Spinatelli

Luisa Spinatelli si è diplomata con T. Varisco in scenografia all’Accademia di belle arti di Brera a Milano dove attualmente insegna. Giovanissima debutta in teatro come scenografa con il balletto Francesca da Rimini di Cajkovskij per la coreografia di M. Pistoni (Scala 1965, scene). Nel corso della sua carriera si dedica alternativamente alla progettazione per il teatro di prosa, lirica e balletto. Proprio in quest’ultimo settore si specializza collaborando a importanti produzioni con coreografi di riconosciuta fama: Miskovitch (Fracci-Menegatti) per lo Schiaccianoci di Cajkovskij (Arena di Verona 1976, prima donna scenografo dopo sessant’anni di spettacoli all’Arena), R. Petit per La bella addormentata di Cajkovskij (Marsiglia 1989, costumi), Il Gattopardo (Marsiglia, Palermo, Milano, Teatro alla Scala 1994-95), Dix (Berlino, Deutsche Staatsoper 1996, costumi) e ancora A. Amodio, Spoerli per La fille mal gardeè di Hertel/Herold (Teatro alla Scala 1988).

Di particolare interesse la sua lunga collaborazione nelle ricostruzioni di balletti romantici con C. Fracci e B. Menegatti, con più di settanta produzioni tra cui ricordiamo Cristoforo Colombo di Donizetti (Scala 1992) e con Iancu, per il quale progetta l’allestimento scenico di Riccardo III di Tutino (Rovigo 1995). Tra le sue ultime creazioni, la messinscena de Il lago dei cigni (Berlino, Staatsoper 1997): una simbolica scatola scenica, dominata da un lago verticale in continuo movimento che coerentemente sostiene l’interpretazione moderna della tradizione mediante un’atmosfera d’evocazione pittorica. I costumi con colori pastello e le forme opportunamente adattate alla tecnica del ballo ben si inseriscono e completano le scene, evocando un’atmosfera di sogno romantico di grande suggestione. Assai importante è la sua collaborazione con il Piccolo Teatro e con Strehler, per il quale firma i costumi di importanti allestimenti: L’illusion di Corneille (Parigi, Odéon 1984), La grande magia di E. De Filippo (Piccolo Teatro 1985-86), Faust di Goethe (Piccolo Teatro Studio 1989-92), L’isola degli schiavi di Marivaux (Piccolo Teatro 1994-95). Per la lirica ricordiamo l’ Aida di Verdi con la regia di M. Bolognini (Sfinge-Piramidi Cairo 1987, costumi) e la collaborazione con la Scala per varie produzioni, tra cui Fedora di Giordano (regia di L. Puggelli scene e costumi, 1993).

Savary

Figlio di uno scrittore e della figlia di Frank Higgins, governatore dello stato di New York, Jérôme Savary compie studi artistici e musicali a Parigi. A diciannove anni si trasferisce a New York, dove frequanta gli ambienti del jazz e conosce artisti come Lenny Bruce, Count Basie, Thelonius Monk. Di ritorno in Francia incontra Lavelli, Copi, Arrabal che influenzeranno notevolmente le sue scelte artistiche successive. Nel 1965 fonda la Compagnia Jérôme Savary, che diventerà, nel 1968, il Grand Magic Circus et ses animaux tristes. Dal 1982 al 1985 dirige il Centre Dramatique du Languedoc-Roussillon e nel 1986 è nominato direttore del Carrefour Européen du Théâtre di Lione, che lascia nel 1988 per la direzione del Théâtre du Chatillon di Parigi. Regista particolarmente attivo, dotato di grande creatività, immaginazione e respiro internazionale, Savary esordisce in teatro nel 1969, con Os Montros a San Paolo, in Brasile; poi, nel 1977 firma la regia di Leonce e Lena di Büchner, allo Schauspielhaus di Amburgo.

Tra i numerosi lavori si ricordano Peccato che sia una puttana , di John Ford (1980, Schauspielhaus di Bonn e 1997 Théâtre National Chaillot); Cyrano di Bergerac di Rostand (1983, Theatre Mogador e 1997, Theatre National Chaillot); D’Artagnan dello stesso Savary (1988, Théâtre National Chaillot, poi al Théâtre Mogador; 1989, Schiller Theater di Berlino); Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (1990 al Festival d’Avignone); La resistibile ascesa di Arturo Ui (1993) e Madre Coraggio (1995) di Brecht; Il borghese gentiluomo di Molière (1996). Intensa la sua attività anche nella lirica (tra le sue regie: L’histoire du soldat di Stravinskij alla Scala, 1982; Don Giovanni di Mozart, all’Opera di Roma, 1984; Le comte Ory di Rossini all’Opera di Lyon, 1988; Attila di Verdi, alla Scala, 1991; Rigoletto di Verdi all’Opera Bastille e La Cenerentola di Rossini, all’Opera Garnier di Parigi, 1996), nell’operetta e nel teatro musicale ( Cabaret , 1986-1998; Asterix , 1988; Zazou , 1990; Marilyn Montreuil , 1991; A drum is a woman , 1996; Y’a d’la joie , 1997). Di rilievo, naturalmente gli spettacoli firmati per il Grand Magic Circus: dal primo, Les Boites et L’Invasion du vert olive (1965), fino a Nina Stromboli (1995).

Salvini

Giudo Salvini studiò giurisprudenza e musica all’università e al Conservatorio di Padova. Tra il 1925 e il 1927 collaborò con il Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello; tra l’altro, guidò la compagnia in una fortunata tournée all’estero, e successivamente (a Praga, Vienna e Budapest) allestì con attori locali testi di Pirandello e Bontempelli. Al ritorno in Italia firmò regie di spettacoli di prosa, lirica e balletto, curando spesso anche la scenografia. Nel 1930 costituì una compagnia di giovani (formata da R. Ricci, C. Ninchi, E. Biliotti, B. Starace Sainati, P. Cei) con cui mise in scena la prima versione italiana di Questa sera si recita a soggetto. Nel 1933 fu direttore dell’allestimento scenico e responsabile del settore prosa alla prima edizione del Maggio musicale fiorentino, invitando, per la prima volta in Italia, Max Reinhardt e Jacques Copeau. Organizzatore di grandi spettacoli all’aperto in luoghi particolarmente suggestivi (Giardino di Boboli), sostenne la creazione di un teatro nazionale e di teatri stabili, istituzioni ritenute in grado di formare adeguatamente gli attori italiani. Tra il 1938 e il 1944 insegnò regia all’Accademia d’arte drammatica e, dal 1950 al 1952, diresse la compagnia del Teatro Nazionale. Salvini, oltre a curare il repertorio classico, fu attento valorizzatore della drammaturgia contemporanea. I suoi allestimenti furono molto apprezzati anche all’estero.

Simoni

Carlo Simoni si diploma nel 1967 all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, quindi entra a far parte dello Stabile di Genova. Nel 1970 Sarah Ferrati lo chiama nella sua compagnia per Chi è Claire Lannes? di M. Duras. Fra i tanti spettacoli si ricordano le partecipazioni nel 1983 a Venezia salvata di Otway (regia di G. De Bosio) e nelle Baccanti di Euripide, allestite all’Olimpico di Vicenza dove interpreta il ruolo di Penteo. Dal 1995 è allo Stabile di Bolzano, diretto da M. Bernardi (Ma non è una cosa seria di Pirandello, Sarto per signora di Feydeau, La locandiera, Medea di Euripide.

Saramago

Narratore tra i più rilevanti del Novecento portoghese, José Saramago si dedica alla scrittura scenica a partire dal 1979, quando, su richiesta della direttrice di un teatro di Lisbona, realizza La notte, opera ambientata nella redazione di un quotidiano della capitale allineato al regime. Il testo si gioca sul contrasto – destinato a diventare rovente quando si diffonde la notizia del golpe democratico – tra il puro Torres ed il corrotto caporedattore Valadares, mediocramente asservito al potere dei più forti. Nel 1980, nel quarto centenario della morte di Luis de Camoes, Saramago scrive Cosa ne farò di questo libro?, pièce in cui l’autore de I Lusiadi, stanco e sofferente, cerca di far pubblicare la sua opera in un “Paese oscuramente assorto nel gusto dell’avidità”. Solo dopo una lunga serie di umiliazioni riuscirà a raggiungere l’obiettivo, ma, a quel punto, nella può cancellare la sua profonda, irredimibile delusione.

Con La seconda vita di San Francesco (1987) Saramago va alla carica del pilastro dell’etica francescana, la povertà. Il ritorno del santo assisiate al cospetto del Capitolo dell’Ordine – ormai del tutto identico ad un Consiglio d’amministrazione – produce effetti inaspettati su Francesco, che abbandona la scena pronto a lottare contro la miseria, perché “è un errore contro la carne e contro lo spirito fare della povertà la condizione per accedere al Cielo”. Fortemente polemica nei confronti di “qualsiasi dottrina” che faccia degli esseri umani “dei nemici di se stessi” è il quarto (e per ora ultimo) lavoro di Saramago, In Nomine Dei, (1993). La tragedia di Münster e degli anabattisti del XVI secolo serve dunque all’autore per ribadire quanto profonda sia l’identità degli uomini, nonostante le divisioni che religioni ed ideologie hanno voluto surrettiziamente programmare. Col titolo Divara è stata allestita una versione lirica della pièce, con musiche di Azio Corghi e scenografia di Dietrich Hilsedorf.

Sert

È marito della celebre Misia Sert, appartenente al circolo di Diaghilev. Ha realizzato le scenografie per La leggenda di Giuseppe di Fokine (1914), Las meninas (1916) e Le astuzie femminili (1924) di Massine, Pavane di Lifar (1940).

Strehler

Giorgio Strehler ovvero il Regista, scritto proprio con la maiuscola, allo stesso modo in cui lui scrive e pensa al Teatro: come a una sfida iperbolica, a un diorama, a un palcoscenico in cui si concretizza l’immagine del mondo dove, in punta di piedi, i grandi signori della scena, ai quali di diritto appartiene, possono dialogare con il popolo dei personaggi e, attraverso di loro, con gli spettatori. Accanto a questo modo `regale’ di intendere il teatro, che fa di lui il vero erede di Max Reinhardt (l’ultimo dei registi demiurghi, peraltro ammirato da bambino), Strehler ne ha sempre avvicinato un altro più severo, quasi giansenista, che si era incarnato nella tradizione di Copeau e di Jouvet, dove il regista – questa volta con la minuscola, ma non perché sia meno importante – parte dal presupposto che tutto è nel testo e che quanto è già stato detto e scritto può essere mediato, incarnato, dall’Attore, non a caso scritto con la maiuscola. Questi due modi di intendere la regia si rendono evidenti esemplarmente in due fra i suoi ultimi spettacoli – Faust frammenti, al quale lavora ininterrottamente dal 1988 al 1991, recitando anche nel ruolo del titolo, e Elvira o la passione teatrale (1987) – e hanno trovato la possibilità di svilupparsi anche grazie alle sue ascendenze familiari. S. nasce infatti a Barcola, un paesino vicino a Trieste, in una famiglia in cui si intrecciano lingue e culture.

