Albertazzi

Giorgio Albertazzi debutta a Firenze fra partite di pallone e primi amori ne Il candeliere di De Musset al Teatro della Meridiana con Bianca Toccafondi, regista F. Enriquez; interpreta Fessenio nella Calandria di Bibbiena, ed è Soranzo in Peccato che sia una sgualdrina di Ford, diretto da L. Lucignani, sempre a Firenze, dove L. Visconti – che prepara Troilo e Cressida di Shakespeare a Boboli – lo vede e lo scrittura per il ruolo di Alessandro, paggio di Cressida (Rina Morelli), in una famosa edizione (1949) che allineava, oltre Gassman, De Lullo, Stoppa, Ricci, Tofano, Elena Zareschi e Memo Benassi. È sempre Visconti a procurargli la scrittura nella compagnia del Teatro Nazionale diretta da G. Salvini (1950-52), dove recita in Detective story di Kingsley, La signora non è da bruciare di Fry, Peer Gynt di Ibsen ed è il protagonista del Faustino di Dino Terra.

Il successo arriva con Il seduttore di Fabbri nella tournée americana della Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi-Buazzelli. Con la compagnia, dalla quale si stacca per dar vita nel ’56 alla ditta Proclemer-Albertazzi, interpreta anche il Matto nel Re Lear e il regista ne La ragazza di campagna di Odets. Fra i tanti successi della ventennale ditta, dove ha modo di imporre la sua recitazione moderna e graffiante, ispirata e medianica creando con la Proclemer una delle coppie più seguite dal pubblico e dalla critica: una memorabile Figlia di Iorio di D’Annunzio e L’uovo di Marceau (1957), Requiem per una monaca di Faulkner-Camus e Spettri di Ibsen (1958), I sequestrati di Altona di Sartre (1960), Amleto , diretto prima da Franck Hauser poi da Zeffirelli (1963), Dopo la caduta di Miller (1967), La fastidiosa (1965) e Pietà di novembre di Brusati (1967); dirige Come tu mi vuoi (1967) di Pirandello e il suo discusso Pilato sempre (1971); per una stagione la compagnia si era associata allo Stabile di Genova (Maria Stuarda di Schiller, con la Brignone nel ruolo di Elisabetta) dove, staccatosi dalla Proclemer, sarà protagonista del Fu Mattia Pascal da Pirandello ridotto da Kezich (1974); da qui derivano le grandi interpretazioni fra vita e teatro quali Riccardo III , Re Nicolò di Wedekind, Enrico IV di Pirandello (1982, regia di Calenda), Le memorie di Adriano dal romanzo della Yourcenar, regia di Scaparro (ripreso per più stagioni), La lezione di Ionesco, a Spoleto, regia di Marcucci, e l’ultimo Giacomo Casanova comédien filosofo, libertino, viaggiatore, avventuriero di voce, fantasie, divertimenti e angosce diretto da Scaparro all’Olimpico di Vicenza (1997). Fra i pionieri della tv, seduce il primo pubblico televisivo con Delitto e castigo, Romeo e Giulietta, I capricci di Marianna di De Musset, Come le foglie di Giacosa, Liliom di Molnár e l’indimenticabile Idiota da Dostoevskij, diretto da G. Vaccari. Lettore di fascino e di carisma, spazia dalla novella (Palazzeschi, Mann, Cecov, Maupassant, Pirandello) all’ Inferno di Dante. In cinema da un giovanile Lorenzaccio di Poggioli passa a L’anno scorso a Marienbad di Resnais e al suo Gradiva.

Zeffirelli

Dopo aver studiato architettura, Franco Zeffirelli fu precoce animatore di teatro nella città natale. Tra gli anni ’40 e ’50 fu assistente di importanti registi quali M. Antonioni, V. De Sica, R. Rossellini e L. Visconti; quest’ultimo lo volle, tra il ’46 e il ’53, anche scenografo dei suoi storici allestimenti, a cominciare da quello di Un tram che si chiama desiderio di T. Williams e poi di Cechov e Shakespeare. Spaziando in vari campi (teatro, cinema, opera lirica, televisione), l’attività di Zeffirelli si è esplicitata con perenne successo in ognuno di questi settori, anche se la critica non ha sempre riservato elogi nei suoi confronti, parlando sovente di vuoto formalismo a proposito di certe messinscene. Rilievi di cui Zeffirelli non ha mai troppo tenuto conto, dichiarando spesso la sua scarsa considerazione per la critica e l’establishment culturale italiano. La sua fama, del resto, si impose in particolare all’estero, e specie in America.

