Vilar

Jean Vilar nasce da una famiglia di commercianti. A ventun anni si iscrive all’Atelier di C. Dullin e successivamente, negli anni ’40, crea `La compagnie des sept’. Queste esperienze lo porteranno a fondare, nel 1947, il Festival di Avignone (che dirigerà fino alla morte) e a guidare, dal 1951 al 1963, il Teatro di Chaillot diventato Teatro Nazional Popolare (teatro che, sull’esempio del Piccolo, vuole essere considerato non uno svago, ma qualcosa di necessario «come il gas e la luce»). Queste due attività, accanto al suo lavoro di attore e di regista, cambieranno radicalmente la vita teatrale francese.

Democratico, popolare Vilar si adopera per strappare il teatro al suo ambito borghese cambiando orari, prezzi e trasformando sempre di più Chaillot da una sala a una casa abitata da artisti, aperta a una società che cambia. Di qui l’idea, che ritroviamo anche fra i punti cardine della fondazione del Piccolo, di un teatro d’arte accessibile a tutti e, dunque, attento a un pubblico popolare che è favorito dalla politica dei prezzi e degli abbonamenti. Del resto, la definizione `teatro popolare’ ritorna continuamente negli scritti di Vilar, ispirati a un’altissima moralità, come la sua vita.

Tutto questo si definisce nella scelta di un repertorio concentrato soprattutto sui grandi classici da Corneille (Cid, 1949 e 1951) a Molière (memorabili le sue interpretazioni dei personaggi di Don Giovanni e di Arpagone nell’ Avaro, 1952), da Shakespeare (Riccardo II, 1953; Macbeth, 1954) a, Kleist (Il principe di Homburg, 1951), fino a Hugo (Ruy Blas, 1954), avendo spesso come compagno d’avventura e come interprete ideale quel grandissimo attore che è G. Philipe. Soprattutto, rinnova l’approccio a un classico scomodo come Marivaux (esemplare in questo senso Il trionfo dell’amore , 1955), togliendolo per sempre alle sue finte levigatezze e recuperandolo nella sua chiave `nera’.

Ma Vilar non è stato solamente regista e interprete di classici. Ha infatti firmato e interpretato opere della drammaturgia moderna (Strindberg, ma anche Cechov e Pirandello) e contemporanea (Brecht, per esempio, di cui mette in scena Madre Coraggio , 1951 e La resistibile ascesa di Arturo Ui , 1960) nei quali lo spettatore potesse vedere rispecchiati i suoi problemi. Qualcuno ha definito questa esigenza, questa tensione che ha permeato tutta la sua vita di teatrante, un’illusione. Se così è stato si è però trattato di un’illusione che ha dato linfa al teatro. Eppure anche un artista di così alta moralità non passa immune attraverso l’uragano del maggio ’68 quando gli studenti contestano il Festival di Avignone, come del resto tutte le istituzioni, culturali e no, di Francia. Amareggiato e deluso, non rinuncia però a battersi, fino all’ultimo, per le sue idee.

videoteatro

La disponibilità sul mercato di nuove telecamere e sistemi di edizione dotati di alta qualità e di prezzo contenuto permette al teatro di ricerca degli anni ’80 e ’90 di sperimentare le nuove tecniche audiovisive sulla scena teatrale. La cultura multimediale stimola i teatranti ad esplorare le zone di confine tra i diversi linguaggi (videoteatro) e ad utilizzare il video in tutte le sue forme: come schermo sul palcoscenico, come articolazione dell’azione, come estensione dell’attore dentro e fuori lo spazio scenico. I più importanti fenomeni teatrali del periodo sentono l’esigenza di superare i limiti dello spettacolo tradizionale operando sulle sue potenzialità comunicative, immettendolo nell’ambito dei media elettronici. Dall’America sono state esportate in tutto il mondo le pratiche degli happening e della performance art, le esperienze di Fluxus, W. Kirby e B. Wilson; si è realizzata per la prima volta una completa omogeneizzazione tra varie pratiche estetiche, per cui l’artista può passare continuamente e con naturalezza da un medium all’altro (R. Ruiz, R. W. Fassbinder, ancora B. Wilson).

Il videoteatro non è dunque semplicemente la riscrittura elettronica di un testo teatrale, ma una forma di spettacolo autonoma, che reinventa il linguaggio della messinscena teatrale utilizzando strumenti elettronici, rivolgendosi ad un pubblico che non è quello tradizionale del teatro, né quello della televisione. Si cercano nuovi canali di distribuzione per prodotti che non sono più televisione, ma appunto video nelle sue molteplici potenzialità metalinguistiche e plurilinguistiche. Anche in Italia la cultura audiovisiva e multimediale di questi ultimi anni ha condotto molti artisti del teatro di ricerca a sperimentare in vario modo l’interazione tra il mezzo elettronico ed il palcoscenico, inventando un nuovo modo di concepire e di praticare la messinscena, per cui il teleschermo e il luogo teatrale spesso si sovrappongono, pur mantenendo ognuno la propria identità, si materializzano e si smaterializzano a vicenda, giocano e lottano tra loro. Il video si è imposto come mezzo creativo di progettazione (il diario intimo della preparazione degli spettacoli), di interazione con la presenza dell’attore (per cui lo spazio scenico si modella come la superficie bidimensionale di una scena-schermo) e di dilatazione spazio-temporale della scena (l’uso scenografico o interattivo del video sul palcoscenico), di trascrizione e di trasfigurazione dell’opera teatrale in altri linguaggi e dimensioni, infine di sintesi e di promozione produttivo-distributiva.

L’avanguardia di M. Martone, G. Barberio Corsetti, Magazzini Criminali, Studio Azzurro e altri, utilizza codici linguistici presi a prestito dai più vari linguaggi espressivi (non solo da quelli figurativi, gestuali, vocali, ma anche da quelli della pubblicità, del fumetto, del computer, del video appunto). Il mezzo elettronico è considerato un `luogo privilegiato’ perché permette di trasfigurare l’evento teatrale multimediale in altre più complesse dimensioni per cui la `scatola teatrale’ si frantuma in una serie di frames che si pongono l’uno dietro l’altro secondo una successione ritmica che ci offre la visione di un universo audiovisivo completamente immaginario, visionario, virtuale. L’uso del mezzo elettronico tiene conto del divenire tecnologico dell’arte ed in parte fa proprie le esperienze compiute nel campo della video-arte, per cui si fanno talvolta labili le distinzioni di presunti generi quali il videoteatro, la videoperformance, la videoscena, la videoinstallazione: esperienze difficilmente distinguibili in questo territorio linguistico di confine. Il videoteatrodunque non è un genere spettacolare, ma è integratore e assimilatore di vari modi e tecniche espressive, intermediario tra linguaggi scenici ed elettronica.

Vinogradov

Oleg Michajlovic Vinogradov si è diplomato all’Istituto coreografico di Leningrado e dal 1958 al 1965 danza al Teatro di Novosibirsk dove realizza le sue prime prove coreografiche ed è nominato coreografo sino al 1968. Dal 1968 al ’72 è coreografo al Teatro Kirov; dal 1973 al ’77 è coreografo al Malyj Teatr di Leningrado. Nel 1977 è nominato direttore artistico e coreografo principale del Balletto del Kirov. Nel periodo in cui è attivo al Malyj la sua più importante coreografia è Jaroslavna (realizzata con la regia di J. Ljubimov, 1974). Fra le sue coreografie Cenerentola (varie edizioni), La ballata dell’ussaro (1979), Il revisore (1980), Il cavaliere dalla pelle di tigre (1985) La corazzata Potëmkin (1986), Petruška (1990), Coppélia (1992), La fille mal gardée (1994). È negli anni ’50 e ’60 che mette in luce le sue qualità di coreografo innovatore della tradizione classica, mentre nei lavori più si riavvicina al genere ottocentesco del balletto pantomima. Durante la direzione del Kirov conserva meritoriamente il repertorio ottocentesco del teatro. Lascia la direzione del Teatro Marijnskij (così è chiamato il Kirov, dagli anni ’90) dopo uno scandalo per corruzione nel 1996; è attivo come coreografo e direttore di compagnie negli Usa e in Corea.

Vitez

Figlio di un anarchico, solo dopo i vent’anni Antoine Vitez scopre la sua vocazione teatrale salendo per la prima volta su di un palcoscenico come attore al Teatro quotidiano di Marsiglia. Intanto però ha cominciato a lavorare sia come traduttore (fra l’altro Il placido Don di Šolokov) che come segretario del grande poeta francese L. Aragon. Solo nel 1966 V. firma, a Caen, la sua prima regia, Elettra , alla quale seguirà ben presto Il bagno di Majakovskij (1967), autore che il regista, che parla perfettamente il russo, contribuisce a fare conoscere in Francia. Trasferitosi a Parigi collabora al Teatro di Nanterre inventando i `teatri quartiere’ nella `banlieu’ parigina, luoghi dove rappresentare spettacoli che si possono fare sotto i tendoni, nelle palestre. Nel 1972 J. Lang lo chiama accanto a sé al Théâtre National de Chaillot come consulente artistico. Qui firma alcuni fra gli spettacoli più importanti degli anni ’70 a cominciare dalla Fedra di Racine (1975).

Fra gli autori che gli sono più cari il primo posto lo occupa probabilmente Molière: a V., infatti, si deve una tetralogia molieriana (La scuola delle mogli, Tartufo, Don Giovanni, Il misantropo) presentata ad Avignone nel 1978 con enorme successo («Vitez, ti amo» sta scritto sui muri di Avignone) che, interpretata quasi interamente da giovani, ha il merito si svecchiare l’approccio a Molière. Nominato nel 1981 direttore del Teatro Nazionale di Chaillot mette in scena Britannico di Racine (1981) e Amleto con R. Fontana (1983). Accanto a Molière, Cechov e Goethe (di cui dirige e interpreta il Faust , 1981) propone: Hugo (Lucrezia Borgia, per esempio, con la bravissima N. Strancar, 1985), Claudel, di cui firma, fra l’altro, la regia di una strepitosa versione integrale di Le soulier de satin (1987), fino alla Celestina di de Rojas messo in scena al festival d’Avignone nel 1989 per J. Moreau. Intanto, nel 1988, diventa amministratore della Comédie-Française, dirige al Piccolo di Milano Il trionfo dell’amore con M. Crippa (1986). Ed è sotto la sua direzione che Brecht con Vita di Galilei (1990) viene rappresentato per la prima volta nella casa di Molière, pochi giorni prima della sua morte. In sintonia con un’ipotesi di teatro alla quale è connessa l’idea del rischio, V. si avventura spesso nei territori della drammaturgia contemporanea.

Maestro, anzi pigmalione, di intere generazioni d’attori ai quali come docente al Conservatoire insegna a concepire il teatro come una missione, Vitez, regista raisonneur, spesso controcorrente, si è scelto i suoi maestri in L. Jouvet e in Mejerchol’d. In sintonia con questa scelta ha sempre perseguito l’idea di un teatro non di evasione, non di magia, ma specchio inquieto del mondo e dei tempi in cui viviamo. Muore a Parigi lasciando nel teatro francese un vuoto incolmabile.

