Gruppo ’63

Del Gruppo ’63, tra gli altri, fecero parte: Nanni Balestrini, Luciano Anceschi, Renato Barilli, Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Gillo Dorfles e Marina Mizzau, promosse la produzione di forme espressive avanzate rispetto a quelle tradizionali (con smembramenti linguistici, sarcastici collages, procedimenti asintattici, frammentazione del senso, sparizione del soggetto lirico tradizionale); organizzò convegni con letture pubbliche; si sperimentò con esempi di poesia visiva, elettronica e virtuale già in parte espressa, tra l’altro, nell’antologia poetica I novissimi (1961), mentre l’elaborazione teorica di questi contenuti avveniva principalmente tra le pagine della rivista Il Verri . In questo clima si mosse il Teatro Gruppo ’63 portavoce di un teatro di parola, un teatro scritto, in cui, mediante il lavoro sulla sostanza acustica, veniva privilegiato il significante. I pezzi teatrali del gruppo erano, infatti, scritti in prevalenza da poeti che raramente si erano già cimentati con lo specifico teatrale.

Il Gruppo ’63, facendo proprie le caratteristiche tipiche delle avanguardie, modernizzazione e di scardinamento-azzeramento dei presupposti teorici tradizionali, trasse profonde suggestioni dalla fenomenologia, dallo strutturalismo critico-linguistico, dalla psicanalisi. In ciò sta la ragione del severo mentalismo del Teatro Gruppo ’63. Un teatro caratterizzato da una serie di apporti eteronomi, sollecitato dalla nuova musica (Luciano Berio, Henri Pousseur, Karlheinz Stockhausen) e dalla pittura (New Dada, Nouveau Réalisme e Ready-Made), ma dove la parola aveva sempre la meglio. Una parola disgregata, degradata, sempre in bilico tra il registro del banale e quello ieratico della pronuncia fenomenologica; la parola di un testo a disposizione, un testo partecipe della koinè a cui la scrittura scenica lo avrebbe portato. Tra gli allestimenti è da ricordare lo spettacolo Teatro Gruppo 63 (1963), articolato in tre parti, di cui la prima, con la regia di Luigi Gozzi, presentava: Qualcosa di grave di Luigi Malerba, La prosopopea di Francesco Leonetti, Iperipotesi di Giorgio Manganelli, Quartetto su un motivo padovano di Germano Lombardi; la seconda parte, con la regia di Ken Dewey, presentava: Serata in famiglia di Giordano Falzoni, Lo scivolo di Michele Perriera, Lezione di fisica di Elio Pagliarani, Povera Juliet di Alfredo Giuliani e la terza parte infine, ancora con la regia di Luigi Gozzi, presentava: Imitazione di Nanni Balestrini, Mister Corallo XIII di Alberto Gozzi e K di Edoardo Sanguineti; mentre un allestimento del 1964, per la regia di Piero Panza, comprendeva Traumdeutung di Edoardo Sanguineti e Povera Juliet di Alfredo Giuliani.

Bolchi

Dopo aver recitato nei Guf di Trieste, Sandro Bolchi si trasferisce a Bologna dove fonda, nel 1950, assieme a un gruppo di amici (Lamberto Sechi, Vittorio Vecchi, Luciano Damiani, Giuseppe Pardieri e Giorgio Vecchietti), uno dei primi Stabili italiani: La Soffitta. Nel 1952 per difficoltà finanziarie il teatro viene chiuso, ma Sandro Bolchi continua nell’attività teatrale riscuotendo interesse con la messa in scena de L’imperatore Jones di O’Neill, protagonista Memo Benassi e de L’avaro di Molière. Il dramma di Ugo Betti Frana allo Scalo Nord segna nel 1956 il suo esordio come regista per la televisione. Successivamente ha firmato, tra gli altri lavori per il piccolo schermo, Il mulino del Po (1963), I promessi sposi (1967), I fratelli Karamazov (1970), Il crogiuolo (1971), I demoni (1972), Anna Karenina (1974).

