Grotowski

Jerzy Grotowski è uno dei grandi riformatori del teatro europeo, l’ultimo grande teorico e regista di un teatro concepito come occasione suprema di verità dell’umano. Studiò recitazione e regia alla scuola superiore d’arte teatrale di Cracovia e si perfezionò quindi a Mosca e in Cina. Tornato in patria diresse fra il 1957 e il 1959 alcuni spettacoli (Le sedie di Jonesco, Zio Vanja di Cechov) con cui si fece notare. L’avventura teatrale autonoma di Grotowski  inizia nel 1959, quando gli viene affidato un teatro nella città secondaria di Opole, così piccolo che prendeva il nome dalle tredici file di poltrone che lo costituivano (Teatr 13 Rezdow). Grotowski  mise in piedi un gruppo di collaboratori giovani come lui (fra cui il più importante è il drammaturgo Ludwik Flaszen; dopo qualche anno arriverà a fargli da braccio destro uno studente italiano residente in Norvegia, E. Barba) e iniziò un lavoro molto approfondito e sistematico di sperimentazione linguistica e pedagogica, con l’obiettivo dichiarato di cercare un teatro capace di resistere alla concorrenza del cinema e della televisione. Fra numerosi spettacoli messi in scena negli anni di Opole, si ricordano Orfeo di Cocteau, Caino di Byron, Faust di Marlowe, Mistero buffo di Majakovskij, Sakuntala di Kalidasa, Akropolis di Wyspiansky.

Tutti questi testi subivano un profondo processo di elaborazione drammaturgica, che spesso puntava a rinnovarne il senso attraverso un radicale spostamento di ambientazione e di clima psicologico, e insieme una sperimentazione, allora del tutto inedita, dello spazio scenico. Così Akropolis, testo fondamentale del romanticismo nazionale polacco, invece che nel palazzo reale di Cracovia, si svolgeva in un lager nazista, dove gli spettatori apparivano imprigionati insieme agli attori. Faust, invece, era rappresentato durante una sorta di ultima cena, di nuovo condivisa fra interpreti e spettatori. Il lavoro si concentrava però soprattutto sull’arte dell’attore: i suoi attori giunsero rapidamente alla pratica di un allenamento quotidiano sulla base di esercizi tecnici e creativi, ma soprattutto si sforzarono di superare limiti fisici e psicologici, per arrivare all’autentica `autopenetrazione’: lavoravano sulla voce, sul corpo, imparavano a trasformare le facce in maschere di carne, cercavano soprattutto un’estrema verità della presenza. «Per un anno», raccontava il suo attore più noto Riszard Cieslak, «ho lavorato come se potessi imparare a volare col mio corpo».

Nel frattempo il Grotowski  regista sconvolge tutte le regole: distrugge lo spazio separato dello spettacolo, elimina gli accessori artificiali come luci esterne e musiche registrate, mescola attori e spettatori, fabbrica spettacoli sorprendenti con materiali poverissimi, inventa aspri sarcasmi sui sacri testi della drammaturgia polacca. Da Opole il teatro si trasferisce nel 1965 a una città molto più importante come Wroclaw, ma sempre in uno spazio molto piccolo e sotterraneo, denominato programmaticamente Teatr Laboratorium. Incominciano ad arrivare qui dei visitatori europei, qualche spettacolo come Il principe costante e Apocalypsis cum figuris arriva in Occidente, suscitando enorme interesse. Un suo libro, Per un teatro povero compilato con E. Barba, diventa la bibbia della sperimentazione teatrale di tutto il mondo, dal Sudamerica al Giappone. Nel momento del trionfo internazionale, verso il 1967, G. fa una gesto imprevedibile: abbandona il teatro, almeno il tradizionale `teatro dello spettacolo’. Nel suo progetto di riscatto del teatro come `spazio dell’incontro’ non gli basta più nemmeno l’estremismo delle sue messinscene aspre e perfette. Vuole più verità, non può più accettare il principio della finzione che sta alla base di ogni spettacolo.

