di Hofmannsthal (1987), Sonata di fantasmi di Strindberg (1988), Il nuovo inquilino di Ionesco (1988), Kaulmthchen von Heilbronn di Kleist (1988), Enrico IV di Pirandello (1989), Fratelli d’estate di Cesare Lievi (1992), oltre a numerose regie di opere liriche. La presenza dei Lievi sui palcoscenici italiani nella seconda metà degli anni ’80 è circoscritta ai due spettacoli del progetto Goethe di Brescia, Torquato Tasso (1986) e Clavigo (1988) e a La morte di Empedocle di Hölderlin (Gibellina 1987). Attingendo alla classicità del romanticismo tedesco, i tre spettacoli ruotavano attorno al tema dell’individuo e in particolare dell’intellettuale nei suoi rapporti con il potere. Ma il fascino e la novità di questi spettacoli non sono stati sufficienti a radicare in patria il lavoro dei Lievi.

Dopo una brevissima esperienza di nomina di direttore allo Stabile bresciano, Cesare è tornato ad operare in Italia nel 1991 alla Scala con Parsifal di Wagner, nel 1992 con la ripresa di Paesaggio con Barbablù (Mittelfest a Cividale del Friuli) e con il suo Varietà, un monologo (Teatro dell’Acqua). Culmine di questa fase di un’originale ricerca drammaturgica e registica, sospesa tra tradizione e teatro visivo, è stata la realizzazione per il Centro servizi spettacoli di Udine di Tra gli infiniti punti di un segmento (1995), allestimento ambientato in una stanza chiusa e animata nella quale attori-attrezzisti rendono viva la narrazione, muovono fondali, spostano sipari, cantano lieder di Schubert e gridano parole di dolore sulla incomprensione di ogni rapporto umano. Immagini di grande intensità emotiva che pervadono i personaggi ma che si estendono anche alle morbide linee delle scenografie, ai colori, alle silhouette che danno vita al paesaggio. Il grande successo di questo suo testo ha costituito le premesse per una completa affermazione di Lievi nelle nostre scene segnate l’anno seguente dalla regia di Donna Rosita nubile di García Lorca (1996) e dall’assunzione della direzione del Centro teatrale bresciano per cui ha curato l’allestimento del suo Festa d’anime , di Schifo di Robert Schneider. A nove anni dall’allestimento di Basilea Lievi cura la traduzione in italiano e una nuova messinscena di Caterina di Heilbronn di Kleist (con le stesse scene del fratello ormai non più al suo fianco), fiaba romantica che il regista racconta con un’altra fiaba, in cui i sentimenti danno scacco alla ragione. Ultime regie sono Nina o sia La pazza per amore di Paisiello (1998) per l’Opera di Zurigo e Manon di Massenet per l’Opera di Berlino (1998).

Pericoli

Dopo gli studi classici Tullio Pericoli frequenta la facoltà di giurisprudenza a Roma e a Urbino e inizia a collaborare con disegni e illustrazioni a diversi giornali. Si trasferisce a Milano nel 1961 dove per dieci anni lavora nel quotidiano “il Giorno”. Del 1972 sono le sue prime mostre di pittura e nello stesso anno comincia una fruttuosa collaborazione con la rivista Linus. Con E. Pirella pubblica strisce di critica politica; nel 1974 il “Corriere della Sera” gli pubblica regolarmente i suoi disegni. I suoi acquerelli vengono esposti nella galleria milanese Studio Marconi, e si susseguiranno mostre di pittura e di disegni nelle più importanti gallerie nazionali e internazionali.

Nel 1981 partecipa alla Triennale di Milano e a una mostra sulla scenografia della televisione italiana. Nel 1984 ha inizio la sua collaborazione con “la Repubblica” dove disegna ritratti di scrittori. Segnaliamo nel vasto panorama della sua attività di pittore e illustratore, la commissione avuta da L. Garzanti di dipingere un salone all’interno della casa editrice. Cura insieme a P. Cerri, una serie di sigle animate nell’ambito di un programma di rinnovamento televisivo dell’immagine di Raitre. Ricordiamo nel 1991 l’importante mostra retrospettiva di Pericoli nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano dove vengono esposte opere legate all’editoria, alla stampa quotidiana e periodica, ai libri illustrati e a opere non legate alla committenza. In teatro debutta come regista scenografo e costumista nel sorprendente Elisir d’amore di Donizetti a Zurigo nel 1996, poi ripreso alla Scala di Milano nel 1998.

Schlemmer

Nel 1921 Oskar Schlemmer entrò a far parte del corpo insegnante del Bauhaus, dove diresse inizialmente il laboratorio di scultura; dal 1923, dopo il ritiro di Lothar Schreyer, assunse anche la direzione del laboratorio di teatro. Il Balletto triadico , il suo capolavoro, iniziato a Stoccarda nel 1912 in collaborazione con i ballerini Albert Burgen ed Elza Hotzel e il maestro scenografo Carl Shlemmer, era già stato rappresentato almeno in parte, nel 1915. La prima esecuzione del balletto intero avvenne nel 1922, al Landerstheater di Stoccarda: dodici brani coreografici, in diciotto diversi costumi realizzati con imbottiture, con forme rigide in cartapesta dipinta a colori o in toni metallici, indossati da due ballerini e una ballerina. Le tre sezioni del balletto declinavano ciascuna il carattere giocoso-burlesco, il cerimonioso-solenne, la fantasia mistica. Il `maestro-mago’, come lo definì Walter Gropius, affermava nelle sue creazioni, come nell’opera teorica, la propria posizione tra i sostenitori del superamento della messa in scena naturalistica.

Tra il teatro meccanico, astratto, in cui l’uomo-attore è sostituito dalla marionetta o da effetti cinetici, egli sceglieva un teatro che non rinunciava alla componente umana. Ma l’uomo-teatrale di Schlemmer doveva sconfinare dai propri limiti naturalistici, ponendosi in relazione con le leggi tridimensionali dello spazio. E poteva farlo con gli espedienti del travestimento, del costume e della maschera, operando una riduzione dei dati naturali del corpo umano a un’essenzialità geometrica che si concentrava nelle forme del cubo, del cilindro e della sfera, per tendere a un’astrazione che era per Schlemmer riduzione all’essenziale, all’elementare, al primario. E d’altra parte, potenziando le proprie possibilità cinetiche attraverso un’adeguata preparazione atletica, l’uomo-teatrale di Schlemmer eliminava dalla danza, con l’aiuto della geometria, del meccanico e dell’artificiale, ogni residuo psicologico e sentimentale.

Nel rapporto tra uomo e spazio si rivelava la sostanza metafisica dell’estetica di Schlemmer voleva che l’uomo sconfinasse dai propri limiti per ricongiungersi a una più profonda struttura di ordine cosmico. Scopriva figure che rappresentavano idee metafisiche (la forma stellata della mano a dita dilatate o il segno dell’infinito nelle braccia conserte) e vi ritrovava il valore di simboli che rinviavano alla struttura dello spazio, rintracciando per analogia i legami che uniscono il microcosmo dell’uomo al macrocosmo dell’universo. Poiché era posseduto dall’idea di ritrovare nuovi simboli, considerato che, a suo avviso, la cultura contemporanea li aveva perduti e si rivelava incapace di ricrearne. L’energia spirituale della sua ricerca, generava figure e forme che simboleggiavano i tipi eterni dei caratteri umani nelle loro diverse accezioni, serene o malinconiche, giocose o serie.

Le sue ‘figure epiche‘ monumentali erano personificazioni di concetti elevati quali la Forza, il Coraggio, la Verità, la Bellezza, la Legge e la Libertà. Nei suoi scritti, accompagnati da illustrazioni e diagrammi di sua mano, testimoniava quella che Walter Gropius definì una «vasta lungimiranza», e la «chiarezza di idee e il controllo spirituale, volti sempre verso valori generali ed eterni». Durante il periodo di ricerca al Bauhaus, Schlemmer ideò le scenografie, i costumi e le coreografie della Danza metallica (1928-29) e della Danza del vetro (1929). Ricordiamo anche Gabinetto figurale I e II (1922), Meta o la pantomima dei luoghi (1924), Don Giovanni e Faust di Grabbe rappresentato al Teatro Nazionale Tedesco di Weimar nel 1925, Assassinio, speranza delle donne , di Oskar Kokoshka con musica di Hindemith, messo in scena al Landerstheater di Stoccarda nel 1921.

De Chirico

Giorgio De Chirico iniziò l’attività di scenografo con i Ballets Suédois di Rolf de Maré nel 1924, per La giara , il balletto di Casella ispirato a Pirandello. In questa, come in altre sue scenografie, De C. compie delle rivisitazioni del proprio stile in pittura e degli eventi e delle suggestioni che ne hanno segnato i vari momenti. Alla scena solare di questo primo lavoro, ispirata alle sue Ville romane , seguono i bozzetti di Le bal di V. Rieti per i Balletts Russes di Monte-Carlo del 1929, dove compaiono, sotto forma di spezzati, le visioni arcaiche di rovine grecizzanti ed elementi naturali racchiusi nello spazio architettonico di una stanza. Tutte citazioni del suo lessico pittorico, come il cavallo in corsa nell’apertura sullo sfondo, inquadrata nel paesaggio marino, e la musa assopita da un lato. Nel 1931 si dedicò al balletto Bacchus et Ariane di Roussel per l’Opéra di Parigi, dipingendo scene e costumi mitologici di notevole suggestione. Seguiva l’esperienza nella prosa con La figlia di Jorio di D’Annunzio, per la regia di Pirandello, nel 1934. Tornò al balletto, di nuovo con Diaghilev, per il Protée al Covent Garden di Londra, nel 1938, e con il coreografo Milloss nel 1942 e 1944, rispettivamente per Anfitrione alla Scala e Don Juan all’Opera di Roma. Nel frattempo, iniziava la sua attività nel teatro d’opera per il Maggio fiorentino, inaugurata con le scene per I Puritani di Bellini. Molte le citazioni e i riferimenti. Finestre e portali a teatrino si aprono nello spazio chiuso su vedute di fantasia che riprendono la grafia dei suoi Bagni misteriosi. Spazi e memorie araldiche citano con ironia l’armamentario tardometafisico dei suoi quadri. La giocosa e ricca vena fantastica di Giorgio De Chirico si sbizzarrisce nella serie dei famosi bozzetti per i costumi e nei disegni per l’attrezzeria scenica. Ben diversa è l’atmosfera nell’ Orfeo di Monteverdi, del 1949. Sono gli anni del neoromanticismo dechirichiano. Il bozzetto per il siparietto, con i personaggi del melodramma in posa da atelier in una scena all’aperto, col tempietto dechirichiano sullo sfondo, e il bozzetto per la scena degli inferi, sono due saggi di pittura di ambientazione classica a cui fanno coro i costumi. Nell’ Ifigenia di Pizzetti del 1951 la scena dell’accampamento, realizzata essenzialmente come un fondale dipinto in sintonia col neoseicentismo dechirichiano, acquista un valore scenico nel progressivo avvicinamento dei piani scenico-pittorici, risolto dall’artista con la doppia sequenza della medesima composizione rappresentata in due diversi fondali, dallo stesso punto di vista ma a diversa distanza. L’ultimo lavoro per il Maggio fiorentino, Don Chisciotte di Frazzi, si articola in una movimentata rappresentazione scenico-illustrativa. Lo spazio del palcoscenico, inquadrato dal drappeggio di un sipario innalzato, gioca con ambiguità tra l’illustrazione da fondale dipinto e la creazione di ambienti scenici spaziali.