rito e teatro

Il rapporto tra rito e teatro muta continuamente nella storia della cultura. Ciò in ragione delle motivazioni profonde con cui è vissuta l’esperienza religiosa e del modo con cui essa si atteggia nel mondo. Si è soliti contrapporre il sacro al profano; ma questa distinzione, più che un dato originario, si instaura in prosieguo di tempo all’interno di coordinate storico-culturali precise, quando l’affermarsi di una visione laica, sospinge sullo sfondo quell’orizzonte di miti e riti entro cui si articola primitivamente la dimensione del teatro. L’autonomia del teatro dal rito è una conquista progressiva, perché, in origine rito e teatro si danno come modalità diverse di una medesima esperienza, così che il plesso mitico-rituale si configura attraverso forme più o meno caratterizzate in senso teatrale. In alcuni momenti della storia della cultura, tra rito e teatro non c’è soluzione di continuità e le forme drammatiche si generano entro la matrice rituale, prima di giungere alla matura autocoscienza che l’azione teatrale si radica in un ordine proprio. Né è detto che questa autonomia garantisca la conquista di una profondità antropologica e di un’intensità poetica che sono un momento costitutivo del teatro.

Nello sviluppo dell’esperienza religiosa, magari a partire dall’approccio sacro-magico alla realtà, ci sono gesti, forme, esperienze che si connotano in senso specificatamente teatrale, fino a che la sfera del dramma si configura via via come una sfera autonoma. Ma l’autonomia del teatro dal rito è vexata quaestio: in origine, dicevamo, il teatro è tutto interno al rito, vi si radica come nell’essenza sua propria, gli conferisce significato e coerenza, lo rende riconoscibile e pregnante all’interno del gruppo anche come sistema di comunicazione. In un orizzonte fortemente caratterizzato in senso religioso, il teatro è, molto spesso, il modo di essere del rito, il luogo dove la verità del mito si fa riconoscibile anche nella corporeità del celebrante. Il rito infatti rende concreti e carichi di senso i rapporti tra la comunità e la divinità, dando luogo alla manifestazione sensibile della divinità. È nel rito infatti che la divinità si fa presente, così che il sacerdote diventa ierofante, la figura in cui si incarna il dio vivente della scena. L’attore è, in questa aurora del teatro, sacerdote così come il sacerdote diventa l’attore che mima l’azione del dio, mediando tra il trascendente e l’orizzonte mondano. Il mito in effetti non rimane chiuso nelle trame del pensiero astratto e discorsivo, ma si articola piuttosto secondo un sistema coerente e concreto di immagini. È in questo modo, teatrale appunto, che esso irrompe su quella scena, dove il mito viene declinato in forme diverse: può diventare racconto modulato attraverso le intonazioni e i gesti concreti della comunicazione orale.

1) L’oralità è un primo modo di porsi in modo teatrale: la narrazione si svolge attraverso i ritmi, la voce, i gesti, la corporeità di chi racconta, così che la parola si fa segno vivente attraverso l’umanità di chi la dice. Inoltre il rito si fa dramma quando l’azione si articola secondo un sistema complesso di segni e di eventi carichi di significati esemplari, non solo raccontati ma agiti. Inoltre il rito si fa figura o illustrazione più ampia quando si dispiega attraverso la rappresentazione iconica offerta alla devozione dei fedeli. E infine il rito diventa gioco, quando si apre al mondo del significato trasformando energie e attitudini del gruppo che si esprime nei modi del torneo, del corteo, delle processioni, della marcia, delle figurazioni agonistiche, devozionali e così via. Il sistema mitico-rituale da una parte e il sistema teatrale operano, all’origine, in modo unitario, attraverso una coalescenza di elementi variamente riconoscibili. A seconda della intenzionalità che caratterizza i membri del gruppo, il processo rituale si svolge in forme drammatiche che nel prosieguo dell’esperienza si distinguono progressivamente fino a separarsi: unità, distinzione, separazione, contraddistinguono non solo le diverse fasi ma anche le due opposte polarità del rito e del teatro fino al momento in cui essi abiteranno definitivamente in luoghi e tempi distinti.

2) La linea di sviluppo che porta l’esperienza del teatro a staccarsi progressivamente dal rito è caratterizzata da un indebolimento delle ragioni del sacro e da una spinta centrifuga che porta il complesso dell’azione verso esiti sempre più spettacolari, tanto più evidenti quanto più viene meno la carica religiosa originaria. C’è una dislocazione progressiva di senso, che promuove atteggiamenti e intenzioni diverse, facendo curvare le forme e le ragioni del rito verso il teatro: quanto più si allontana la presenza del dio, tanto più l’azione si sposta nel mondo degli eroi, dei semidei, e poi degli uomini. La maschera sacra che in origine è parvenza del dio, forma manifesta del suo apparire nel mondo, diventa poi ciò che occulta il volto dell’uomo e dell’attore, entro un gioco di identificazioni e simulazioni tanto lontano dal senso originario. In certa misura (ma nelle culture primitive e orientali non sempre le cose procedono in questo modo), l’avvento del teatro coincide col declino del rito o di certe sue forme. In definitiva il plesso mitico-rituale da una parte e il teatro dall’altra non si comprendono se si prescinde dall’orizzonte storico-culturale entro cui si definiscono i comportamenti collettivi. Importa allora notare che rito e teatro si generano all’interno delle strutture di festa, punto focale attraverso cui si esprime la coscienza collettiva.