Vannucchi

Lasciata la Sicilia, a sedici anni Luigi Vannucchi si iscrive all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ e, non ancora diplomato, nel 1951, interpreta la parte di Cristo in Donna del Paradiso, spettacolo curato da Silvio D’Amico e messo in scena da Orazio Costa (suoi insegnanti teatrali). Terminata l’Accademia (1952), entra immediatamente nella compagnia del Teatro d’Arte diretta da V. Gassman e L. Squarzina, debuttando nel 1952 nella parte di Laerte accanto a Gassman (Amleto), che fu per V. un modello ma anche un freno alla sua personale ricerca artistica. Nel 1953 recita in Tre quarti di luna (scritto e diretto da Squarzina).

Nel 1954 passa alla compagnia del Teatro Nuovo diretta da G. De Bosio, con la quale interpreta Corte marziale per l’ammutinamento del Caine di H. Wouk (regia di Squarzina) e da protagonista Buio a mezzogiorno di S. Kingsley e Sacro esperimento di F. Hochw&aulm;lder (regie di De Bosio). Nel 1955, al seguito della compagnia Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi prende parte a una grande edizione di Re Lear. In seguito affronta lavori impegnativi di Ibsen, Pirandello, Betti, Hayes e, nel 1957, viene scritturato dal Piccolo Teatro di Milano per la parte di Saint-Just in I giacobini di F. Zardi (regia di Strehler) dove rivela le sue caratteristiche di attore elegante, dotato di una notevole sicurezza scenica.

Nel 1961 ottiene un personale successo, a Ferrara, come Aligi nella Figlia di Iorio di D’Annunzio (regia di Ferrero), successo riconfermato nel 1972 a Gardone, con la Compagnia degli Associati. In questa formazione, dopo essere continuamente passato da un teatro all’altro, Vannucchi sembra trovare, a cavallo degli anni ’70, un periodo di tranquillità (ricordiamo la lunghissima serie di repliche del Vizio assurdo, ricostruzione drammaturgica di Lajolo e Fabbri della vita di Pavese, in cui Vannucchi espresse un’intima adesione con lo scrittore piemontese). Tra i successi teatrali degli anni ’60: Il diavolo e il buon Dio di Sartre, regia di Squarzina (1963); Ciascuno a suo modo di Pirandello, sempre con Squarzina (1963); Riunione di famiglia di Eliot, regia di Ferrero (1964); Troilo e Cressida di Shakespeare, regia di Squarzina (1964); Zio Vanja di Cechov, regia di Fenoglio (1965).

Lavorò anche per il cinema (in Anno uno di Rossellini interpreta con finezza la figura di De Gasperi) e soprattutto per la televisione, dove appare in più di trenta sceneggiati di successo. Si toglie la vita subito dopo aver portato sul piccolo schermo Il vizio assurdo , lavoro che rimane uno dei più sentiti della sua carriera.

Visconti

Nato nella Milano mitteleuropea d’inizio secolo, mentre alla Scala andava in scena Traviata, il conte Luchino Visconti, della famiglia lombarda che regnò con lo stemma del biscione dal 1287 al 1450, fu l’unico tra i grandi registi italiani che seppe coltivare tre amori: cinema, prosa, musica. Diresse diciotto film, quarantacinque spettacoli, ventuno opere, tre azioni coreografiche e supervisionò perfino una rivista con la Osiris, Festival , nel 1955. Parafrasando Stendhal, Vinsconti voleva scritto sulla sua tomba: `Amò Cechov, Shakespeare e Verdi’. Chi di più? Verdi, perché di melodramma è intrisa tutta la sua attività, come se la musica avesse `diretto’ da sempre la sua ispirazione: nella Terra trema c’è Bellini, in Senso e Ossessione Verdi, in Bellissima Donizetti, oltre a Mahler, Wagner, Bruckner.

Vinsconti fu un cultore dell’etica del tempo perduto: amante di Proust, tentò invano e fino all’ultimo di realizzare la Recherche: la scena danzante del Gattopardo fu la prova generale del ballo dei Guermantes. In molte opere egli aggiunse profonde suggestioni personali, confesso e convinto che la vera storia che avrebbe voluto raccontare era quella della sua famiglia: non a caso in Vaghe stelle dell’Orsa Marie Bell suona César Franck, proprio come sua madre, tassello di un’autobiografia sempre travestita. Allevato, quarto di sette fratelli, negli agi di una famiglia nobile ma assai colta e storicamente progressista, che gli aveva insegnato ad amare il Bello, a suonare il violoncello, a cavalcare all’Accademia di Pinerolo, Visconti ebbe fin da giovane un teatro personale nel mondano palazzo di via Cerva dove, per economia energetica, le luci si abbassavano in salotto all’ora in cui si accendevano quelle della Scala. Il nobile rampollo frequentò fin da piccolo il palco della Scala con l’adorata madre che veniva, self made, dalla borghesia industriale della Carlo Erba.

L’educazione musicale e teatrale fu basilare nella storia umana e professionale del signorino Luchino, i cui stessi antenati avevano amministrato la Scala e i cui genitori avevano stretto amicizia con Toscanini. Da un suo lungo soggiorno in Francia, dove conobbe l’intelligencija del Fronte popolare e la mondanità d’epoca – la sarta Chanel, Cocteau e Marais, Carné, Duvivier e soprattutto Jean Renoir, che nel 1936 con Une partie de campagne lo fece debuttare nel cinema – e poi dal trasferimento a Roma dopo il divorzio dei genitori, Visconti, affascinato all’inizio dall’arte militare, impara presto il verbo impegnato del comunismo. Nella capitale il neo regista rischia la condanna a morte dei nazi-fascisti (Maria Denis si prende il merito di averlo salvato, ma la famiglia nega), frequenta i giovani antifascisti legati alla rivista “Cinema”, da Alicata a De Santis a Trombadori. Con essi realizza nel 1942-43 Ossessione, storica opera prima che rivoluzionò tutti gli stilemi del cinema di regime, ispirandosi in egual misura al fascino della nebbia padana, al romanzo americano di Cain col vagabondo Girotti, all’atmosfera francese con l’appassionata Calamai. Il film scoppiò come una bomba e fu distribuito poco e male: dopo le proiezioni, i vescovi facevano benedire la sala. Per caso, ad opera del montatore Serandrei, era nato il termine `neorealismo’.

Dopo la Liberazione, dopo un momento documentario e militante, inizia, sempre contro l’Italietta piccolo borghese, sborsando entusiasmo e soldi (spesso finanzia i progetti di tasca propria, col patrimonio di famiglia) a un gruppo teatrale con Rina Morelli e Paolo Stoppa all’Eliseo di Roma: anche questa fu una rivoluzione. Mentre a Milano Grassi e Strehler inventavano il teatro pubblico, a Roma V. rinnovava, nella forma e nei contenuti, quello privato. Offrendo al signorile pubblico degli anni ’40 nuovi testi coraggiosi e/o scandalosi, francesi (nel 1945 I parenti terribili di Cocteau e Adamo di Achard) e americani, scoprendo con Zoo di vetro nel ’46 e Un tram che si chiama desiderio nel ’49 la via freudiana alla drammaturgia di Tennessee Williams.

Passerà poi col bellissimo Morte di un commesso viaggiatore (1951), Il crogiuolo (1955) e Uno sguardo dal ponte (1958) – dramma dell’immigrazione a Brooklyn, con echi di tragedia greca ed effetti speciali scenografici – ad Arthur Miller. Ma nello stesso tempo V. frequenta anche i classici, e dopo Rosalinda inscena nel 1949 una sontuosa, barocca edizione di Troilo e Cressida di Shakespeare al Giardino di Boboli; obbliga nel ’49 il giovane Gassman, che vi era portato, e il giovane Mastroianni, che invece faticava non poco, a imparare i versi dell’ Oreste di Alfieri; si dedica, nel corso del tempo, all’amato Cechov, in leggendarie recite di Tre sorelle (1952), Zio Vanja (1955), Il giardino dei ciliegi (1965). Con la sua abilità nello scoprire e modellare i talenti, col suo maniacale professionismo e la sua ansia di precisione – voleva, per ragioni psicosomatiche, che tutto per gli attori fosse autentico e originale, ogni fiore, ogni suppellettile, ogni capo di abbigliamento, anche se nascosto al pubblico – cresceva una nuova generazione, in primo piano negli anni ’50: dal gruppo De Lullo, Valli e Falk che formerà la Compagnia dei Giovani, a Mastroianni che divenne l’attore che sappiamo anche per merito suo, fino alla sua adorata Lilla Brignone con cui fece esperienze emotivamente irripetibili, da Come le foglie di Giacosa (1954) a Contessina Giulia di Strindberg (1957).

Protetto da un grande senso dello spettacolo, che gli permetteva di allestire Sartre, Anouilh e Beaumarchais (il mitico Figaro con Vittorio De Sica nel 1946), ma anche Caldwell, Dostoevskij ( Delitto e castigo con Benassi nel ’46) e perfino Vita col padre, anche se l’humour non era il suo forte. Visconti sapeva valorizzare e universalizzare i testi, senza cambiarne una virgola o un’intenzione. Magistrale il lavoro fatto nel riformare i vezzi goldoniani, rivalutandone il dato culturale e sociale con La locandiera (1952) e L’impresario delle Smirne (1957): oggi è nella storia del teatro, complementare a quello di Strehler. Visconti, per la fede nel comunismo e nell’omosessualità, per la sua vita di clan ai limiti dello snobismo, fu un personaggio sgradito ai moralisti e ai potenti democristiani che spesso, sempre per lavare in casa i panni sporchi, lo ostacolarono, bloccando addirittura il suo debutto nella lirica che doveva avvenire al Maggio musicale e fu invece rimandato al 7 dicembre 1954, apertura della `sua’ Scala con La vestale con la `sua’ Callas.

Scandalose le gaffe della Mostra del cinema di Venezia, che mancò di premiarlo, contro ogni evidenza artistica: prima nel 1954 per Senso, che osava rileggere il patriottismo garibaldino alla luce di Gramsci, osservando il Risorgimento come una rivoluzione mancata, dove il vero protagonista è il melodramma che si fa vita, sangue, passione; poi nel ’60 per il capolavoro scomodo Rocco e i suoi fratelli, scritto tra gli altri con la fedelissima Suso Cecchi D’Amico, in cui V. tornava nella `sua’ Milano per raccontare la tragedia della immigrazione interna, la storia di una famiglia lucana che si trasferisce nella metropoli del boom. Si distinguono echi di Verga (già affrontato con La terra trema ), Dostoevskji ( L’idiota ), Mann e molto melodramma, oltre alla partitura di Nino Rota; e delle nebbiose atmosfere del ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, giovane autore lombardo, con cui V. darà scandalo allestendo nel 1960 L’Arialda , eroina di periferia impersonata da una memorabile Rina Morelli – caso unico di sequestro e denuncia dopo la prima recita: Milano ai tempi del pool censorio Trombi-Spagnuolo – e poi La monaca di Monza (1967) con la Brignone. Dal 1954 al ’57 ecco la terza rivoluzione, quella della regia nell’opera lirica: dopo Spontini, e sempre con la Callas di cui fu Pigmalione, ecco La sonnambula , La traviata , Anna Bolena e Ifigenia in Tauride.