Sensani

Dopo aver partecipato ad importanti esposizioni europee d’arte, Gino Carlo Sensani esordisce a Roma come figurinista per le Marionette del Teatro dei Piccoli, dedicandosi tuttavia in seguito all’attività di illustratore, limitandosi ad allestire spettacoli ‘privati’ per l’aristocrazia di Firenze, dove lavora dal 1918. Un passo importante è la partecipazione al primo Maggio musicale fiorentino (con i costumi per Il mistero di Santa Uliva, regia di J. Copeau, 1933, ispirati ai figurini di Pisanello per i balli della corte estense), della quale diventa ben presto un assiduo frequentatore (Incoronazione di Poppea di Monteverdi, 1937; Antonio e Cleopatra di Malipiero, 1938; Le astuzie femminili di Cimarosa, regia di C. Pavolini, 1939; L’elisir d’amore 1940; Ritorno di Ulisse in patria, 1942). Il suo stile, che evoca immagini antiche del teatro musicale italiano, sfrutta policromie preziose, rifacendosi liberamente alla fantasia figurativa delle epoche rappresentate. Lavora anche per la Scala di Milano (Cenerentola di Prokof’ev, 1947, andato in scena dopo la sua morte), con una particolare raffinatezza nelle citazioni che lo annovera inoltre tra i maestri storici del costume nel cinema italiano, a cui si dedica con vivo interesse.

Burri

Alberto Burri iniziò l’attività teatrale con i balletti di Morton Gould Spirituals, rappresentati alla Scala nel 1963 e lavorò al Tristano e Isotta di Wagner per il Regio di Torino nel 1976. Realizzò per la moglie, la coreografa Minsa Craig, le scenografie del balletto November steps , del 1973, dove proiettò su un fondale le immagini filmate dei suoi ‘cretti’, celebri esemplari delle sue opere polimateriche. Ricordiamo il progetto di uno spazio scenico, il Teatro Continuo, per la Triennale di Milano del 1973.

Cagli

La pratica della scena fu fin dall’inizio per Corrado Cagli occasione di sollecitazioni immaginative e tecniche, che appaiono nelle sue esperienze pittoriche e grafiche fin dai `disegni a quarta dimensione’, come Ragghianti definì le opere esposte nella mostra romana del 1949; e d’altra parte le tecniche ad aerografo e le `impronte dirette’ utilizzate in pittura dall’artista trovano espressione negli elementi scenici di vari suoi lavori. Basti citare il noto siparietto, o il fondale con le armature ammucchiate in una suggestiva sfaccettatura di piani, realizzati per uno dei suoi lavori più riusciti, il Tancredi di Rossini (Firenze 1952): un’opera che inaugurava l’attività di Corrado Cagli scenografo in Italia, al Maggio musicale, dove circa vent’anni dopo tornò a collaborare per Perséphone di Stravinskij (1970), Fantasia indiana di Busoni (1971) e Agnese di Hohenstaufen di Spontini (1974). C. aveva iniziato la sua attività in teatro a New York, dove nel 1946 fu tra i fondatori della Ballet Society di Lincoln Kirstein; due anni dopo lavorò a The Triumph of Bacchus and Ariadne di Vittorio Rieti (coreografia di Balanchine) e collaborò al Poets Theatre di Maria Piscator in Noh Plays di P. Goodman. Negli anni ’50 e ’60 fu attivo nei teatri italiani: tra gli altri suoi lavori citiamo Bacchus et Ariane di Albert Roussel (1957), Jeux di Debussy (1967) e Marsia di Dallapiccola (1969) per l’Opera di Roma, con la coreografia di A. Milloss; Il misantropo di Menandro per l’Olimpico di Vicenza (1959, regia di L. Squarzina); Macbeth di Bloch alla Scala (1960); Estri di Petrassi per il festival di Spoleto (1968). Ricordiamo ancora, sempre con coreografie di Milloss, la sua collaborazione nel 1972 con l’Opera di stato di Vienna per Wandlungen (musica di Schönberg) e An die Zeiten (musica di Milhaud).

Prampolini

Nella poetica del teatro futurista, avviata da Marinetti con la messinscena di Roi Bombance nel 1909 (anno in cui pubblicò Poupées électriques ) e con il Manifesto del teatro di varietà del 1913, ha inizio l’attività di Enrico Prampolini scenografo, con due bozzetti di costume motorumorista per `coreografie futuriste’: un bozzetto di scena e un costume `fono-dinamici’ del 1914. Nel 1915 P. pubblicò il manifesto Scenografia e coreografia futurista , dove affermò il valore della scena dinamico-cromatica, più incline all’esaltazione pantomimica che alla parola, in un dinamismo scenico che guardava all’allora giovane cinema (nel 1916 infatti collaborò con A.G. Bragaglia a Perfido incanto e Thaïs e pubblicò il Manifesto della cinematografia futurista ). Risalgono al 1917 i bozzetti per la sua prima scenografia teatrale, La vita dell’uomo di Andree. Considerando la marionetta lo strumento più idoneo alla propria concezione teorica, ne concretizzò i risultati espressivi nel dramma simbolico per marionette Matoum et Tévibar di A. Birot (1919). Seguì un’intensa attività di scenografo, scenotecnico e costumista al `Teatro del colore’ di Achille Ricciardi, dove sviluppò la propria ricerca di una scenografia risolta attraverso ritmi espressivi di luce-colore, verso una totale astrazione che lo portò a sostituire l’attore con fasci di luce in movimento, come il personaggio della Morte ne L’intrusa di Maeterlinck.

Ricordiamo inoltre L’après-midi d’un faune da Mallarmé, poema danzato con un declamato di voce fuori campo in luogo della musica, e Le bateau ivre , ispirato al poema di Rimbaud (1920). Nel 1921-1922 disegnò le scenografie e i costumi per il Teatro Sintetico Futurista, che mise in scena Antineutralità e Vengono di Marinetti, Parallelepipedi di P. Buzzi, Giallo+rosso+verde e Il pranzo di Sempronio di Settimelli, rappresentati al Teatro Svandovo di Praga, dove P. ebbe modo di sperimentare il palcoscenico girevole per la simultaneità dell’azione. Nel manifesto Atmosfera scenica futurista del 1924, mosso dall’esigenza di un rigoroso astrattismo, affermò la necessità di una scenografia elettrodinamica di «elementi plastici luminosi in movimento nel cavo teatrale», per inscenare quel “rito meccanico” che aveva assunto le tinte dell’appassionata utopia: «il teatro poliespressivo futurista sarà una centrale ultrapotente di forze astratte in gioco». Su questa linea P. portò le proprie visionarie e provocatorie proposte di messinscena nei teatri di Vienna, Praga, Parigi, New York. Progettò il modello del `Teatro Magnetico’, edificio dedicato alla scena astratta futurista che proseguiva le tesi di Gordon Craig e di altri innovatori della scenografia: esposto a Parigi nel 1925, gli valse il Grand Prix Mondiale pour le Théâtre.

Nel 1927 diede vita al Teatro della Pantomima Futurista, dove ideò suggestive soluzioni scenodinamiche tra cui si ricordano Tre momenti (1927), con la musica di F. Casavola e il `rumorarmonio’ di L. Russolo, dove P. fu anche coreografo, Coctail di Marinetti, musicato da S. Mix (1927), e L’ora del fantoccio con musica di A. Casella (1928). Fu anche autore della pantomima Il mercante di cuori (musica di Casavola), dove utilizzò in scena proiezioni cinematografiche in nome di una ancor più viva adesione all’estetica della macchina. Si affermò in seguito come scenografo nei più noti teatri italiani, lavorando a opere liriche e balletti, intrecciando rapporti estetici con l’astrattismo, il costruttivismo, il cubismo, il neoplasticismo. Ricordiamo tre lavori di Casavola ( Il castello nel bosco , 1931; Salammbô , 1948; Bolle di sapone , 1953), la `prima’ de I capricci di Callot di G.F. Malipiero (Roma, Teatro dell’Opera 1942) e La sonnambula di Bellini per il Maggio musicale fiorentino (1942).

Kokoschka

Oskar Kokoschka iniziò l’attività teatrale ventenne, collaborando come scenografo allo spettacolo inaugurale del cabaret letterario viennese `Fledermaus’, nel 1907. Nello stesso anno scrisse il primo dei suoi cinque drammi, Assassino, speranza delle donne (Mörder, Hoffnung der Frauen), illustrato da una serie di xilografie; il dramma, in seguito rimaneggiato dall’autore, venne pubblicato nella rivista “Der Sturm” nel 1910. Costruito secondo lo schema della tragedia greca (due attori e il coro), tratta del conflitto fra uomo e donna, visti come avversari inconciliabili; nelle successive versioni l’autore spostava il conflitto su un terreno allegorico, attinente le relazioni umane in generale, indicando la soluzione nei valori della comprensione e dell’amore per il prossimo. Rappresentato da Kokoschka nel 1909 nel teatro all’aperto della Wiener Kunstschau, Assassino, speranza delle donne fu considerato uno dei primi documenti di teatro espressionista, non solo nel testo, che vide quattro edizioni stampate tra il 1910 e il 1917, ma anche nei mezzi scenici, pittorici, coreografici, acustici, dinamici. I giovani attori dell’Accademia d’arte drammatica recitavano «come se fosse una questione di vita o di morte», ricordava l’autore, vestiti con costumi fatti di stracci, i volti dipinti secondo le usanze dei popoli primitivi, e le braccia e le gambe decorate con le linee dei muscoli, dei nervi e dei tendini. Di questo suo lavoro contrastato e discusso Kokoschka ebbe a dire che si trattava di «un antidoto contro il torpore del teatro» di allora. Altri memorabili allestimenti furono quello del 1917 all’Albert Theater di Dresda, sempre a cura di Kokoschka, definito dal noto critico Alfred Kerr «uno dei registi più geniali che io conosca», e del 1920 al Neues Theater di Francoforte (regia di Heinrich George); nel 1921 l’opera, musicata da Paul Hindemith, fu rappresentata con la scenografia di O. Schlemmer al Landestheater di Stoccarda.