La festa, come nella relazione tra sacro e profano, non nasce dalla contrapposizione col quotidiano: in un sistema calendariale che esprima realmente il senso collettivo, la festa è il momento in cui appare con la pienezza dei suoi significati profondi il dispiegarsi del tempo. Nel tempo ciclico come nel tempo lineare, la festa introduce una scansione del tempo, che dà coerenza e sviluppo all’andamento delle vicende naturali e delle vicende umane. Grande festa o festa minore, festa stagionale o annuale, festa degli dei, degli eroi o degli uomini, celebrazione di gesta mitiche o di avventure storiche, questo tempo eccezionale apre non solo una discontinuità nel fluire del tempo, ma rende visibile e concreto il senso dei passaggi critici nel tempo vissuto da una comunità. Nelle feste arcaiche lo svolgimento degli eventi rituali, con le diverse fasi dell’attesa, della vigilia, della celebrazione e della sedimentazione successiva che proietta nella storia profana tutta l’esemplarità delle storie mitiche, consente al gruppo di sperimentare un arco straordinario di possibilità che va dai momenti rituali, sacro-magici o religiosi, ai momenti in cui il teatro emerge come momento fondante della comunità e in cui si riplasmano i rapporti tra la realtà e l’immaginario collettivo.

Nell’aura della festa in cui, come dice Kerényi, gli uomini passano dalla parte degli dei, accanto alle forme rituali si sviluppa via via una costellazione di forme teatrali e parateatrali, cui viene affidato il compito di riaffermare l’unità del gruppo attorno a un sistema di valori profondamente condiviso. Rito e teatro, una volta distinti, celebrano in modo diverso la stessa trama unitaria di valori significativi per la comunità: allora la tradizione soccorre offrendo il retaggio di gesti conservati dalla memoria per rafforzare la coscienza unitaria della società e aprirla a una vivida e concreta sperimentazione del proprio futuro e della propria capacità progettuale. Per questo la festa non è solo occasione estrinseca di incontri: essa è restituzione del passato storico e metastorico e insieme proiezione verso il futuro. In tale prospettiva il teatro diventa scandaglio doloroso della condizione umana, ma anche coscienza critica sulle condizioni del mondo così che nell’autentica tensione verso il futuro esso orienta le forme della drammaturgia, dando contenuti riconoscibili alla speranza del gruppo.

3) Quando si spegne la dialettica tra sacro e profano, il sistema della festa si impregna di altre ragioni. Il mito, il racconto, l’azione non riguardano più la sfera della divinità ma quella degli uomini: uomini simili a dei, come nella festa rinascimentale e barocca che propone alla collettività le gesta del Principe. È questo che si fa garante dei nuovi rapporti tra la terra e il cielo, incarnando l’essenza dello Stato Assoluto e le ragioni spirituali e politiche del potere che chiede di essere celebrato dal gruppo attraverso un sistema coerente ed estremamente funzionale di gerarchie e di valori. Nella semantica collettiva festa e teatro rendono visibile il fondamento e il senso di un nuovo ordine: paradossalmente si potrebbe parlare non di un’eclissi del sacro, ma di una sua ricostituzione entro un orizzonte diverso, in cui festa e teatro sono manifestazione del nuovo rapporto tra sacro e profano, tra rito e dramma, tra potere politico e potere religioso.