Suo nonno è musicista (anche Giorgio studierà musica e direzione d’orchestra) e di cognome fa Lovric; sua nonna è francese e si chiama Firmy, cognome che il nipote prenderà quando firmerà le prime regie durante l’esilio svizzero. Suo padre, Bruno, muore giovanissimo, quando il figlio ha poco più di due anni; la madre, Alberta, è un’apprezzata violinista. Il giovane S. cresce così in un’atmosfera artisticamente `predestinata’, e in un ambiente a forte matrice femminile. Questa immersione nel femminile gli sarà utile nel disegnare le sue protagoniste, e lo renderà impareggiabile nel rendere sensibile il mistero e l’incanto, ma anche il bugiardo silenzio delle sue eroine. Da ragazzino Strehler si trasferisce con la madre a Milano, dove compie gli studi prima al convitto Longone e poi al liceo Parini, fino a frequentare l’università, facoltà di legge; ma fin da adolescente, accanto allo studio, coltiva l’amore per il teatro, frequentato anche (dice la sua leggenda) come claqueur . Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dove trova il suo maestro di elezione in Gualtiero Tumiati.

Le sue prime prove fuori dalla scuola sono da attore, nel gruppo Palcoscenico di Posizione a Novara e anche alla Triennale, in un testo di Ernesto Treccani. Ma già qui, a soli ventidue anni, pensa che il teatro italiano, allora dominio degli ungheresi e dei falsi dottori, abbia bisogno della scossa salutare e demiurgica della regia. Lo scrive in un articolo del 1942, Responsabilità della regia , pubblicato su “Posizione”: fondamentale, pur nello slancio assoluto tipico dell’epoca, per capire anche lo Strehler successivo. In quegli anni che precedono la guerra S., legato da un’amicizia fortissima a Paolo Grassi, conosciuto (come hanno sempre affermato i protagonisti) alla fermata angolo via Petrella del tram numero sei, direzione Loreto-Duomo, fa la fronda nei Guf e morde il freno. L’entrata in guerra dell’Italia lo trova militare e poi rifugiato in Svizzera nel campo di Mürren, dove stringerà amicizia, fra gli altri, con il commediografo e regista Franco Brusati. Qui, poverissimo, ma già con una grande abilità nell’usare a proprio favore le difficoltà, riesce, con il nome di Georges Firmy, a trovare i soldi per mettere in scena, fra il 1942 e il 1945, Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot, Caligola di A. Camus e Piccola città di T. Wilder.

La fine della guerra lo vede però di ritorno in Italia, ormai deciso a fare il regista. Il suo primo spettacolo, dopo la `regia’ del gruppo di cammelli alla festa per la Liberazione al Castello Sforzesco, è Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, con Memo Benassi e Diana Torrieri. Firma anche tutta una serie di regie d’occasione per compagnie famose, senza crederci troppo, e torna a recitare in Caligola di Camus (che ha spesso fra i suoi spettatori un altro signore della scena, Luchino Visconti), dove dirige Renzo Ricci e riserva a se stesso il ruolo di Scipione. Nel frattempo è stato anche critico teatrale per “Momento sera”, senza mai rinunciare però al sogno, condiviso con Paolo Grassi, di costruire dal nulla un teatro diverso. L’occasione sarà la fondazione nel 1947 del Piccolo Teatro della Città di Milano: primo stabile pubblico italiano, che aprirà i suoi battenti il 14 maggio, con l’andata in scena di L’albergo dei poveri di Gor’kij, dove S. riserva a sé il ruolo del ciabattino Aljosa. Questo spettacolo, che riesce a coagulare buona parte della compagnia che per alcuni anni sarà stabile al Piccolo e che avrà le sue punte in Gianni Santuccio, Lilla Brignone e Marcello Moretti, ha avuto un anno prima un’`anticipazione’ in Piccoli borghesi di Gor’kij, andato in scena con la regia di S. e l’organizzazione di Paolo Grassi all’Excelsior.

Alla fondazione del Piccolo corrisponde anche la prima regia operistica di Strehler, unaTraviata alla Scala destinata a lasciare il segno. Dal 1947, però, gli sforzi maggiori di Strehler (prima regista stabile, poi direttore artistico, poi direttore unico) sono essenzialmente per il Piccolo Teatro, dove dirige spettacoli che appartengono alla storia del teatro e della regia. All’interno di questa storia, che potremmo definire positivamente eclettica, si può tuttavia rintracciare una costante: l’interesse per l’uomo in tutte le sue azioni. Questa scelta, che Strehler perseguirà per tutta la vita, è un atto di fedeltà alle ragioni profonde dell’esistenza di cui si fa portatore Satin, uno dei protagonisti dell’Albergo dei poveri : «Tutto è nell’uomo». E, in questo suo porre l’uomo sotto la lente d’ingrandimento del suo teatro, ecco venire alla luce alcuni rapporti che gli interessano: l’uomo e la società, l’uomo e se stesso, l’uomo e la storia, l’uomo e la politica. Scelte che si riflettono a loro volta nella predilezione per alcuni autori chiave, veri e propri compagni di strada nel lavoro teatrale del grande maestro (anzi `Maestro e basta’, come è stato chiamato): Shakespeare soprattutto, ma anche Goldoni, Pirandello, la drammaturgia borghese, il teatro nazional popolare di Bertolazzi, Cechov e, nei primi anni, la drammaturgia contemporanea; Brecht gli rivela un diverso approccio al teatro, alla recitazione, una `via italiana’ all’effetto di straniamento.

All’interno di questi autori, pur non potendo entrare nel merito delle più di duecento regie da lui firmate, sono enucleabili alcuni spettacoli guida: Riccardo II (1948), Giulio Cesare (1953), Coriolano (1957), Il gioco dei potenti (1965), Re Lear (1972), La tempesta (1978) per Shakespeare; Arlecchino in tutte le sue versioni (a partire dal 1947), lo spettacolo italiano più visto nel mondo e quello di più lunga vita, La trilogia della villeggiatura (1954), Le baruffe chiozzotte (1964) e Il campiello (1975) per Goldoni; Platonov (1959) e Il giardino dei ciliegi (1955 e 1974) per Cechov; le diverse edizioni de I giganti della montagna (1947, 1966, 1994) e Come tu mi vuoi (1988) per Pirandello; El nost Milan (1955 e 1979) e L’egoista (1960) per Bertolazzi; La casa di Bernarda Alba di García Lorca (1955) e, soprattutto, Temporale di Strindberg (1980) per la drammaturgia borghese; La visita della vecchia signora di Dürrenmatt (1960), La grande magia di Eduardo De Filippo (1985) per la drammaturgia contemporanea; L’opera da tre soldi (1956), L’anima buona di Sezuan (1958, 1981 e 1996), Santa Giovanna dei macelli (1970) e soprattutto Vita di Galilei (1963) per Brecht.

Ma, all’interno di una produzione stupefacente, a venire in primo piano è il lavoro sui segni del teatro (le scene, le atmosfere, le sue inimitabili luci, e quella capacità prodigiosa nel saper ricreare, con apparente leggerezza, situazioni di altissima poesia) e lo scavo esigente, duro, mai soddisfatto sulla recitazione, che trova il suo vertice nel vero e proprio corpo a corpo che egli instaura con gli attori: un vero esempio di maieutica; e, per chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue prove, l’epifania di un metodo teatrale. La storia di Strehler, scandita dall’aprirsi e dal chiudersi dei sipari, si svolge eminentemente al Piccolo Teatro, ma non solo: nel 1968 abbandona via Rovello per fondare un suo gruppo, il Teatro Azione, su basi cooperativistiche; con questo gruppo presenta La cantata del mostro lusitano di P. Weiss (1969), spettacolo anticipatore di un teatro concettualmente `povero’, e Santa Giovanna dei macelli (1970), che sigla il suo ritorno ‘a casa’.

Ma Strehler ha anche diretto il neonato Teatro d’Europa, voluto da Jack Lang e da Françoise Mitterrand a Parigi. Del resto il suo cursus honorum è lunghissimo: parlamentare europeo, senatore della Repubblica, un lungo elenco di onorificenze, fra cui l’amatissima Legion d’onore; ma gli ultimi anni sono segnati dall’amarezza per un processo che lo vedrà, alla fine, innocente. È morto nella notte di Natale; le sue ceneri riposano a Trieste, nel cimitero di sant’Anna, nella semplicissima tomba di famiglia. Notevole l’apporto registico di Strehler all’opera lirica, favorito dalla conoscenza della musica e dalla «abilità di saper svecchiare i gesti inseparabili e tradizionali dei cantanti».

Delle tantissime regie, da ricordare le partecipazioni al Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia (Lulu di A. Berg, 1949; La favola del figlio cambiato di G.F. Malipiero, 1952; L’angelo di fuoco di S. Prokof’ev, 1955), al Maggio musicale fiorentino ( Fidelio di Beethoven, 1969), al Teatro alla Scala (fin dalla primavera del 1946 con Giovanna d’Arco al rogo di A. Honegger, con Sarah Ferrati), almeno per il Verdi, oltre che della già citata Traviata , del Simon Boccanegra (1971), del Macbeth (1975) e del Falstaff (1980); e di Mascagni, della lodatissima Cavalleria rusticana diretta da Karajan (1966); alla Piccola Scala per L’histoire du soldat di I. Stravinskij (1957), Un cappello di paglia di Firenze di N. Rota (1958) e Ascesa e caduta della città di Mahagonny di K.Weill (1964); oltre al lavoro sul prediletto Mozart, condotto attraverso Il ratto dal serraglio (1965) e Il flauto magico (1974) al festival di Salisburgo, Le nozze di Figaro a Parigi (1973), Don Giovanni alla Scala (1987) e la soave leggerezza di Così fan tutte, inno all’amore e alla giovinezza: più che un testamento, un ponte (anche se dall’impalcatura ancora scoperta, a causa dell’improvvisa scomparsa a pochi giorni dalla prima) gettato fra il lavoro di cinquant’anni e il nuovo secolo (per il teatro milanese nella nuova sede e per chi è rimasto e può raggiungerlo ormai solo col ricordo).

Steinbeck

Adattò alle scene alcune delle sue opere narrative. La più importante fu Uomini e topi (Of Mice and Men, 1937), storia di due braccianti in cerca di lavoro negli anni della Depressione, tratta da uno dei romanzi del suo periodo più felice, quello in cui seppe dar voce come nessun altro a un’America tramortita dalle terribili difficoltà economiche. Grande successo ebbe anche la riduzione di La luna è tramontata (The Moon Is Down, 1942), onesto e modesto dramma di propaganda sulla resistenza antinazista in Norvegia. Nel 1962 ricevette il premio Nobel per la letteratura.

Sternheim

Figlio di un banchiere ebreo stabilitosi ad Hannover, studia filosofia e letteratura a Monaco e a Berlino. Sposa la figlia di Wedekind, Pamela, nel 1906, e pubblica insieme a F. Blei la rivista “Hyperion” (1908-1910). Nella sua opera, riscoperta negli anni ’70, il ritratto satirico della borghesia del tempo è singolarmente violento; influenzato dall’espressionismo, il suo linguaggio è vicino a quello di Wedekind che a tutt’oggi non ha perso la sua modernità. Dopo l’insuccesso del suo primo dramma La tragedia del tradimento Giuda Iscariota (Judas Ischarioth. Die Tragödie vom Verrat, pubblicato nel 1901), S. si fa costruire un teatro per rappresentare i propri lavori. Vituperato dalla critica, in seguito allo scandalo sollevato nel 1912 dal suo Don Giovanni decide di emigrare in Belgio. Tra le sue opere più significative sono da citare Le mutande (Die Hose, 1911)), Il borghese Schippel (Bürger Schippel;1913), Tabula Rasa (1916), Oscar Wilde (1924). Abbandonato dalla moglie, malato e dimenticato da tutti, trascorse gli ultimi anni di vita in una clinica psichiatrica.