Sempre nel 1907 Kokoschka scrisse un secondo lavoro teatrale, Sfinge e uomo di paglia (Sphinx und Strohmann), sottotitolato `commedia per automi’: la parodia di un tema ricorrente nella commedia borghese, il triangolo sentimentale. Venne rappresentato nel 1909 al `Fledermaus’ con la parte di Anima interpretata da Elfriede Rossi, che i critici paragonarono a una figura di Beardsley. Proponeva trovate sceniche che ricordavano le gag dei clown del circo, spettacolo di cui Kokoschka era un frequentatore, oltre che del teatro ebraico burlesco e della commedia popolare viennese. Otto anni dopo, in occasione della rappresentazione alla Galleria Dada di Zurigo, Tristan Tzara considerò il dramma tragicomico come un momento decisivo del teatro dadaista; in seguito venne elogiato dai surrealisti e considerato un esempio di teatro dell’assurdo. Nel 1917 Kokoschka elaborò una nuova versione ampliata di Sfinge e uomo di paglia , che intitolò Giobbe (Hiob): la parodia del tema iniziale si trasformava ora in un’amara diagnosi della sostanziale inconciliabilità dell’uomo e della donna. Giobbe venne rappresentato all’Albert Theater di Dresda nel 1917, per la regia dell’autore, in un trittico comprendente Assassino, speranza delle donne e Il roveto ardente (Der brennende Dorbusch): un lavoro scritto nel 1911 e incentrato su una auspicata trasformazione dei rapporti umani su principi etici, una speranza dell’Espressionismo.

In Orfeo e Euridice (Orpheus und Eurydike), dramma scritto tra il 1916 e il 1918, Kokoschka realizzò una versione del mito orfico ispirata alla psicologia del profondo: un testo che si differenzia dagli altri per la strutturazione in atti e scene, più funzionali al procedere dell’azione e logicamente motivati nei cambiamenti di luogo e di tempo; mentre le precedenti opere scandivano sequenze oniriche, a volte slegate da connessioni logiche, sostenute da intenti allusivi, suggestivi, simbolici. Nel 1925 il lavoro venne musicato da Ernst Krenek e messo in scena allo Staatstheater di Kassel nel 1926. Seguiva la lunga gestazione dell’ultimo dramma, Comenius , iniziato durante il soggiorno a Praga, tra il 1936 e il ’38, e ispirato alla figura del pedagogo moravo Jan Amos Komensky (1592-1670). In una prima stesura l’autore stabiliva dei riferimenti tra la drammatica vicenda e le persecuzioni hitleriane, mentre in una successiva stesura volle eliminare le allusioni al presente e conferire un valore universale alla portata filosofica e morale della vita di Comenius. Il lavoro, a lungo rielaborato e pubblicato nella versione definitiva nel 1972, fornì il soggetto al film televisivo del regista Stanislav Barabas, girato nel 1974 con le scenografie dell’autore. Di Kokoschka ricordiamo infine i bozzetti per le scene e i costumi del Flauto magico (Salisburgo 1955), commissionati da Wilhelm Furtw&aulm;ngler poco prima della morte; dieci anni dopo diede una nuova versione scenografica dell’opera di Mozart per il Covent Garden di Londra. Realizzò inoltre le scene e i costumi per Un ballo in maschera di Verdi, per la memorabile edizione del 1963 al Maggio musicale fiorentino (regista Herbert Graf, direttore Antonino Votto).

Aglioti

Fondatore del teatro La Maschera insieme a Memé Perlini (Candore giallo, 1974; Otello, perché? , 1974; Locus solus , 1976), Antonello Aglioti ne diviene presto uno dei riferimenti fondamentali, anche in qualità di coautore (Tradimenti-Azione , musica di P. Maxwell Davies, Montepulciano 1976). L’impiego di colori forti, di oggetti significanti (come le lavagne luminose o a specchio) e di spazi di vita quotidiana definisce il suo stile energico, giocato su antitesi vigorose. Così è per la rielaborazione dell’ Eliogabalo di Artaud (1981), che offre un acuto recupero dell’immagine attraverso dissolvenze e contrasti luminosi; così anche per Intorno a Garibaldi (Roma 1982), allestito lungo il Tevere, su otto zatteroni che raccontano gli episodi della vita dell’eroe dei due mondi. Dopo vari spettacoli con Perlini (Cartoline italiane , 1984; Molly Bloom , 1984; L’uomo dal fiore in bocca e All’uscita di Pirandello, 1987), A. ha perseguito la propria poetica `della distruzione’, che ripropone di continuo nuove forme e valori, in altri contesti (Giovanna d’Arco di E. Isgrò, 1989); ha esordito anche come regista (Il giardino dei ciliegi di Cechov, Roma, Teatro La Piramide 1989; da cui ha tratto un film, 1993).

Picasso

Nel 1916 Pablo Picasso fu chiamato da Diaghilev a collaborare ai Balletti Russi per un soggetto di Jean Cocteau, Parade , con la musica di Erik Satie, messo in scena al Théatre du Châtelet nel 1917. «L’argomento sembra scritto per me», affermava Picasso alludendo alla scena davanti al baraccone su un boulevard parigino, dove gli artisti di un circo ambulante – un acrobata, un prestigiatore cinese, una ragazza americana – davano un saggio del proprio talento per invitare il pubblico a entrare. Realizzò una scenografia con prospettive fortemente sfalsate e intervenne sul soggetto inserendo dei personaggi, i manager-imbonitori, vestiti con sovrastrutture in stile cubista, dei giganteschi monoliti disumanizzati che inscenavano giochi mimici. Trattò il sipario dipingendo i protagonisti di un circo immaginario alla maniera dei suoi arlecchini ambientati tra i drappeggi di una scena. Due anni dopo ideava le scene e i costumi di Le tricorne, il balletto con le musiche di Manuel de Falla rappresentato al Théâtre de l’Opéra. Una storia di seduzione dalla vena satirica ambientata in un villaggio andaluso nel Settecento. Il noto sipario rappresentava `l’arrastro’, il prelevamento del toro morto che viene trascinato fuori dall’arena visto da una loggia ad arcate con gli spettatori. La sera della prima, Picasso dipinse i volti dei ballerini come maschere africane.

Nel 1920 era impegnato ancora con Diaghilev in Pulcinella , con le musiche ideate su temi di Pergolesi da Stravinskij («un musicista cubista», osservava Picasso). Venne messo in scena al Théâtre de l’Opéra nel 1920. «Ho immaginato una scena nella scena: una strada di Napoli inquadrata nell’arco scenico di un teatro dove si vedono le logge d’avanscena abitate da personaggi del secondo impero», ricordava Picasso Dipinse vari bozzetti, ma non apprezzò il lavoro, così Picasso creò una seconda versione, «una scena arcisemplice», diceva, «tappeto bianco puro, scene grigio scuro, e i gai costumi della commedia dell’arte». I vecchi decori di Pulcinella ritornarono alla ribalta, rimaneggiati, quando Diaghilev gli chiese le scenografie di Cuadro flamenco , rappresentato al Théatre de la Gaité-Lyrique nel 1921. Nel 1922 Picasso lavorava alla scenografia per il libero adattamento di Cocteau dell’ Antigone di Sofocle, con musica di Arthur Honegger, per il Théâtre de l’Atelier di C. Dullin. I costumi erano di Coco Chanel. Il bozzetto consisteva in un pezzo di carta accartocciato che divenne in scena il fondale roccioso di tela juta blu violetto debordante dal palcoscenico. Al centro, in una nicchia sospesa circondata da maschere dipinte da Picasso, declamava il coro.

Seguiva, nel 1924, il balletto Mercure, con la coreografia di Massine e la musica di Satie – una serie di scene collegate dalla presenza di Mercurio – realizzato nel 1924 per La Soirée de Paris, una manifestazione di spettacoli promossa dal conte Etienne de Beaumont. Il celebre sipario rappresentava due soggetti favoriti dall’artista, Arlecchino che suona la chitarra insieme a Pierrot col violino. Picasso ricordava di avere «concepito, per i differenti `quadri’, delle strutture in fil di ferro rigido e delle superfici in cartone che potevano essere animate da movimenti. Nella Notte , per esempio, una ballerina `danzava’ alla donna addormentata e la mia scena di cartone dondolava dolcemente. Volevo suggerire il movimento del caso, delle nuvole che passano». Diede il suo ultimo contributo al teatro di nuovo con Diaghilev per Le train bleu, dal soggetto di Cocteau e musica di Darius Milhaud. Le scenografie erano dello scultore Henri Laurens e i costumi di Coco Chanel. Picasso aveva concesso la riproduzione ingigantita di un suo lavoro per il sipario, Due donne che corrono sulla spiaggia . Nel 1945 il fotografo Pierre Brassai visitò Picasso per chiedergli un bozzetto per il sipario di Rendez-vous , il balletto con musica di Joseph Kosma e coreografie di Roland Petit: fu la versione ingrandita della tela Bugia e maschera .

Guttuso

Artista del realismo sociale, Renato Guttuso prese parte a Roma al gruppo antifascista di Corrente e nel 1947 fu uno dei fondatori del Fronte unito delle arti. Intese la scena come idea espressiva della realtà, nella massima chiarezza ed efficacia visiva. Il suo primo lavoro come scenografo fu L’histoire du soldat di Stravinskij al Teatro delle Arti di Roma nel 1940. Collaborò al Maggio musicale fiorentino con Chout di Prokof’ev nel 1950 e La giara di A. Casella nel 1957, dove riprese il gioco cromatico e coloristico delle sue narrazioni siciliane.

Piper

Dopo gli studi artistici John Egerton Christmas Piper si dedica con successo alla pittura (anche come illustratore ed autore di decorazioni musive), seguendo le fascinazioni di Braque e Picasso, dell’astrattismo, del neo-romanticismo. Si occupa di teatro soltanto in seguito, esordendo con Trial of judge di S. Spender (regia di R. Doone, Londra, Unity Group Theatre, 1938). Nel 1947 fonda l’English Opera Group con il compositore B. Britten, diventandone uno dei suoi più fedeli interpreti ( Billy Budd , regia di B. Coleman, Londra, Covent Garden, 1951; Il giro di vite , regia di B. Coleman, Festival di Venezia, 1953; Albert Herring , regia di C. Graham, Londra, 1962). Giobbe di N. de Valois (Londra, Sadler’s Wells Ballet, 1948) è il primo grande successo, con costumi di cupa intensità e ambientazioni surreali che si ispirano efficacemente alle illustrazioni di W. Blake per il Libro di Giobbe da cui il balletto è tratto: il suo stile in effetti sfrutta proficuamente l’influenza della pittura (i costumi per Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, coreografia di W. Gore, Hammersmith, Lyric Theatre, 1951, sono irreali e fantasiosi, quasi astratti; quelli per Arlecchino in Aprile di Cranko, Londra, Sadler’s Wells Theatre Ballet, 1951, si accendono su un fondale scuro come allegri collages). Fortunati anche gli allestimenti per Don Giovanni di Mozart (regia di C. Ebert, Glyndeburne Festival, 1951), Buonanotte signora Puffin di A. Lovegrove (regia di A. Dove, Londra, 1961) ed il più recente Billy Budd di Britten ( regia di Anderson, San Francisco Opera, 1979). Negli ultimi anni è tornato alla pittura con grande vivacità creativa, partecipando ad esposizioni di rilievo internazionale.