Nella vicenda collettiva che contraddistingue la nascita e lo sviluppo degli stati moderni c’è un complesso ordinamento cerimoniale che rende visibili e carichi di un senso esemplare per tutti i rapporti tra il Principe, la corte e la società: i riti sono ora riti mondani e laici, mentre il teatro si avventura nella sfera dei nuovi eroi, riprendendo lo stesso patrimonio mitografico ereditato dalla antichità classica. Nei giacimenti della mitologia classica c’è materia sufficiente per collegare le immagini e i racconti dell’antichità con le gesta dei personaggi che discendono nel mondo da un olimpo profondamente rinnovato: a suo modo il teatro, e lo spettacolo in genere, danno forma e sostanza alle nuove ritualità collettive. Essi celebrano non più le figure proposte dal cristianesimo ma le figure dell’antico grande racconto che parla degli dei e degli uomini. Cambia, all’interno di queste, il senso delle ripetizioni e il modo di far presente l’incontro tra il mondano e ciò che appartiene a un altro orizzonte. Volta a volta il teatro diventa ripetizione, consacrazione, celebrazione, illustrazione delle avventure delle élite nobiliari, che i mitografi di corte propongono attraverso un complesso sistema di feste, di forme teatrali e di eventi spettacolari. Si instaura così un’organizzazione calendariale diversa, che dà senso alla celebrazione di un potere nuovo, esautorando progressivamente la vecchia eredità religiosa per aprirsi alle nuove domande della società e delle classi dominanti.

Il sistema religioso, impoverito delle sue ragioni più profonde, cerca una riautenticazione nell’intimità della coscienza, rinnova le sue liturgie distanziandosi definitivamente da drammaturgie sempre più spettacolari ed estrinseche o arretra sullo sfondo delle tradizioni popolari, che costituiranno la trama ininterrotta dei significati soggiacenti e rimossi dalle culture elitarie come espressione di un dominio folklorico diversamente fondato, perché estraneo alla visione immanentistica dei nuovi riti. Sono state già approfondite dall’antropologia la natura e le forme del processo rituale che interessa più da vicino il teatro: la vita del gruppo passa attraverso fasi di rotture dell’ordine e della coesione sociale, sosta in situazioni di marginalità e di separazione entro un tempo e uno spazio che consentano di allentare il carattere costrittivo della norma. Inquesto caso sorgono nella società occasioni e forme insospettate di libertà o di licenza, per riportarsi entro un nuovo ordine, dopo aver attraversato fasi caotiche e condizioni ‘statu nascenti’ in cui la creatività si attiva lungo linee creative, protette dalla rigorosa scansione delle strutture rituali. In questo percorso si rigenerano le stesse potenzialità del teatro e le forme che esso può via via assumere nel processo di trasformazione o conferma dell’immaginario collettivo.

4) Attraverso tutta la vicenda dell’età moderna questa dicotomia tra i due livelli del rito e del teatro, della sfera popolare e della sfera propria delle classi dominanti, si accentua, si aprono nuovi conflitti, si determinano silenzi, rimozioni e distanze in cui si riverberano i propri valori, nel misconoscimento dei valori di cui sono portatori gli altri e i diversi. L’ultima grande manifestazione del rapporto tra rito e teatro si ha nella Rivoluzione Francese. Essa promuove nuove feste attraverso l’iniziativa di una classe dirigente che sorveglia e regola la riformulazione dei codici espressivi e delle grandi unità di significato. Si attua così una liquidazione progressiva, ma non per questo meno evidente e inesorabile del sistema del potere che accompagna la crisi dello Stato Assoluto. In qualche modo finisce l’ultima declinazione del sacro nel rapporto tra festa, rito e teatro. La Rivoluzione Francese riplasma a suo modo l’esperienza del sacro, i cambiamenti profondi che si producono negli assetti di potere, ponendo in crisi l’origine divina del potere e facendo emergere la sovranità popolare. Essa sembra redistribuire la sacralità del potere nel mondo ma allo stesso tempo lo dissolve. Sostituisce nuovi simboli, nuovi valori e miti e li dispone entro una trama rituale di insospettata evidenza nella società. La nuova borghesia ripercorre a suo modo i tracciati del sacro, dei riti e del teatro per piegarli alle esigenze di una nuova rappresentazione del mondo, di teurgie e liturgie profondamente e talvolta irosamente rinnovate. Con le feste della Rivoluzione Francese finisce di fatto quel sistema festivo entro cui si era fondato il teatro. Da questo momento in avanti la dimensione del teatro come rito collettivo piega verso un ordine tutto mondano e laico, feriale e commerciale. Perché ciò che fa la differenza, nella nuova ritualità borghese, rispetto a quella antica, è la definitiva obliterazione del senso religioso, come espressione del sacro da una parte e del legame collettivo dall’altra.