Guida gruppi che lavorano per settimane in stanzoni vuoti, senza copione e senza spettatori, cercando `azioni organiche’, oppure li porta in luoghi naturali a prendere coscienza del corpo e del mondo, delle sostanze naturali. Inventa la `drammaturgia dell’incontro’, il ‘parateatro’, che conosce a sua volta verso la fine degli anni ’70 un momento di forte interesse. Ma neanche queste cerimonie segrete e commoventi, che arrivano in Italia a una celebre Biennale di Venezia, gli bastano a lungo. Esse hanno per lui il difetto di limitarsi all’incontro interpersonale, e con ciò di restare alla superficie del nocciolo più importante della natura umana. Grotowski  esplora allora le culture più diverse, alla ricerca delle tradizioni che usano il corpo in movimento come strumento di rivelazione e di esperienza: i neri del vodoo, i messicani, le canzoni degli indiani bauli. Riporta queste esperienze fisiche `della solitudine’ in una serie di seminari che si chiamano `teatro delle sorgenti’, lentamente delinea una teoria del performer come colui che è in grado di canalizzare nel suo corpo ricordi ancestrali ed energie cosmiche, teorizza `l’arte come un veicolo’. Tutta questa esperienza ricchissima, accumulata nel corso degli anni ’80 e ’90, non resta privata, si diffonde attraverso incontri, seminari, scambi, conferenze, che sono organizzati per lo più a Pontedera, dove ha sede il suo laboratorio, grazie al generoso aiuto del Centro di sperimentazione teatrale.

Appare qualche suo saggio sulla nuova teoria del performer, un film che illustra il suo lavoro; e in qualche occasione isolata e molto protetta è possibile a pubblici selezionati vedere le cerimonie (piuttosto che spettacoli) in cui si esprime l’ultima fase del suo lavoro: eventi rituali costituiti di semplici azioni fisiche e di canti fortemente evocativi, che colpiscono con una profonda suggestione emotiva i loro `testimoni’ (non più spettatori). G. è sempre di più il maestro di generazioni di teatranti: un maestro segreto, in apparenza silenzioso, ma essenziale.

Rasmussen

Nel 1966, anno in cui l’Odin si trasferisce definitivamente da Oslo a Holstebro in Danimarca, Iben Nagel Rasmussen entra a far parte del gruppo di Eugenio Barba, diventandone ben presto una delle figure più rappresentative. La sua parabola artistica e il percorso di ricerca sullo statuto antropologico del teatro sono descritti, in forma di testimonianza biografica, in The Actor’s way. Degli spettacoli dell’Odin, ai quali ha preso parte, si ricordano: Kaspariana (1967), Min fars hus (1972), Come! And the day will be ours (1976), Anabasis (1979), Brecht’ashes (1980), Talabot (1988), Itsi bitsi (1991), Kaosmos (1993). Individualmente, ma sempre in sintonia con gli orientamenti fondamentali del gruppo di Holstebro, si impegna nella realizzazione di un progetto pedagogico volto alla condivisione e alla fusione di tradizioni ed esperienze teatrali eterogenee, con un gruppo di attori delle più diverse provenienze geografiche, e crea la performance The Bridge of Winds.

psicoanalisi e teatro

Psicoanalisi e teatro si riferisce a una linea di pensiero novecentesca che individua nella creazione di relazioni autentiche (tra sé e sé e tra sé e il mondo esterno) l’obiettivo comune a teatro e terapia. Il gioco si presta bene a quest’obiettivo. In Al di là del principio del piacere S. Freud riconosce nel `gioco del rocchetto’ un simbolico tentativo di elaborare l’angoscia del lutto: egli osserva un bimbo di diciotto mesi che lancia ripetutamente lontano un rocchetto legato a un filo per poi riavvicinarlo a sé. Il gioco simboleggia l’allontanamento della madre, motivo d’angoscia per il piccolo, e il suo riavvicinamento. La ripetuta esperienza ludica gli permette di passare da una posizione passiva a una posizione attiva, da spettatore ad attore di una scena giocata e rielaborata in prima persona. Per D.W. Winnicott, specializzato in psicoanalisi clinica infantile, il teatro è – così come il gioco per il bambino – uno `spazio transizionale’ (cioè di passaggio) tra desiderio e realtà, mentre la maschera e gli oggetti scenici fungono – così come i giocattoli per il bimbo – da `oggetti transizionali’, poiché consentono all’individuo di sperimentarsi nei diversi ruoli per poi `giocare’ quello a sé più confacente. E. Goffman, studioso delle istituzioni sociali soprattutto psichiatriche, paragona la vita quotidiana a una rappresentazione dove gli individui `recitano’ ruoli diversi in base a situazioni diverse, mossi dall’inconscio desiderio di essere appagati dall’applauso della società. V. Turner, antropologo teatrale, intravede nel `come se’ del gioco teatrale un potenziale elemento terapeutico, quando esso riesce a trasformarsi in `come è’.