Baj

La lunga carriera di Enrico Baj si snoda attraverso la seconda metà del secolo attraverso molteplici esperienze, dalle influenze fauviste alla stesura del Manifesto per l’Arte Nucleare con Sergio D’Angelo negli anni ’50, dalle collaborazioni spazialiste con Yves Klein e Piero Manzoni all’invito di Andrè Breton a raggiungere i Surrealisti negli anni ’60, fino ai collage venati di riferimenti socio-politici degli anni ’70 e ’80. Su quest’ultima nota è caratterizzata anche buona parte della sua produzione teatrale, come testimoniano le scenografie per L’affare Pinelli di Michael Meschke (Kungstadgarden, Stoccolma, 1978), Bosnie (Sarajevo, 1993) per la regia di Massimo Schuster e Eric Poirier, e Das Begrabnis des Anarchisten Pinelli di Dario Fo (Darmstadt, 1995). Altri contributi importanti da ricordare sono le scenografie per Il passaggio (Piccola Scala di Milano, 1963) con la regia di Virginio Puecher, Le avventure di un burattino di legno (Teatro Comunale di Pistoia, 1980) basato sul celebre personaggio di Collodi, Ubu Roi (Espace Kiron, Parigi, 1981) di Alfred Jarry, che avrà risvolti anche sulla sua pittura, e le marionette realizzate per l’ Iliade di Massimo Schuster (Piacenza, 1989), e per l’adattamento di Jean-Pierre Carasso di Le Bleu-Blanc-Rouge et le Noir di Anthony Burgess, rappresentato al Centre Georges Pompidou nel dicembre del 1989 e al Teatro dell’Elfo a Milano, nel febbraio del 1990.

Larionov

Michail Fëdorovic Larionov fu, insieme alla moglie Natalja Goncarova, tra i principali esponenti del movimento pittorico del raggismo. Stretto collaboratore di Diaghilev e in seguito di Lifar, fu scenografo, aiuto-coreografo e consigliere artistico dei Ballets Russes. Pur sostenendo idee avanguardistiche, rimase sempre profondamente legato alla tradizione scenografica russa, piena di colore e di sapore esotico. Fra i lavori teatrali di cui si è occupato: Le soleil nuit (1915), balletto di Massine tratto dall’opera La fanciulla di neve; Contes Russes (1916), per il quale è assistito da N. Goncarova e Depero; Renard, di Stravinskij (1992), presentato all’Opéra di Parigi e ripreso nel 1929 con nuove scene, costumi e maschere commissionate da Diaghilev; Symphonie classique di Prokof’ev (1930); Sur le borysthène 1931, di Prokof’ev coreografia di S. Lifar.

Bosquet

Thierry Bosquet inizia la sua carriera lavorando per la lirica e per la danza fin dal 1955 al Teatro Volant di Bruxelles, e poi realizzando diversi spettacoli anche per il Théâtre Royal de la Monnaie. Il suo linguaggio creativo è di forte ispirazione fantastica: per la Manon di Massenet (regia di S. Sequi, 1964) rievoca decorazioni di arredo tardo rococò; per Il flauto magico di Mozart (regia di C. Graham, 1966), immagina velluti, sculture e costumi metà Ottocento dalle ampie gonne femminili a balze di merletto; e per Il conte Ory di Rossini (regia di A. Berch, 1967) inserisce abiti corposi ed appariscenti in una campagna da miniatura gotica, illuminata da soli a raggi d’oro da broccato barocco. Importante è l’incontro con Béjart, per il quale lavora dal 1974, in una Traviata ambientata in un démi-monde sfolgorante di lumi e orpelli, con dame in abiti a strascico, boa di struzzo e pennacchi di airone; nel 1975 elabora il Notre Faust di Béjart e nel 1978 risolve La vie parisienne di Offenbach con atmosfere che rievocano con ironia le mode della Parigi del Secondo impero. Nonostante la sua carriera sia legata di preferenza ai teatri di Bruxelles, l’artista belga opera con successo in Europa, in Francia, Germania ed Italia (nel 1968 a Monaco elabora l’ Orfeo di Monteverdi; nel 1973 per il Teatro alla Scala di Milano cura le scene ed i costumi di Mathilde ou l’Amour Fou , un balletto su musica di Wagner).

Fontana

Dopo una fase dedicata principalmente all’astrattismo e a una certa geometrizzazione di matrice costruttivista, Lucio Fontana nell’immediato dopoguerra teorizzò lo spazialismo, con ben sette manifesti tra il 1947 e il ’53. La sua ricerca, incentrata principalmente sulla rappresentazione dello spazio, lo portò a realizzare tagli e buchi sulle tele, liberandolo da ogni definizione materica e da ogni vincolo di senso rinascimentale o naturalistico. Nel 1964, in seguito a un’opera intitolata Teatrini, Fontana sviluppò l’idea per una messa in scena del proprio stile, che lo spingerà a realizzare le scenografie per La scatola magica , in collaborazione con Pietro Consagra, Fabio Mauri e Giulio Turcato, e soprattutto le scene e i costumi del Ritratto di Don Chisciotte , balletto di Petrassi con la coreografia di A. Milloss (Scala 1967).

Sassu

Dopo aver aderito al movimento futurista, la pittura di Aligi Sassu si evolve verso l’espressionismo con opere caratterizzate da un utilizzo fauve del colore. Nel dopoguerra partecipa alla fondazione del movimento Corrente, in opposizione alla cultura ufficiale. Dagli anni ’60, oltre a essere impegnato come illustratore, realizza le sue prime scenografie riportando in teatro il suo violento cromatismo e il lirismo della sua iconografia. Per il teatro ha realizzato scenografie e costumi per Il muro del silenzio (1961) al Teatro del Convegno di Milano, La giara (1962), balletto con coreografia di Luciana Novaro alla Scala, Cavalleria rusticana (1972) all’Arena di Verona, I vespri siciliani (1973), con Maria Callas e Giuseppe Di Stefano, al Teatro Regio di Torino, Carmen (1980) all’Arena di Verona e Canto generale (1983) al Teatro Comunale di Savona, di cui realizzò, oltre alle scene e ai costumi, anche le coreografie.

Veronesi

In sintonia con le proposte delle avanguardie razionaliste europee, dal Costruttivismo al Bauhaus, nel 1934 Luigi Veronesi espose, su sollecitazione di A.G. Bragaglia, due figurini in una mostra di scenografia a Milano. Da allora ideò vari lavori sperimentali rimasti allo stadio di progetti, ad esempio, per Balletto di G.F. Malipiero introdusse l’effetto bidimensionale con la proiezione di un film astratto sugli elementi scenici. Tra i lavori realizzati ricordiamo: Minnie la candida di R. Malipiero (1942), Histoire du soldat di Stravinskij (1981), Josephlegende di Strauss (1982) e Lieb und Leid su musiche di Mahler (1983).

Clavé

Per molti anni Antoni Clavé si dedica all’illustrazione di libri per l’infanzia. Nel 1946 conosce Boris Kochno che gli chiede di progettare le scene di Caprichos , balletto di Ana Nevada per i Ballets des Champs-Élysées; da allora la sua opera si divide fra l’illustrazione e la scenografia per il balletto (Carmen, 1949; Ballabile, 1950; Déuil en 24 heures di R. Petit). Le scene e i costumi per il balletto del film Il favoloso Andersen di Christian Vidor (1952; coreografia di R. Petit) costituiscono invece la sua unica esperienza cinematografica. Le scene da lui progettate sono caratterizzate da un’estrema semplicità ed economia di mezzi: delle corde, alcune sedie, una porta bastano talora a suggerire un luogo, uno spazio, una situazione.

Paolini

Collegato alla corrente dell’Arte Povera, movimento emerso in Italia a fine anni ’60 e caratterizzato da opere costituite prevalentemente da materiali poveri e di rifiuto, Giulio Paolini cominciò a interrogarsi sul concetto di doppio e di copia sin dai primi anni ’70, per poi approdare a un discorso sul barocco e l’arte del Quattrocento. Da sempre interessato alla messa in scena e alla rappresentazione, ebbe una fruttuosa collaborazione con il regista Carlo Quartucci, con il quale realizzò Manfred di Robert Schumann (Auditorium di Torino, 1970), Don Chisciotte , adattato da Roberto Lerici e trasmesso dalla Rai il 10 aprile 1970, Opera (Genova, 1980), dove P. fu anche autore, e per il quale realizzò le scene e i costumi insieme a Jannis Kounellis, Platea (1981), Scene di conversazione (Parigi 1982) e Primo amore di Samuel Beckett (Teatro Ateneo di Roma, 1986). Da ricordare inoltre Il trasloco di Vittorio Gassmann (Torino 1973), La mandragola di Machiavelli (Vercelli 1983) in collaborazione con Mario Missiroli, e Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1984), basato su alcuni canti della Gerusalemme liberata di Tasso. Interessante citare infine, per il vasto numero di membri della comunità artistica coinvolti, Pentesilea (Teatro Olimpico di Roma, 1986), basato su un’idea di Rudi Fuchs, con i costumi di Luciano Fabro e con scene dell’artista, di Enzo Cucchi, Mario Merz, David Salle, Markus Lupertz e Lawrence Weiner.

Savinio

«La prima volta che misi piede in un teatro, avevo sì e no cinque anni. Ciò avveniva a Volo, in quell’antica Jolco che vide salpare gli Argonauti alla conquista del vello d’oro». Fu precoce la fascinazione di Alberto Savinio per il teatro: quando lasciò ancora ragazzo la patria adottiva greca, salpando per l’Italia con il fratello Giorgio De Chirico, il sognato approdo era la conquista della scena teatrale. A questa meta affinò le armi di musica e teatro; e se la sua versatilità lo indusse a cimentarsi anche nelle vesti di pittore e scrittore, ottenendo solidi riconoscimenti postumi, nell’ambito della produzione di prosa e per la danza un processo di rivalutazione critica è tuttora in corso. Gli esordi di S. compositore avvennero nella Parigi di Apollinaire e dei Ballets Russes.