Con Visconti nulla in scena veniva lasciato al caso; egli regalava al melodramma un impeto drammatico legato al tessuto musicale e che non prescindeva dalla psicologia, togliendo quel tanto di falso e di povere che si era accumulato. Celebri le scarpe che Violetta Valéry, scandalizzando la Scala il 28 maggio 1955, manda all’aria in un impeto di neo realismo e di verità emotiva che valorizzava il valore musicale ed espressivo da ogni lato del palcoscenico, complici il suo spirito romantico e la sontuosità degli allestimenti. Ecco, intorno agli anni ’60, Don Carlo, Il cavaliere della rosa e Trovatore a Londra, Falstaff e Simon Boccanegra a Vienna, Macbeth a Spoleto diretto da Schippers: V. fu l’anima del nuovo Festival dei Due Mondi di Menotti, dove allestì Il duca d’Alba nel 1959, Salomé nel ’61, un’altra Traviata nel ’63 (cui ne seguirà una terza, inglese, nel ’67, con la Freni); fino all’addio trionfale, immobilizzato dalla malattia in un palco del Nuovo, la sera del 21 giugno 1973, con una Manon Lescaut che, per passione e slancio, rimane nel cuore di chi l’ha vista. Nel secondo tempo della sua carriera il cinema gli rende tutti gli onori con il grande successo nazional popolare del Gattopardo , col Leone d’oro a Venezia nel 1967 per Vaghe stelle dell’Orsa e con la `trilogia tedesca’ (La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig), fino agli ultimi e meno ispirati Gruppo di famiglia in un interno e il dannunziano L’innocente , girati dal regista già malato e immobile su una sedia a rotelle.

Ma Visconti proseguiva anche con la prosa: a volte, disgustato dall’Italia, emigrando in Francia, dove allestì nel 1958 Due sull’altalena di Gibson con Marais e la Girardot, mentre nel ’61 regala ai `fidanzatini’ Delon e Schneider l’elisabettiano Peccato che sia una puttana di John Ford e nel ’65, con Auclair e Girardot, mette in scena Dopo la caduta di Miller. E lo troviamo ancora al lavoro in Italia con due titoli sfortunati Usa (Veglia la mia casa, Angelo di Wolfe e I ragazzi della signora Gibbons di Glickman e Stein, 1958), Figli d’arte di Fabbri, L’inserzione della Ginzburg, col romantico Egmont di Goethe, nel ’67 a Firenze. L’addio alle scene (di prosa) avviene nel 1973 a Roma con una discussa (dall’autore) edizione di Old times di Pinter con Orsini, la Cortese e la Asti. Artefice di grandi spettacoli totali, dove si rinnovò anche l’artigianato e la tecnica, Visconti scoprì ovunque i talenti migliori: innumerevoli gli attori che dovrebbero ringraziarlo. Ma accanto a lui si sono distinti anche l’operatore Rotunno, il costumista Piero Tosi con la sartoria Tirelli, Suso Cecchi d’Amico che gli fu fedele fino all’ultimo; Scarfiotti, Chiari, Garbuglia, Polidori e i `vecchi’ aiuti regista Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. Come tutti i grandi fu un pezzo unico, non lascia eredi, solo imitatori e nostalgia.

Vulpian

Dopo aver studiato all’Opéra di Parigi, nel 1968 Claude de Vulpian viene scritturata dal teatro. Prima ballerina nel 1976, le viene affidato il ruolo di Nana, creato appositamente per lei nell’omonimo balletto di R. Petit ricavato dal romanzo di Zola. Nel 1978 viene nominata étoile, dopo una memorabile interpretazione di La bella addormentata nel ruolo di Aurora. Da allora interpreta tutti i ruoli principali del repertorio classico: Il lago dei cigni , Romeo e Giulietta di Cranko, Giselle , Cenerentola di Nureyev; coreografie di Béjart (Serait-ce la mort?), Balanchine, (Agon e Apollon Musagète), Ailey (Au Nord du précipice). Ha partecipato fino al 1993 alle grandi tournée internazionali dell’Opéra e ha ballato sovente con Nureyev e il suo gruppo. Si è distinta anche nel balletto La belle et la bète di Philippe Tresserra, rappresentato all’Olimpico di Vicenza.

Valdoca

Il Teatro Valdoca nasce nel 1979 a Cesena, ad opera di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri, drammaturga. Già con i primi due spettacoli, Lo spazio della quiete (1983) e Le radici dell’amore (1984, premio Ubu per la ricerca), è presente sulle scene europee: sono lavori senza parole, con una cifra stilistica e poetica molto netta. Con Ruvido umano (1987) inizia una ricerca drammaturgica a ridosso della parola poetica; ricerca che avrà piena e matura espressione nella trilogia Antenata (1994). In questi anni la compagnia dà vita a una Scuola di poesia che coinvolge i maggiori poeti italiani, fra cui Luzi, Fortini, Loi e altri. Negli anni successivi inizia il lavoro pedagogico e formativo sull’attore, all’incontro con numerosi giovani allievi, attraverso una vera e propria `scuola nomade’ che sfocia in due grandi spettacoli: Ossicine (1994) e Fuoco centrale (1995), nei quali musica dal vivo, canto e danza entrano a dar forza e complessità alla parola poetica, che permane come caratteristica del lavoro della compagnia. L’ultima produzione del 1997 è lo spettacolo Nei leoni e nei lupi con la regia di Cesare Ronconi.

Varley

Figura di primo piano dell’Odin Teatret, sensibile e delicata interprete della volontà creativa di Barba, Julia Varley inizia a lavorare con la compagnia di Holstebro nel 1976. Da allora partecipa, tra gli altri, a Anabasis (1977), Brechts Aske (1979), Il vangelo di Oxyrhincus (1985), Talabot (1988), Kaosmos (1993). Estremamente significative e di indiscutibile rilievo artistico sono anche le sue dimostrazioni di lavoro sul metodo barbiano, che pur avendo un valore autonomo di spettacoli-peformance rientrano in un più ampio progetto di condivisione e divulgazione pedagogica dei principi e delle tecniche elaborate dall’Odin Teatret. È inoltre editrice di “The Open Page”, una rivista dedicata all’apporto artistico e creativo delle donne in ambito teatrale.

Vasilicò

Appartenente a quella che Franco Quadri ha definito la ‘seconda generazione’ della neoavanguardia, Giuliano Vasilicò compie la sua formazione culturale e artistica in Svezia, dove ha i primi contatti con il nuovo teatro americano e dove partecipa ai primi happening . L’esperienza svedese ha fine nel 1968, anno in cui decide di stabilirsi a Roma, qui conosce Giancarlo Nanni con il quale lavora per un breve periodo al Teatro La Fede e insieme al quale sperimenta una capacità gestuale che nel tempo andrà formalizzandosi in una espressione teatrale esteticamente rigorosa. Da una realtà-laboratorio fonda la compagnia Beat ’72 , in una delle `cantine’ romane.

Nel 1969 dà alle scene il suo testo Missione psicopolitica, seguito da L’occupazione (1970). Gli scarsi riscontri della critica lo spingono ad accostarsi ai classici: dapprima la sua scelta cade su Amleto (1971), così dal regista giustificata: “se sono costretto a mettere in scena un testo non mio, voglio almeno il più bello scritto dagli altri”, in seguito, sul romanzo filosofico del marchese De Sade da cui trae Le 120 giornate di Sodoma (1972). Il primo spettacolo celebra il concetto genetiano di identità tra delitto e teatro, una situazione in cui si genera un’intensificazione emotiva continua, che scopre nella ripetizione del gesto una puntuale esplicitazione stilistica. Quando la ripetizione si fa ossessiva e diventa momento portante dell’azione trova emblematici punti di contatto con il mondo e il pensiero di Sade: ecco dunque nascere il secondo spettacolo.

Nei due allestimenti successivi, L’uomo di Babilonia (1974), da Musil, e Proust (1976), spettacolo che evoca i rapporti tra lo scrittore e la sua opera, prende forma il suo gusto per le sfide impossibili e la sua consacrazione al romanzo gli permette di varare l’ambizioso progetto di realizzare traduzioni ideali dalla pagina alla scena, in una scrittura scenica definita da composizioni di immagini e di luci, su una struttura drammaturgica che si avvale di poche citazioni tratte dall’opera letteraria originale. La sua predilezione per Musil si manifesta attraverso il tentativo di dare all’autore austriaco un’identità scenica. Si susseguono, quindi, spettacoli come L’uomo senza qualità a teatro (1984), Il compimento dell’amore (1990, ripreso poi nel 1992 e nel 1997), Delitto a teatro (1992), work in progress inserito nel “Progetto Musil”. Tra di questi si annoverano gli allestimenti, Oscar Wilde. Ritratto di Dorian Gray (1986) e Il mago di Oz di Lyman Frank Baum (1987), con i quali V. affronta nuove esperienze. Negli ultimi anni si dedica alla ripresa delle sue opere più riuscite.

Varetto

Gianfranco Varetto studia a Parigi con Lecoq, la Balaschowa e R. Simon, poi lavora con Grotowski. Attore dalla metà degli anni ’60 e regista dal 1974, fonda a Roma, nel 1982, il Trianon con L. de Berardinis. Dopo aver messo in scena testi di Achternbusch ( L’ultimo ospite ), negli anni ’90 affronta Finale di partita di Beckett (regia di F. Tiezzi) e Caterina di Heilbronn di Kleist (regia di C. Lievi). Ha interpretato e diretto Corsia degli incurabili di P. Valduga, con il ruolo di un malato terminale dal volto coperto di bende.

Valdemarin

Della carriera di Mario Valdemarin si ricordano in particolare le interpretazioni in alcuni storici spettacoli goldoniani di Giorgio Strehler: Le baruffe chiozzotte e Arlecchino servitore di due padroni (nell’edizione d’addio) e, sempre al Piccolo, Come tu mi vuoi di Pirandello (1988). Interprete di spessore, è spesso impegnato nell’allestimento di testi classici della storia del teatro: Lisistrata di Aristofane; Spettri di Ibsen; Morte di un commesso viaggiatore di Miller; La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio, diretta da Cobelli; Racconto d’inverno di Shakespeare (Teatro stabile di Palermo, regia di P. Carriglio); La mandragola di Machiavelli. Ma ha anche interpretato testi moderni, fra gli altri Veglia la mia casa, angelo da T. Wolfe (regia di Visconti) e Un amore a Roma di E. Patti (regia di L. Lucignani).

Vidach

Dopo le prime esperienze nell’ambito alla sperimentazione teatrale e con il gruppo di `contact improvisation’ di Lucia Latour, dal 1980 al 1989 Ariella Vidach completa la formazione a New York lavorando con T. Brown, S. Paxton, T. Tharp e altri coreografi postmoderni. Tornata in Europa, nel 1988 crea con il videoartista C. Prati e lo scultore M. Mazzella il gruppo di sperimentazione interdisciplinare Avventure in Elicottero Prodotti, con il quale sviluppa una ricerca coreografica basata sull’analisi del movimento e sul rapporto tra corpo e tecnologie, anche virtuali, in spettacoli come: Spotz (1989), Xpray (1991), Elicon Silicon (1994), Il veicolo senziente (1997).