Stanislavskij

Figlio di un facoltoso industriale, Konstantin Sergeevic Stanislavskij frequenta fin dall’infanzia teatri e circhi moscoviti; inoltre sia nella tenuta di Ljubimovka, vicino a Mosca, sia nella casa di città, la famiglia possiede due teatrini privati dove Stanislavskij con i fratelli organizza spettacoli amatoriali, soprattutto operette e vaudeville. Nasce così il ‘circolo Alekseev’, molto apprezzato nella buona società moscovita, dove comincia la lunga carriera di Stanislavskij attore e regista dilettante: una carriera lunghissima, più che ventennale, che dura dal 1877 (inaugurazione del teatrino di Ljubimovka) fino al 1898 (apertura del Teatro d’Arte). Frequenta per breve tempo la scuola d’arte drammatica dei teatri imperiali, prende lezioni di canto da F. Komissarzevskij, ma capisce presto che la vera scuola sono le tavole del palcoscenico e partecipa perciò molto attivamente a spettacoli filodrammatici in circoli e associazioni diverse, scegliendosi lo pseudonimo di Stanislavskij.

Nel 1888 con il regista Fedorov, il cantante Komissarzevskij e il pittore F. Sollogub fonda la ‘Società d’arte e di letteratura’, che è insieme club di amatori delle arti, scuola e circolo filodrammatico: Stanislavskij interpreta alcuni ruoli molto importanti (il Barone ne Il cavaliere avaro di Puškin, Sotenville in Georges Dandin di Molière, Ananij Jakovlev in Amaro destino di Pisemskij, Ferdinando in Amore e raggiro di Schiller, Paratov in Senza dote di Ostrovskij e Otello). Fra le attrici scritturate c’è la giovane Lilina, che diventa sua moglie nel 1889 e gli rimarrà accanto tutta la vita, interpretando ruoli di primo piano in molti spettacoli da lui diretti. Oltre che interprete sempre più apprezzato da critica e pubblico, Stanislavskij è anche regista: grande interesse suscita I frutti dell’istruzione di L. Tolstoj (1891), dove viene approfondito con coraggio il tema sociale (ne scrive entusiasta un critico che di lì a poco si unirà a Stanislavskij nell’impresa del Teatro d’Arte, Vladimir Nemirovic-Dancenko), a cui seguono Uriel Acosta di Gutzkow (1895), Otello di Shakespeare (1896), Senza dote di Ostrovskij, L’ebreo polacco di Erckmann (1896), La campana sommersa di Hauptmann (1898).

Nel 1890 è in tournée a Mosca la compagnia tedesca del duca di Meiningen: Stanislavskij è colpito dalla ferrea disciplina ottenuta dal regista nel lavoro con gli attori, dalla perfezione delle scene di massa, dalla ricercatezza di ambienti e costumi, tutti elementi che Stanislavskij cerca di introdurre nel suo lavoro. Una svolta nella vita di Stanislavskij segna l’ormai leggendario incontro con il critico Nemirovic-Dancenko del 21 giugno 1897: in un colloquio durato quindici ore pongono le basi della futura collaborazione e tracciano le linee del loro programma. Viene decisa la fondazione del Teatro d’Arte, con una compagnia formata da elementi della Scuola dove insegna Nemirovic (I. Moskvin, O. Knipper, Vs. Mejerchol’d ecc.) e da attori della Società guidata da  (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem ecc.). Precise sono le competenze: Nemirovic, scrittore e amico di scrittori, si assume il compito di guidare il nuovo teatro nelle scelte di repertorio; Stanislavskij, più esperto in campo registico, ha la responsabilità del settore artistico.

Ogni consuetudine, in atto da decenni nei maggiori teatri russi, viene rivoluzionata: priorità della figura del regista nei confronti della compagnia; nessuna distinzione tra ruoli («Oggi Amleto, domani comparsa, ma sempre allo stesso livello artistico»); lunghi periodi di prove (invece delle quattro, cinque tradizionali), prima a tavolino poi in scena, con dettagliata disamina del testo, dell’ambiente culturale dell’autore, del periodo storico ecc.; accurata preparazione di scenografie e costumi studiati per ogni singolo spettacolo, al posto di inerti fondali e costumi di repertorio; abolizione della musica generica in apertura di spettacolo e negli intervalli; collaborazione stretta e continua tra tutti i collaboratori allo spettacolo («L’autore, l’attore, il pittore, il sarto, l’operaio devono servire all’unico fine posto dall’autore alla base della sua opera»). Stanislavskij, per facilitare e insieme rendere più rigoroso il lavoro degli attori, prepara per ogni spettacolo note precise a ogni singola battuta, con i movimenti di chi la pronuncia e di chi la ascolta, e indicazione di intonazione: i suoi copioni di regia, oggi in gran parte pubblicati, testimoniano la straordinaria cura e intelligenza del lavoro preparatorio per ogni spettacolo.

Il Teatro d’Arte si inaugura il 14 ottobre 1898 con Lo zar Fëdor Ioannovic di A. Tolstoj, che suscita meraviglia per la precisione naturalistica, la ricchezza di scene e costumi, l’intensità d’interpretazione dell’intera compagnia. Il primo testo di argomento contemporaneo (e anche il primo in cui Stanislavskij e Nemirovic collaborano alla regia) è Il gabbiano di Cechov: Nemirovic riesce a vincere le resistenze dell’autore (due anni prima era stata un fiasco al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo) e lo spettacolo nella nuova edizione ottiene un trionfo, diventa simbolo della rivoluzione operata dal Teatro d’Arte. Da allora tutti i nuovi lavori di Cechov vanno in scena al Teatro d’Arte con immutato successo: Zio Vanja (1899), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904). Nella sua autobiografia S. divide le regie dei primi anni in diverse linee: la linea storica (La morte di Ivan il Terribile di A. Tolstoj, 1899; lavori di Shakespeare, Hauptmann), la linea della fantasia (La fanciulla di neve di Ostrovskij, 1900; L’uccellino azzurro di Maeterlinck, 1908), la linea del simbolismo e dell’impressionismo ( L’anitra selvatica , 1901 e Spettri , 1905 di Ibsen; Il dramma della vita di Hamsun, 1907; La vita dell’uomo di Andreev, 1907), la linea dell’intuizione e del sentimento (oltre ai lavori di Cechov, Un mese in campagna , 1909 e i vaudeville, 1912, di Turgenev), la linea social-politica (soprattutto i lavori di Gor’kij: Piccoli borghesi e Bassifondi , 1902 e I figli del sole , 1905).

Nel 1905, insoddisfatto del sistema di lavoro fino allora attuato, pronto a tentare nuove vie ma convinto dell’impossibilità di sperimentarle in un teatro con spettacoli giornalieri, prove per tutto il giorno, bilancio rigidamente calcolato, fonda uno Studio (chiamato di via Povarskaja, dal nome della via dove ha sede) e chiama a dirigerlo un suo attore, divenuto regista lontano dal Teatro d’Arte, Vsevolod Mejerchol’d: con lui rivoluziona il sistema di prove, elimina la lettura a tavolino, va direttamente in scena e studia nuove soluzioni insieme agli attori, con improvvisazioni, ricerche sulla gestualità. La morte di Tintagiles di Maeterlinck, spettacolo che dovrebbe inaugurare lo Studio, non soddisfa Stanislavskij che decide di chiudere l’esperimento; ma la spinta verso un rinnovamento sia del metodo di lavoro sia del repertorio rimane.

Comincia in questi anni le prime ricerche sul `sistema’ (vedi sistema stanislavskiano): come far sì che la parte, ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori? Stanislavskij pone le basi di un nuovo lavoro dell’attore su se stesso e sulla parte; lavoro sia interiore, sulla psiche, sia esteriore, sulla gestualità. Intanto l’esperimento fallito dello Studio lascia tracce: Stanislavskij rivolge l’attenzione a un diverso tipo di testi, soprattutto simbolisti (Hamsun, Andreev), allontanandosi dall’eccessivo psicologismo e dal naturalismo delle messinscene cechoviane e gorkiane. Il tentativo di una maggiore `convenzionalità’ culmina nella messinscena dell’ Amleto, in collaborazione con il regista inglese Gordon Craig (1910): collaborazione difficile, perché all’astratta concezione di una scenografia geometrica (impostata su pannelli mobili) e di attori-marionette di Craig si contrappone l’idea stanislavskiana di una scena verosimile, abitata da attori in carne e ossa.

Nel 1912 riorganizza uno Studio (il Primo Studio del Teatro d’Arte) dove, con un gruppo di giovani attori e l’aiuto di un prezioso collaboratore, L. Sulerzickij, si mette a studiare il `sistema’, ad approfondire le ricerche su voce, movimento, rapporto tra testo e psiche dell’attore. La rivoluzione d’Ottobre cambia totalmente la situazione anzitutto economica di Stanislavskij: non è più il facoltoso figlio di un ricco industriale, deve guadagnarsi da vivere con il suo lavoro di attore e regista. Inoltre accettare la nuova situazione significa cambiare il repertorio, rinnovare gli autori, adeguarsi ai radicali mutamenti nel sistema di vita e di organizzazione del teatro. S. entra in crisi (e con lui il Teatro d’Arte): non riesce a uscire dal circolo chiuso dei classici; La dodicesima notte al Primo Studio (1917) ha successo ma non va certo nella direzione del rinnovamento che ci si aspetta, la messinscena di Caino di Byron (1920) è un mezzo fiasco, quella del Revisore di Gogol’ (1921) viene lodata soprattutto per l’interpretazione del protagonista Michail Cechov (nipote del drammaturgo). Gli organi di stampa dei bolscevichi attaccano il Teatro d’Arte, decrepito monumento del vecchio regime spazzato dalla rivoluzione.

Nel 1922-24 Stanislavskij con una parte della compagnia compie una trionfale tournée in Europa e in America, che riconferma anche in patria la credibilità del Teatro d’Arte; su richiesta di un editore americano scrive La mia vita nell’arte , ampia autobiografia dove parla già ampiamente del `sistema’. Al ritorno, dopo Cuore ardente di Ostrovskij (1926), S. si apre al repertorio sovietico, senza tuttavia esporsi in prima persona (fa firmare le regie a I. Sudakov); e ottiene due successi con I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926) e Il treno blindato 14-69 di Vs. Ivanov (1927), a cui seguono Untilovsk di Leonov (1928) e I dissipatori di Kataev (1928). Ma gli spettacoli che gli riescono meglio sono ancora i classici, Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol’, Attrici di talento e ammiratori di Ostrovskij (1933). Nel 1928, in seguito a un attacco cardiaco durante una replica di Tre sorelle , smette fino alla morte di recitare e si dedica completamente alle ricerche sul `sistema’ e a qualche regia ( Molière di Bulgakov, Tartufo di Molière), la cui lunghissima gestazione gli serve più per controllare gli esperimenti sull’attore che per approdare a un vero spettacolo. La dittatura staliniana lo trasforma in un rigido simbolo del realismo in teatro, forzatamente contrapponendolo a registi d’avanguardia come Mejerchol’d, accusati di formalismo, di deviazione dalle linee di partito. Nel 1937 conclude il primo volume del suo lavoro sull’attore, Il lavoro dell’attore su se stesso (che esce pochi mesi dopo la morte, alla fine del 1938), e ha pronta una gran quantità di materiali per il seguente, Il lavoro dell’attore sul personaggio .

