kabuki

La tradizione attribuisce l’origine del Kabuki a O Kuni, danzatrice che all’inizio del XVII secolo si esibiva pubblicamente in danze che rese poi più complesse grazie all’incontro con Nagoya Senzaburo, un ex samurai conoscitore del nô e del kyogen. Queste danze erano chiamate k., ossia bizzarre, e solo più tardi gli studiosi videro nel termine k. l’unione delle tre sillabe iniziali delle tecniche che vi si fondono: `ka’, il canto; `bu’, la danza; `ki’, l’arte. Fino al 1629 il k. fu esclusivamente femminile e connesso implicitamente con la prostituzione, poi fu per una breve fase affidato a fanciulli, per divenire infine esclusivamente maschile; nacque così l’ onnagata , attore specialista di ruoli femminili. Sostanzialmente codificato entro la fine del XVII secolo, il Kabuki si è tramandato fino a oggi attraverso vere e proprie dinastie di attori (le principali: Ichikawa, Nakamura, Segara, Matsumoto). Il Kabuki, in quanto teatro popolare, si è sempre appropriato di tecniche, storie e drammi delle altre forme rappresentative, producendo uno stile estremamente ricco e, per i canoni giapponesi, eclettico. Il Kabuki narra vicende o gesta di personaggi storici o leggendari, oppure episodi sensazionali di ambiente cittadino. I drammi sono composti generalmente di cinque atti, talora interpolati con danza pura o mimica. Come per il nô, il palcoscenico è collegato agli spogliatoi mediante un ponte che qui, però, attraversa la sala: detto ‘cammino dei fiori’ ( hanamichi ), è spesso utilizzato dagli attori anche come luogo di rappresentazione; spesso vi è un secondo hanamichi .

Il Kabuki è un teatro movimentato, con molti personaggi, fino a venti-trenta in scena contemporaneamente; con cambi di scena e di costumi spesso a vista, e impiego di trucchi scenici e trabocchetti. Oggetti scenici e gesti hanno spesso precisi significati convenzionali (un telo nero per notte, spingere indietro le code del costume per collera, e così via). Dal tipo di costume e di trucco il pubblico può individuare il personaggio, in genere appartenente a una galleria di tipi riconoscibili: aragoto è l’eroe, wagoto l’amoroso; gli onnagata distinguono la sposa felice, la donna malvagia, la principessa, e così via. A ciascuno corrispondono specifici stili espressivi (aragoto ad esempio è lo stile più enfatico, connesso con situazioni di violenza o eroismo). Le rappresentazioni sono accompagnate dalla musica, con percussioni, strumenti a corde pizzicate (shamisen) e cantanti; ciò nondimeno, agli attori è richiesta un’elaborata tecnica nell’uso della voce, oltre a una non meno elaborata tecnica del corpo. Caratteristico del Kabuki è l’arresto dell’azione in quadri di assoluta immobilità nei momenti di climax, che ne risulta perciò accresciuto; analogamente, gli attori a tratti si arrestano in pose di bravura (mie).

Sankai Juku

Fondata nel 1975, sotto la guida del coreografo Amagatsu Ushio (Yokosuka 1949) e composta da quattro ballerini (Takeushi, Semiranu, Ogata e Iwashita), la compagnia Sankai Juku esordisce in Europa nel 1980, durante il festival di Nancy. Nei loro spettacoli emerge fortemente l’influenza del percorso intellettuale sviluppato da Amagatsu, percorso tipico degli intellettuali appartenenti all’universo del Butô: uno strano mélange di letteratura (Sade, Genet, Artaud), di danza espressionista tedesca (in particolare Kreutzberg) e di echi della tragedia di Hiroshima. Anche il gruppo giapponese vive un suo trauma personale: nel 1982, mentre si esibivano a Seattle, la corda che regge per i piedi Takada, allora componente della formazione, si rompe, causando la morte dell’artista. La dolorosa perdita del compagno verrà riportata in Unetsu-hommage à Takada (1986), in cui gli interpreti si muovono attorno a una vasca piena d’acqua in cerca di enormi uova biancastre. In Shijima (1986) i ballerini sono come crocefissi, sospesi nello spazio, di fronte a un muro che assomiglia alla superficie lunare. I lavori di Amagatsu si sviluppano come una serie di quadri di fortissimo impatto. Il Butô, così come è interpretato dal gruppo S.J., perde ogni connotazione politica per acquistarne una metafisica.