Valéry

Nell’ambito dei suoi interessi teatrali ed estetici la danza ha avuto un posto di rilievo, tanto che le sue idee e le sue riflessioni hanno influenzato molti coreografi e uomini di teatro: idee espresse soprattutto nel lungo e splendido dialogo L’âme et la danse , apparso la prima volta nel 1921 sulle pagine della “Revue musicale”, e in Degas Danse Dessin (1938). A lui si deve anche il libretto di Amphion (1931), coreografato da Massine su musica di Honegger. Per quanto riguarda la sua attività teatrale, oltre naturalmente alla straordinaria eco che hanno avuto le sue opere poetiche ( La giovane Parca , 1917; Il cimitero marino , 1920) ha scritto due frammenti teatrali, Lust e Il solitario (Le solitaire), pubblicati dopo la sua morte sotto il titolo comune Il mio Faust (Mon Faust, 1945).

Vidal

Noto soprattutto come romanziere, Gore Vidal diede alle scene alcune commedie blandamente satiriche che poco aggiunsero alla sua fama. La prima, Visita a un piccolo pianeta (Visit to a Small Planet, 1957), scritta in origine per la tv, era una una farsa sulle tribolazioni di un alieno venuto a studiare gli usi e costumi della Terra; le altre due, L’uomo migliore (The Best Man, 1960) e Weekend (1968), si occupavano dei retroscena della politica statunitense e raccontavano rispettivamente lo scontro, durante una convention, fra due candidati alla presidenza e gli sforzi di un senatore liberal per convincere il figlio a sposare una nera.

Vinchi

Giacomina Vinchi è stata una delle tre anime che hanno fondato, diretto e governato il Piccolo Teatro di Milano per cinquant’anni e oggi è l’unica testimone vivente di quel sodalizio particolare, artistico e personale insieme, che fu l’incontro Strehler-Grassi e di quell’esperienza faticosa e esaltante che fu la nascita del primo teatro pubblico in Italia. Entra al Piccolo nel 1947 e dal ’58 copre il ruolo di segretaria generale che manterrà per tutta la sua permanenza in via Rovello; ma il suo ruolo nel teatro si gioca su più fronti: responsabile amministrativa, cura i rapporti con il personale, i contratti, il reperimento di risorse, oltre che, come vuole la leggenda, fare da cuscinetto durante i tempestosi rapporti tra Grassi e Strehler al Piccolo. Compagna anche nella vita di P. Grassi, che sposerà nel 1978, resta al Piccolo Teatro anche dopo il ’72, quando Grassi viene nominato sovrintendente della Scala. Nel 1981 le viene conferito il titolo di Grand’ufficiale al merito della Repubblica italiana. Con la sua proverbiale determinazione affronta la difficile fase di crisi che il Piccolo Teatro attraversa all’inizio degli anni ’90, con l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sulla gestione dei finanziamenti Cee alla Scuola di teatro. Nel 1993, a 82 anni, lascia il Piccolo Teatro; mantiene solo la carica di presidente della Fondazione amici della Scuola `P. Grassi’.

Vittoni

Studia contact improvisation con Steve Paxton, si diploma alla School for New Dance di Amsterdam e dal 1989 al 1991 collabora a New York con la performer Simone Forti e con il duo Eiko & Koma. Rientrata in Italia, dal 1993 approfondisce la sua ricerca, concentrandosi sulla scomposizione del movimento in progetti multimediali come Elisabitangelo, La Spezia, Anima Marmorea e E in REALTÀ, C in SOGNO, B+B inSieme rimontato nel 1997 per Maggio Danza*.

Viola

Sceneggiatore, giornalista e narratore, dopo aver scritto il romanzo Pricò (1924), che V. De Sica utilizzò come soggetto del film I bambini ci guardano ,  Cesare Giulio Viola si dedicò al teatro. Fedele custode della tradizione borghese ottocentesca, rimase quasi del tutto estraneo ai movimenti innovatori, salvo interiorizzare alcuni temi pirandelliani, rielaborati in un generico moralismo, ne Il cuore in due (1925). Altri titoli: Giro del mondo (1932), Poveri davanti a Dio (1947), Il romanzo dei giovani poveri (1947) e Nora seconda (1954).

Volinin

Aleksandr Emel’janovic Volinin si è diplomato all’Istituto coreografico di Mosca ed ha danzato al Teatro Bol’šoj dal 1901 al 1910 nei balletti di A. Gorskij (La figlia di goudoule, La figlia del faraone, Coppélia, La bella addormentata, Il lago dei cigni, La fille mal gardée, Lo specchio magico). Nel 1910 ha danzato nei Ballets Russes di Diaghilev, dal 1910 ha preso parte a tournèe all’estero, con E. Gelcer, L. Lopuchova e dal 1914 al 1924 è stato partner di A. Pavlova. Danzatore che si è distinto per virtuosismo, eleganza e leggerezza, ha abbandonato la scena nel 1925 per aprire una scuola a Parigi dove ha insegnato sino al 1955. Fra i suoi allievi Y. Chauviré, Z. Jeanmaire, A. Dolin, J. Babilée.

Van Druten

John Van Druten si rivelò nel 1925 con un dramma, Il giovane Woodley (Young Woodley), vietato in patria dalla censura per la relativa franchezza con cui era presentato l’ambiente dei college. Ottenne però i maggiori successi negli anni ’40, grazie ad alcune brillanti commediole applaudite a Broadway e altrove: La mia migliore amica (Old Acquaintance, 1940); La voce della tortora (The Voice of the Turtle, 1943); C’era una volta una piccola strega (Bell, Book and Candle, 1950). Scrisse un drammetto sentimentale, Ricordo la mamma (I Remember Mama, 1944) e Io sono una macchina fotografica (I am a Camera, 1951), tratto da un racconto di C. Isherwood e punto di partenza per il musical Cabaret.

Vals Bloed

Nata nel 1983 per opera delle danzatrici di Dansproduktie Truus Bronkhorst, H. Langen, M. Smit e P. Kennedy, Vals Bloed si è caratterizzata per il suo stile di teatrodanza ironico e umoristico nei primi lavori (She said, 1985; Dagger of Charm 1987). Successivamente la Bronkhorst e la Smit hanno lasciato la formazione, sostituite da E. Hell e Ma. Maat con cui è stato allestito So long Johnny . Nel 1989 infine si sono aggiunti i componenti del gruppo Het Concern, che hanno impresso una svolta tematica al lavoro del gruppo, optando per un teatrodanza più drammatico in spettacoli come Taglioni’s brother e Antilopen.

Vincent

Con J. Jourdheuil e la compagnia del Théâtre de l’Espérance, tra il 1968 e il ’69, Jean-Pierre Vincent mette in scena classici: Brecht (La notte dei piccoli borghesi e Tamburi e trombette), Marivaux, Goldoni, Labiche e lancia nuovi autori come S. Rezvani (Le Camp du drap d’or , Festival d’Avignone 1971; Capitaine Schelle , Capitaine Eçço , Théâtre National Populaire, Parigi, 1971), e J. C. Grumberg (En r’venant d’l’expo , Théâtre Ouvert, Festival di Avignone, 1973). In un clima culturale fortemente connotato dalle ideologie V. vuole restituire allo spettatore il piacere del teatro e l’intelligenza del sorriso, così come Chéreau, Sobel e Vitez, andando alla ricerca di un nuovo `spirito classico’. Al Théâtre National de Strasbourg, che dirige tra il 1975 e il 1983, sono in cartellone Germinal (adattamento dal romanzo di Zola, 1975), il Misantropo (1977), Un livre à vue e Palais de la Guérison di S. O’Casey (1978), Vichy-Fictions: violences à Vichy (1980), Le Palais de justice (1981), Dernières nouvelles de la peste di B. Chartreux (1983). Di quest’ultimo autore, così come di De Musset, Sofocle e Büchner, Vincenti mette in scena altre opere al Théâtre des Amandiers di Nanterre, del quale accetta la direzione in sostituzione di P. Chéreau, dopo un travagliato triennio alla Comédie-Française (1983-1986). Vi torna dieci anni dopo, allestendo Léo Burckart (1996), un’opera poco conosciuta di G. de Nerval.

Van Itallie

Debutta con War nel 1963, ma si impone grazie a due spettacoli riproposti dall’Open Theatre nel 1969. Il primo, America Hurrah! (1966), consisteva di due atti unici, Motel e Intervista (Interview), già rappresentati rispettivamente nel 1962 e nel 1965, più un terzo, Tv , scritto per l’occasione, che fu salutato come una brillante metafora del mal di vivere americano di quegli anni; il secondo spettacolo, Il serpente (The serpent, 1968), tratto dalla Genesi, derivò dal lavoro d’improvvisazione condotto con gli attori nei suoi laboratori di insegnante. Negli anni ’70 tradusse e adattò due opere di Cechov: Il giardino dei ciliegi (1977) e Tre sorelle (1979).

Verdone

Figlio di M. Verdone, celebre storico del cinema, nel 1969 gira uno dei suoi primi cortometraggi Poesia Solare , influenzato dalla cultura sessantottina e psichedelica del tempo. Nel ’72 Carlo Verdone si iscrive al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e due anni dopo si diploma in regia. Nello stesso periodo inizia l’esperienza di burattinaio presso la scuola di M. Signorelli e quella di attore con il Gruppo Teatro Arte diretto dal fratello Luca, episodi importanti per lo sviluppo delle sue capacità istrioniche di attore-trasformista-comico. Nel 1974 il suo primo incarico di aiuto-regia in Quel movimento che mi piace tanto , commedia erotica di F. Rossetti, con R. Montagnani. Come attore, la svolta avviene con lo spettacolo teatrale Tali e quali al Teatro Alberichino di Roma dove interpreta dodici personaggi, gli stessi che rivedremo nella serie televisiva “Non stop”; (1979), in onda su Raiuno, firmata da Enzo Trapani; e sempre gli stessi personaggi, anche se rivisti e corretti, saranno protagonisti dei suoi primi film (Un sacco bello, Bianco rosso e verdone, Borotalco). Il cinema è stato infatti (e il ricorrente schema a episodi che Verdone utilizza lo indica), il palcoscenico di questi personaggi nati in forma teatrale-cabarettistica: Leo, Ruggero, padre Alfio, il Professore, Anselmo, Enzo, personaggi-macchietta, clichè in cui si possono riconoscere delle nevrosi della società italiana e che ricorrono in tutti i suoi film. In seguito la filmografia di Verdone si fa sempre più ricca (la media è di un film all’anno) fino all’ultimo Sono pazzo di Iris Blond, del 1996.

Volkova

Vera Volkova studia all’Accademia imperiale di danza e alla scuola coreografica russa di Volynskij, dove segue gli insegnamenti di Vaganova. Dopo essersi esibita in tournée fra il Giappone e la Cina inizia a insegnare alla scuola di danza di Goncarov a Shanghai, continuando a danzare. Nel 1936 si trasferisce a Londra, dove apre una scuola e dal 1943 al ’50 insegna al Sadler’s Wells Ballet. Nel 1950 lavora alla Scala di Milano e l’anno seguente è consulente artistica del Balletto reale danese di Copenaghen. Come insegnante è stata fra le più importanti esperte del metodo Vaganova.