Il teatro si dà entro luoghi specializzati, entro architetture in cui si offre ogni soccorso tecnico all’invenzione della fantasia, alle spinte di una spettacolarità sempre più estroversa. Ma il teatro non si svolge più in un tempo specializzato come la festa, capace di esprimere le cadenze della natura e della storia e il grande racconto mitico per il mondo. Il teatro si fa piccola occasione entro un gioco di rimandi, di convenzioni e occasioni che simulano in modo del tutto estrinseco la trama di significati proposti dalla ontologia religiosa. Per un teatro che fonda le sue ragioni e il suo modo di essere in un assetto organizzativo legato al profitto, alla razionalità della logica industriale o commerciale, la tensione del rito scade, per anguste motivazioni di ordine immediato, a occasione di divertimento, a celebrazione di convenienze sociali, in cui si coagulano ragioni culturali, di costume, di sensibilità tanto più modeste. Non si impoveriscono solo le istanze religiose e quelle etico politiche, ma anche quelle estetiche, come se un teatro, incapace di sporgere sugli abissi del sacro e di rispecchiarsi attraverso il rito, fosse ontologicamente incapace di proporre alla coscienza collettiva valori e significati adeguati. La spinta evasiva ed eversiva esercitata dai grandi apparati mediatici sul sistema di tradizioni e di valori, opera allora un processo di espropriazione delle libertà collettive. Le nuove forme di comunicazione non aprono orizzonti alla libertà e dignità dell’uomo, nella misura in cui l’espansione della realtà virtuale determina una crisi della presenza, indebolisce il senso della responsabilità e della partecipazione della persona, così che lo stesso destino del teatro ne risulta esautorato.

La scena si fa, nei nuovi contesti, inesorabilmente autoreferenziale e chiusa nella frammentazione dei piccoli gruppi, con una radicale denegazione di quelle istanze del legame che sono il tratto non solo etimologicamente costitutivo delle religioni. E tuttavia nella dissoluzione delle forme storiche del teatro, nell’incalzare delle avanguardie e delle nuove tecnologie, nel sorgere e propagarsi di microculture fuori dei teatri e spesso fuori dal teatro, sembra delinearsi la domanda non solo di una teatralità diffusa, ambigua ed estremamente articolata, ma anche di ritualità diverse. Questa domanda si diffonde all’interno di spazi anomali, in laboratori o in luoghi spesso atipici, esterni o contrari alle convenzioni ereditate. Attraverso essa si intravede una mutazione antropologica che interpella il teatro e lo costringe ad esplorare nuove forme della rappresentazione. È attraverso queste nuove forme che si cerca di dare concretudine sensibile alle dolorose vicissitudini del singolo e del gruppo, alle urgenti necessità di nuove relazioni facendo emergere dalla crisi della scena un teatro capace di rispondere ai nuovi interrogativi dell’uomo.

Teatro Libero

Fondato nel 1968 da Benno Mazzone (ancora attuale direttore artistico), docente dal 1992 di Storia del teatro e dello spettacolo presso l’Università del capoluogo siciliano. Nato sulle ceneri dell’esperienza del Centro universitario teatrale, Teatro dei 172, di cui lo stesso Mazzone è stato direttore dal 1965 al ’68, si è ben presto trasformato in compagnia di ricerca. La prima stagione del Teatro Libero si inaugura con il provocatorio Insulti al pubblico di Peter Handke (1969), spettacolo firmato da B. Mazzone che sin dagli inizi dell’attività esplicitò l’intento dissacratorio, nei confronti del teatro convenzionale, di rompere gli schemi del teatro borghese e di cancellare il confine tra palcoscenico e platea.

La prima sede del teatro fu una soffitta di due stanze in via Orsini, laboratorio del primo spettacolo che di lì a poco sarebbe stato presentato nei vecchi locali del Goethe Institut di via Libertà. Un anno dopo, come diretta espressione del Teatro Libero, nasce il Festival Incontroazione (1970), rassegna annuale (fino a oggi) e vetrina del teatro di ricerca contemporaneo. Nel 1977 il Teatro Libero cessò di essere una struttura di studenti-attori e si diede un assetto professionale a tutti gli effetti, mettendo in scena Itinerario numero 15, uno spettacolo che utilizzava tutti i punti dello spazio, dall’ingresso alla cucina dell’ex mensa della Casa dello studente messa a disposizione dall’università palermitana. La maggior parte delle produzioni del Teatro Libero reca la firma di B. Mazzone. Tra le più significative si ricordano Pretesto per una esposizione (1970), Ubu re di A. Jarry (1974), Nozze piccolo borghesi di Brecht (1975), Donne in amore di Pam Gems (1991), Le notti bianche da Dostoevskij di Ludwik Flaszen (1991), El salvator di Rafael Lima (1996). L’ultima produzione del 1998 che ha varato la trentesima stagione è Turbinio d’acciaio con la regia di Mazzone.