Tra il 1912 e il ’13 vi scrisse tre balletti: Deux amours dans la nuit (inedito, forse la sua migliore partitura), Persée (soggetto di Fokine; rappresentato a New York, Metropolitan, nel 1924) e La morte di Niobe (allestito a Roma nel 1925, con scene di De Chirico, al Teatro d’Arte diretto da Pirandello). Poi intervenne una lunghissima pausa nella produzione ballettistica, interrotta solo da Ballata delle stagioni (Venezia, La Fenice 1925) e da un ultimo titolo su commissione di Aurelio Milloss, Vita dell’uomo (Roma 1948, Scala 1951). Agli anni ’20 risale invece la prima prova teatrale, Capitan Ulisse (1925, rappresentata nel 1938), le cui gravi difficoltà di allestimento, e l’esito alquanto contrastato della `prima’, tennero S. lontano dal teatro per un altro decennio. Seguirono Il suo nome (1948), La famiglia Mastinu (1948), Alcesti di Samuele (Milano, Piccolo Teatro 1950, regia di Strehler) e Emma B. vedova Giocasta (Roma, Teatro Valle 1952, interprete Paola Borboni che lo incluse nelle sue serate di monologhi fino al 1958).

Episodico ma denso fu il contributo di Alberto Savinio alla critica teatrale, che esercitò tra il 1937 e il ’39 sul settimanale “Omnibus” diretto da Leo Longanesi (contributo ora raccolto in volume con il titolo Palchetti romani), e concentrata in pochi anni fu l’attività di regista, scenografo e costumista per il teatro d’opera. Accanto alle scene e ai costumi per Oedipus rex di Stravinskij e I racconti di Hoffmann di Offenbach (Scala 1948 e 1949), di particolare riuscita e assai apprezzato risultò l’allestimento dell’ Armida di Rossini, di cui firmò anche la regia (Firenze, Maggio musicale 1952), che segnò una tappa non marginale nell’evoluzione del gusto della messa in scena del teatro lirico in Italia. Tanto nel teatro che nel balletto, S. aspirò a un dinamico `teatro metafisico’, di clima strettamente affine e complementare a quello suscitato da De Chirico con la spazialità sospesa della sua pittura. Egli mirò a intessere un dialogo intriso di scetticismo tra gli archetipi della mitologia greca, rivisitati con ironia assieme tagliente e affettuosa, e l’anticonformismo più iconoclasta delle avanguardie.

Ricorrente nei suoi testi è il desiderio, che lo approssima a Cocteau, di far scendere le figure degli statuari miti greci dai loro piedistalli perché affrontino, come strani angeli caduti per sbaglio sulla terra, le angustie delle banalità borghesi e quotidiane del nostro tempo. Permeato di uno spirito surrealista da lui originalmente rivisto, il suo teatro si gioca tutto sull’abile montaggio di umori eterogenei. Ora si vena di una razionalistica nostalgia del mondo classico; ora si apre a riletture in chiave psicoanalitica (come nel monologo Emma B. vedova Giocasta, in questi anni riproposto con la regia di E. Marcucci da Valeria Moriconi); o ancora, è capace delle inaspettate cadenze di un malinconico esistenzialismo, il cui sguardo si posa a scrutare con vigile distacco tra le pieghe più dolorose della quotidianità.

Zuffi

Dopo aver vissuto fino al 1951 a Parigi dedicandosi alla pittura, Piero Zuffi decide di tornare in Italia grazie al fortuito incontro con Strehler, che gli affida l’allestimento di un Macbeth (Piccolo Teatro, 1951), con abiti corposi e pesanti che trasformano gli stessi attori in elementi scenici. È il primo episodio di una fortunata collaborazione che prosegue con Giulio Cesare (1952), dalle luminose scene ad arcate aperte. Affermatosi con uno stile architettonico, dalle strutture fisse che seguono l’azione con rapidi cambiamenti a vista, allarga la sua attività al teatro d’opera, curando per l’Arena di Verona un’Aida (1958) dal verticalismo strutturale, caratterizzata dalla presenza di un’enorme Sfinge, memoria di un Egitto divorato dalla sabbia e dissepolto; e un Lohengrin di Wagner (1963), dalla suggestiva foresta che si dilata a gradoni, con un intrico di radici e rami intrecciati. Stabilisce un legame particolarmente proficuo con il regista G. Albertazzi: di rilievo il baroccheggiante Antigone Lo Cascio di G. Gatti, 1963, dai pomposi interni ispirati ai palazzi baronali siciliani. Zuffi si dedica anche al cinema (La notte di M. Antonioni, 1961, Orso d’oro a Berlino) e alla regia mettendo in scena Un ballo in maschera (Arena di Verona, 1986) in cui, nel terzo atto, gli splendidi costumi settecenteschi di seta si accendevano di riflessi sotto il brillìo di una luminosissima ambientazione.

Roller

Conclusi gli studi, Alfred Roller conosce nel 1902 G. Malher e decide di dedicarsi al teatro. L’anno seguente diventa direttore dell’allestimento scenico dell’Opera, ma la svolta decisiva è l’incontro con M. Reinhardt (Edipo e la Sfinge di Hofmannsthal, Berlino 1906), che segna l’inizio di una felice collaborazione e avvia uno stile destinato a modificare i confini tradizionali dello spazio teatrale grazie a un caratteristico ‘realismo semplificato’. Dopo un Don Giovanni di Mozart (Vienna 1906) che introduce le celebri `torri-Roller’ (due elementi scenotecnici verticali che incorniciano la scena permettendo cambi veloci senza turbare l’unità complessiva dello spettacolo), fortunatissimi un Faust (Berlino 1909), in cui il prologo si svolge quattro metri più in alto del palcoscenico; un Cavaliere della rosa di R. Strauss (Dresda, Opera, 1911) dalla chiara articolazione architettonica e ricchezza decorativa, con abiti luminosi di seta, raso e broccato; una Donna senz’ombra di R. Strauss (Vienna 1919), ambientata in un Oriente fiabesco; e un Macbeth di Shakespeare (Vienna 1927) dai rapidi cambiamenti a scena aperta, immerso in un’atmosfera da incubo. Sul valore simbolico e suggestivo della luce e del colore è basato in effetti il linguaggio espressivo dell’artista, affinato nelle ultime opere (Ifigenia in Aulide di Gluck, Salisburgo 1930; Parsifal di Wagner, Bayreuth 1934; Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Vienna 1935).

Tadini

Emilio Tadini attualmente dirige l’Accademia di Brera. Per il teatro ha scritto il dramma La tempesta (messo in scena nel 1995), tratto dall’omonimo suo romanzo per la regia di Andrée Ruth Shammah. Il folle Prospero si barrica nella sua palazzina per opporsi allo sfratto, aiutato da un immigrato e assediato da un commissario. Un giornalista, che funge da narratore dell’intera vicenda, riesce ad avvicinare Prospero intraprendendo così un viaggio nel suo stravagante mondo, ma non riesce a evitarne il suicidio. La deposizione (rappresentato nel 1997) mette sulla scena una donna che, accusata di omicidio, nella sala d’attesa del tribunale spiega i suoi punti di vista e le sue ragioni aspettando la sentenza finale. Tadini ha infine curato una traduzione del Re Lear di Shakespeare.

Braque

La figura di Georges Braque è stata associata a lungo a quella di Pablo Picasso, con il quale condivise l’esperienza del cubismo e la ricerca verso l’uso di materiali solitamente estranei alla pittura più convenzionale come la segatura, la stoffa e il legno. Caratterizzato da un’abilità formale impeccabile e da una visione per certi aspetti più lucida del celebre artista spagnolo, Georges Braque crea per Diaghilev nel 1924 scene e costumi di Les facheux all’Opéra di Montecarlo, portando così in teatro il suo cubismo carico di fantasia e di invenzione. Gli stessi costumi erano per Georges Braque elementi scenici che contribuivano a definire il senso e lo spirito propri di ciascun balletto, come in Salade (1924), per i balletti del Conte de Beaumonte o Zephire et Flore (1925) di Diaghilev. Nel 1950 rinnovò la propria esperienza disegnando scene e costumi per il Tartuffe di Molière, interpretato da Louis Jouvet.

Wyspianski

Studia alla Scuola di belle arti e alla facoltà di filosofia dell’Università Jagellonica di Cracovia; in seguito viene ammesso nello studio del pittore Jan Matejko. Considerato il maggior rappresentante del teatro modernistico polacco (`Mloda Polska’), Stanislaw Wyspianski rompe con la tradizione romantica di una drammaturgia `da leggere’ in nome di una concezione dello spettacolo che, nella partecipazione di tutte le arti, favoriva l’avvento della regia. La sterminata produzione teatrale di Wyspianski – dove in una visione sincretica si intersecano suggestioni simboliste, la teoria nietzscheana dell’opera `sintetica’, influenze di Maeterlinck e di Wagner, presagi dell’espressionismo – può essere suddivisa in base ai temi e alle ambientazioni delle opere.

I ‘drammi greci‘ comprendono Meleagro (1899), Protesilao e Laudamia (1899), Achilleide (1903), Il ritorno di Ulisse (1907), dove miti e figure letterarie dell’antichità classica vengono sottoposti a rilettura: Achille acquisisce un’umanità sconosciuta ai suoi contemporanei a causa del destino che lo costringe a uccidere e far soffrire chi ama, mentre Ulisse agisce volutamente per cancellare nella memoria dei posteri le tracce dei crimini commessi. Nei drammi `cracoviani’ Leggenda (1898) e Boleslao l’Ardito (1903) W. esplicita una dura critica della sacralizzazione romantica del passato, denunciando l’ossessione per la storia nazionale come un vero e proprio «mattatoio del pensiero». Nei drammi dedicati alle insurrezioni nazionali del XIX secolo e alla `primavera dei popoli’ (La varsovienne, 1898; Lelewel, 1899; Legione, 1900) W. contrappone all’idoleggiamento della storia una sua interpretazione finalizzata all’identificazione dei principi politici della contemporaneità. Il capolavoro di questa fase è sicuramente Notte di novembre (1904), un dramma sull’insurrezione antirussa del 1830 dove avvenimenti e personaggi storici si incrociano con figure e temi della mitologia classica, e dove gli dèi degli antichi prendono parte attiva alle vicende storico-politiche della modernità.

Nei ‘drammi politici‘ (Le nozze, 1901; Liberazione, 1904; Akropolis, 1904) è la contemporaneità ad essere sottoposta a vaglio, nella sua qualità di anello terminale della catena degli avvenimenti storici. Da un punto di vista ideologico, a caratterizzare questi drammi non è soltanto il rifiuto della martirologia irredentistica e della visione profetico-messianica dell’arte propria dei romantici polacchi, ma anche un’esibita sfiducia nei confronti dei vagheggiamenti populistici degli intellettuali `fin de siécle’ (Le nozze). In un trionfo di sincretismo Wyspianski riesce a conciliare temi mitologici, suggestioni aristofanesche, richiami al folclore e al teatro delle marionette, personaggi storici e allegorie in pièce dove il testo è solo uno degli elementi della rappresentazione, a pari dignità con la resa pittorica delle scene e un commento musicale che spesso diviene protagonista. Al contrario di altri autori del modernismo polacco, Wyspianski gode di un ininterrotto successo sulle scene, grazie anche all’attenzione di registi come Andrzej Wajda, che delle Nozze ha realizzato un mirabile adattamento cinematografico (1972).