Vazzoler

Elsa Vazzoler esordì nel 1945 accanto a M. Benassi, poi fu con G. Stival e E. Gramatica, ma ebbe anche esperienze con A. G. Bragaglia (Per sempre di O’Neill e Lo spirito della morte di Rosso di San Secondo, entrambi nel 1949). Dopo un fugace passaggio nella rivista – Cavalcata di mezzo secolo con N. Taranto – dal 1951, per Casa nova , C. Baseggio (con cui formerà compagnia) la volle con sè e da allora cominciò veramente ad affermarsi. In poco tempo diventò una delle migliori attrici del teatro veneto (guadagnandosi l’appellativo di ‘Dogaressa’) ed eccelse soprattutto nel repertorio goldoniano: Orsetta nelle Baruffe chiozzotte (1954), Lucrezia nelle Donne gelose (1958). Negli anni ’60 lavorò anche con gli Stabili di Genova e Trieste. Con scarso successo, partecipò anche a vari film, maggior popolarità la ottenne in alcuni sceneggiati televisivi (David Copperfield).

Venturiello

Dal 1979 al 1982 Massimo Venturiello studia all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’; debutta con G. Lavia nel Tito Andronico di Shakespeare. Da allora lavora quasi sempre come protagonista in diversi spettacoli, alternando drammaturgie classiche e contemporanee e impegnandosi anche sul fronte del teatro di ricerca: American Buffalo di D. Mamet; La mandragola di N. Machiavelli, regia M. Scaccia; True West di S. Shepard, regia F. Però; Un saluto, un addio di A. Fugard, regia F. Però. Stringe una proficua collaborazione con il Teatro stabile di Genova: La putta onorata di C. Goldoni, regia M. Sciaccaluga; Jacques e il suo padrone di M. Kundera, regia L. Barbareschi; Giacomo il prepotente di G. Manfridi, regia P. Maccarinelli (1987). Passa poi al Teatro stabile di Torino dove recita nel Timone d’Atene diretto da W. Pagliaro. Cura la regia di Jazz e di La sonata di Kreutzer da L. Tolstoj. Con il regista di G. P. Solari inaugura un nuovo sodalizio che lo porta a interpretare La musica in fondo al mare di M. Confalone, Una notte poco prima della foresta di B. Koltés e il recentissimo Brancaleone (1998). Nel 1996 è la volta di La rosa tatuata di T. Williams, con la regia di G. Vacis, dove è al fianco di V. Moriconi, nella parte che fu di B. Lancaster nella celebre trasposizione cinematografica. Infine va ricordata la sentita partecipazione alla riedizione di Masaniello , con la regia di A. Pugliese (1997). Per il cinema e la televisione lavora con diversi registi tra cui: G. Salvatores, N. Michalcov, P. e V. Taviani, E. Scola, M. Ferrero, S. Bolchi, M. Ponzi, C. Vanzina, C. Lizzani, G. Bertolucci.

Valois

Pedagoga, poetessa, scrittrice e direttrice di compagnia, Dame Ninette de Valois studia con L. Field, E. Espinosa, E. Cecchetti, N. Legat. Dopo esperienze al Covent Garden e con la compagnia Massine-Lopokova, entra nei Ballets Russes di Diaghilev col rango di solista (1922). Osserva con cura i metodi del grande impresario-direttore artistico e si ispira al suo esempio negli anni seguenti. Nel 1926 apre a Londra una piccola scuola che diventa il punto di partenza di ciò che diventerà il Vic-Wells Ballet (in seguito Sadler’s Wells Ballet, quindi Royal Ballet). Nella seconda metà degli anni ’30 condivide con F. Ashton il lavoro coreografico, continuando a danzare e insegnare. Dopo il trasferimento al Covent Garden nel 1946, è direttrice artistica della compagnia fino al 1963, ma non cessa di occuparsi da vicino delle sorti di essa e della scuola. Crea l’ultimo balletto per la compagnia nel 1950 ( Don Chisciotte , musica di R. Gerhard). Tre suoi balletti rimangono nel repertorio: Job (creato per la Camargo Society nel 1931); The Rake’s Progress del 1935 e Checkmate del 1937. The Prospect Before Us (1940) è stato riproposto dal Birmingham Royal Ballet nel 1998. Donna di grande cultura, dal carattere forte – a volte autoritario – è considerata, con M. Rambert, la fondatrice del balletto inglese del ventesimo secolo.

Vignoli

Amava spesso ripetere che era nato tra i burattini. In effetti figlio d’arte ha imparato il mestiere dal padre Armando, lavorando con lui per anni dentro la baracca dei burattini. Fu uno straordinario interprete della maschera di Fagiolino.

Vargas

Dal 1955 al 1960 Enrique Vargas studia drammaturgia, regia e recitazione alla Scuola nazionale d’arte drammatica di Bogotà. Dal 1960 al 1966 studia antropologia teatrale al Kalamazoo College nel Michigan. Dal 1966 lavora come regista al Cafe La Mama di New York realizzando le opere New York attraverso il naso e Cuchifrito, che portano il segno della ricerca di un linguaggio del corpo forte. Nel 1967 riceve il primo premio del Festival di teatro dell’Expo in Canada. Dal ’68 al ’72 lavora come direttore e drammaturgo per il Gut Theatre ad East-Harlem a New York. Dal 1972 al ’75 si occupa di drammaturgia di animazione dell’oggetto presso il Teatro centrale di Praga.

Dal 1975 al 1996 è professore del Taller de investigacion de la imagen dramatica di Santafè di Bogotà centrando il suo lavoro sulle relazioni tra gioco infantile, il rituale e i miti delle comunità indigene della regione amazzonica colombiana. Ha ricevuto altri importanti premi durante gli ultimi anni: premio nazionale di Drammaturgia in Colombia nel 1988, primo premio Salon nacional de artes plasticas in Colombia nel 1992, il premio Tucan de Oro al Festival di teatro di Cadice nel 1993, il premio Unesco 1995 per la ricerca teatrale. Ha collaborato con il quotidiano “El Espectador”, ha pubblicato i saggi: Rito, Mito y Juego, Tiempos de Metafora, Imagen sensorial e Investigacion y la busqueda de lo no dicho.

Svolge da molti anni un’attività permanente di ricerca, creazione e formazione che comprende laboratori, seminari e messe in scena sulla drammaturgia dell’immagine sensoriale. Le sue ricerche si sono concentrate principalmente sulla relazione tra mito, gioco e rito in contesti basati sul linguaggio dell’oscurità, del silenzio e della solitudine. Negli ultimi anni Vargas ha realizzato una trilogia, Sotto il segno del labirinto , che comprende: Il filo di Arianna, La fiera del tempo vivo e Oracoli, tutti realizzati fra il 1990 e il 1996. Lo spettatore viene invitato a entrare in percorso in cui – oltre a seguire un testo – è costretto a esplorare forti suggestioni che rimandano a archetipi dionisiaci.

Valduga

Il mondo, soprattutto quello contemporaneo, è una smisurata trappola fondata sulla mistificazione, in cui l’unica traccia di verità è data dall’esperienza del dolore e dall’ancoraggio al livello sensuale dell’esistere. Da questa base nasce la poesia di Patrizia Valduga, a cui si può dire connaturata la teatralità, che scaturisce dal drammatico e spesso urlato corpo a corpo tra l’io parlante e le cose. Frequenti sono state le trasposizioni delle sue opere sulla scena. Il debutto è avvenuto con La tentazione per la regia di B. Mazzali e l’interpretazione di A. Attili e A. Di Stasio (Roma, Teatro Trianon, 1986). Ad esso ha fatto seguito l’allestimento de Donna di dolori, «monologo pensato per essere messo in voce» per la regia di L. Ronconi, con F. Nuti (Torino, Teatro Carignano, 1992). L’ultima messinscena tratta da una sua opera è stata quella de Corsia degli incurabili , con G. Varetto nei panni di interprete e regista (Brescia, Teatro Santa Chiara, 1997). Fra le sue traduzioni per il teatro, L’avaro e Il malato immaginario di Molière (il primo per uno spettacolo di G. Strehler, poi diretto da L. Puggelli, il secondo per la regia di J. Lassalle 1995) e Riccardo III di Shakespeare (regia di A. Calenda, 1997).

Villella

Formato presso la School of American Ballet e la High School of Performing Arts, Edward Villella entra al New York City Ballet (1957) dove diventa solista e poi primo ballerino. Danza ruoli principali in Electronics , A Midsummer Night’s Dream, Bugaku , Tarantella , Harlequinade , Brahms-Schoenberg Quartet , Jewels, Suite n. 3 , Prodigal Son di Balanchine, in Dances at a Gathering, Watermill di Robbins e in Pulcinella di Balanchine-Robbins. Unico ballerino americano invitato al Royal Danish Ballet e al Bol’šoj di Mosca, è fondatore (1986) e direttore del Miami City Ballet. Protagonista del film Man Who Dances (1968), è il più brillante danzatore balanchiniano della sua generazione.

Vacis

Gabriele Vacis si è laureato in architettura ed è tra i fondatori del Laboratorio Teatro Settimo. Promotore e direttore di festival teatrali, coniuga le proprie conoscenze specialistiche con lo specifico teatrale e nella prima metà degli anni ’80 realizza alcuni progetti urbanistici (la Città Laboratorio e il Piano di ambiente culturale) per la città di Settimo. Per la sua compagnia ha curato tra l’altro la regia di: Esercizi sulla tavola di Mendeleev (1984), Elementi di struttura del sentimento (da Goethe, 1985), Riso amaro (1986), Libera nos (da L. Meneghello, 1989), La storia di Romeo e Giulietta (da Shakespeare, 1991), Sette a Tebe (Eschilo, 1992), Villeggiatura, smanie, avventure e ritorno (da Goldoni, 1993), Novecento (di A. Baricco, 1994), Tartufo (di Molière, 1995), Uccelli (da Aristofane, 1996).

Partecipa, tra l’altro, alla creazione degli spettacoli di M. Paolini, e in particolare all’allestimento del Racconto del Vajont (1994), premio Ubu e premio Idi, trasmesso da Raidue nell’ottobre del ’97 (ma ha curato l’adattamento televisivo assieme a Felice Cappe. In veste di coautore e/o di regista segue e accompagna anche il lavoro personale di scrittura e interpretazione di L. Curino, R. Tarasco e A. Zamboni, che gravitano intorno all’attività di Teatro Settimo, ma anche di L. Costa (Stanca di guerra nel 1996 e Un’altra storia nel 1998), V. Moriconi e M. Venturiello (La rosa tatuata di T. Williams, per lo Stabile delle Marche). Alla prolifica attività di allestitore, con incursioni anche nell’opera (tra le altre regie si ricordano la Lucia di Lammermoor di Donizetti, messa in scena nel ’93 per l’Arena di Verona, ma anche le collaborazioni con N. Campogrande e D. Voltolini nell’opera da camera Macchinario, del ’95, e nel melologo Messaggi e bottiglie , 1997), affianca un’attività di ricerca teorica e pratica a tutto campo che si esplicita nell’attività didattica (alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano e alla Holden di Torino) e nei frequenti momenti seminariali presso varie università.