Soon 3

Direttore del gruppo Zone, Alan Finneran accumula a Boston negli anni ’60 una ricca esperienza di artista ambientale. Alle pitture e alle sculture con cui dissemina i suoi paesaggi-spettacolo ( performance landscape ), fin dal 1967 egli aggiunge le azioni degli attori. Nel 1972 decide di trasferirsi a San Francisco e dare vita alla formazione S.. Inizia allora a costruire complesse `macchine teatrali’, in cui le sculture mobili sono affiancate da schermi rotanti sui quali vengono proiettati film e diapositive: The Desire Circus (Museum of Modern Art di San Francisco, 1975) è una `scultura cinematografica da rappresentare’ che circonda gli spettatori e prevede l’azione congiunta di dodici performer. Più semplice è l’impianto di Black Water Echo (1977), con gli spettatori tradizionalmente disposti su file frontali e le azioni di due performer. A partire da A Wall in Venice, 3 Women, Wet Shadows (1978) S. 3 comincia a utilizzare voci registrate che introducono negli spettacoli anche una rarefatta dimensione narrativa, rimanendo invariati i materiali compositivi, e tra questi soprattutto l’acqua.

Sibley

Antoinette Sibley studia alle scuole Cone-Ripman e Sadler’s Wells. Entrata nel Sadler’s Wells Ballet nel 1956, diviene solista nel 1959 e prima ballerina l’anno seguente. Di rara perfezione stilistica e eccezionale musicalità, danza tutti i grandi ruoli classici, rilevandone molti di Margot Fonteyn (Scènes de ballet, Symphonic Variations). Fra le creazioni, di Ashton: The Dream, che inaugura la partnership con Anthony Dowell (1964), Monotones (1966), Jazz Calendar e Enigma Variations (1968); di MacMillan: Anastasia (1971), Pavane (1973), Manon (1974); di Michael Corder, L’invitation au voyage (1982). Ospite in tutto il mondo, nel cinema si esibisce in Due vite, una svolta (The Turning Point, 1977). Vicepresidente della Royal Academy of Dancing dal 1989 al 1991, diviene presidente dopo la morte di Margot Fonteyn (1991).

Sepe

Dopo gli studi classici e una grande passione per il cinema, nel 1963, in un teatrino di un oratorio, Giancarlo Sepe cura la regia del suo testo I giorni dell’insieme. Nel 1965 il Centro di cultura russa di Roma gli affida la regia de Il revisore di Gogol’, una scelta di atti unici di Cechov insieme ad altri testi. Mentre continua la sua attività teatrale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza e, nel 1967, fonda la Comunità teatrale italiana, con cui allestisce: Zoo di vetro di T. Williams (1967), Donna Rosita nubile di García Lorca (1969), Finale di partita di Beckett (1970), Ubu re di Jarry (1972). La sua cifra stilistica e la sua personale direzione e scrittura scenica sono riscontrabili in spettacoli quali Scarrafonata (1974), Lumière Cinématographique (1975), In albis (1976), Accademia Ackermann (1978), che lo affermano come regista e autore provocatorio e intelligente. Negli anni ’80 si alternano regie di testi classici, rivisitati criticamente, come Iliade di Omero (1980), Così è (se vi pare) di Pirandello (1982), Victor o i bambini al potere di Vitrac (1985), a scritture drammaturgiche di testi originali come Itala Film Torino (1986), L’età del jazz (1987). In seguito, in collaborazione con Mariangela Melato, allestisce Vestire gli ignudi di Pirandello, Medea di Euripide e Anna dei miracoli di W. Gibson. Altri suoi lavori sono Marionette, che passione! (1988) di Rosso di San Secondo, Processo a Gesù di D. Fabbri (1989) e nel 1991 Salomé-Lettera alla mamma da O. Wilde. L’anno dopo dirige G. Sbragia in Edipo re , spettacolo presentato al Teatro Greco di Siracusa. Ultime regie: Il marito ideale (1995) di O. Wilde, E ballando… ballando (1997), Il re muore di Ionesco (1998) e il discusso Puccini, dissacrante rivisitazione delle opere del compositore.

Sherriff

Robert Cedric Sherriff ottenne un grande, e mai rinnovato, successo con Il grande viaggio (The Journey’s End, 1929), rievocazione realistica e antiretorica della prima guerra mondiale. Continuò a scrivere per il teatro storie sull’Inghilterra provinciale sempre adottando la tecnica naturalista: Miss Mabel (1948), A casa per le sette (Home at Seven, 1950), Il garofano bianco (The White Carnation, 1953), Telescopio (The Telescope, 1957, tratto da un suo racconto). Le sceneggiature cinematografiche più interessanti sono Uomo invisibile (The Invisible Man, 1933), per la regia di James Whale, e Addio Mr Chips (Goodbye Mr Chips, 1939), con la regia di Sam Wood.

Sakharov

Aleksandr Sakharov (Mariupol, Ucraina 1886 -Siena 1963) e Clotilde von Derp (Berlino 1892 – Roma 1974), una delle coppie di danzatori più famose dei primi decenni del Novecento. Ambedue furono soprattutto solisti, giacché nei loro spettacoli non si esibivano in coppia che una o due volte, ma la sintonia degli intenti artistici, la solidità e la inscindibilità delle loro carriere, oltre al rapporto affettivo che li unì per la vita (si sposarono nel 1919), hanno deciso del loro destino comune, consegnandoli quindi come coppia alla storia della danza. Dopo aver studiato pittura a Parigi, Aleksandr si spostò a Monaco dove iniziò a sperimentare una danza libera dalle regole tecnico-accademiche. Membro della Neue Künstlervereinigung, l’associazione di artisti che fu l’incunabolo del movimento del `Cavaliere azzurro‘ (culla dell’astrattismo pittorico), assieme al pittore V. Kandinskij e al compositore russo A. von Hartmann sperimentò la possibilità che danza, musica e pittura si traducessero l’una nell’altra, secondo un ideale proprio del simbolismo.

Debuttò come danzatore a Monaco nel 1910, e fu il primo uomo a portare in scena una danza non accademica. Nello stesso anno debuttò a Monaco Clotilde, proveniente da studi musicali e da corsi di danza classica, che aveva abbandonato anch’ella per una danza libera da canoni accademici. La notorietà acquisita nel 1911 come attrice (per due lavori di Max Reinhardt) non la distolse dall’unirsi ad Aleksandr, che conobbe nel 1913 e con cui iniziò a esibirsi nel ’17. Mentre in Germania il rifiuto della danza accademica si andava diffondendo e cresceva la pratica di una danza libera, cioè moderna, che puntava unicamente sulla ricerca delle leggi proprie al movimento, i due Sakharov iniziarono a creare un repertorio composto di brevissimi assoli e di pochi duetti, tutti su musiche di grandi compositori, distinguendosi per la quasi medianica aderenza allo spirito, oltre che ai ritmi della musica, e per la raffinatissima presentazione scenica, che si avvaleva di costumi disegnati per ambedue da Aleksandr con enorme talento.

L’avvenente bellezza di Clotilde, la musicalità dei suoi movimenti di autentica danzatrice resero celebri assoli come Poème printanier , Danseuse de Delphes , Chanson nègre e Après-midi d’un faune , mentre di Aleksandr si ammirava la perfezione plastica delle `miniature’ coreografiche (tra cui Golliwog’s Cakewalk , Caprice de cirque , Visione del Quattrocento , Pavane royale , Bourrée fantasque ) nonché lo spessore di intellettuale (autore di diversi libri) e di artista poliedrico. Ambedue svilupparono un ideale poetico in cui danza, musica e colore (quello dei costumi, giacché non usarono décor) erano strettamente, quasi religiosamente, uniti. La loro fama, all’apice in Europa negli anni ’20, si diffuse in Cina e Giappone nel decennio seguente grazie a fortunate tournée.

L’occupazione nazista di Parigi costrinse Aleksandr, ebreo, all’esilio con la sua compagna d’arte. In Sudamerica dal 1941 al ’48, si esibirono nuovamente nel 1949 a Parigi, di fronte a un pubblico dal gusto ormai profondamente diverso. Diedero gli ultimi recital in Italia, dove si trasferirono nel 1951, dividendosi poi tra la scuola da essi fondata a Roma e le classi di danza annualmente date all’Accademia musicale chigiana di Siena. Artisti dal magistero irripetibile e non trasmissibile, hanno prodigato la visione di una danza di spiritualità e preziosità senza pari, il cui segreto è scomparso con loro.

 

 

 

 

Sherwood

Efficiente artigiano della scena, fra i più rispettati degli anni fra le due guerre, Robert Emmet Sherwood affrontò spesso temi ambiziosi in commedie più abili che profonde, accolte da notevoli successi grazie anche al loro ottimismo rasserenante. Lanciò un messaggio pacifista in Annibale alle porte (The Road to Rome, 1927), l’opera che lo rese noto; si pose domande sulla guerra imminente in Delizia d’idiota (Idiot’s Delight, 1936); esaltò gli ideali americani in Abe Lincoln in Illinois (1938); prese posizione contro l’isolazionismo dei suoi connazionali in Non vi sarà alcuna notte (There Shall Be No Night, 1940). Il suo testo più significativo fu probabilmente La foresta pietrificata (The Petrified Forest, 1935), un solido melodramma che contrapponeva con semplicismo, gli ideali e le speranze di una ragazza di provincia alla sfiduciata rassegnazione degli altri due personaggi, un intellettuale fallito e un gangster allo stremo delle proprie forze.

Sokolow

Studia con Graham e Horst e alla School of American Ballet. Danza nella compagnia della Graham fino al 1938 ed è assistente di Horst, esibendosi intanto, fin dal 1934, in lavori di forte impegno sociale, come Ballad in a Popular Style , Slaughter of the Innocent . Si trasferisce a Città del Messico (1939), dove ritorna ripetutamente nei dieci anni successivi e crea per la sua compagnia locale, La Paloma Azul, Lament for the Death of a Bullfighter , su versi di García Lorca, e Lyric Suite (1953), Opus 60 e Homenaje a Hidalgo (1960), Dreams e Musical Offering (1961). Per la propria compagnia statunitense crea invece Rooms (1955), Poem (1956), Metamorphosis , da Kafka e senza musica, e Sessions ’58 (1957), Ballade (1965), Steps of Silence (1969), Ride the Culture Loop (1975). È invitata come coreografa anche dal Nederlands Dans Theater ( The Seven Deadly Sins , 1967), dal Ballet Rambert ( Deserts , 1967), dal London Contemporary Dance Theatre ( Scenes from the Music of Charles Ives , 1972), dalla Batsheva Dance Company ( In Memoriam n. 52436 , 1973).

Synge

Ultimogenito di quattro figli di una famiglia di proprietari terrieri protestanti, John Millington Synge studia letteratura al Trinity College di Dublino (1888-92), musica in Germania e dal 1895, letteratura francese a Parigi dove nel 1896 incontra W.B. Yeats e viene a contatto con i simbolisti. Nel 1898 animato dall’acceso interesse per la cultura irlandese, che già al Trinity lo aveva spinto a studiarne la lingua, ma anche incoraggiato da Yeats, intraprende una serie di viaggi nelle Isole di Aran (collocate di fronte alla costa ovest dell’Irlanda) che protrarrà a intervalli intermittenti fino al 1902, per immergersi in una realtà remota e rurale in cui rintracciare il senso dell’essere irlandese e catturare la vivacità del gaelico parlato. Di questa esperienza conserva dettagliata memoria in un diario dal titolo The Aran Islands , pubblicato nel 1907.

Sebbene solo in seguito a questi viaggi il suo talento trova completa espressione, Synge comincia la sua attività di drammaturgo scrivendo frammenti drammatici in versi per passare poi alla prosa e realizzare il suo primo lavoro compiuto Quando la luna è tramontata (When the Moon has set) nel 1900. Il testo, originariamente in due atti (pubblicato in questa versione solo nel 1984) e ridotto ad un atto nel 1902-03, è essenzialmente un attacco nei confronti della moralità convenzionale. Considerato inaccettabile per la messa in scena come per la pubblicazione da Yeats, avrà unica lettura nel settembre del 1901, per rimanere nell’oscurità fino al 1968 quando verrà incluso nella raccolta Collected Works da Ann Saddlemyer.