Tokyo Ballet

La compagnia Tokyo Ballet (già Cajkovskij Memorial Ballet) nasce dalla prima scuola di danza accademica, il Tokyo Ballet Gakko, fondata nel 1960 da Koichi Hayashi. Nel 1964 scuola e compagnia vengono riorganizzate da Tadatsugu Sasaki, che insiste su insegnanti e metodi didattici russi ma apre anche al contemporaneo, imprimendo alla formazione un taglio internazionale. All’inizio del nuovo corso troviamo ancora Il lago dei cigni e la Giselle allestita nel 1966 da Ol’ga Tarasova, del Bol’šoj di Mosca. Due anni più tardi Maja Plissetskaja e Nikolaj Fadeecev appaiono come guest , inaugurando la stagione, mai chiusa, dell’ospitalità ai grandi ballerini occidentali: da Natalia Bessmertnova a Michail Lavrovskij, e da Alicia Alonso a Margot Fonteyn a Ghislaine Thesmar. Lo scambio oriente-occidente favorisce la maturazione artistica della compagnia. Nel 1969 il coreografo Michel Descombey crea Mandala (musica di Toshiro Mayuzumi) e Saracenia (musica di Bartók).

Nel 1972 il cubano Alberto Alonso riprende la sua Carmen , che fa serata in abbinamento con Salomè di Béjart. Subito dopo a Tokyo e Osaka viene varato un Festival internazionale del balletto. E la preistoria diventa storia. Nel repertorio del Tokyo Ballet entrano creazioni di Attilio Labis, Harald Lander, Félix Blaska, George Balanchine. Nel 1978, anno del quindicesimo compleanno della compagnia, Aleksej Varlamov trasforma in balletto (Princess Kaguya) un’antica leggenda nipponica. Le celebrazioni del ventennale corteggiano Maurice Béjart, che rimane abbagliato e definisce ‘insuperabili’ i ragazzi di Sasaki: nascono The Kabuki (1986), Bugaku (1988), M-Mishima (1993), mentre John Neumeier dedica ai giapponesi Seven Haiku of the Moon , i `sette haiku della luna’ che esaltano l’aforisma poetico dell’haiku. Crollati molti miti e sbiadita la fama dei paludati complessi statunitensi, il Tokyo Ballet si propone oggi come una delle più stimolanti realtà del panorama coreutico mondiale. Imbattibili e infaticabili emulatori, i danzatori giapponesi sono riusciti ad appropriarsi di una tecnica che la cultura europea e segnatamente franco-italiana aveva codificato a proprio uso e consumo; cioè per altre gambe, altre braccia, altra capacità introspettiva. Sono riusciti a vincere ogni ostacolo, anche fisiologico, per farsi depositari di una perfetta `danse d’école’ declinata in senso virtuosistico. Il fatto ha meritato ai singoli premi e riconoscimenti ambiti, come il Prix de Lausanne.

Tuttavia, quando ci siamo trovati davanti a quei ballerini alle prese con tutù di mussola e coroncine fiorite ci siamo domandati perché. Perché essere costretti a nascondere lo splendore degli occhi a mandorla e l’impatto delle linee concentrate e aguzze. Se infatti quelli del Tokyo Ballet hanno saputo sfidare ogni logica per impadronirsi della tecnica accademica, essi non hanno potuto, e non potranno mai, coglierne anche la poetica che la motiva e l’estetica che la regge. Così, ancora una volta, c’è voluto Béjart. Che ha abbracciato Tokyo, il Tokyo, le fedi, le filosofie, le culture. Ha colto i dualismi che lacerano le coscienze: l’anima poetica e l’anima guerriera, l’anima nostalgica e quella americanizzata; il sogno e la ferocia, la spiritualità estatica e la fisicità dirompente. Ai nuovi compagni di viaggio Maurice ha consegnato la violenza della ‘Russia pagana’ del Sacre, le principesse di Kurosawa e le cortigiane di Utamaro. La riconosciuta connotazione lessicale del Tokyo Ballet è oggi il classico-moderno.

kamikiri

Nata nel Seicento, tuttora il kamikiri si svolge nei teatri in rappresentazioni sia diurne sia serali. L’artista di kamikiri – accompagnato da due o tre musicisti che rimangono nascosti per tutta la durata dello spettacolo, – racconta storie della tradizione (recuperando il repertorio del kabuki) nella prima parte dello spettacolo che è sempre epica; nella seconda parte, che è sempre comica, è chiamato dal pubblico a improvvisare su temi quotidiani, quasi come se facesse della satira in diretta. A Tokyo esistono cinque sale in cui si esibiscono tutti i giorni i maestri di k. Il più noto – si è esibito anche a Milano nel 1996 – è Koshoraku.