All’origine della sua idea di teatro, che molto deve alle suggestioni ricavate dallo studio dell’architettura e al neorealismo che ispirava esplicitamente i suoi primi spettacoli, vi è anche la riscoperta linguistica degli elementi popolari del canto, della narrazione e della musica sperimentati e `riversati’ nel lavoro drammaturgico e attorale.

Vianello

Figlio di ammiraglio, Raimondo Vianello studia giurisprudenza e sembra destinato alla carriera diplomatica. Nel 1945 finisce invece, per caso e per gioco, in teatro, conosce P. Garinei e G. Giovannini e partecipa, con il nome di R. Viani, alla rivista Cantachiaro n. 2. L’abbandono della compagnia, prima del debutto, di M. Merlini fece saltare lo sketch, unico, affidato all’esordiente Vianello, al quale gli autori assegnarono altri venticinque piccoli ruoli. Praticamente, comparsate. Ma la sua figura, alta e dinoccolata, le sue maniere da gentleman, il suo stile garbatamente ironico ne fecero subito un apprezzato carattere. In quella rivista ebbe accanto attori di prosa assai bravi e famosi: G. Cervi, E. Viarisio, A. Magnani, A. Tieri. Fu un ottimo apprendistato.

Seguì, nel 1946, sempre di Garinei-Giovannini, Soffia, so’ con Alberto Sordi. Ancora satira politica in Sono le dieci e tutto va bene con la Magnani e Domani è sempre domenica con W. Osiris, nelle stagioni successive. Poi passò accanto a C. Dapporto (che presenta il suo ‘maliardo’) in Buon appetito di M. Galdieri (1948-49). La stagione successiva eccolo in Quo vadis , accanto a M. Viarisio, Milly e all’attrice brillante D. Galli (qui alla sua ultima apparizione). Importante la stagione 1951-52: diventa spalla di U. Tognazzi che ha il nome in ditta con E. Giusti in Dove vai se il cavallo non ce l’hai? di G. Scarnicci e R. Tarabusi.

Sodalizio artistico, quello con Ugo Tognazzi, che si rivelerà vincente in teatro, nelle stagioni successive, con Barbanera bel tempo si spera, Ciao fantasma, Passo doppio, Campione senza volere. E successo anche nel cinema, in una serie di filmetti-parodia (con Vianello anche sceneggiatore), ma soprattutto in televisione con lo storico varietà Un due tre, dal 1954 al ’59. La coppia (fortunata perché di pari peso artistico) si divise non per logoramento ma per diversità di scelte: U. Tognazzi continuò con il cinema (Il federale di L. Salce ne rivelò precipue doti interpretative, tali da affrancarlo dai filmetti-varietà). V. rimase fedele alla rivista, con W. Osiris in Okay fortuna (1956-57) e I fuoriserie (1957-58), in trio con G. Bramieri e G. Durano. Incontrò S. Mondaini, che diventerà poi sua compagna di vita e arte, in Sayonara Butterfly di Marchesi-Puntoni-Terzoli (1958-59), cui seguì, nella stagione successiva, Un juke-box per Dracula con S. Mondaini e G. Bramieri in ditta.

Spente le luci del varietà e sparita la passerella, Vianello continua a far divertire in televisione, facendo coppia fissa con la moglie: Io e la Befana, la Canzonissima del 1979, varietà del sabato sera (Tante scuse, 1974, e Di nuovo tante scuse , 1975). Poi un migliaio di puntate tv di Zig zag, dal 1983 al ’86; quindi una serie di telefilm comici (Casa Vianello e Cascina Vianello). Trasforma la sua passione per il calcio in background professionale presentando con grande successo e ripetuti riconoscimenti Pressing, riassunto serale della domenica calcistica su Italia 1. A settantasei anni, esordisce come presentatore del festival di Sanremo nel 1998.

Volonghi

Lina Volonghi esordisce nel 1933 nella compagnia di Gilberto Govi dove rimane per sei anni alternando il lavoro sul palcoscenico all’attività agonistica del nuoto (è campionessa per tre volte). Successivamente, entra a far parte del Teatro delle Arti di Roma lavorando per Anton Giulio Bragaglia. In questi anni l’attrice dà prova di grande versatilità, interpretando svariati ruoli del repertorio classico, moderno e contemporaneo e dimostrando, inoltre, una naturale inclinazione per il genere comico (lavora con la Adani-Ruggeri-Cimara).

Dal 1949 al ’52 è impegnata nella formazione Calindri-Volonghi-Volpi e lavora su testi di Shaw e Wilde. Quindi, passa allo Stabile di Genova dove ha modo di maturare le sue qualità interpretative (Celestina di F. De Rojas, Piccoli borghesi di Gor’kij, Colomba di Anouilh). Lavora con Visconti in Come le foglie di Giacosa accanto alla Brignone, Randone, Santuccio (1954), con Buazzelli e Lionello in Il tacchino di Feydeau, con R. Ricci e E. Magni nell’ Estro del poeta di O’Neill. Nel 1965, al Piccolo Teatro, interpreta il ruolo tragico di Ecuba nelle Troiane di Euripide-Sartre, sotto la guida di F. Tolusso. Per la regia di Strehler interpreta Le baruffe chiozzotte di Goldoni.

Nel 1968 torna allo Stabile di Genova diretto da Ivo Chiesa interpretando I rusteghi e La casa nova di Goldoni; raggiunge, poi, l’apice della sua interpretazione drammatica con Madre Coraggio di Brecht, diretta da L. Squarzina (1970, spettacolo replicato per tre stagioni). Con l’interpretazione del personaggio brechtiano la V. dà l’ennesima prova della sua eccellente professionalità nel rivestire con straordinaria naturalezza anche ruoli lontani dal suo modo di intendere e sentire la vita. Dell’ultimo periodo della sua carriera sono da ricordare: La brocca rotta di Kleist ancora per lo Stabile di Genova, dove recita accanto a E. Pagni (1983); Buonanotte mamma di Marsha Norman, presentato a Spoleto (1984); infine Bussando alla porta accanto di F. Dorin (1986), spettacolo con cui dà l’addio alle scene perché colta da un improvviso attacco cardiaco che le impedisce di riprendere a lavorare. Frequenti sono state le sue apparizioni televisive che hanno accresciuto la sua popolarità.

Vieux-Colombier,

Fondato da Coupeau, attore e regista vicino a A. Gide e al gruppo di intellettuali della “Nouvelle Revue Française” di cui J. Coupeau fu direttore. Il Théâtre du Vieux-Colombier rappresenta uno dei più significativi esempi di rinnovamento teatrale del primo Novecento francese. Ispirato al credo estetico di J. Copeau che, già dai tempi della sua direzione della rivista proclamava la necessità della ricerca di un «classicismo moderno» nelle arti, frutto di una semplificazione delle forme (teatrali, ma anche poetiche e narrative) il Vieux-Colombier, così chiamato dal nome della sala che venne utilizzata fin dalla sua fondazione nel 1913, riflette il desiderio di veder superata la lezione del simbolismo e la facilità del repertorio dei teatri boulevardienne in un progetto di ristilizzazione della scena. Il 1913 a Parigi, fu anche l’anno della prima de Le sacre du printemps dei Ballets Russes di Diaghilev e Nijinskij, su musica di Stravinskij: un evento che, nell’ambiente della “Nouvelle Revue Française” di J. Copeau e J. Rivière ebbe l’effetto di uno shock.

Per gli uomini della rivista, la forza espressiva di questo balletto risiedeva, nell’espressione di J. Rivière, autore di un celeberrimo saggio sull’argomento, nella `rinuncia alla salsa’, cioè a dire nella rinuncia agli orpelli della espressività post-simbolista per inaugurare una nuova stagione del gusto in cui semplicità e vigore si coniugano con il tentativo di un `ritorno alle origini’. Sul palcoscenico nudo del Vieux-Colombier, dove rimase fino al 1924, J. Copeau cercò di mettere in atto tale ricerca che si espresse essenzialmente in una sorta di regola drammaturgica centrata sul rigore della messa in scena: recitazione liberata dall’incedere enfatico della tradizione e della variante declamatoria imposta dal teatro simbolista, una scenografia essenziale, influenzata da A. Appia, il richiamo a tradizioni teatrali antiche, come la Commedia dell’Arte e i misteri medievali fanno del Vieux-Colombier un centro di irradiamento di una nuova estetica teatrale.

È infatti alla scuola di J. Copeau che si sono formati registi della importanza di L. Jouvet, di C. Dullin o R. Saint-Denis, uomini di teatro che hanno fatto della regola di Copeau un segno di stile. Per ciò che concerne il repertorio, J. Copeau iniziò un’opera di rinnovamento della messa in scena dei classici, soprattutto di Molière, sempre orientata verso la semplificazione, ma non trascurò autori suoi contemporanei il cui teatro esprimesse una forte carica spirituale come P. Claudel con L’échange , A. Gide ( Saul ) o H. Ghéon ( Le pauvre sous l’éscalier , 1920 e Le martyre de Saint Valérien, 1922).

varietà

Di nome e di fatto, il varietà era una babele di attrazioni varie prese in prestito ciascuna a piccole dosi dal teatro, dal circo, dall’operetta, dalla lirica, dallo sport, dal cinematografo. Perciò oggi con il termine varietà di solito si intendono generi spettacolari diversi fra loro per caratteristiche estetiche, sociali e di mercato. Genericamente, si parla di varietà riferendosi a tutta la composita tradizione della comicità popolare italiana del Novecento, ma in realtà essa si è sviluppata lungo le direttrici, in sé teatralmente autonome, del caffè-concerto, del varietà, dell’avanspettacolo, della rivista e infine della commedia musicale. L’arco di tempo abbracciato da questi generi va dall’ultimo decennio dell’Ottocento agli anni ’60 del secolo successivo.

L’origine comune è d’importazione francese, sul modello del café-chantant: spettacoli che avevano vita su pedane volanti costruite all’aperto accanto ai tavolini dei caffè più lussuosi delle città. Qui si esibivano, scritturati dai proprietari dei locali, comici, duettisti e cantanti. Quando, sul finire dell’Ottocento la moda del caffè-concerto prese piede definitivamente anche in Italia, nacquero spazi appositi per questo tipo di spettacoli: locali chiusi, veri e propri teatri, nei quali dare rappresentazioni in ogni periodo dell’anno, non solo in estate. Primo locale di questo genere, da noi, fu il Salone Margherita di Napoli inaugurato nel 1890 sotto la Galleria Toledo. Il caffè-concerto era fatto per ricchi in ricchi locali, ma comici, duettisti e cantanti diventarono una moda anche fra i meno abbienti. Ogni parco d’attrazioni (ce n’erano parecchi in molte città accanto alle stazioni e ai mercati) ebbe presto il suo padiglione teatrale dove si esibivano attori comici e cantanti; ballerine e imitatori. Gli attori drammatici, invece, vi rappresentavano a puntate grandi romanzi d’appendice riscritti per la scena, soap operas d’epoca.