gestuale

Se per gesto intendiamo un’azione che sottolinea i significati del testo al quale fare riferimento, magari anche solo una postura verosimile o mimica dell’attore e del performer, il teatro gestuale, invece, fa riferimento a un linguaggio fisico che assume una precisa funzione comunicativa indipendente dalla parola, perché rivolta a esprimere, attraverso un codice di segni cinetici e iconografici, le immaterialità e le evocazioni simboliche dello spettacolo. E storicamente questi segni hanno dato il senso dei valori e delle tensioni espresse dalla società, le cui regole da infrangere hanno riguardato sia l’estetica che l’etica dei comportamenti (si pensi al `naturalismo’ e al `libero movimento’ del Living Theatre), e intorno ai quali il teatro ha applicato le sue modalità di intervento, almeno a partire dagli anni ’50. La ricerca in questa direzione raccoglie i contributi di grandi maestri della scena del ‘900: dalle geometrie coreografiche di Oskar Schlemmer, al corpo di Decroux, fino a Barrault e Lecoq come soluzioni che recuperano il teatro; tenendo conto di quelle azioni concertate del teatro futurista, e prima ancora le azioni mute dei saltimbanchi girovaghi del ‘500, corpo allusivo e musicale rielaborato nel teatro contemporaneo da Fo. Nel novero del teatro gestuale, ma con sfumature implicite alla autodisciplina dell’attore, si ricollegano i percorsi di Grotowski e di Barba. Dunque il teatro gestuale irrompe con la sua portata irriverente negli anni in cui l’arte informale raccoglie intorno a sé quelle diverse tendenze che vanno a indagare le «possibilità espressive ed emozionali della materia», esaltandone le ambiguità e l’affastellamento della percezione, in questo modo cercando di raggiungere «la misura della propria finitezza» attraverso l’interpretazione del non riconoscibile nell’immediato.

Se è l’arte a influenzare il teatro o viceversa, e come questa influenza riassuma, all’interno di un’esperienza scenica, tutta una serie di pulsioni vitalistiche, da una parte, e politiche, dall’altra, è un dato ormai assodato: sono in effetti i singoli accadimenti, ognuno rappresentanti del proprio emisfero di umanità e di pedagogie improvvisate, a resocontare nei primi anni questa esplosione partecipativa di pubblico, pittori, poeti e attori, lì a condividere strategie comuni. Strategie che rispondono alle istanze dell’arte di farsi veicolo di un immaginario collettivo, senza cadere nella trappola della retorica o dell’impegno realizzato con soluzioni più o meno istituzionalizzate. Non che il teatro (e l’arte) si avventuri in clandestinità rivoluzionarie passando per una violenza esplicita, di certo però si infrangono regole sino ad allora assolute. Al gesto come attitudine liberatoria fanno riferimento gli artisti Pollock, Fautrier e De Kooning, la stessa indeterminatezza compositiva che il musicista compositore John Cage propone nei modi di una creazione interdisciplinare, spesso casuale e in spazi teatrali che non prevedono divisioni tra pubblico e il luogo dell’azione. In quanto alla danza, è M. Cunningham (collaboratore dello stesso Cage) ad avvertire nella gestualità pura, nel segno proprio della danza, un linguaggio che è già un significato di per sé. Il Living offre la catarsi per mezzo di una fisicità vietata ai minori, l’Open Theatre di Joseph Chaikin, parte dalle `azioni fisiche’ di Stanislavskij per misurare nell’improvvisazione collettiva degli attori la sua ‘reazione fisica’.