Luzzati

Emanuele Luzzati ha studiato a Losanna alla École des beaux arts e des arts appliqueès. Inizia l’attività di scenografo collaborando con A. Fersen per Salomone e la regina di Saba (1945) e inaugurando, sempre con Fersen, la sala Eleonora Duse al Teatro stabile di Genova con L’amo di Fenisia di Lope de Vega e il Volpone di Jonson. Come illustratore pubblica in questi anni il suo primo libro per bambini I paladini di Francia . Questo amore per le illustrazioni di libri per l’infanzia si trasmette sulla scena dove i personaggi e le ambientazioni teatrali sono trasformati in immagini straordinariamente creative che appartengono a un mondo fiabesco. A partire dal Flauto Magico di Mozart, realizzato al Festival di Glyndebourne per la regia di F. Enriquez (1978), sviluppa una preferenza verso l’opera buffa. Con Il Turco in Italia (1983) inizia la sua collaborazione al Rossini Opera Festival di Pesaro, dove fra l’altro realizza La scala di seta per la regia di M. Scaparro (1987). Nell’ambito della prosa si dedica alla progettazione scenografica di commedie: ne sono un esempio La donna serpente di C. Gozzi, regia di E. Marcucci (Teatro stabile di Genova 1979) e, per la regia di De Bosio, La Piovana del Ruzante (Venezia 1987) e La Mandragola di N. Machiavelli (1989). Fonda nel 1976 il Teatro della Tosse con A. Trionfo e T. Conte, con i quali collaborerà a numerosissimi spettacoli. Con la messinscena di Ubu re di Jarry (1976), per la regia di T. Conte, inaugura il nuovo spazio teatrale, dove nel 1983 apre e dirige la scuola di scenografia. Nel corso della sua carriera di scenografo affronta anche la progettazione scenica di opere del teatro musicale del ‘900: Il sogno di una notte di mezza estate di Britten (English Opera Group 1976) con la regia di C. Graham; La tarantella di Pulcinella , musica di G. Negri, testo di Luzzati (Piccola Scala di Milano 1974). Per l’Aterballetto di Reggio Emilia collabora alla messinscena dei balletti L’istoire du soldat di Stravinskij (1982), Coppelia di Delibes entrambi con la coreografia di A. Amodio. Fra i suoi ultimi allestimenti, L’asino d’oro da Apuleio regia di P. Poli (1994). In L. l’invenzione della scena si sviluppa attraverso il gioco drammaturgico di pedane, piattaforme, trabocchetti, stoffe dipinte che esprimono, con la loro precarietà, il senso dell’effimero in teatro e l’illusione fantastica. Il segno grafico pittorico di L. diventa il motivo conduttore di tutti i suoi originali spettacoli. I suoi bozzetti realizzati attraverso collage di carta, dipinti e disegnati con estro di artista, ci permettono di entrare in quella scatola magica che è il suo teatro fantastico e personale.

Guglielminetti

Eugenio Guglielminetti si forma all’Accademia Albertina di belle arti di Torino, dove entra in contatto con la scuola pittorica di Felice Casorati. Esordisce in teatro nel 1946, con spettacoli a carattere sperimentale presso il circolo culturale `La giostra’ di Asti. La sua attività professionale ha inizio nel 1953, progettando le scene per l’ Antigone di Alfieri in collaborazione con il regista G. De Bosio, con il quale continuerà a sviluppare e ideare nuove forme sceniche per le tragedie di Alfieri. Ricordiamo anche, nelle sue produzioni per il Centro nazionale studi alfieriani di Asti, il Saul con la regia di F. Enriquez (1954). Influenzato dalle concezioni teoriche di scenografi tedeschi degli anni ’30 e dalle esperienze sceniche costruttiviste e dadaiste, Eugenio Guglielminetti usa lo spazio del palcoscenico con un estremo rigore di ritmi espressivi architettonici: prediligendo l’impianto fisso, interviene con strutture mobili-dinamiche e praticabili, sino a coinvolgere l’intera gabbia scenica. L’attività artistica d iEugenio Guglielminetti si divide tra la ricerca pittorica e la ricchissima produzione di scenografie e costumi per prosa, lirica, balletto e televisione.

Per il teatro di prosa citiamo l’ Elettra di Sofocle per la regia di E. Fenoglio (Teatro Olimpico di Vicenza, 1961), dove i bozzetti dei costumi, impreziositi da una ricerca fra cromatismo e materia (un mélange di carta, stoffa e tempera), costituiscono un esempio di qualità autonoma della pittura, e il Macbeth di Shakespeare con la regia di T. Buazzelli (Teatro San Babila, 1966). Elabora la messinscena televisiva per Le uova fatali di Bulgakov con la regia di Gregoretti, memorabile produzione del 1976. La sua evoluzione pittorica ha sempre influenzato le sue scelte scenografiche, come nell’ Italiana in Algeri di Rossini con la regia di U. Gregoretti (Torino, Teatro Regio 1969), dove allestisce il gioco della macchina scenica come fantasiosa invenzione, o nella Forza del destino di Verdi con la regia della Wallmann (Berlino, Deutsche Oper 1970). Anche nell’interessante progetto per il balletto La boutique fantasque di Respighi con la coreografia di L. Furno (Torino, Teatro Nuovo 1982) vi è l’influenza artistica del neodadaismo alla Tinguely, nell’assemblare materiali e forme inconsuete usate con fantasia ed estro creativo. G., un pittore a teatro, esterna la sua creatività mediante forme espressive pittoriche, con il timbro dei suoi colori quasi metafisici e la policromia astratta dei suoi collage per i bozzetti.

Wajda

Andrzej Wajda compie gli studi dapprima all’Accademia di belle arti di Cracovia, poi alla Scuola superiore di cinema di Lódz. Dirige il Teatr Wybrzeza di Danzica e il Teatr Stary di Cracovia. Esordisce nella regia di un’opera teatrale nel 1959, con Un cappello pieno di pioggia da M.V. Gazo, quando è oramai un affermato regista cinematografico. Tra le prime regie, da ricordare quella di Le nozze per lo Stary Teatr di Cracovia (1963), per le conseguenze che avrà nella successiva attività cinematografica e teatrale di W. questo primo incontro con Wyspianski. Dopo lo scarso successo ottenuto con I diavoli di Whiting nello stesso anno, Wajda abbandona il teatro, per farvi ritorno nel 1971 con un adattamento dei Demoni di Dostoevskij. Completa la sua trilogia dostoevskiana con l’improvvisazione Nastazja Filipowna (1977), Delitto e castigo (1984) e Nastazja, da L’idiota (1988), versione definitiva del precedente studio del 1977.

Dai primi anni ’70 W. affianca l’attività teatrale a quella cinematografica, adattando per lo schermo spettacoli precedentemente diretti sul palcoscenico: Le nozze nel 1972, L’affaire Danton (da Stanislawa Przybyszewska, 1975; adattamento cinematografico: Danton) nel 1982, I demoni nel 1986, Nastazja – con l’attore giapponese Tamasaburo Bando nel doppio ruolo di Nastasja Filipovna e del principe Myskin – nel 1996. Vastissimo il repertorio delle regie teatrali di W., che spaziano da Sofocle (Antigone, 1984) a Mrozek (Emigranti, 1976), da Shakespeare a Dürrenmatt (Der Mittmacher , 1973), con una prevalenza di autori moderni: An-ski, Buero Vallejo, Rabe, Strindberg, Mishima, Rózewicz. Alcune messe in scena del regista di L’uomo di marmo sono state considerate autentici avvenimenti culturali.

Una di queste fu Notte di novembre (da Wyspianski, 1974): Wajda ha saputo cogliere il carattere di lamento sulla perdita della libertà e insieme di atto di fede nella sopravvivenza della identità culturale e nazionale polacca proprio dell’originale, riuscendo a far muovere alla perfezione il complesso meccanismo scenico immaginato da Wyspianski. Di grande spessore l’Amleto, diretto sempre per il Teatr Stary di Cracovia nel 1981: W., contaminando il testo shakespeariano con suggestioni da Wyspianski, realizza uno spettacolo magico, dimostrando come dalla paura, dall’incertezza, dall’incomprensione, dal rancore possa scaturire l’autoaffermazione di un uomo. L’interpretazione del testo è lasciata all’operato degli attori. Nella pièce tutti i conflitti sono puramente umani: ogni possibile conclusione generale di carattere filosofico non può che scaturire dall’osservazione dei comportamenti più elementari e immediati. L’assunto su cui ruota la lettura del personaggio-Amleto è la sua volontà di essere un attore perfetto, a fronte del desiderio di ogni attore di essere un Amleto perfetto.

Wajda attualizza l’identificazione della vita col teatro, che tanto peso ha nell’opera di Shakespeare (tutti recitiamo: Amleto, che deve fingere di fronte alla corte, è un timido dilettante e un attore professionale), impegnando nei ruoli del Re e dell’Attore, della Regina e dell’Attrice gli stessi attori, rendendo pubblico partecipe interlocutore del dramma rappresentato sulla scena. Nel corso degli anni W. si è impegnato in regie di spettacoli di sua propria concezione, come Nel corso degli anni, nel corso dei giorni… (1978), dove attraverso un collage di brani della narrativa polacca si rappresenta la vita di una città, «capitale ufficiosa di uno stato inesistente» (Cracovia) tra il 1873 e il 1914, nello snodarsi di una successione di fatti veri e inventati e nell’avvicendarsi di personaggi letterari e realmente vissuti.

Alla luce dell’affermazione di Amleto «Per poter essere buono, devo essere crudele», il regista ha operato una selezione all’interno della trama di Delitto e castigo , ravvisandone il nocciolo drammatico non nella descrizione del delitto compiuto da Raskol’nikov, ma negli scontri verbali tra l’assassino e il poliziotto, cui vengono giustapposti i colloqui tra lo studente e Sonia. Tra le regie di W. più significative degli ultimi anni, sono sicuramente da annoverare il Dibbuk da An-ski (1988) e il recente Mishima (Cracovia, Teatr Stary 1996), basato su quattro nô (Il ventaglio, L’armadio, La Signora Aoi, Il tamburello di raso) incentrati sul tema delle passioni che prevaricano sentimenti e ragione, dove va ascritta tutta al regista la capacità di identificare la dimensione sociale – oltre che personale – della patologia della paralisi del vivere.