Il primo lavoro ad essere rappresentato è l’atto unico Nell’ombra della vallata (The Shadow of the Glen), scritto nell’estate del 1902 e messo in scena nell’ottobre del 1903, a cui viene riservata una prima fredda accoglienza da parte dei nazionalisti irlandesi che, nella successiva messa in scena nella nuova sede dell’Abbey Theatre, si tramuta in aperte manifestazioni di ostilità. In conflitto con se stesso, la sua classe sociale, la sua religione e alcuni aspetti della vita irlandese, Synge non riuscirà a riconoscersi in alcun movimento, e tuttavia tenterà di riconciliare la realtà attraverso una sua soggettiva idea di nazionalismo in cui attacca la società e la classe borghese dominante, proponendo la ribellione ai loro valori e la fuga nella natura. Sempre nel 1902 scrive Cavalieri a mare (Riders to the Sea) messo in scena all’Irish National Theatre Society nel 1904, e comincia la stesura di Le nozze dello stagnino (The Tinker’s Wedding), lavoro considerato oltraggioso nei confronti del clero e per questo non rappresentato fino al 1971.

Tra il 1904 e il 1905 drammatizza l’idea di percezione producendo un testo monocromo e duro La fonte dei santi (The Well of the Saints) dove ritrae una coppia di ciechi miracolata da un prete che, dopo aver sperimentato la vita dei vedenti, decide per la cecità e rifiutate le regole e lo squallore della comunità esce mano nella mano dalla società (e dalla scena) proponendo l’off-stage, come spesso in S., come luogo maggiormente significativo, spazio aperto ad una vita alternativa ed eroica lontana dalle convenzioni. Il suo capolavoro resta il penultimo lavoro Il furfantello dell’ovest (The Playboy of the Western World, 1907) commedia profana che sconvolge i più comuni concetti di sacro e che alla prima rappresentazione scatenò una vera e propria rivolta tra il pubblico disturbando in uguale misura cattolici, protestanti, nazionalisti e atei.

Da molti considerato l’ Amleto del teatro irlandese, in origine si intitolava The Murderer: A Farce : peculiare intreccio tra realtà e finzione, violenza e isolamento basato su fatti di cronaca nera realmente accaduti in cui convergono magistralmente i tratti salienti della sua arte. In particolare emerge la poeticità di un linguaggio irlandese, coniato e modellato appositamente da Synge sull’originale nel corso della sua carriera per soddisfare le esigenze della sua scrittura drammaturgica costantemente in fuga dalle forme canoniche. Ultimo lavoro di un’intensa quanto breve attività, dedicata a forgiare una retorica drammatica sfruttando con ricca immaginazione e profondo rispetto le fonti della sua Irlanda popolare e disagiata, è Deirdre l’addolorata (Deirdre of the Sorrows) rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1910.

Shiner

Lanciato nel 1985 nel circo Roncalli, S. ha portato nel circo la tradizione del mimo-clown di strada che si basa sul coinvolgimento diretto del pubblico, ispirando tutta una nuova generazione di clown circensi. S. è stato regista di circhi e varietà in Germania e nel 1991 ha dato vita a Broadway allo show comico Fool Moon al fianco di Bill Irwin.

Strauss

Botho Strauss è considerato uno degli scrittori più importanti del mondo letterario contemporaneo Dopo gli studi di germanistica, scienze teatrali e sociologia a Colonia e a Monaco, avvia un intenso dialogo con Adorno, ma si allontana da lui a causa di forti contrasti riguardo alla progettata tesi su Thomas Mann e il teatro. Collabora con la rivista “Theater Heute” e nel 1970 viene chiamato alla Schaubühne ad Halleschs Ufer, a Berlino, da P. Stein per conto del quale lavora su Ibsen (Peer Gynt, 1971), e quindi su Labiche, Gorki, Kleist. Dal 1975 vive come scrittore indipendente a Berlino. Quando nel 1972 appare il suo primo lavoro, Gli ipocondriaci (Die Hypocondern), il pubblico non lo comprende. Comincia a imporsi soltanto dopo il 1975 con degli impressionanti affreschi sulla solitudine e sull’incomunicabilità.

La Trilogia del rivedersi (Trilogie des Widersehens) del 1976 mostra, attraverso l’inugurazione di una esposizione di pittura in una piccola città di provincia, un universo di solitudine, di conflitti e di angoscie dietro la superficie degli stereotipi borghesi; gli stessi personaggi appaiono meno reali dei quadri di cui discutono. Grande e piccolo (Gross und Klein, 1979) tratta del vagabondare di una ragazza qualsiasi attraverso la Germania. Il suo desiderio di comunicare si scontra con continui rifiuti, si esaurisce in fallimenti e cadute grandi e piccole senza che lei possa rinunciare alla sua ricerca. La chiusura e la solitudine sono il motivo conduttore di tutte le opere di Strauss. Questo malessere si esprime ineluttabilmente sia nei drammi che nei racconti e nei romanzi, collegati tutti dal senso profondo di una complessa drammaturgia.

Vengono di lui rappresentati anche brevi monologhi come La dedica (Die Widmung, 1977), soliloquio di un uomo abbandonato dalla sua compagna in una torrida estate berlinese. La scelta di Berlino come scenario di molte delle sue opere non è fortuita, infatti S. associa la solitudine e il malessere interiore alla desolazione della città. La ricerca di un ancoraggio impossibile è ancora il tema di Kalldewey Farce , del 1982, che evoca due anonime donne perdute nei bar della metropoli. In Il parco (Der Park, 1983), la solitudine e la malinconia sono elevate a livello di potenze mitiche. Con riferimenti politici, ma scavando nella realtà dei sentimenti, l’autore ci mette di fronte alla necessità del ritorno a un’interiorità, per quanto mutilata e martoriata: i suoi personaggi, attraverso l’introspezione, dissezionano senza pietà la loro anima con la forza della disperazione.

Strauss – poeta come Handke e Wenders della solitudine moderna, dell’incomunicabilità degli esseri – è maestro nel rappresentare la confusione dei sentimenti, come in Visi noti, sentimenti confusi (Bekannte Gesichter, gemischte Gefühle, 1974). Il suo romanticismo trova ispirazione in un quotidiano trasfigurato in modo quasi mitico, ma anche in Kleist, Büchner e Hoffmann che gli aprono la possibilità, per esempio in Gli ipocondriaci, di trasformare i suoi personaggi nei loro doppi, prigionieri di una storia d’amore che li trasforma, apparentemente senza motivazioni comprensibili, mentre su tutto pende una minaccia inesprimibile che li segue nelle loro vite e nei loro sogni.

Vicino al `teatro mentale’ di Handke, Strauss esprime più l’anonimato, la perdita di senso e di significato della coscienza moderna che non le istanze sociali. Il nuovo realismo di cui è promotore conduce dalla vita interiore verso l’esterno, integrando l’irrazionale, il quotidiano e il triviale. La rottura sentimentale, l’abbandono sono utilizzati come metafore della solitudine collettiva. Divenuti estranei alle loro vite, privati di spontaneità, vittime della loro perpetua coscienza riflessiva, i personaggi di S. sono carnefici e vittime delle loro speranze deluse, passano attraverso processi di fusione e di scissione come in Marlenes Schwester (La sorella di Marlene, 1975).

Al grido muto di Handke, alla violenza di Bernhard, Strauss oppone un concetto drammatico della soggettività (“Ich-Dramatik”) di stampo espressionista. Ma la disperazione e la solitudine dei suoi personaggi conducono spesso a una lucidità dolorosa. La lingua di Strauss, maschera del vuoto, con la sua impressionante bellezza, è espressione di un nuovo romanticismo, quello della disillusione. Tra le sue opere più recenti sono da ricordare: Il tempo e la stanza (Die Zeit und das Zimmmer, 1989); Coro finale (Schlusschor) e I vestiti di Angela (Angelas Kleider) entrambe del 1991; L’equilibrio (Das Gleichgewicht, 1993) e Jeffers-Akt I und II , del 1998.

Self

Esponente della seconda generazione postcunninghamiana, si esibisce al The Kitchen newyorkese negli anni ’70, cura poi per Robert Wilson le coreografie della sezione olandese (Rotterdam, 1983) e di quella italiana (Roma, 1984) dell’opera multidisciplinare The Civil Wars . Crea brani come The Mozart Pieces , Urban Glance , Between Lives (1986). Considerato un enfant terrible della coreografia, è autore ironico e non privo di eccentricità nel parodiare lo stile barocco.

Sangermano

Jellinek; Milano 1939), attore. Si diploma nel 1960 all’Accademia dei Filodrammatici dove continua a lavorare per gran parte della sua carriera e dove, dal 1985 insegna cultura teatrale. Tra le sue tante interpretazioni ricordiamo il ruolo di Dobson in Radici di Wesker (1961), e quello di Orazio nell’ Amleto con la regia di Lavia (1978). Con Delia Bartolucci ha partecipato a molti spettacoli sperimentali diretti da Massimo Binazzi. Nel 1983 lavora con Castri in un Pirandello, La ragione degli altri , nel 1987 interpreta un singolare Melampo , tratto dall’opera di Ennio Flaiano, con Massimo De Rossi. Infine vanno segnalate le sue partecipazioni a diverse regie di Puggelli come I rusteghi del 1983 e Il conte di Carmagnola del 1989.

Salerno

Mini Salerno inizia come cabarettista con i Gatti di Vicolo Miracoli (v.). Sciolto il gruppo nel 1986, Salerno abbandona il cabaret e inizia una nuova carriera come regista di fiction per la televisione, (tra l’altro la serie de “I ragazzi del muretto”, 1990). Sul grande schermo interpreta una parte ne Il testimone dello sposo , per la regia di Pupi Avati e, nel 1998 è attore teatrale nella commedia brillante Terapia d’urto di W. Lupo.

Sarzi

Otello Sarzi è figlio di Francesco (Mantova 1893-ivi 1983), a sua volta figlio di un altro burattinaio, Antonio (Mantova 1863). Muovendo da una conoscenza profonda del repertorio e dello stile tradizionale (che sa presentare in modo mirabile), raccolta in famiglia, S. ha svolto un ruolo assolutamente determinante nel rinnovamento del nostro teatro d’animazione. Già nel 1953, fonda a Chiusi un Teatro stabile di burattini e marionette, ma è nel 1957, a Roma, che inizia la sua opera creativa e innovativa con il Teatro sperimentale burattini e marionette, anche con la collaborazione di Maria Signorelli che mette in scena testi di Brecht (Un uomo è un uomo), García Lorca (Il teatrino di Don Cristobal) e Arrabal (Pic-nic).

La compagnia intraprende tournée all’estero con spettacoli musicali dei Virtuosi di Roma e, nel 1969 si stabilisce presso Reggio Emilia, alternando presenze nazionali e internazionali – oltre che in quasi tutti i Paesi europei, Sarzi ha portato il suo teatro in India, in Africa, negli Usa, invitato ai più importanti festival – a un’attività didattica (seminari di costruzione e di animazione dei burattini nelle scuole) in Emilia Romagna. Frequenti sono le collaborazioni con la tv italiana e della Svizzera italiana. Numerosi sono i suoi spettacoli di rilievo, spesso anche tecnicamente molto complessi, ambiziosi e sempre caratterizzati da un forte impegno culturale e un’esplicita consapevolezza politica. Sarzi rappresenta uno dei momenti più alti e importanti nella vicenda del nostro teatro d’animazione nel secondo dopoguerra e dalla sua esperienza, direttamente e indirettamente, sono derivate alcune compagnie tra le più interessanti nel nostro Paese.