Cifra di Zeffirelli è indubbiamente la spettacolarità, già presente fin dai suoi primi allestimenti shakespeariani in Gran Bretagna (Othello, 1961, Stratford on Avon; Romeo and Juliet, 1961; Hamlet, 1963; spettacoli tutti che avrebbe più tardi portato anche sullo schermo), improntati a un sicuro dominio del movimento scenico e assai curati nell’aspetto esteriore (scene, costumi, luci). Questo senso della spettacolarità determinerà in genere le sue scelte, anche quando gli toccherà di affrontare un testo moderno. Zeffirelli, ancorché con risultati diseguali, ha sempre mirato alla presa sul pubblico con un infallibile senso di showman. È stato il caso di Chi ha paura di Virginia Woolf? di E. Albee (1953), di Dopo la caduta di A. Miller (1964) e di La Lupa di Verga (1965, protagonista A. Magnani); e, ancora, di Lorenzaccio di A. De Musset, proposto in maniera molto fastosa ma con un gusto anche `pompier’ a Parigi (Comédie – Française, 1978). Ma sarà pure il caso di quando, dopo anni di assenza dalle ribalte, proporrà (1982) Maria Stuarda di Schiller con due regine della scena italiana quali V. Cortese e R. Falk, e così quando in tempi più vicini si avvicinerà in maniera piuttosto deludente a Pirandello con Sei personaggi in cerca d’autore (1991, protagonista E. M. Salerno).

A differenza di altri registi del nostro tempo, Zeffirelli ha sempre pensato, progettato e realizzato su vasta scala e sempre nell’ambito del grande spettacolo: ciò lo ha portato ad avvicinarsi frequentemente al melodramma, soprattutto italiano. A cominciare dalla Traviata di Verdi, varie volte messa in scena anche se l’edizione rimasta più famosa (con la vicenda rivissuta in flash-back) fu quella con la Callas all’Opera di Dallas nella stagione 1957-58. Fu proprio questo suo amore per la lirica che lo ha portato a lavorare presso i massimi teatri europei e americani, dal Metropolitan di New York (Don Giovanni) alla Staatsoper di Vienna (Carmen) e naturalmente alla Scala di Milano, dove è rimasta celebre una sua messinscena della Bohème più volte ripresa, nonché il dittico composto da Cavalleria rusticana e Pagliacci (1981) e Turandot (1983). Alla Scala è avvenuto anche il suo unico incontro con il mondo del balletto: il discusso Lago dei cigni (1984) con protagonista Carla Fracci.

Carraro

Unanimemente considerato l’attore nel quale maggiormente si rispecchiano l’idea e il modo di recitare del Piccolo Teatro, Tino Carraro, figlio di un tipografo, fin da ragazzo recita nelle compagnie amatoriali, facendo molti lavori, fra i quali il venditore di pezzi di ricambio per auto. Intanto si diploma all’Accademia dei Filodrammatici: entra nelle maggiori compagnie di giro dell’epoca, accanto ad attori come Evi Maltagliati e Luigi Cimara (con loro interpreta il personaggio di Vronskij in un’ Anna Karenina, 1941, andata famosa), Laura Adani e Ernesto Calindri. Il dopoguerra lo vede ancora recitare in spettacoli di compagnie primarie con il nome in ditta e, per qualche anno, partecipare anche all’esperienza del Piccolo Teatro di Roma (dal 1951 al ’52) diretto da Orazio Costa, dove interpreta fra l’altro Le colonne della società di Ibsen e Così è (se vi pare) di Pirandello. Dal 1952 al ’62 è primo attore al Piccolo Teatro di Milano, con Giorgio Strehler (che lo ha già diretto nel 1946 nella compagnia Maltagliati-Randone-Carraro e nel 1948 in Romeo e Giulietta a Verona, nella regia a quattro mani con Renato Simoni). Al Piccolo Carraro, che prende il posto lasciato libero da Gianni Santuccio, interpreta in questo decennio spettacoli memorabili, nei quali può realizzare pienamente un modo di essere attore poco divistico, molto legato agli spettacoli d’ensemble (perfetto per il teatro di regia, al quale lo avvicinano le sue grandissime qualità interpretative), ma anche un’idea dell’essere attore come artigianato, disciplina estrema, scavo interiore mai soddisfatto di sé.