Il varietà in senso stretto rappresenta il naturale sviluppo artistico ed economico del caffè-concerto. All’inizio del Novecento, assieme al Salone Margherita a Napoli, le cattedrali riconosciute del genere erano i romani Teatro Jovinelli inaugurato nel 1909 da Raffaele Viviani e la Sala Umberto aperta da Ettore Petrolini nel 1912. In questi luoghi lussuosi e ben frequentati, gli impresari riunirono il meglio di ciò che capitava nei caffè concerto e nei `padiglioni della meraviglie’. C’erano comici, duettisti e cantanti, ovviamente; ma anche ballerine, maghi illusionisti e prestidigitatori, contorsioniste, donne barbute e ballerini acrobatici, forzuti e giocolieri. In più, sul finire degli anni ’10, fra i vari numeri del varietà comparve anche il cinematografo, sotto forma di breve proiezione di una farsa o di un rapido dramma a fosche tinte.

Così arrivarono in Italia alcuni grandi comici stranieri (Harold Lloyd o Charlie Chaplin) e così si sviluppò la prima industria cinematografica autoctona (a Torino si producevano le comiche, a Napoli i drammi). Siamo a metà degli anni ’10 quando la guerra scalfisce le abitudini dell’Italia lontana dal fronte ma fa arricchire improvvisamente temerari impresari teatrali che organizzano spettacoli per i prigionieri, i feriti, gli orfani, i reduci… È da tutto questo che il varietà trae la sua energia maggiore, arrivando a essere unica forma di spettacolo totalmente nazionale e vero emblema dell’unità d’Italia: vi si recitano e cantano testi scritti in tutte le lingue-dialetti italiane (non solo napoletano e veneziano, ma anche milanese, piemontese, siciliano, romanesco…).

Nel varietà nacquero e prosperarono alcuni fra i massimi artisti teatrali della prima metà del Novecento. Prima di tutti Nicola Maldacea, cantante napoletano che inventò la `macchietta’, ossia la canzone comica in versi basata su una struttura narrativa molto articolata e di forte carica satirica. Poi vanno ricordati anche Leopoldo Fregoli (imitatore straordinario, capace di cambiare decine di fattezze e abiti nel corso di una sola serata); Ettore Petrolini (autore di alcune straordinarie parodie); Gustavo De Marco (il celebre uomo-marionetta cui si ispirò Totò); Anna Fougez (grande cantante) e suo marito René Thano (ballerino e raffinato coreografo); Raffaele Viviani (creatore di caratteri comici e drammatici rimasti nella storia di tutto il teatro del Novecento, non solo del varietà); Gilberto Govi (autore di sketch che spesso raggiungevano la dimensione della vera e propria commedia); Angelo Musco (irresistibile maschera tragicomica siciliana), Angelo Cecchelin (unico comico capace di reale ostilità nei confronti del futuro regime fascista).

Oltre alla macchietta, il varietà diede corso a una ricca produzione di canzoni popolari ma anche di monologhi, sketch e parodie. In ogni caso, tutto ruotava intorno a una trovata (per lo più comica) legata all’equivoco di un doppio senso che, se nei casi migliori nascondeva un risvolto spinto, nella maggior parte delle circostanze smetteva di essere doppio palesando sconcezze fin troppo dirette. Il varietà ebbe un successo popolare e mondano assolutamente strepitoso (non paragonabile ad alcun altro genere di spettacolo all’epoca) nei primi tre decenni del Novecento, generando poi, in seguito a una radicale trasformazione del mercato teatrale, l’avanspettacolo e la rivista, generi di altrettanto vasto successo nei due decenni successivi.

Veneziani

Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita a Napoli, Carlo Veneziani si trasferì a Milano, dove compose strofe satiriche di successo per l’attore N. Maldacea. Attento conoscitore dei lati comici della vita, fu autore apprezzato di commedie grottesche. Tra i suoi titoli vanno ricordati: Il braccialetto al piede (1917), Finestra sul mondo (1918), Colline filosofo (1920), L’antenato (1922, scritto per A. Gandusio) e Alga Marina che nel 1924 fece scalpore al Teatro Filodrammatici di Milano per il primo seno nudo delle scene, offerto da P. Borboni, giovane e disinibita interprete accanto a A. Falconi. Nonostante il dissenso dei moralisti la commedia ottenne grandi favori del pubblico.

Vamos

Dopo gli studi all’Istituto nazionale del balletto di Budapest Youri Vamos entra nella compagnia dell’Opera di stato nel 1968 e interpreta tutti i ruoli principali del repertorio classico. Passato nel 1972 al Balletto dell’Opera di Monaco di Baviera come primo ballerino, vi danza fino al 1986. Direttore del Balletto di Dortmund (1985-1988), del Balletto di Bonn (1988-1992), del Balletto di Basilea (1991-1997), dal 1997 é al Balletto della Deutschen Oper am Rhein di Düsseldorf dove svolge un’intensa attività creativa, incentrata prevalentemente sulla realizzazione di nuovi balletti drammatici (Paganini, Shannon Rose) e revisione dei classici (Lo schiaccianoci) sofferenti spesso di una concezione drammaturgica involuta e di un farraginoso sviluppo coreografico.

Vasile

Dal 1941 Turi Vasile si dedica alla composizione di drammi che affrontano problematiche religiose, con temi e argomenti legati alla cultura e alla realtà siciliana. Debutta al Teatro nazionale dei Guf di Firenze dove va in scena La procura , seguono: Arsura (1942) e l’ Orfano (1943). Nella sua vasta produzione successiva, degni di nota sono quei testi che risentono delle influenze di U. Betti e D. Fabbri: L’acqua (1948), I fiori non si tagliano (1950), I cugini stranieri (1951), Anni perduti (1954), Le notti dell’anima (1957). Negli anni alterna alla scrittura l’impegno di autore e regista televisivo e di produttore cinematografico tornando ogni tanto all’originario amore per il palcoscenico. Del 1965 è la commedia musicale Il Plauto magico , mentre degli anni ’80 sono due testi che lo riportano all’attenzione del pubblico e della critica: Lia rispondi, premio Fondi La Pastora (1984) e La famiglia patriarcale, premio Flaiano (1986). Ha scritto anche alcuni radiodrammi.

Viotti

Dopo un esordio televisivo e cinematografico, le prime importanti esperienze teatrali di Andrea Viotti sono a fianco del regista G. Lavia: un riuscito Amleto di Shakespeare (Roma 1981) è all’origine di una collaborazione che si consolida con I masnadieri di Schiller (Roma, Teatro Eliseo 1982), Il principe di Homburg di Kleist (Ferrara 1982) e Tito Andronico di Shakespeare (Ravenna 1983), fino all’ultimo Platonov (Commedia senza titolo) di Cechov (Torino 1997). Alcune occasionali collaborazioni lo vedono lavorare per A. Zucchi (Molto rumore per nulla di Shakespeare, 1982), L. Barbareschi (Uomini e topi di Barbareschi e Rizzi da Steinbeck, 1983) e L. Squarzina (Lord Byron prova la rivolta di M.R. Cimaghi, 1989); con F. Però instaura un legame più stretto, che si conferma con il recente Sangue di L. Norén (1996). Per il teatro d’opera esordisce con S. Bussotti (Cristallo di rocca, 1983), arrivando a lavorare per vari teatri lirici: la Scala (I Lombardi alla prima crociata di Verdi, 1984), il Petruzzelli di Bari (Maria Stuarda di Donizetti), il Verdi di Pisa (I masnadieri di Verdi) e di Trieste (L’elisir d’amore di Donizetti).

Veneto,

Il Teatro Stabile del Veneto, fondato nel 1992, ha sede a Venezia al Teatro `Carlo Goldoni’, ma opera anche presso il Teatro Verdi di Padova. Diretto da Giulio Bosetti dal 1992 al 1997, è attualmente guidato da Mauro Carbonoli. Caratterizzata da una particolare attenzione per il patrimonio linguistico tradizionale, la produzione artistica di questi anni ha privilegiato l’itinerario goldoniano (Le massere 1992-93, Il bugiardo 1993, La bottega del caffè 1993, Chi la fa l’aspetta 1994, Una delle ultime sere di carnovale 1995-96, I due gemelli veneziani 1996, La guerra 1997-98), evidenziando l’impianto regionale che contraddistingue lo stabile. Fra gli altri spettacoli L’avaro di Molière e Spettri di Ibsen (in coproduzione con la Compagnia Giulio Bosetti, 1992-93), Zeno e la cura del fumo di T. Kezich da Svevo (1993-94), Amleto di Shakespeare (in coproduzione con lo Stabile di Genova, 1994-95), Il malato immaginario di Molière, La moscheta di Ruzante, Se no i xe mati, no li volemo di Gino Rocca (1996-97) e La collina di Euridice di Paolo Puppa (1997-98).

Vasil’ev

Dopo gli studi all’Istituto coreografico di Mosca Vladimir, Viktorovic Vasil’ev è ballerino al Bol’šoj dal 1958 al 1988. All’inizio della carriera è considerato danzatore inadatto a ruoli di principe: fra il 1960 e il ’64 interpreta Inavuska nel Cavallino gobbo, Petruška, Lejli e Medznun (coreografia di K. Golejzovskij), Don Chisciotte. Nel 1966 è il primo interprete di Schiaccianoci nella nuova versione di J. Grigorovic. Ma la sua prima grande interpretazione dove dimostra, oltre che doti di danzatore, forti capacità drammatiche è Spartaco del ’68, in cui dà allo schiavo tracio in rivolta contro i romani una irripetibile dimensione tragica di eroe positivo. Fra gli altri balletti di cui è protagonista: Giselle, Romeo e Giulietta, Chopiniana, Laurencia, Paganini, Ivan il Terribile.

Spesso ospite delle più grandi compagnie, danza con la moglie Ekaterina Maksimova con i più importanti coreografi degli anni ’70 (ad esempio Roland Petit e Maurice Béjart). Frequenta le scene italiane e nel 1988 crea Zorba il greco (musica di Mikis Teodorakis, coreografia di Lorca Massine) all’Arena di Verona. Negli anni ’70 e ’80, oltre a impersonare con la moglie la coppia di danzatori sovietici da contrapporre ai `traditori’ Nureyev e Barišnikov che avevano abbandonato il Paese, affronta insieme a Maja Pliseckaja una lotta all’interno del Bol’šoj contro la dittatura del direttore coreografico Jurij Grigorovic. Fra le coreografie da segnalare, Anjuta ispirato a Cechov e realizzato per la moglie. Dal 1995 è direttore artistico del Bol’šoj. Danzatore classico di grande virtuosismo, adatto a ruoli di principe ed eroici, capace di grande interpretazione drammatica, è considerato uno dei più grandi ballerini della sua epoca.