Smuin

Formato con i fratelli Christensen e alla San Francisco Ballet School, danza nel San Francisco Ballet (1957-1962). Entra poi nell’American Ballet Theatre come primo ballerino e coreografo (1969-1973). In seguito è direttore del San Francisco Ballet fino al 1985 e crea Pulcinella Variations , Gartenfest , The Eternal Idol , Schubertiade , Harp Concerto , Shinjiu , Romeo and Juliet , A Song for Dead Warriors , The Tempest . Talento polivalente, coreografa anche il musical Sophisticated Ladies , su musica di Duke Ellington (1980).

Serra

Una delle firme più divertenti e originali del giornalismo, Michele Serra ha coltivato fin dall’inizio della sua carriera interessi per lo spettacolo, soprattutto per quello d’autore – ha scritto un saggio su Gaber – e, naturalmente, per la satira. Ha scritto per Beppe Grillo monologhi, sketch e il primo spettacolo Buone notizie (assieme a Arnaldo Bagnasco) e L’assassino, scritto in collaborazione con Massimo Martelli e i protagonisti, I Gemelli Ruggeri. Lo spettacolo è stato allestito a Castelfranco Emilia con la regia di M. Martelli, presso il Teatro Comunale Dadà, nel 1994. L’ultimo suo testo è Giù al Nord, scritto in collaborazione con Antonio Albanese che ne è l’interprete (al testo ha collaborato anche il regista Giampiero Solari).

Sands

Si rivelò nel 1959 in Un grappolo di sole di L. Hansberry; fu la prima attrice di colore a interpretare a Broadway ruoli pensati per donne bianche, da un classico come Santa Giovanna di Shaw a commediole di consumo come Il gufo e la gattina di B. Manhoff. Recitò anche Brecht, fece del cabaret e ottenne i maggiori consensi in Blues for Mr Charlie di J. Baldwin (1964), per la perfetta resa vocale del linguaggio ritmico ed evocativo del testo. La sua morte prematura privò la scena statunitense di una delle sue attrici più singolari.

Sankai Juku

Fondata nel 1975, sotto la guida del coreografo Amagatsu Ushio (Yokosuka 1949) e composta da quattro ballerini (Takeushi, Semiranu, Ogata e Iwashita), la compagnia Sankai Juku esordisce in Europa nel 1980, durante il festival di Nancy. Nei loro spettacoli emerge fortemente l’influenza del percorso intellettuale sviluppato da Amagatsu, percorso tipico degli intellettuali appartenenti all’universo del Butô: uno strano mélange di letteratura (Sade, Genet, Artaud), di danza espressionista tedesca (in particolare Kreutzberg) e di echi della tragedia di Hiroshima. Anche il gruppo giapponese vive un suo trauma personale: nel 1982, mentre si esibivano a Seattle, la corda che regge per i piedi Takada, allora componente della formazione, si rompe, causando la morte dell’artista. La dolorosa perdita del compagno verrà riportata in Unetsu-hommage à Takada (1986), in cui gli interpreti si muovono attorno a una vasca piena d’acqua in cerca di enormi uova biancastre. In Shijima (1986) i ballerini sono come crocefissi, sospesi nello spazio, di fronte a un muro che assomiglia alla superficie lunare. I lavori di Amagatsu si sviluppano come una serie di quadri di fortissimo impatto. Il Butô, così come è interpretato dal gruppo S.J., perde ogni connotazione politica per acquistarne una metafisica.

Stuhr

Fresco di studi filologici, si iscrive nel 1970 a Cracovia alla Scuola superiore di studi teatrali. A cominciare dal 1972, soprattutto allo Stary Teatr, lavora con i più importanti registi polacchi: Konrad Swinarski, Jerzy Jarocki, Andrzej Wajda (quest’ultimo lo dirige in Delitto e Castigo e demoni , in cui S. dà prova delle proprie qualità drammatiche). Lavora però anche in tv, i coppia con Boguslaw Sobczuk, intrattenendo i telespettatori polacchi in una sorta di cabaret umoristico e generazionale. Parallelamente dà avvio alla carriera cinematografica. I primi riconoscimenti in questo campo gli vengono dai ruoli inventati per lui da Krzysztof Kieslowski ( La tranquillità , La cicatrice , Il cineamatore , Decalogo 10 , e infine Film bianco ), ma anche da Krzysztof Zanussi, Feliks Falk, Andrzej Wajda, Agnieska Holland. Più recente è il suo impegno di regista nei film L’elenco delle amanti , (1995) e Storie d’amore , (1997). Come attore, regista e insegnante teatrale, lavora anche in Italia, dove è noto per Il contrabbasso , monologo scritto nel 1980 da Patrick Süskind, e per essere stato diretto da Harold Pinter nella versione italiana di Ceneri alle ceneri (1997). Per tre anni, in Polonia, ha collaborato con il Ludowy Teatr, regista di Iwona, principessa di Borgogna e della Bisbetica domata .

Salveti

Lorenzo Salveti ha diretto numerosi spettacoli con le più importanti compagnie di prosa italiane. Nel corso degli anni ha portato avanti una ricerca personale, con un proprio gruppo, su autori italiani come Natalia Ginzburg, Pasolini, Landolfi, Savinio, Gadda. Dal 1990 al 1994 è stato direttore artistico del Teatro Stabile dell’Aquila. Dal 1977 insegna recitazione all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’; ha tenuto corsi in molte città europee e del Sudamerica. Ha curato numerose regie liriche e ha diretto in tv commedie di G.B. Shaw, A. Christie, V. Sardou, O. Wilde, G. Courteline, A. Roussin, T. Rattigan. Si è dedicato per molti anni alla regia radiofonica, vincendo per due volte il premio Italia.

Ha scritto La donna di Bath (1983) e Il caffè del signor Proust (1990). Tra le sue regie teatrali si ricordano: Brand di Ibsen (1975), La Venexiana (1976), Lulu di Wedekind (1977), Macbeth di Shakespeare (1978), Sindrome italiana , collage di testi di S. Benni (1979), Dialogo di N. Ginzburg (1980), Nostra dea di Bontempelli (1981), Orgia di Pasolini (1982), Il guerriero, l’amazzone, la poesia nel verso immortale del Foscolo di Gadda (1983), La cosa vera di Stoppard (1984), Le notti bianche da Dostoevskij (1985), Orestiade di Eschilo (1987), Metamorfosi da Ovidio (1992), La cognizione del dolore da Gadda (1994), La rappresentazione di Santa Uliva (1995), Delitti disarmati di Ceronetti (1996), Leopardi segreto (1997), Così è (se vi pare) di Pirandello (1998) e La locandiera di Goldoni (1998).

Slade

Bernard Slade fece rappresentare alcune commedie di modesta consistenza, ma costruite con abilità sufficiente ad assicurare loro repliche a Broadway, trasposizioni cinematografiche e successi internazionali. Furono tra queste L’anno prossimo alla stessa ora (Same Time, Next Year, 1975), su due amanti che per un quarto di secolo passano insieme un weekend all’anno; Serata d’onore (Tribute, 1978), su un uomo anziano che, condannato a morire di cancro, cerca per la prima volta di stabilire un rapporto col figlio; e Commedia d’amore (Romantic Comedy, 1982), su un drammaturgo che tenta a lungo di reprimere i propri sentimenti per una collaboratrice.

sceneggiata

La sceneggiata è un genere teatrale fiorito a Napoli tra le due guerre, che alterna il canto con la recitazione e il melologo drammatico. Gli intrecci sono ricavati dalle canzoni di successo del repertorio partenopeo, e articolati nel rispetto di un certo numero di ruoli fissi: Isso, detto anche `tenore’, è l’eroe positivo; Essa, detta anche `prima donna di canto’, è l’eroina; `O malamente è l’antagonista; `a mamma è la seconda donna; `o nennillo è un fanciullo generalmente figlio della coppia principale; `o comico e `a comica sono le parti buffe, alle quali è affidato il repertorio comico. Uno dei primi esempi di sceneggiata si deve alla compagnia di G. D’Alessio, che nel 1918 rappresenta Pupatella, tratta dall’omonima canzone di Bovio. Da allora il genere diventa uno degli spettacoli preferiti del pubblico popolare napoletano, incarnandone valori e aspirazioni.

Molte compagnie vi si dedicano quasi esclusivamente, tra le più celebri la Marchetello-Diaz, la Maggio-Coruzzolo-Ciaramella che trionfa ripetutamente tra gli emigrati napoletani di New York, e la più importante, la Cafiero-Fumo che agisce ininterrottamente dal 1921 sino agli anni ’40. Un nutrito manipolo di `poeti di compagnia’ foraggia di novità gli attori; tra i più prolifici, E.L. Murolo (Surriento gentile, `A santa notte, Fiocca la neve), Oscar di Majo (Core furestiero, Napoli canta, Cicerinella teneva, teneva), Gaspare di Majo (O sole mio, Torna al paesello, Te lasso, Lacreme napulitane), Raffaele Chiurazzi (‘O zappatore, Tarantella scugnizza).

La sceneggiata è adottata anche dalla nascente industria cinematografica: tra il 1919 e il 1927 la Miramare film di Emanuele Rotonno, grazie al successo di Lucia Lucì (1919, regia di U.M. Del Colle), realizza circa un centinaio di film, tutti molto apprezzati dal pubblico napoletano e dagli emigrati nelle Americhe. Negli anni ’40 il genere entra in crisi; l’inesorabile decadenza è contrastata da poche e occasionali compagnie, tanto che nel 1969 a Napoli rimane solo il Teatro Duemila, gestito da Giovanni Fiorenza, a conservare la tradizione. Negli anni ’70 la s. vive i suoi ultimi fasti, attualmente non ancora del tutto spenti, per opera di Mario Merola e Pino Mauro.

Smith

Maggie Smith inizia la carriera come comparsa in uno spettacolo di varietà, New Faces , per poi diventare protagonista accanto a Kenneth Williams in un’altra rivista Share My Lettuce (1956). Il successo raggiunto con il varietà non le impedisce tuttavia di sperimentarsi in altri generi, da qui l’incontro con la compagnia Old Vic con cui partecipa, nella stagione 1959-60, a due allestimenti shakespeariani: Come vi piace e Riccardo II, per poi lavorare in La prova di Jean Anouilh (1961) e ne L’orecchio privato e L’occhio pubblico di Peter Shaffer (1962). Di seguito collabora con il National Theatre e, diretta da Laurence Olivier nell’ Otello, interpreta una memorabile Desdemona (1963). Si distingue soprattutto come interprete di commedie di costume, da Così va il mondo di William Congreve (1984) a Vite private (1972) di Noël Coward. Intraprende anche la carriera cinematografica, che le vale l’Oscar per La strana voglia di Jean (The Prime of Miss Jean Brodie, 1969). Nel 1976, dopo il divorzio dal primo marito, l’attore Robert Stephens, e dopo essersi già risposata con lo scrittore Beverly Cross (1975), inizia a lavorare con la compagnia di Stratford (Ontario, Canada), dove si trasferisce per un certo periodo allestendo tra l’altro Virginia, uno studio sulla vita di Virginia Woolf che poi porterà nel 1981 anche a Londra.