In questi anni Carraro interpreta ruoli classici e contemporanei, dall’ Ingranaggio di Sartre (1952) al ruolo di Bruto in un Giulio Cesare di Shakespeare in chiave psicologica (1953), alla Trilogia della villeggiatura di Goldoni (1954); dal primo Giardino dei ciliegi diretto da Strehler, dove accanto a Sarah Ferrati è un magnifico Lopachin, a uno strepitoso Togasso, dalla camminata sghemba a piccoli passi, nel mitico Nost Milan di Bertolazzi (1955), a Coriolano di Shakespeare, in cui interpreta il ruolo del protagonista visto come una sanguinaria macchina di guerra (1957). Sempre diretto da Strehler interpreta quello che sarà, eccezion fatta per alcuni recital, il suo unico Brecht: un insuperabile Mackie Messer in una memorabile Opera da tre soldi (1956) con Milly e Mario Carotenuto; sempre accanto a Sarah Ferrati è un Platonov (1959) malato di male di vivere. Il sodalizio con Strehler si rompe dopo la prova estrema di L’egoista di Bertolazzi (1960), uno dei suoi ruoli più grandi, quando il regista gli preferisce per Vita di Galileo di Brecht (1963) Tino Buazzelli (cedendo come Brecht che, per la prima edizione di questo testo, era stato preso dal fascino dell’attore grasso e lo aveva fatto recitare a Charles Laughton).

Allontanatosi dal Piccolo, Carraro entra alla corte di Luchino Visconti; il ritorno al teatro milanese avviene proprio nel momento in cui Strehler se ne è allontanato, quando, diretto dal giovanissimo Patrice Chéreau, interpreta accanto a Valentina Cortese una memorabile Lulu di Wedekind (1972). Ma è al ritorno di Strehler al Piccolo come direttore unico che restano legate le sue interpretazioni maggiori, da Re Lear (1972) al Prospero nella Tempesta di Shakespeare (1978), dal Peppon, il padre della Nina, nel secondo Nost Milan messo in scena da Strehler (1979) al capolavoro assoluto del Signore vestito di bianco, protagonista del Temporale di Strindberg (1980). Il suo addio al pubblico avviene con I giganti della montagna di Pirandello («qui si interrompono I giganti della montagna , qui finisce il teatro delle maschere nude») nel 1994: per qualche recita, perché la sua salute ormai precaria non gli permette di seguire tutto lo spettacolo, ha il compito di dire l’ultima parte dei Giganti , così come Pirandello la raccontò a suo figlio Stefano sul letto di morte.

Stoppa

Dopo aver frequentato la scuola di recitazione dell’Accademia di Santa Cecilia, ventunenne Paolo Stoppa iniziò la carriera teatrale come attore comprimario nella compagnia Capodaglio-Racca-Olivieri. Nel 1928 passò con A. Gandusio, il quale lo impiegò nei ruoli cosiddetti `spigliati’, ovvero brillanti. Dal 1930 al 1935 recitò anche in altre formazioni: Ricci, Picasso, Dina Galli. Nel frattempo si fece notare in piccole parti comiche anche al cinema (Re burlone , 1935; Giorni felici, 1942), quel cinema italiano di cui diventerà uno dei più grandi caratteristi in decine e decine di film. Nel 1938 entrò nella compagnia dell’Eliseo a Roma, dove affrontò un repertorio più impegnativo, anche in alcuni testi shakespeariani (La dodicesima notte, Le allegre comari di Windsor). Data da allora l’incontro con l’attrice Rina Morelli, che diventerà la sua compagna nella vita e sulla scena; insieme formeranno, per trent’anni, una delle coppie più brave e affiatate del teatro italiano.