Matisse

Fra i maggiori maestri della pittura contemporanea, Henri Matisse appartenne alla corrente dei Fauves a inizio secolo; si evolve in seguito verso una pittura più stilizzata giocata sulla forma e soprattutto sul colore. Già decoratore e illustratore (vanno ricordati il rosone commissionato da Nelson Rockfeller nel 1952 e soprattutto la cappella a Vence, nel sud della Francia, che viene universalmente considerata la somma di tutti i suoi sforzi di ricerca), la sua attività scenografica si limitò a due spettacoli di Léonide Massine, per i quali creò scene bidimensionali: rigidamente pittoriche per Le Chant du russignol di Stravinskij (1920), realizzato dai Balletti Russi di Diaghilev al Covent Garden (Londra), più ritmiche e plastiche quelle di Rouge et noir di Sciostakovic (1937), messo in scena nel 1939 dai Balletti Russi di Montecarlo.

Vespignani

La pittura di Renzo Vespignani si avvicina all’arte informale, per l’uso esplosivo dei colori, pur preservando però un carattere di figurazione documentaria: vuol essere soprattutto una trasposizione della realtà, per sottolineare l’importanza dell’impegno sociale dell’artista. Conduce un’intensa attività d’illustratore ed è, tra l’altro, lo scenografo di Visconti in Maratona di danza del 1957, riportando in teatro la dimensione poetica del suo realismo. Nel 1961 realizza le scene e i costumi per I sette peccati capitali di Brecht, messo in scena a Roma da Squarzina.

Peduzzi

Con un rapporto professionale praticamente esclusivo, Richard Peduzzi si lega al regista francese P. Chéreau (L’italiana in Algeri di Rossini, Spoleto, 1969), con cui lavora per il Piccolo Teatro di Milano (Toller e Lulu), elaborando uno stile raffinato che riadatta e sfrutta liberamente le strutture architettoniche (di grande impatto L’anello del Nibelungo di R. Wagner, con cui Chéreau scandalizzò Bayruth, nel 1976, studiato in occasione del Centenario del Festival e ripreso nel 1978 con alcune varianti, dove i materiali e le forme si adeguano ad un perfetto equilibrio geometrico). Negli anni seguenti, lo scenografo si occupa di rappresentazioni di rilievo, tra cui I racconti di Hoffmann di Offenbach (Parigi, 1974), Les paravents di J. Genet (Nanterre, Theatre des Amondieres, 1983), Lucio Silla di Mozart (Milano, Teatro alla Scala, 1984). Fortunati il Quartetto di Müller (Nanterre, Theatre des Amandiers, 1985), una specie di `camera-bunker’ dai muri smisuratamente alti, ed il labirintico Amleto di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988). Più di recente, Le temps et la chambre di B. Strauss (Parigi, Odéon Thèatre de l’Europe, 1991) con un indovinato prolungamento della platea: proiettando il pubblico dentro la stanza in cui si svolge la vicenda, permette di comprendere il suo tentativo di fondere spazio scenico ed edificio teatrale. Per l’ultimo Le nozze di Figaro di Mozart (Festival di Salisburgo, 1995), lo scenografo lavora con L. Bondy, con il quale aveva già presentato un riuscito Il racconto d’inverno di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988).

Balla

Il suo primo intervento teatrale fu l’azione scenica Macchina tipografica (1914), col fondale e le quinte che riproducevano la scritta ‘tipografia’ e i dodici personaggi-macchine che con gesti meccanici, associati a rumori, celebravano le teorie futuriste sulla civiltà delle macchine, la parola timbrica, il suono puro. Miti che Giacomo Balla sembrò abbandonare nel progetto – mai realizzato – ispirato alla natura Mimica sinottica (1915), dove prevedeva una concertazione di suoni ispirati al mondo naturale e ballerine nei costumi della ‘Donna fiore’, ‘Donna cielo’ e ‘Valle’, sullo sfondo di un paesaggio rappresentato da ritmi curvilinei. Seguirono le scenografie per Feu d’artifice di Stravinskij allestito da Diaghilev (Roma, Teatro Costanzi 1917), dove l’azione non era affidata ai danzatori, ma a ritmi di luci colorate provenienti dai vari punti della scena, costituita da un paesaggio di solidi geometrici.

Dalí

Salvador Dalì è legato per la sua attività artistica alle avanguardie degli anni ’20 e ’30 e in particolare al surrealismo. Dal 1929 sviluppa, nella sua pittura, un metodo paranoico-critico che associa le ossessioni dell’inconscio alle forme del reale, creando cosmologie fantastiche dalle molteplici letture, fondate sulla conoscenza delle associazioni simboliche freudiane. È ricordato nella storia del cinema per aver collaborato con Buñuel alla sceneggiatura di due film, Un Chien andalou (1929) e L’Age d’or (1930) e per aver composto la scenografia della sequenza del sogno in Io ti salverò (1945) di Hitchcock. Attivo anche nell’ambito del balletto, ha creato scene e costumi per la compagnia di Léonide Massine (Labyrinth , 1939) e per Béjart ( Le Chevalier romain et la dame espagnole , 1961). In campo teatrale ha collaborato con L. Visconti per scenografia e costumi di Come vi piace di Shakespeare (1948), con P. Brook per Salome di R. Strauss (1949) e con Escobar e Perez de la Ossa per Don Juan Tenório di J. Zorrilla y Moral.

Sanjust

Conclusi gli studi classici, Filippo Sanjust scopre la propria vocazione per lo spettacolo con un’occasionale collaborazione al film Beatrice Cenci di R. Freda (1956), esordendo in teatro come costumista a fianco di Visconti (Don Carlos, Londra, Covent Garden, 1958) ed imponendosi grazie ad allestimenti realistici, scaturiti dal minuzioso studio storico e stilistico che caratterizza la linea espressiva del regista (per il Duca d’Alba di Donizetti, Festival dei di Spoleto, 1959, vengono riattivate le ottocentesche scenografie originali; per Le nozze di Figaro, Roma, Teatro dell’Opera, 1964, si ricorre ad una splendida ricostruzione storica). Pur senza rinnegare lo stile viscontiano, lavorando accanto a E. De Filippo (Barbiere di Siviglia, Roma, Teatro dell’Opera, 1965 ), G. R. Sellner ( Nabucco, Berlino, Deutsches Opera, 1979) e V. Puecher (Il giovane Lord di Henze, Roma, Teatro dell’Opera, 1965), preferisce una scenografia più pittorica, quasi bidimensionale, che raffina con i Bassaridi di Henze (Francoforte, 1966), Il trovatore (regia di A. Anderson, Londra, Covent Garden, stagione 1977-78) e I maestri cantori di Norimberga (regia di W. Eichner, Roma, Teatro dell’Opera, 1979). Per il Flauto magico di Mozart (Francoforte, 1968) cura anche la regia, come per Armida (Palermo, Teatro Massimo, 1974) e Tancredi (Roma, Teatro dell’Opera, 1978 ).

Vedova

Fra i principali rappresentanti dell’arte informale italiana, dagli anni ’50 la pittura di Emilio Vedova è caratterizzata da una gestualità automatica e astratta. In teatro l’artista ha trovato la possibilità di superare la bidimensionalità della tela per un’implicazione spaziale più completa. Nel 1961 ha realizzato le scene e i costumi per Intolleranza 1960 , libretto e musica di Luigi Nono (rappresentato alla Fenice di Venezia) con cui ha collaborato anche per la creazione delle luci di Prometeo (testi di Massimo Cacciari, struttura scenica di Renzo Piano) che ha debuttato alla chiesa di San Lorenzo a Venezia nel 1984.

Rauschenberg

Robert Rauschenberg si stabilisce a New York nella seconda metà degli anni ’50, dove, memore della lezione Dada, darà il via alla sua arte basata soprattutto sulle `Combines’, assemblaggi costituiti prevalentemente da materiali di scarto e di uso comune, anticipando per molti aspetti ciò che successivamente diventeranno la Pop Art e il minimalismo. Determinante per lo sviluppo della sua carriera di scenografo e costumista l’incontro nel 1952 al Black Mountain College con John Cage, David Tudor e soprattutto Merce Cunningham, con i quali realizzerà Theatre Piece Nº 1, happening ispirato alle poesie di Charles Olson e M.C. Richards, Suite for Fire in Space and Time (1956), Antic Meet (1958), Museum Event Nº 1, rappresentato a Vienna il 24 giugno del 1964, e Travelogue (1977), al Minskoff Theatre di New York. Tra i suoi principali lavori sono da ricordare le scenografie realizzate con Jasper Johns per The Tower di Paul Taylor (1957), alla Kaufmann Concert Hall di New York, Circus Polka di Stravinskij (1955) e Winterbranch (1964), balletto con musiche di Lamonte Young. Tra i lavori più recenti Set and Reset (1983), con musiche di Laurie Anderson e coreografie di Trisha Brown, e Foray Foret, presentato alla Biennale della danza di Lione nel 1990.

Jarman

Dopo aver cominciato a esporre appena tredicenne, Derek Jarman nel 1960 esordisce in teatro firmando le scene del Giulio Cesare di Shakespeare alla Canford School. Nel 1967 allestisce Il figliuol prodigo di Prokof’ev, che gli consente di partecipare alla V Biennale parigina dei giovani artisti; da allora lavora a produzioni internazionali con nomi come Nureyev, Gielgud e Bussotti (Jazz Calendar di R.R. Bennett, coreografia di F. Ashton, Covent Garden 1968; Don Giovanni di Mozart, regia di J. Gielguld, Coliseum 1968; Blim at school di P. Tegel, regia di N. Wright, Royal Court 1969), fino alle più recenti collaborazioni con I. Kellegren (Il segreto dell’universo di J. Gems, 1982), L. Blair (Aspettando Godot, Queen’s Theatre 1992) e Ken Russell (The Rake’s Progress di Stravinskij, Firenze, Maggio musicale 1982), con il quale collabora anche ad alcuni film ( I diavoli , 1970; Messia selvaggio , 1972). La mescolanza di stili ed epoche diverse nelle scenografie, la propensione al travestimento, l’insistenza sui costumi anche più frivoli diventano simbolici nelle produzioni che dirige lui stesso, confondendo la linea di demarcazione tra le vicende personali (l’omosessualità e la sieropositività) e la realtà urbana, e legittimando le interpretazioni a tinte forti di eventi e personaggi, nel cinema (Caravaggio, 1986) e in teatro (Les bonnes di Genet, Londra 1992).

Witkiewicz

Figlio del pittore e critico d’arte Stanislaw Witkiewicz, Stanislaw Ignacy Witkiewicz studia all’Accademia di belle arti a Cracovia. Partecipa in qualità di disegnatore alla spedizione a Ceylon e in Australia del celebre antropologo polacco Bronislaw Malinowski (1914); durante la prima guerra mondiale presta servizio nell’esercito russo col grado di colonnello della guardia. Tra il 1918 e il ’22 partecipa alle attività dei `Formisti’, un gruppo di poeti e pittori residente a Cracovia. Witkiewicz si è accostato alla forma teatrale da teorico dell’estetica, in un quadro culturale di reazione antiromantica e antinaturalistica.