Sanipoli

Dotato di gran prestanza fisica e di ottime doti tecniche, Vittorio Sanipoli, durante la carriera, ha saputo passare con grande disinvoltura da ruoli drammatici a ruoli brillanti se non comici. Dopo l’esordio, avvenuto nel 1939, recita con la Compagnia degli Spettacoli Gialli diretta da R. Calò (Broadway di Dunning e Abbott, 1941), in cui si distingue per la sua verve e il suo piglio energico. Dopo la guerra lavora con Ruggeri, e Ricci e nel 1950-51 entra nella compagnia del Teatro Nazionale diretta da G. Salvini, in cui recitavano anche V. Gassman e M. Girotti. Nella stagione 1954-55 è tra i protagonisti del gruppo del Nuovo Teatro ETI diretto da G. De Bosio (Corte marziale per l’ammutinamento del Caine di H. Wouk, Il sacro esperimento di F. Hochwaulmlder) e, sempre con De Bosio, nel 1957-58 è al Teatro Stabile di Torino dove fornisce una delle sue migliori prove con Bertoldo a corte (1957) di M. Dursi. In seguito lavora con la Compagnia del Teatro Popolare diretta da L. Squarzina in Romagnola (1959) dello stesso Squarzina e in Il benessere (1959) di F. Brusati e F. Mauri. Ricordiamo anche Don Gil dalle calze verdi (1960) di T. da Molina, regia di Salvini al Teatro Floridiana di Napoli e Storia di Pablo (1961) di S. Velitti da Pavese, con la regia di V. Puecher. Al cinema, tra i molti film interpretati, sono da ricordare: Napoletani a Milano (1940) di E. De Filippo, La domenica della buona gente (1954) di A. G. Majano e Grisbì (1954) di J. Becker.

Syxty

Personalità eclettica con vari interessi nei differenti campi della comunicazione: dal teatro al cinema, dalla pubblicità al design. Antonio Syxty ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro come assistente alla regia e in seguito si è specializzato in corsi di video, editing e comunicazione. È stato anche regista per alcune produzioni di spettacolo legate al mondo della canzone leggera italiana. Ha realizzato inoltre cortometraggi a soggetto e attualmente sta lavorando al suo primo lungometraggio. Tra le sue regie teatrali più significative si evidenziano: Tieste di Seneca 1991, Molto rumore per nulla di Shakespeare con la Compagnia Pambieri-Tanzi 1994, L’annunzio a Maria di Paul Claudel (adattamento con D. Rondoni, traduzione e regia, 1995) di cui ha anche curato la regia televisiva. In qualità di autore ha messo in scena tra gli altri, Una danza del cuore (Pietre) che ha partecipato al Festival di Asti nel 1995, Armageddon di Filippo Betto (premio Riccione Tondelli, 1997) e L’aquila bambina, segnalato dal premio Riccione del 1992 e messo in scena da Luca Ronconi. Nel Cantiere Laboratorio su La guerra delle due rose, realizzato per il Centro servizi e spettacoli di Udine, finalizzato alla messa in scena di uno dei drammi più lunghi e complessi di Shakespeare, l’ Enrico IV. Artefice della prima messa in scena integrale del testo shakespeariano, Syxty per questo lavoro ha voluto un allestimento scenico ricchissimo di oggetti più vari, soprattutto bare, che di volta in volta delimitano gli spazi mentali enucleandone la finalità ossessivamente mortuaria.

Sanguineti

Professore universitario di letteratura italiana dal 1970 (a Salerno e Genova), l’opera di Edoardo Sanguineti nasce e si sviluppa sotto il segno della nuova avanguardia a cui partecipa collaborando al “Verri” e al Gruppo 63. Le raccolte poetiche Laborintus (1959), Erotopaegnia (1961), Purgatorio de l’inferno (1964), T.A.T . (1968), Winwarr (1972), Bisbidis (1987), Senza Titolo (1992) testimoniano l’ossessione filologica, il pluriliguismo in funzione onirica e grottesca, la contaminazione tra ricerca scenica, musicale, pittorica. Rilevante nella sua opera la produzione di testi per il teatro (per il quale ha tradotto anche numerosi classici): K e altre cose (1962), Teatro (1969), in cui giunge a una totale desemantizzazione della parola, usata in maniera strumentale sul modello di una partitura musicale. La collaborazione di Sanguineti con musicisti, in modo privilegiato con L. Berio (Passaggio, Laborintus Due) data dai primi anni ’60. Prosegue fino ad accostare il linguaggio poetico alla musica di largo consumo e legata alla cultura giovanile, come nel lavoro sul rap con A. Liberovici (le sceneggiature-partiture Rap, Sonetto, Macbeth Remix , Festival di Spoleto 1998), dove il rap è tecnica ritmica, musicale e del discorso verbale, «modo paradossale per recitar cantando». Sono inoltre di Sanguineti le sceneggiature-drammaturgie-testi di Orlando furioso per la regia di L. Ronconi, di Commedia dell’inferno per i Magazzini Criminali, con la regia di Tiezzi.

surrealismo

Il surrealismo che si sviluppa in Francia negli anni ’20 e ’30, si enuclea intorno alla poetica dell’inconscio di Breton come ricerca artistica, libera da ogni preoccupazione estetica e morale, del rapporto tra sogno e realtà attraverso l’esplorazione delle zone oscure, alluncinatorie e folli della psiche. Ad eccezione del ‘divertissement’ Le mammelle di Tiresia (scritto nel 1903 e rappresentato nel 1917) di Apollinaire, delle spettacolarizzazioni di origine dadaista e di alcune trasposizioni drammatiche da romanzi di Roussel, non esiste propriamente una produzione drammaturgica surrealista, poiché l’opera dell’autore e la comunicazione oggettività nella realtà esterna dei personaggi è negata a livello teorico dallo stesso Breton. Alle suggestioni del s. si rifà tuttavia Antonin Artuad che assieme a Roger Vitrac rappresentano la vera fecondità teatrale del surrealismo.

Sarraute

Nata in Russia, ma trasferitasi ben presto in Francia, dove ha compiuto la sua formazione culturale, Nathalie Sarraute rappresenta, con Alain Robbe-Grillet, una delle personalità di maggior spicco del movimento del Nouveau Roman. Nonostante sia la prosa il suo campo d’azione privilegiato, l’autrice ha dedicato la sua attenzione anche al teatro. Sotto il titolo generico di Théâtre Sarraute ha infatti riunito nel 1978 la sua produzione: Le silence e Mensonge, scritti rispettivamente nel 1964 e nel 1966, ma messi in scena per la prima volta a Parigi nel 1967, Isma e C’est beau, che sono andati in scena nel 1970 e Elle est là , realizzata nel 1980. Così come nella sua opera narrativa Sarraute procede verso l’azzeramento della trama, nel suo teatro l’autrice presenta temi sottilissimi, intessuti di pause significanti e di silenzi che si vogliono ricchi di pregnanza.

«I miei veri personaggi sono le parole», ebbe ad affermare l’autrice: nel suo teatro le parole sono poche, con un esito di sintesi poetica, ma anche espressiva davvero notevole. Parole sospese – frequentissimo è l’uso dei puntini di sospensione – in cui filtra l’ambiguità dell’esistenza. Il teatro della Sarraute riproduce dunque sulla scena il carattere frammentario della narrazione e un linguaggio che, nelle sue esitazioni, cerca di tradurre i movimenti psicologici e le oscillazioni del pensiero che, nell’opinione dell’autrice, danno forma e sostanza alle arti.

Scarfiotti

Dopo aver affiancato L. Visconti in qualità di assistente (Il giardino dei ciliegi di A. Cechov, 1965), Ferdinando Scarfiotti esordisce con La governante di Brancati (1965), con la regia di G. Patroni Griffi, per il quale lavora anche alle scene dei fortunati Vestire gli ignudi di Pirandello (1966), Victor, ovvero i bambini al potere di R. Vitrac (1969) e del più recente Il valzer dei cani di L. Andreev (Roma, Teatro Eliseo, 1978), dalle atmosfere malinconiche, con grandi quinte laterali che tagliano la luce in modo netto e pochi arredi gettati nello spazio scenico come isole, con uno stile geometrico che è da sempre caratteristica dell’artista. Attivo anche nel teatro d’opera, cura l’allestimento di un felicissimo Egmont di Goethe (Milano, Teatro alla Scala, 1968), tornando a collaborare con Visconti, che lo impegna successivamente pure in campo cinematografico (Morte a Venezia, 1971), dove lo scenografo opera di preferenza negli ultimi anni (con B. Bertolucci realizza Ultimo tango a Parigi, 1972 e L’ultimo imperatore, 1994).

Salaroli

Dopo la laurea in lettere Alarico Salaroli debutta al Teatro Uomo, dove rimane dal 1974 al 1978; lavora con la regia di L. Puggelli (che ha rifondato la sala di via Gulli a Milano) in La Ninetta del Verzee , Fede, speranza e carità , Lo stordito di Molière. Dopo questa esperienza approda al Piccolo Teatro, rimanendovi fino al 1984: debutta in El nost Milan (nell’edizione con Mariangela Melato e Franco Graziosi) e, successivamente, partecipa ad altri spettacoli strehleriani (L’anima buona di Sezuan, La tempesta). Nel 1980 inizia la sua esperienza con Massimo Castri, con il quale recita in tutti gli allestimenti, alternando parti ironiche e drammatiche: inizia con il ruolo di Tesman in Hedda Gabler (con la Moriconi) e John Gabriel Borkmann di Ibsen, cui seguono due testi di Pirandello, Così è (se vi pare) e Il berretto a sonagli (con Tino Schirinzi); tra le sue interpretazioni anche il padre in Amoretto di Schnitzler, Il gabbiano di Cechov, Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux. Partecipa al progetto sulla tragedia per l’Atelier della Costa Ovest con Oreste , nel ruolo di Menelao; infine, è Paolino e Fulgenzio nella Trilogia della villeggiatura di Goldoni (1995-96).

Squarciapino

Dopo gli studi classici, Franca Squarciapino si dedica come attrice al teatro, ottenendo una borsa di studio dalla televisione. Il suo debutto in teatro come costumista avviene al fianco di E. Frigerio nel 1972 per lo spettacolo Re Lear di Shakespeare al Piccolo Teatro di Milano con la regia di G. Strehler, per il quale allestisce i costumi del Temporale di Strindberg (1980), Minna von Barnhelm di Lessing (1983), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (1987). Tra gli innumerevoli spettacoli costruiti per il teatro d’opera sempre con le scene di E. Frigerio e la regia di G. Strehler ricordiamo Le nozze di Figaro (1981, costumi) e Don Giovanni (1987, costumi) di Mozart alla Scala di Milano. La sua intensa attività di costumista la porterà a lavorare nei diversi campi dello spettacolo (ottenendo fra l’altro per il cinema, il premio Oscar ai costumi, nel 1991 per il film Cyrano di Bergerac ), con registi di riconosciuta fama tra i quali, ancora Strehler – per Lohengrin di Wagner alla Scala e il Fidelio di Beethoven (Scala e Parigi, Châtelet 1990) – L. Ronconi, N. Espert, G. Deflo, L. Pasqual, L. Cavani, V. Puecher, A. Konchalowsky, R. Planchon. Per B. Wilson disegna i costumi per Medea-Medée a Lione e a Parigi. Collabora nel balletto con Nureyev, Grigorovic, C. Hoyos, si cimenta anche in un musical, Can Can con la coreografia di R. Petit. Tra le sue ultime collaborazioni per il melodramma ricordiamo i costumi per Così fan tutte di Mozart con la regia di Strehler al Piccolo Teatro (1998), e lo spettacolo di riapertura del Teatro Massimo di Palermo con Aida di Verdi, per la regia di N. Noel (1998). Nei suoi costumi, particolari sono gli abbinamenti di colore dei tessuti, tono su tono sempre armoniosi e di grande eleganza. La ricerca dei dettagli e la fedeltà storica del taglio lasciano spazio all’invenzione fantastica con materiali non convenzionali.