Bolzano

Inizialmente il Carrozzone, trasformatosi in teatro stabile, mantiene il proprio nome, quasi a voler sottolineare l’intenzione di non voler rinunciare alla propria poetica teatrale, nonostante la svolta segnata dalla sedentarietà. Gli anni che vanno dal 1950 al 1966, sono caratterizzati dalla direzione artistica del Teatro Stabile di Bolzano dello stesso Piccoli, che cerca di mantenersi fedele a una linea produttiva non commerciale, capace di coinvolgere il pubblico attraverso la rivisitazione dei classici e dei grandi autori stranieri e italiani ( Miles gloriosus di Plauto, 1950-51; Medea di Euripide, 1950-51; Zio Vanja di Cechov, Il ballo dei ladri di Anouilh 1952-53; La signora dalle camelie di A. Dumas, 1955-56; L’annuncio a Maria di Claudel 1959-60; Le mani sporche di Sartre, 1962-63, fra gli altri, oltre a un’ampia rivisitazione della produzione drammatica di Goldoni e di Pirandello). Un periodo di grande precarietà, testimoniato anche dall’assenza di materiale documentario relativo alle produzioni e alle diverse attività del teatro. Gli succedono alla guida del teatro due attori importanti quali Mario Ricci (1966-67) e Renzo Giovampietro (1967-68), e l’attore e regista genovese Pietro Privitera (1968-69): sono anni di grande instabilità istituzionale, che si riflettono sensibilmente nelle linee progettuali delle provvisorie direzioni artistiche. Con Scaparro (1969-75) si defininsce progressivamente una nuova politica culturale dello stabile. Una nuova sala si affianca al Teatro Comunale di Gries (sede provvisoria del teatro sin dalla sua fondazione) e l’attività produttiva viene rilanciata (Cosa dirà la gente di Feydeau , regia di M. Scaccia, 1969-70; La Lena di Ariosto, regia di Scaparro, 1971-72; Amleto , 1972-73, fra gli altri). Alessandro Fersen guida il teatro alle soglie degli anni ’80, tentando di travasare nell’istiuzione pubblica la sperimentazione espressiva del suo laboratorio romano. Difficoltà finanziarie tuttavia, compromettono l’esito del tentativo (fra le produzioni di questi anni: Leviathan , 1975-76; Brecht 39 , 1975-76; Leonce e Lena , 1977-78). Sfiorata la chiusura nel 1979-80, lo Stabile sopravvive e sotto la direzione artistica di Marco Bernardi (1980), amplia notevolmente gli orizzonti delle sue produzioni: da un rinnovato impegno nell’accostamento dei classici, soprattutto attraverso Shakespeare (Romeo e Giulietta , 1980-81; Pene d’amor perdute, 1982-83; Il Sogno di una notte di mezza estate, 1983-84), a un ciclo di produzioni sul Settecento (L’impresario delle Smirne , 1984-85; Arlecchino educato dall’amore ; 1987-88; Il barbiere di Siviglia di Beaumarchais, 1988-89), al confronto diretto fra i linguaggi del cinema e del teatro (Qualcuno volò sul nido del cuculo , da K. Kesey, 1985-86; Anni di piombo di M. von Trotta, 1988-89), all’attenzione per l’attualità di Ruzante (I dialoghi , 1991), oltre che alla rivisitazione di Thomas Bernhard.

Schaubühne

Schaubühne è un teatro privato fondato nel 1962 a Berlino ovest, dapprima scena studentesca, noto per l’impegno politico e sociale delle sue produzioni. Sin dall’inizio contribuisce ad accrescere l’interesse per Brecht con la messa in scena di opere poco rappresentate come Un uomo è un uomo (1962), con la regia di Hagen Müeller-Stahl, e delle opere di P. Weiss del quale viene proposto in prima assoluta Cantata di un fantoccio Lusitano (1967). Si instaurano rapporti di lavoro con personalità emergenti della cultura teatrale della RDT, come il drammaturgo H. Lange, e dell’Europa orientale, come il regista polacco K. Swinarski.

Nel 1970 si forma una compagnia stabile in base ad accordi tra J. Schitthelm, K. Weiffenbach e il regista P. Stein, con sovvenzioni del senato di Berlino. Ne fanno parte attori che già in passato avevano lavorato con Stein quali B. Ganz, E. Clever e J. Lampe. Il nuovo programma della Schaubühne è ardito e contraddittorio: la messa in scena di opere di chiaro impegno politico (La madre di Brecht) contrasta con quella di altre, raffinate e intellettualistiche (Cavalcata sul lago di Costanza di P. Handke). Tuttavia, contrasti di questo tipo, che caratterizzano la S. anche in seguito, fungono da stimolo per il lavoro di personalità tra loro alquanto diverse come, i registi Stein, Grüber e Bondy; del drammaturgo D. Sturm e B. Strauss (per alcuni suoi particolari progetti).