Negli anni tra il 1918 e il ’34 scrive trentacinque pièce teatrali (di cui più della metà è andata perduta), strettamente legate alle formulazioni teoriche contenute negli scritti critici Nuove forme in pittura e i fraintendimenti che ne conseguono (1919), Schizzi estetici (1922), Introduzione alla teoria della forma pura in teatro (1923). Per Witkiewicz la civiltà è entrata in una fase di livellamento e meccanizzazione capace di assicurare la felicità alle masse, ma anche la fine dell’arte, della religione, della filosofia. Nel campo dell’arte drammatica Witkiewicz ravvisa una delle vie d’uscita da questa situazione in un’opera il cui senso venga definito solo dalla struttura interiore, puramente scenica, e non dall’esigenza di una psicologia coerente o di un’azione conforme a principi vitali.

Witkiewicz fa un uso formalizzato e `metafisico‘ del teatro: nei suoi drammi rinuncia a qualsiasi verosimiglianza, volendo suscitare con la straordinarietà degli eventi rappresentati impressioni oniriche, stati di allucinazione. Il significato di un’opera teatrale per Witkiewicz non è conferito dal contenuto testuale, ma è veicolato dai suoni, dalle decorazioni, dai gesti compiuti sulla scena. Il comportamento dei personaggi è imprevedibile e crudele, le trame delle pièce si basano sulle loro ricerche sentimental-erotiche e su intrighi amorosi, sull’esibita volontà di rivoluzionare l’arte, la filosofia, la religione, di sperimentare il `mistero dell’esistenza’ e di crearsi una vita artificiale. Il dilemma della scelta tra realtà e apparenza è risolto teatralizzando la vita, nel modulo del teatro nel teatro e nella segmentazione del discorso dei personaggi. L’azione spesso ricorda un’improvvisazione collettiva, una rappresentazione carnevalesca.

Ricorrenti i temi della decadenza, dello snaturamento e della formalizzazione dell’esistenza, gli interrogativi sul ruolo dell’arte e degli artisti nella civiltà del futuro: i personaggi delle commedie di Witkiewicz svolgono un ininterrotto discorso sul teatro. Solo alcuni i drammi che poterono essere pubblicati e messi in scena durante la vita dell’autore. In Metafisica del vitello a due teste (1921, rappresentato nel 1928), Tumor Cervelletti (1921), L’indipendenza dei triangoli (1921), Le bellocce e i bertuccioni (1922, rappresentato nel 1967) l’azione ha forma circolare, privando di ogni motivazione le peripezie dei personaggi: chi è stato ucciso nel primo atto torna sulla scena nel secondo. Tra le opere rappresentate tra le due guerre sono da ricordare Mister P. ovvero la balzanità tropicale (1926); La nuova liberazione (pubblicato nel 1922-23, rappresentato nel 1925), storia di un’iniziazione alla `sensazione metafisica’; Nel palazzetto (rappresentato nel 1923), piccolo capolavoro del grottesco derivante dalla contrapposizione tra realtà teatrale e realtà vissuta; La gallinella d’acqua (rappresentato nel 1922), dove i gesti più tragici si ripetono senza riuscire a incidere sulla realtà, in un grand-guignol insieme da incubo e ridicolo; Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (pubblicato nel 1923, rappresentato nel 1933), tentativo di trovare un’alternativa artificiale, immaginaria, al reiterarsi inconcludente di situazioni reali; Gian Matteo Carlo Rabbia (rappresentato nel 1925); Il folle e la monaca (pubblicato nel 1925, rappresentato nel 1926), esemplificazione del postulato che vuole che la follia sia il tratto distintivo della creatività artistica.

Dopo la seconda guerra mondiale e la parentesi della censura staliniana sono stati pubblicati e rappresentati per la prima volta alcuni tra i drammi più importanti di Witkiewicz: Loro (1963), dove a un regime tirannico che teorizza e pratica il livellamento sociale e la barbarie culturale si oppone un artista spinto alla connivenza col crimine dall’agnosticismo morale; La madre (1964), quadro di un universo in cui il genere umano è oramai allo sfacelo, «l’arte è moribonda, la religione è finita e la filosofia divora le proprie interiora»; La locomotiva impazzita (1965); Gyubal Wahazar (1966), il cui protagonista intende dedicarsi alla salvezza dell’umanità imponendo una propria personale dittatura; La sonata di Belzebù (pubblicato nel 1938, rappresentato nel 1966); nonché l’ultima opera dello scrittore, Ciabattini (1957), espressione di quel catastrofismo che non fu estraneo alla scelta di togliersi la vita al momento dell’aggressione sovietica alla Polonia (1939). Sulla scena le proposte della `forma pura’ si pongono a cavallo fra il Théâtre Alfred Jarry e Artaud: affine a quest’ultimo il pensiero rivolto a un’«oltranza che superi le contingenze della vita» (G. Poli).

La parola chiave in Witkiewicz è `insaziabilità‘ (titolo di un suo romanzo), estasi frustrata, verbigerazione, discorso straripante: l’autore-narratore si moltiplica in una moltitudine di personaggi, e a un minimo di azione scenica corrisponde un massimo di espansione verbale. Dal secondo dopoguerra a oggi i drammi di Witkiewicz, in cui non è difficile ravvisare un precursore del teatro di avanguardia, godono di un’inesausta fortuna scenica. Tra le messe in scena di maggior valore sono sicuramente da annoverare quelle di Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (1956), Nel palazzetto (1961), Il folle e la monaca (1963), La gallinella d’acqua (1967) e Le bellocce e i bertuccioni (1972) ad opera di Tadeusz Kantor.

Hockney

Le scene e i costumi per Ubu re di Jarry, messo in scena al Royal Court Theatre di Londra nel 1966, inaugurarono l’attività di David Hockney scenografo, divenuta più ricca e impegnativa con la collaborazione avviata nel 1974 con il festival di Glyndebourne (The Rake’s Progress di Stravinskij, regia di J. Cox, 1975). Dopo Septentrion di R. Petit per il Balletto di Marsiglia (1975), nel 1978 lavorò ancora a Glyndebourne al Flauto magico di Mozart, dandone una eclettica versione ispirata a un Egitto favolistico. Risale al 1979 la sua collaborazione con il Metropolitan di New York per un trittico novecentesco: Parade di Satie, Les mamelles de Tirésias di Poulenc, L’enfant et les sortilèges di Ravel, inventati nelle scenografie con un gioco di immagini, colori, luci che ne sottolineavano l’aspetto magico o umoristico. David Hockney tornò a collaborare con il Metropolitan nel 1981 per uno spettacolo dedicato a Stravinskij (Le sacre du printemps, Le rossignol, Oedipus rex), creando scenografie dove mito e antichità si intrecciavano in un’interpretazione ludica.

Preetorius

Laureato in giurisprudenza, bibliofilo ed esperto d’arti grafiche, fondatore di una scuola d’illustrazione e professore presso prestigiosi istituti tedeschi d’arte grafica, Emil Preetorius esordisce come scenografo solo nel 1921 ( Ifigenia in Aulide di Gluck, regia di W. Wirk; Monaco, Teatro Nazionale). Due anni più tardi è chiamato ufficialmente ai Kammerspiele di Falckenberg, iniziando una felice produzione che lo conduce ben presto ai maggiori teatri europei (a Berlino è collaboratore abituale dell’Opera di Stato). Grazie a un’impostazione stilizzata, ma monumentale e fastosa, diventa un amato interprete di Mozart ( Don Giovanni , Monaco 1936; Così fan tutte , Berlino 1941; Il flauto magico , 1949), di R. Strauss ( Ariadne auf Naxos , Berlino 1929; Elettra , Berlino 1940; Salome , Tolosa 1952), di Gluck ( Orfeo ed Euridice , Londra 1937; Ifigenia in Tauride , Berlino 1941; Don Juan , 1949), e soprattutto di Wagner ( Lohengrin , Berlino 1928; Tristano e Isotta , Parigi, Théâtre des Champs-Elysées, 1937; Sigfrido , Amsterdam 1946; Tannh&aulm;user , Monaco, 1950). Tra il 1933 e il 1944 accanto al regista H. Tetjen riforma il Festival di Bayreuth, producendo ampie ripercussioni su tutta la scenografia wagneriana contemporanea (celebre l’allestimento de L’anello del Nibelungo , ripetuto ogni anno dal 1933 al 1944).

Chagall

Fin dalla giovinezza il teatro aveva rappresentato per Marc Chagall un universo di libertà poetica e visionaria; vi contribuì l’incontro, avvenuto nel 1908, con Léon Bakst, allora direttore della scuola Zvantseva, dove Marc Chagall proseguirà gli studi («La sua gloria, in seguito alla stagione russa all’estero, mi faceva girare, non so perché, la testa. Sfogliando i miei studi, che sollevavo a uno a uno dal pacco dove li avevo ammucchiati, diceva, trascinando le parole con quel suo accento signorile: sì, sì, c’è del talento, ma siete sprecato, siete su una falsa strada, sprecato»). Nel 1920 Marc Chagall si impegnava nelle decorazioni del Nuovo teatro ebraico di Mosca, da lui fondato insieme al critico Abraham Efroscon. Dipinse alcune grandi tele, destinate a venir tese alle pareti e al soffitto, ma un anno dopo il teatro fu chiuso per motivi politici e Marc Chagall abbandonava la Russia; i dipinti vennero custoditi in semiclandestinità nella galleria Tretiakov di Mosca, dove l’artista li rivide nel 1973. La vena lirica e visionaria di C. si dispiegò nei lavori scenografici per il Ballet Theatre di New York, commissionati dal coreografo L. Massine. Ricordiamo le scene e i costumi per L’uccello di fuoco di Stravinskij (1945; ripreso con coreografia di Balanchine nel 1949) e i bozzetti per Aleko, un balletto ispirato al poema di Puskin Gli zingari (1942, musica di Cajkovskij). Il più celebre dei quattro dipinti realizzati da C. per i fondali del balletto, intitolato Una fantasia di San Pietroburgo , ritrae in lontananza un purpureo paesaggio della città, mentre nel cielo turbinoso vagano sospesi un cavallo bianco e un candeliere acceso; il flusso del colore intenso e le pennellate libere e impulsive rivelano la nuova fase pittorica a cui era approdato C., abbandonando il lirismo pastorale del periodo precedente. Dopo le scene e i costumi per Daphnis et Chloé di Ravel all’Opéra di Parigi (1959, coreografia di G. Skibine), nel 1963, su invito di De Gaulle e di Malraux, C. realizzò i cartoni per il soffitto del teatro; l’ultimo suo lavoro di scenografo fu per il Metropolitan di New York, con il Il flauto magico di Mozart (1967, regia di G. Rennert).