Sukowa

Dopo gli studi di recitazione a Berlino, nel 1971 debutta in Cavalcata sul lago di Costanza di P. Handke, che C. Peymann mette in scena alla Schaubühne. Lavora poi a Darmstadt, Brema e Amburgo dove, presso il Deutsches Schauspielhaus, recita nel ruolo di Elena in Sogno di una notte di mezza estate (1978), con la regia di Franz Marijnen. Dopo il 1982 viene scritturata al Bayerischen Staatsschauspiel dove interpreta, fra l’altro, il ruolo di Desdemona nell’ Otello , diretta da P. Palitzsch. Nel 1986 è Polly nell’ Opera da tre soldi di Brecht e Weill che Strehler mette in scena a Parigi; nel 1992, a Monaco, è la voce recitante nel Pierrot Lunaire di Schönberg. Attrice capace di creare una sottile e pur intensa tensione con un raffinato controllo degli strumenti del corpo e della voce, è stata anche protagonista di diversi film con registi quali R.W. Fassbinder, M. von Trotta e M. Cimino.

Sipario

Fondata nel 1946 a Genova da Ivo Chiesa, Sipario è stata diretta negli anni ’50 e ’60 da Valentino Bompiani, con Franco Quadri come caporedattore, segnando una stagione fondamentale per il rinnovamento del teatro italiano. In seguito la direzione è stata assunta da Tullio Kezich (1970), Giacomo De Santis (1974), Stefano De Matteis e Renata Molinari (1980). Dopo una brevissima sospensione, nel dicembre 1981 la rivista riprendeva le pubblicazioni, ancora diretta da Giacomo De Santis; infine l’attuale direttore è l’attore e regista Mario Mattia Giorgetti, in carica dal 1984. In oltre cinquant’anni di attività la rivista ha ospitato articoli dei più importanti critici e drammaturghi di questo secolo; inoltre ha pubblicato centinaia di testi di commediografi italiani e stranieri. È stata ed è un punto di riferimento per addetti ai lavori e semplici appassionati.

stabile,

Un teatro stabile è un ente autonomo comunale che gode di sovvenzioni statali e talora di contributi privati. Il teatro stabile costituisce in Italia una struttura teatrale di servizio pubblico. Sorto con l’affermazione del teatro di regia nel secondo dopoguerra, intende rispondere sia alle esigenze di radicamento territoriale sia di sicurezza economica che da sempre attraversano il nomadismo teatrale italiano, costituito da compagnie private a gestione capocomicale. Ad esso si aggiunge la visione, condivisa dalla generazione dei registi degli anni ’40 e ’50 sia in Italia (Strehler, Squarzina, De Bosio) sia in Francia (Vilar), di un teatro popolare, capace di raggiungere tutti i ceti e di svolgere un ruolo di alfabetizzazione spettacolare, proponendo opere di alto livello qualitativo. Già nel 1935 al Convegno Volta, Silvio D’Amico aveva sollevato la questione del rapporto fra teatro e stato, ma è con la fondazione nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano che nasce il teatro stabile nella sua formula storica. Operazione complessa di ingegneria politica e amministrativa compiuta da Paolo Grassi, il Piccolo diviene un modello concreto e praticabile dal punto di vista istituzionale di un teatro stabile a gestione pubblica e, dal punto di vista artistico, con il lavoro di Giorgio Strehler – soprattutto nel primo ventennio della sua storia – di un luogo protetto dove sperimentare la nuova ricerca registica. Nel 1955 sorge per opera di Ivo Chiesa lo Stabile di Genova, dove lavora dal 1962 al ’76 Luigi Squarzina; nello stesso anno inizia la sua attività lo Stabile di Torino, di cui è direttore artistico dal 1957 al ’68 Gianfranco De Bosio. Orazio Costa Giovangigli tenta senza successo un’operazione analoga a Roma tra il 1948 e il ’54. Tra il 1962 e il ’63 si afferma, anche se su scala ridotta, un sistema di t.s. che, oltre al triangolo storico di Milano, Torino, Genova, attualmente comprende Catania, Napoli, Palermo, Cosenza, Roma (sorto nel 1965 con Pandolfi), L’Aquila, Trieste, Firenze, Bologna, Bolzano, Brescia, Parma.

Sanasardo

Formato con Tudor, Graham e Mia Slavenska, debutta con il Thimey Dance Theatre nel 1951 per esibirsi poi con le compagnie di Anna Sokolow, Pearl Lang, a Broadway e con il New York City Opera Ballet. Fondatore con Donya Feuer della Sanasardo Dance Company (1957) e dello Studio for Dance (1958), ricopre l’incarico di direttore artistico della Batsheva Dance Company (1877-81), del Modern Dance Artists di New York e della School of Modern di Saratoga. I suoi lavori, di carattere intimamente emozionale, si fondano sui valori virtuosistici della pura danza.

Sironi

Esponente del movimento Valori Plastici nel 1918 e protagonista del gruppo Novecento negli anni ’30, S. avviò le prime esperienza di scenografo nei teatri milanesi d’avanguardia: la Piccola Canobbiana, dove nel 1924 lavorava a I cavalieri di Aristofane per la regia di Ettore Romagnoli (spettacolo mai rappresentato), e il Teatro del Convegno, che nello stesso anno mise in scena Marionette, che passione! di Rosso San Secondo, dove S. realizzò le scene e i costumi in collaborazione con Emanuele Fontanals. Esordi a cui fece seguito il primo importante debutto come scenografo con L’isola meravigliosa , messo in scena al Teatro Manzoni nel 1930 per la regia di Guido Salvini, col quale S. realizzò quasi tutti i suoi lavori teatrali futuri. In questo dramma di U. Betti, dove V. De Sica è interprete di re Nadir, S. dispiega già i tratti essenziali della sua poetica, con i rari ed essenziali toni di colore dei bozzetti fortemente espressivi, che definiscono l’impianto formale concepito in un non finito materico, e una concezione grandiosa e visionaria della scena. Le scenografie di S. risentono delle sue esperienze pittoriche, riprendono soluzioni da lui sperimentate nel campo dell’illustrazione e rivelano l’influenza delle sue esperienze in architettura al fianco di Giovanni Muzio, come già appare nei bozzetti per Lucrezia Borgia di Donizetti, rappresentata al Maggio fiorentino del 1933, dove l’artista elabora una quinta architettonica fortemente disegnata e chiaroscurata, con campiture piatte, dove prevalgono la biacca e il nero, elementi che ricordano studi grafici e dipinti degli anni precedenti. Un lavoro dove si rivelava il clima fortemente drammatico e visionario che caratterizza l’opera di S. scenografo, qui realizzato nel clima notturno che domina l’intero svolgimento del dramma nella pittura dei grandi fondali e delle quinte. Dopo Tosca di Puccini per la tournée dell’Opera di Roma in Olanda, nella stagione 1934-35, e il progetto mai realizzato di una Luisa Miller di Verdi per il Maggio del 1937, segue la prima rappresentazione italiana del Doktor Faust di Busoni per il Maggio del 1942, e un Tristano e Isotta di Wagner rimasto storico, rappresentato alla Scala nel 1947 sotto la direzione di Victor De Sabata e con la regia di Hans Zimmermann, due opere che mostrano la piena e felice maturazione espressiva dell’artista. S. è ora giunto a definire la propria idea teatrale: un ambiente scenico dichiaratamente falso, illusorio, dove la rappresentazione supera l’esperienza reale per coinvolgere emotivamente lo spettatore e provocare «certo terremoti che sono la vita dell’arte e dell’emozione», mentre «se si fa ordine e si mette ogni cosa a posto si esce dalla magia e ci si trova in un mondo banale». Per I Lombardi alla prima crociata , un’opera giovanile di Verdi ricca di difficoltà di rappresentazione per i continui cambiamenti di scena, S. realizzò tredici bozzetti passando dall’effetto possente delle forme architettoniche romaniche agli ambienti orientali, e agli alberi dai rami nudi e spezzati, le rocce, le colonne del suo repertorio pittorico. Numerosi i disegni per i costumi che rimandano ai suoi dipinti degli anni ’30 o si ispirano alle sculture medioevali. Siamo nel 1948 ed è la penultima esperienza di S. al Maggio fiorentino. L’ultima risale a due anni dopo, col Don Carlos di Verdi, dove forse riprende in parte i precedenti disegni per l’edizione annullata del 1943 e dove si compendia la sua esperienza artistica in una riuscita efficacia scenica, visiva e drammatica, nel dispiegarsi di situazioni sempre dominate dal pittoricismo come motivo espressivo culminante nel bozzetto per la prima scena del quarto atto, uno dei momenti di maggiore intensità dell’opera. Un posto a parte occupano i due spettacoli al Teatro Romano di Ostia del 1949, Medea e Il ciclope , sempre per la regia di Salvini, dove S. dispose negli spazi all’aperto pesanti masse volumetriche di finte pietre e rocce, tendendo a un’astrazione di colori e di linee che caratterizza particolarmente i costumi.

statue di cera

di c. potrebbe essere considerato lo scultore Antonio Benoist (1629 -1717), il quale fu così abile nel modellare in cera le figure dei suoi contemporanei in grandezza naturale, da ottenere il permesso da Luigi XIV di esporre in pubblico le sue creazioni. Da allora quasi tutte le fiere si popolarono di queste sculture, riscuotendo curiosità e consensi. Fra coloro che si distinsero è opportuno citare Madame Tussaud (1761 -1850) che ha dato il nome al Museo delle cere di Londra, considerata l’iniziatrice in epoca moderna di queste esposizioni. Fino alla fine dell’Ottocento il museo delle cere popolò attivamente le fiere europee, poi l’interesse del pubblico diminuì e queste sculture andarono a far parte di musei stabili.

Sylos Labini

Diplomatasi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ di Roma, ha svolto un’intensa attività in diversi campi, dimostrando grande versatilità; interprete sia drammatica sia comica, è anche autrice di testi teatrali, radiofonici e televisivi. Tra i suoi numerosi spettacoli: Lavati porco e Vattene da dietro Satano , entrambi scritti e interpretati per la regia di E. Coltorti; Niente sesso siamo inglesi di Marriot e Foot, nel ruolo che fu di Bice Valori; L’assassino di Michele Serra, a fianco dei Gemelli Ruggeri. Al cinema la ricordiamo in Ladri di saponette di M. Nichetti (1989), con cui ha vinto il premio come miglior attrice protagonista al Festival di Chicago.

Spadaro

Laureatosi in giurisprudenza, Ottavio Spadaro fondò nel 1942 il Teatro universitario di Bolzano. Nel 1948 si diplomò all’Accademia nazionale d’arte drammatica con un allestimento del Cane del giardiniere di Lope de Vega. Tra le sue molte regie vanno ricordate quelle legate al teatro pirandelliano, quella di Corruzione al Palazzo di Giustizia di U. Betti (1956) e quelle di testi contemporanei. Nei suoi spettacoli dedicò un’attenzione particolare alla cura della recitazione, considerandola l’elemento primo e fondante di ogni messa in scena. Scrisse anche alcuni importanti saggi sul teatro di Betti.

Schisgal

Si affermò nel 1960 con due spiritosi atti unici, I dattilografi (The Typists) e La tigre (The Tiger), che volgarizzavano con abile disinvoltura temi propri del teatro dell’assurdo. Tornò sugli stessi temi – l’alienazione dell’individuo, le trappole dell’amore ecc. – in Luv (1963), che fu un grosso successo commerciale (dopo la ripresa a Broadway nel 1964, regia di Mike Nichols) e confermò le sue esili doti di creatore di situazioni comiche e di personaggi eccentrici, non confermate né rafforzate dalle opere successive.