Come nei riti di passaggio: l’individuo/attore, in comunione con una collettività partecipante/pubblico, fa esperienza di una diversa dimensione vitale, passando da una previa fase di normalità a una fase mediana di `liminalità’, periodo a-normativo dove la trasgressione diventa liceità (come nel Carnevale) per, infine, essere reintegrato all’interno della comunità, ora in un’ottica più adulta e matura. Per quanto riguarda più da vicino il teatro, cenni comuni a p. e t. sono già rintracciabili nella psicotecnica di Stanislavskij, training basato sull’incontro creativo tra sé (uomo/attore) e l’altro (personaggio), di cui bisogna vestire i panni pur sapendo rimanere se stessi. Invece J. Beck e J. Malina, fondatori del Living Theatre, riprendono in parte il teatro della crudeltà di Artaud, riconoscendo nella sua follia esibita (nonché realmente vissuta) una potenzialità terapeutica: la demolizione della crudeltà attraverso la sua rappresentazione, ossia l’esorcizzazione della violenza reale.

Il teatro socio-politico del Living interviene direttamente sulla realtà, trasformando l’intenzione in azione. ‘Fare teatro’ significa essere totalmente coinvolti in ciò che accade dentro e intorno a te. J. Grotowski, con il teatro povero, fonda il proprio metodo teatrale eliminando ogni sovrastruttura scenografica per andare alla scoperta del corpo in scena. L’attore è un `attore santo’ portatore di `luce spirituale’, che come un capro espiatorio assume su di sé le colpe e il male di tutti. La condivisione delle emozioni non passa però dalla psiche, ma dal corpo. Le prove diventano più importanti dello spettacolo, il processo vince sul prodotto: la nuova via sperimentale del Teatro Laboratorio è fondata. L’attore, se pronto alla disciplina e all’offerta di sé, può giungere all’autopenetrazione e allo “scarico dei complessi proprio come in un trattamento psicoanalitico”. E. Barba, già discepolo di Grotowski e poi fondatore dell’Odin Teatret, rifiuta la prospettiva psicoanalitica di Freud (il problema del soggetto è psicodinamico e intrapsichico, cioè sostanzialmente rimane dell’individuo) per avvicinarsi a una prospettiva psicosociale (il problema del soggetto è interpsichico: dev’essere partecipato dalla comunità, in quanto corresponsabile). Si diffonde la pratica del `terzo teatro’, fatto né per chi va a teatro né per chi lo rifiuta aprioristicamente, bensì per chi è ai margini, per chi vive per strada. E così il teatro di strada diventa un veicolo per rimettere in circolo le emozioni di chi viene allontanato nelle zone d’ombra che riecheggiano le zone più ambigue della nostra psiche, dove ribolle silenziosamente ciò che preferiamo negare. P. Brook, con lo spettacolo Marat/Sade di P. Weiss, apre una breccia sulla riflessione tra teatro e psichiatria. Si rappresenta l’assassinio di J.-P. Marat, ammazzato da un manipolo di malati mentali di una clinica francese, dove il marchese de Sade li farà costituire in compagnia teatrale. Il linguaggio e le immagini sono acri, ma a Brook preme un teatro immediato, vero, denso di chiaroscuri come la vita. Il teatro non può essere terapeutico se cela, ma se svela.

Dagli anni ’60, con la diffusione degli happening e dunque con l’integrazione tra attori e spettatori (da Boal chiamati `spettattori’), nasce l’animazione teatrale che, attraverso laboratori teatrali attenti al processo più che al prodotto, ben presto si insedia nelle zone del disagio: manicomi, carceri, centri per l’handicap Questo diviene il bacino d’utenza per animatori (psicologi, educatori ecc.) che, partendo da certi capisaldi della psicoanalisi, se ne discostano per avvicinarsi sempre più ai paradigmi teatrali, dove la dimensione dell’incontro e della relazione viene salutata come terapeutica di per sé. La legge Basaglia del 1978 consente l’apertura dei cancelli dei manicomi e il successivo sorgere delle artiterapie, laboratori di espressività per piccoli gruppi tesi a trasformare i pazienti in attori, realizzatori dei propri desideri. Il Velemir Teatro di Trieste, capitanato da un ex degente di manicomio, ne è un esempio.