Nell’autunno del 1945 un altro incontro determinante, quello con Luchino Visconti: incontro grazie al quale si determinerà uno dei più importanti fenomeni teatrali del dopoguerra. Sotto la regia di Visconti, S. e la Morelli danno vita a un’importante impresa, della quale fanno parte i più giovani G. De Lullo e M. Mastroianni. L’attore ottiene grandi successi, fra l’altro, in Delitto e castigo di G. Baty, da Dostoevskij (1946), e in Morte di un commesso viaggiatore di A. Miller (1951); il protagonista di quest’ultimo dramma, Willy Loman, diventerà uno dei suoi personaggi preferiti e suo `cavallo di battaglia’. Il suo repertorio si arricchisce anche di grandi testi goldoniani, a cominciare da La locandiera (dove fornì grande risalto al conte di Forlimpopoli) e L’impresario delle Smirne . Altri grandi successi furono Tre sorelle e Zio Vanja di Cechov, nonché Vita col padre di Lindsay e Crouse.

Memorabili anche certe sue interpretazioni shakespeariane: Rosalinda (dove fu un `fool’ tutto stupore e stizza infantili) e Troilo e Cressida (Firenze, Boboli 1947), dove seppe insinuare nella figura di Pandaro una lama di chiaroscurata viltà. Proprio il lungo cammino accanto a Visconti (che lo utilizzò anche al cinema: si veda Rocco e i suoi fratelli, 1960, con cui Stoppa meritò un Nastro d’argento al festival di Venezia) ha fatto sì che l’attore romano – attraverso un’ammirevole e sorprendente evoluzione – diventasse uno dei più completi attori italiani; e questo a dispetto di un fisico poco prestante e di una dizione non immune da certa coloritura regionale.

Con fertilità ed estrosità di umori, e con sempre eguale fortuna, Stoppa seppe passare dal repertorio classico alla più agguerrita drammaturgia contemporanea (soprattutto americana, ma non solo). L’avvento della televisione lo vedrà sovente sul video, a dare vigorosa caratterizzazione a personaggi di fortunati sceneggiati: si vedano i suoi successi in I Buddenbrook , Vita col padre , Demetrio Pianelli , ma anche in Questa sera parla Mark Twain. Negli anni ’60 l’attore è allo zenith della sua arte teatrale: valga per tutte l’impagabile interpretazione di Gaev nel Giardino dei ciliegi di Cechov (1965), diretto da Visconti. Nel 1976, la morte della Morelli e di Visconti risulteranno per lui traumatiche; solo due anni dopo tornerà alle scene, al festival di Spoleto, in Gin game di Coburn. Per la regia di Patroni Griffi interpreterà anche L’avaro di Molière; mediocre sarà invece il risultato quando si farà dirigere dal giovane Memé Perlini in Il mercante di Venezia (1980). Con un soprassalto d’orgoglio, nel 1984, ormai alla fine di una carriera esemplare, farà in tempo a essere un inedito Ciampa nel pirandelliano Berretto a sonagli diretto da L. Squarzina.

scenografia

La scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. È legata all’evoluzione del teatro e influenzata dalle correnti artistiche e dal costume. La scenografia del Novecento si avvale di mezzi tecnologici moderni (piattaforme mobili, tiri meccanici, piani inclinati, piani girevoli). All’inizio del secolo si svilupparono movimenti contrapposti al decorativismo di fine Ottocento di scenografi francesi e italiani (G. Sécan, A. Sanquirico, C. Ferrario, A. Rovescalli).

Tali movimenti furono il realismo del teatro di Stanislavskij e il naturalismo di Rosin, scenografo di Antoine e del suo Théâtre Libre. Ma nell’ambito del teatro e della scenografia moderna la prima vera rivoluzione si ha partendo dalle indicazioni e dalle ricerche dello scenografo svizzero Adolphe Appia (evoluzione della scena orizzontale con piani praticabili e la plasticità scenica esaltata dalla luce, non più dipinta illusionisticamente) e del teorico inglese Gordon Craig che al naturalismo sostituisce in scena masse di luce e di ombra, forme plastiche su vari piani, esaltando la tridimensionalità e la verticalità scenica, il colore, il ritmo. In questi primi decenni del secolo significativi sono gli interventi scenografici di pittori-decoratori in teatro: con Diaghilev e i Balletti Russi lavorarono artisti come L. Bakst, Benois, Goncarova, Larionov, de Chirico, Picasso, Matisse, Dalì, ecc. In Italia il vero rinnovamento si ha con l’avvento del futurismo e della tecnologia in palcoscenico.