Nel corso degli anni ’70 il lavoro trae ulteriore impulso da ricerche e progetti di gruppo sul teatro rivolto ai bambini, sul teatro shakespeariano ed elisabettiano e anche sulla tragedia greca (Le baccanti, messo in scena da Grüber nel 1974 e l’Orestea diretta da Stein nel 1980). Inoltre, a partire dal 1980, vengono organizzate anche rappresentazioni dirette a un pubblico particolare di lavoratori nonché di immigrati (turchi, per esempio). Alla fine degli anni ’70, grazie all’intervento del senato di Berlino, la S. ottiene una nuova sede, più grande e meglio attrezzata di quella, nel quartiere di Kreuzberg dove aveva iniziato l’attività: un grande cinema costruito da Mendelsohn a Lehniner Platz, appositamente ristrutturato. Da allora vi hanno operato ancora Stein, Grüber, Bondy, J. Gosch e, dal 1991, la regista A. Breth il cui lavoro viene seguito dalla critica con particolare interesse.

Citizens’ Theatre

La Citizens’ Theatre si costituisce a Glasgow nel 1943 ad opera, tra gli altri, dell’autore drammatico Paul Vincent Carroll e di James Bridie, sostenitore dello sviluppo teatrale in Scozia. Collocata dapprima nella piccola sede dell’Athenaeum Theatre, dopo il 1945 si trasferisce definitivamente presso il Royal Princess’s Theatre. Promotrice di un teatro di repertorio, è stata ideata per la messa in scena dei migliori testi europei e britannici e per la promozione della nuova drammaturgia scozzese. Dal 1970 a oggi la direzione di Giles Havergal ha condotto la compagnia a un riconoscimento internazionale, attraverso una politica artistica dai toni più radicali tesi a stimolare produzioni – anche di testi classici – caratterizzate da uno stile innovativo e sperimentale, che faccia di ogni performance un’esperienza a sé stante.

Globe Theatre

Il Globe Theatre è il teatro più famoso dei tempi di Shakespeare ha riaperto i battenti a Londra negli anni ’90. L’idea di ricostruire il teatro è dell’attore americano S. Wanamaker (morto nel 1993, prima della conclusione dei lavori) e nasce in occasione di un viaggio a Londra nel 1949. A partire dalle scarse memorie che ne restavano (nelle descrizioni e in qualche veduta panoramica) nel 1997 il teatro shakespeariano del quartiere di Southwark viene ricostruito esattamente uguale al celebre Globe Theatre: pianta rotonda, struttura portante in legno di quercia, sabbia e calce, tetto di canne e paglia; l’unica differenza è che il nuovo teatro londinese può ospitare fino a 1500 spettatori, la metà di quelli che accoglieva un tempo il Globe Theatre. Il vero debutto teatrale è previsto nel ’98, a quattrocento anni esatti dalla sua costruzione, anche se l’inaugurazione è avvenuta nel 1996 con I due gentiluomini di Verona , e altri spettacoli sono andati in scena durante il 1997. Secondo il progetto del direttore Mark Rylance il nuovo teatro dovrebbe ricreare il clima festoso originario in cui venivano allestite le opere di Shakespeare e vorrebbe rappresentare una fonte di ispirazione per i nuovi autori.

intimismo

Esistono in teatro, come in altre espressioni artistiche, delle formule inventate per sintetizzare una tendenza, un gruppo di autori, un’atmosfera. Spesso svaniscono come bolle di sapone, o perché non sempre rispecchiano l’esigenza per cui sono nate, o perché si esauriscono in breve tempo. Intimismo è un termine che non ha assunto un vero e proprio significato critico, tanto da poter essere esteso a drammaturgie diverse. C’è Intimismo in Becque come nel nostro Giacosa, in Maeterlinck come in Cechov, ma poi si scopre che il termine è improprio e che l’intimità di questo teatro ha valenze molto più ampie. Allora, forse, occorre indagare una drammaturgia minore, meno attenta ai richiami del simbolismo, fatta più di atmosfere, non molto impegnative, e che potrebbe rimandare ad autori come Fausto Maria Martini, Sabatino Lopez, Renato Simoni, Enrico Annibale Butti, Roberto Bracco (quello del Piccolo santo), Sem Benelli (quello di Tignola), Cesare Giulio Viola, Dario Niccodemi, Stefano Landi. C’è, nel teatro di questi autori, una tendenza alla ricerca del clima crepuscolare, del silenzio, degli affetti sempre evocati in superficie, del raccoglimento, della ricerca di una verità non problematicizzata, tutta intima, attenta all’analisi e all’introspezione. Ciò che caratterizza particolarmente il teatro intimista è un linguaggio dimesso, ai limiti dell’inespresso, che rispecchia, a suo modo, un piccolo mondo borghese, attraversato da crisi non profonde, da improvvise e strane stanchezze o, ancora, una realtà di provincia insoddisfatta e che si accontenta di piccole evasioni.