Vilar

Diplomato alla Scuola del Piccolo di Milano, Bruno Vilar lavora con Strehler nel Gioco dei potenti da Shakespeare in un piccolo ruolo e come mimo in molte opere liriche (Cavalleria rusticana alla Scala). La sua carriera prosegue in tono minore fino all’incontro con Paola Borboni, avvenuto nel 1970. Tra i titoli: Camerata Franco collage di De Santis sulla Guerra civile spagnola; due episodi da La fame e la sete di Ionesco, Don Gil dalle calze verdi; Vita e morte di Re Giovanni di Shakespeare e Lady Edoardo da Edoardo II Marlowe diretti da A. Trionfo. Il matrimonio del giovane con l’attrice già settantenne desta scalpore, così come il tragico incidente in macchina che gli costa la vita lasciando illesa la moglie. Tra le sue opere poetiche ricordiamo L’estate brucia la malinconia, Solo nella sera e Vuoto d’attesa.

Versace

Nel 1982 Gianni Versace debutta alla Scala di Milano con i costumi per il balletto Josephslegende di Richard Strauss; vi ritorna l’anno seguente con i costumi per il balletto Lieb und Leid . Dal 1984, con i costumi per Dionysos (Palazzo dello Sport, Milano) inizia la sua collaborazione con il coreografo Maurice Béjart che lo vedrà impegnato in vari balletti, fra cui Malraux ou la metamorphose des dieux (1986), Leda e il cigno (1987), Souvenir di Leningrado (1987), Morte di un musicista (1987), Piramide (1990). Fra le altre numerose collaborazioni sono da segnalare quella con il regista Robert Wilson per la Salome di R. Strauss (Scala 1987) e per il Doktor Faustus (Scala 1989), con Roland Petit per Zizi Jeanmaire (Théâtre des Bouffes-du-Nord, Parigi, 1988) e per Tout Satie (Ballet National de Marseille, Barcellona 1988), con il regista John Cox per Capriccio di R. Strauss (San Francisco 1990).

Vantaggio

Dopo gli studi con T. Battaggi e alla Scuola di ballo dell’Opera di Roma Giancarlo Vantaggio entra nella compagnia diventandone in breve primo ballerino. Crea ruoli in molti balletti di A. Milloss e in spettacoli di S. Bussotti. Come coreografo debutta nel ciclo dei Fogli d’album del festival di Spoleto; in qualità di assistente e coreografo è dal 1974 con R. Petit e il Balletto di Marsiglia, dove crea Bizet’isme (1974). Sempre come coreografo cura le danze dei film Il Messia di Rossellini e Don Giovanni di J. Losey. Ha diretto inoltre il Corpo di ballo del Teatro La Fenice e la compagnia Artedanza.

Vergassola

La vita di Dario Vergassola, grigia e mediocre, incarnata nel personaggio dello `sfigato’ esaurito e depresso rimanda ad un Fantozzi contemporaneo. Grazie al suo humor aspro e allo stile elegante della sua chitarra acustica, l’artista ha ormai un suo spazio riconosciuto nel panorama del cabaret italiano. Dopo il debutto con Professione comico, la manifestazione ideata e diretta da G. Gaber, nella quale ottiene sia il premio del pubblico che della critica, e la vittoria al festival di San Scemo (1992) passa dai singoli sketch alla realizzazione di veri e propri spettacoli. Dalla proficua collaborazione con il suo conterraneo S. Nosei, nasce lo spettacolo Bimbi belli . Nel 1996 è impegnato in una fortunata tournèe teatrale con La vita è lampo per la regia di M. Martinelli. Numerose occasioni teatrali lo portano inoltre sul palcoscenico al fianco di D. Riondino, (Reccital per due), di D. Parassole e, ultimamente, di E. Iannacci.

Vasil’ev

Dopo gli studi universitari a Rostov, Anatolij Vasil’ev lavora come ricercatore in un istituto di chimica in Siberia, poi su un battello impegnato in ricerche oceanografiche. Nel 1968 si iscrive al GITIS (Istituto di Stato per il Teatro) di Mosca, e segue gli insegnamenti di A. Popov e M. Knebel, già allieva di Stanislavskij. Nel 1973, una volta conseguito il diploma in regia, entra al MKat (Teatro d’Arte di Mosca): alla sua prima regia, Assolo per orologio a pendolo di O. Zagradnik, fanno seguito la prima versione di Vassa Zeleznova di Gor’kij (1978) e La figlia adulta di un uomo giovane di V. Slavkin al Teatro Stanislavskij di Mosca (1979) che lo consacrano regista di successo. Lavorando sempre con lo stesso gruppo di attori, ed affrontando la cosiddetta ‘nouvelle vague sovietica‘ (Novaja Volna), Vasil’ev suscita interesse perché affronta temi quotidiani della generazione dei quarantenni e per le sue innovative teorie estetiche.

Approdato al teatro della Taganka di J. Ljubimov, dopo essere stato costretto ad abbandonare il Teatro Stanilavskij, il regista, nel 1982, inizia le prove di Cerceau, la nuova pièce di V. Slavkin che, pur non raggiungendo livelli eccelsi, rimane una pietra miliare del Teatro. Nel 1982, in un nuovo fermento culturale che anima la città, Vasil’ev presenta una bellissima edizione dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, dapprima al GITIS, poi nel suo nuovo teatro, la Scuola d’arte drammatica di via Povarskaia, (attiva dal 24 febbraio 1987). Nel 1990 mette in scena Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello, e due anni dopo presenta Il ballo in maschera , di Lermontov alla Comédie-Française; nel 1994 Il sogno dello zio tratto da Dostoevskij, prima a Budapest poi a Mosca (e dello stesso autore metterà in scena anche I demoni e Il giocatore, 1997); infine nel 1997 Le lamentazioni di Geremia, libro dell’Antico Testamento trasposto in canto, per il quale riceve due Maschere d’oro, premio nazionale della Russia.

Fautore di un rigoroso metodo di lavoro sull’attore, Vasil’ev si richiama alla scuola stanislavskiana e all’Etjud (‘studio’, detto anche `metodo dell’analisi dell’azione’): processo di lavoro, dalle forti connotazioni pedagogiche, finalizzato all’acquisizione del testo e costituito da improvvisazioni che si svolgono parallelamente e contemporaneamente all’azione della pièce, cui prende parte tutto il gruppo di attori senza ruoli prestabiliti. Le fasi di lavoro di Ciascuno a suo modo di Pirandello (Mosca, Roma, 1991-92) sono state aperte al pubblico e da allora gli Etjud prevedono una fase performativa pubblica. Tra i tanti riconoscimenti al suo lavoro due premi Stanislavskij (1988 e 1995), il Cavalierato delle arti e delle lettere in Francia (1989), il premio Europa a Taormina (1989).

Vian

Il suo carattere inquieto l’ha portato a sperimentare diverse forme artistiche: Boris Vian è stato anche attore, ballerino, cantante, librettista, musicista, critico e giornalista. Il suo debutto come autore drammatico avviene nel 1948 con l’adattamento del suo romanzo J’irai cracher sur vos tombes . Nel 1950 la rappresentazione di Equarrissage pour tous è un insuccesso. A questa seguono altre pièces: Le goûter des généraux (1951), farsa antimilitarista; Le chevalier de neige (1953), ispirato alla leggenda dei cavalieri della Tavola Rotonda; Les bâtisseur de l’empire ou le Schmürz (1959), storia di una famiglia sconvolta dall’intrusione di uno strano essere – lo Schmürz del titolo – che forse rappresenta la cattiva coscienza dell’uomo contemporaneo. Vian, poco conosciuto in vita, è stato rivalutato dopo la sua prematura scomparsa. Ricordiamo la sua attività di compositore di testi musicali e di librettista: nel 1958 ha scritto l’opera Fiesta, per Darius Milhaud.

Volksbühne

Volksbühne è un teatro fondato nel 1890 a Berlino da un gruppo di dirigenti socialdemocratici come Libero teatro popolare (Freie V.); è uno dei primi tentativi di democratizzazione del teatro che ispira poi le moderne forme di attività sovvenzionata. La proposta parte da B. Willie, un intellettuale, membro della sezione giovanile del Spd (il partito socialdemocratico tedesco) e vicino alla Freie Bühne, un teatro nato sul modello del francese Théâtre Libre. L’idea è quella di spezzare il monopolio culturale della borghesia organizzando in modo cooperativistico un pubblico di lavoratori. A costoro, dietro versamento di una quota minima di partecipazione, si vuole garantire il diritto a una rappresentazione al mese in sale che devono essere prese in affitto con posti a sedere, da assegnarsi con un sistema a rotazione o tirando a sorte.

Il repertorio deve essere di alto livello, con autori classici e moderni, da Goethe e Schiller a Ibsen e Hauptmann, e interpretato da attori di provata professionalità. Nonostante la comune aspirazione a un’arte per il popolo, ben presto sorgono conflitti tra i responsabili del partito (che intendono dare priorità alle lotte politiche e alle problematiche dell’economia) e B. Willie, primo presidente dell’organizzazione teatrale. Ne segue una scissione: B. Willie fonda nel 1892 la Neue Freie V. che si avvanteggerà della rottura tanto che nel 1913 conterà già cinquantamila aderenti. I dirigenti socialdemocratici, infatti, tendono a operare scelte artistiche improntate a un certo tradizionalismo (Schiller piuttosto che il naturalismo, per esempio), con poche aperture a un effettivo rinnovamento del teatro, convinti che un’arte proletaria non sia di fatto possibile in un regime di capitalismo. Questa scissione viene superata con il contratto del `cartello’ nel 1913 e la riunificazione in seno alla V. diventa un dato di fatto nel 1920. L’organizzazione, a quel punto, dispone di un proprio teatro a Berlino (chiamato appunto Volksbühne).

Alla vigilia della guerra, nel 1914, gli aderenti diventano settantamila e oltre mezzo milione nel 1927; le tournèe del teatro si estendono all’intero territorio tedesco, ma le scelte si adattano sempre più a un certo spirito di neutralità sia riguardo agli aspetti economici sia riguardo alle scelte artistiche. Nel 1927, la rottura di E. Piscator – regista principale – segna il culmine di un nuovo conflitto tra due orientamenti diversi. La gioventù di Berlino fa fronte comune continuando a rivendicare un teatro militante a cui K.H. Martin (divenuto intendente nel 1929) provvede inserendo nei programmi pièce d’attualità (Zeitstücke) di cui si contano numerosi esempi soprattutto verso la fine degli anni ’20. Sotto il nazismo l’organizzazione viene sciolta e il teatro viene statalizzato a partire dal 1937.

L’associazione rinasce dopo la guerra, nella Rdt, ma perde la sua indipendenza (1953) a vantaggio dell’organizzazione sindacale sino a quando, nel 1954, il teatro ricostruito può riprendere la sua attività a Berlino sotto l’intendenza di F. Wisten. Negli anni ’70 torna a essere un teatro di primaria importanza sotto la direzione artistica di B. Besson. Nel 1963, nella Germania federale, l’associazione conta ancora quattrocentotrentamila membri, ma soltanto poco più della metà venti anni più tardi. Una nuova sala con il nome di Volksbühne viene inaugurata a Berlino Ovest nel 1962 sotto la direzione di E. Piscator che, sino al 1966 anno della sua morte, vi presenta, tra l’altro, il nuovo teatro documentario tedesco. Dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della città viene scelto come nuovo intendente il regista F. Castorf.