Di Prampolini è il primo Manifesto della scenografia futurista (1915) in cui si enunciano le conquiste della luce, della dinamica e del movimento che compongono la scenografia futurista, ed è proprio lui a dare alla scenografia italiana un’apertura internazionale. Di Balla sono gli esperimenti di luce per Feu d’artifice balletto astratto proposto da Djagilev, mentre Depero continua le sue ricerche plastico-figurative con macchine-marionette e realizzando sempre con Diaghilev Le chant du rossignol . Interessanti le esperienze sulla luce-colore di A. Ricciardi per il Teatro del colore (1920), sviluppate dal regista-scenografo A. G. Bragaglia (inventore della scena multipla al Teatro degli Indipendenti). Contemporaneamente in Europa correnti artistiche come l’espressionismo in Germania (O. Kokoschka), il surrealismo in Francia e il costruttivismo in Unione Sovietica (con Mejerchol’d, il Teatro d’Arte di Mosca e gli scenografi L. Pòpova, A. Exster, A. Tairov) ribaltarono tutti le vecchie concezioni teatrali.

Lo scenografo da decoratore diviene costruttore scenografico e la scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. dinamica motore dello spettacolo. Nel primo dopoguerra la scenografia italiana con N. Benois, Colasanti, Oppo, Sensani, abolisce il fondale dipinto per spezzati dipinti e praticabili e un realismo neopittorico. Con un neorealismo plastico usato da artisti quali V. Marchi, D. Cambellotti, P. Marussig, sviluppano le esperienze plastico-astratte-cromatiche del futurismo-cubismo (Kaneclin, Baldessarri, Prampolini, Ratto, Coltellacci).

In Italia come in Europa e in America lo sviluppo della scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. moderna è legata al mezzo tecnico, influenzata dalle varie tendenze di linguaggio o dal bisogno di trovare trucchi e soluzioni nuove, per un continuo rinnovamento. La scena mobile, abbinata a effetti di luce, o scena multipla, con angoli visuali scorciati, plastica e tridimensionale o con l’applicazione di materiali inediti, dimostra quanto importante sia sottolineare la collaborazione tra regista e scenografo. Una figura fondamentale per lo sviluppo della scenografia italiana è il regista L. Visconti che, con la sua personalità, ha influenzato scenografi e costumisti, nella scelta dello spazio e nella ricerca di sintesi, e di riproposta storico-filologica. Per lui hanno lavorato M. Chiari, G. Polidori, F. Zeffirelli, P. Zuffi, L. De Nobili, P. Tosi, V. Colasanti, M. De Matteiscenografia

Al Maggio musicale fiorentino negli anni ’50 viene aperta una stagione di pittori-scenografi come Casorati, Sironi, Fiume, Cagli, Maccari, Savinio, le cui scene sono importanti soprattutto per il valore cromatico. Con il teatro politico di Piscator e l’avvento del teatro epico di Brecht e degli scenografi Theo Otto, K. Nener, e del francese R. Allio, collaboratore di R. Planchon, la scenografia ritrova un giusto equilibrio tra elementi allusivi e l’esatta ricostruzione storica. Sempre con un teatro fatto di metafore sceniche (macchine per proiezioni, uso di luci, scena cinetica) J. Svoboda continua le sue ricerche al Teatro Lanterna Magika di Praga (1948). Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano (1947) ha tra i suoi collaboratori G. Ratto per le scene, E. Colciaghi per i costumi, che risentono dell’influsso internazionale della scena epica (fondali con grandi scritte, scene costruttiviste). La collaborazione di Strelher con L. Damiani darà vita a produzioni storiche (Il ratto dal serraglio, 1965; Il giardino dei ciliegi , 1974; La tempesta , 1978).

Damiani suggerisce nelle sue ambientazioni spazi astratti e le citazioni storico-pittoriche allusive, lasciano spazio all’immaginazione senza prevaricare la parola. La ricerca di Damiani sviluppa la scena tridimensinalmente e la sintesi drammatica spaziale; Damiani collaborerà anche con altri registi tra cui V. Puecher, L. Ronconi, L. Squarzina, L. Pasqual. Intensa è la collaborazione di E. Frigerio con Strelher, la sua scenografia è fatta di un realismo in cui viene esaltata la forma architettonica tridimensionale, sottolineata dall’uso della luce che fa da cornice all’azione. Frigerio e la moglie F. Squarciapino (costumista) realizzano produzioni importanti (Le nozze di Figaro 1981, Don Giovanni 1987). Sempre al Piccolo con G. Strelher collaborano P. Bregni e L. Spinatelli che caratterizza la sua attività professionale anche nell’ambito del balletto ( Orlando 1997).

Negli scenografi che hanno lavorato al Piccolo Teatro vi è un costante riferimento iconografico tratto dalla pittura. Questo dualismo regista scenografo si ritroverà in Squarzina e Polidori, De Bosio, Scandella e Guglieminetti, De Lullo e Pizzi, Fersen e Luzzati. L’attività di Luzzati è fondamentale nel panorama della scenografia italiana attraverso il suo forte e personale modo di fare scenografia, caratterizzato dall’illustrazione fantastica e dal concepire lo spazio teatrale come un gioco. Ad artisti famosi spesso viene dato l’incarico nei teatri italiani di progettare la scena, basti pensare a M. Ceroli, T. Scialoja, F. Clerici, o alle sorprendenti strutture di A. Pomodoro per Semiramide 1982. Negli anni ’60 comincia il lavoro di L. Ronconi con cui collabora, P. L. Pizzi per la messinscena dell’ Orlando furioso a cui seguiranno le scene di altri famosi spettacoli. Pizzi sul finire degli anni ’70 inizierà a firmare regia, scene e costumi di tutti i suoi spettacoli caratterizzando il suo lavoro con opere barocche in cui architettura, decorazione e colore trovano il giusto equilibrio. Ronconi nel Laboratorio teatrale di Prato (1976-79) sviluppa un’inconsueta idea di allestimento scenico in stretto contatto con il pubblico risolta dall’architetto-scenografo G. Aulenti: ricerca e collaborazione destinata a continuare anche nel teatro lirico.

Con la scenografa M. Palli, Ronconi continua l’analisi sullo spazio e sulle forme architettoniche usate come macchine sceniche, fondamentali all’azione drammaturgica, diventando la scenografia filo conduttore dello spettacolo, determinante è il contributo visivo dei costumi di V. Marzot. Particolare è la ricerca formale di E. Job per le opere di Strindberg in cui la scena e l’oggetto, diventano essenza del testo drammaturgico. Nel corso della sua carriera proficua è l’intesa professionale con Ronconi e M. Missiroli. Le scenografia di M. Balò che instaura un costante lavoro con M. Castri e G. Cobelli sono fatte di forme circolari, moduli ripetuti di porte e finestre, strutture avvolgenti e imponenti sullo spazio del palcoscenico.

Mentre Bob Wilson propone spettacoli in cui immagine visiva, luce, colore movimento e suono-parola ci portano verso l’astrazione pura allusiva del quadro tridimensionale quasi metafisico. Il panorama della scenografia italiana è in continua evoluzione a partire dal realismo rivisitato e rielaborato di M. Pagano, P. Grossi, W. Orlandi, C. Diappi o agli scenografi che si legano in stretto sodalizio con gruppi teatrali e registi tra i quali, Carosi, Fercioni, Gregori, Agostinucci. Numerosi gli scenografi che si avvalgono nelle loro messinscene della tecnologia (luci, laser, macchine di proiezione, audiovisivi, scene mobili, plastiche), della ricerca di forme e di spazi alternativi e di materiali all’avanguardia pur non allontanandosi dal carattere decorativo astratto-spaziale tipico della scena italiana, riprendendo scorci prospettici, piani praticabili inclinati a simulare la psicologia del testo, e a suggerire la metafora drammaturgica. Scene ricche di atmosfere suggestive e di tradizioni.