Sensani

Dopo aver partecipato ad importanti esposizioni europee d’arte, Gino Carlo Sensani esordisce a Roma come figurinista per le Marionette del Teatro dei Piccoli, dedicandosi tuttavia in seguito all’attività di illustratore, limitandosi ad allestire spettacoli ‘privati’ per l’aristocrazia di Firenze, dove lavora dal 1918. Un passo importante è la partecipazione al primo Maggio musicale fiorentino (con i costumi per Il mistero di Santa Uliva, regia di J. Copeau, 1933, ispirati ai figurini di Pisanello per i balli della corte estense), della quale diventa ben presto un assiduo frequentatore (Incoronazione di Poppea di Monteverdi, 1937; Antonio e Cleopatra di Malipiero, 1938; Le astuzie femminili di Cimarosa, regia di C. Pavolini, 1939; L’elisir d’amore 1940; Ritorno di Ulisse in patria, 1942). Il suo stile, che evoca immagini antiche del teatro musicale italiano, sfrutta policromie preziose, rifacendosi liberamente alla fantasia figurativa delle epoche rappresentate. Lavora anche per la Scala di Milano (Cenerentola di Prokof’ev, 1947, andato in scena dopo la sua morte), con una particolare raffinatezza nelle citazioni che lo annovera inoltre tra i maestri storici del costume nel cinema italiano, a cui si dedica con vivo interesse.

Sala

Carlo Sala si diploma all’Accademia di belle arti di Brera a Milano. La sua attività si sviluppa nel teatro di prosa, lirica, balletto; ha inizio collaborando nel 1981 con il Teatro dell’Elfo di Milano, ideando i costumi per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, per la regia di G. Salvatores. Sempre per il Teatro dell’Elfo cura la messinscena per La bottega del caffè di R.W. Fassbinder tratto da Goldoni (1991) e de La tragedia di Amleto, principe di Danimarca (Teatro di Porta Romana 1994), con la regia di E. De Capitani. Alla Biennale di Venezia disegna la messinscena per Turcs tal friul di Pasolini, nuovamente con la regia di De Capitani (1997). Con V. Puecher inizia una fervida collaborazione per il teatro d’opera, risultando vincitore del V Concorso per giovani scenografi del Teatro di Treviso (1983). A Bohème di Puccini seguiranno Cavalleria rusticana di Mascagni e L’heure espagnole di Ravel (Catania 1985) e Simon Boccanegra di Verdi (Firenze, Teatro Comunale 1988, costumi). Interessante anche l’attività svolta con il regista I. Nunziata per il Teatro Caio Melisso di Spoleto con spettacoli come Cenerentola di Rossini (1991, scene e costumi) e, a all’Opera di Roma, Maria Stuarda di Donizetti (1996).

Saltarini

Terza signora Ranucci (il vero cognome di Rascel), dopo Tina De Mola e Huguette Cartier, Giuditta Saltarini esordisce come attrice di prosa in Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, regista Paolo Giuranna, protagonista Tino Carraro. Poi passa alla Compagnia dei Quattro del regista Franco Enriquez, dello scenografo Emanuele Luzzati e degli attori Valeria Moriconi e Glauco Mauri, partecipando, in tre stagioni, a vari allestimenti: Le Fenici di Euripide, La dame de Chez Maxim’s di Feydeau, Le mosche di Sartre e I giusti di Camus. Incontra Renato Rascel, che le affida un ruolo nella serie televisiva I racconti di padre Brown. Quindi, dopo un anno di studio (canto e danza), esordio accanto a Rascel nella commedia musicale Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini, in scena nel 1970 al Sistina di Roma e replicata per due anni. Nel cast, Gigi Proietti (che sostituì Domenico Modugno, un forfait a pochi giorni dal debutto), Mariangela Melato (la prostituta Belcore), Gerry Bruno (ex componente del quintetto dei Brutos) nel ruolo del ‘medicino’, Elio Pandolfi stralunato `archiepiscopo’, Enzo Garinei spassoso tombarolo. La Saltarini era la vergine Peronella. Ci fu un ritorno alla rivista tradizionale con In bocca all’Ufo, definita dall’autore Dino Verde «favola musicale italo-galattica con lustrini e varietà»: Rascel comico, la Saltarini soubrette, Anna Campori caratterista e Antonio Buonomo cantante e attor giovane; musica di Rascel e Detto Mariano, regia di Gian Carlo Nicotra. Si è ritirata dalle scene dopo la scomparsa del marito (1991).

Sondheim

Figlio di un industriale dell’abbigliamento, Stephen Sondheim studia a Newton e frequenta i corsi di musica al Williams College, perfezionandosi successivamente sotto la guida di Milton Babbitt. Durante gli studi scrive testo e musica per uno spettacolo scolastico; in seguito, fermamente deciso a seguire questa strada, viene aiutato da Oscar Hammerstein II, suo vicino di casa. Dopo aver scritto i testi – negli anni ’50 – di una fortunata serie televisiva e aver adattato per la scena musicale la commedia La notte del sabato di Jacinto Benavente (ma lo spettacolo non viene mai realizzato), Sondheim entra in teatro dalla porta principale con le lyrics delle canzoni e dei numeri di West Side Story, fortunatissimo spettacolo su libretto di A. Laurents (da un’idea di Jerome Robbins) e con la musica di Leonard Bernstein. Da allora Sondheim alterna o mescola diverse attività, ora scrivendo testi e versi per musical, ora componendo la musica, ora esercitandosi in ambedue i campi; per lo più in spettacoli ben conosciuti in America, ma dall’eco limitata oltreoceano.

Del 1959 è Gypsy, basato sulle memorie della spogliarellista Gypsy Rose Lee, per cui S. scrive le lyrics (la musica è di Jules Styne); è del 1962 A Funny Thing Happened On the way to the Forum , musica e versi su libretto di B. Shevelove e L. Gellart, dalle commedie di Plauto: accolto dapprima freddamente, ottiene grande successo quando viene riproposto con qualche mutamento, fra cui un prologo, cantato dal protagonista Zero Mostel, in cui si afferma: Tragedy tomorrow, comedy tonight!; del 1964 Anyone Can Whistle, musica e versi (su libretto di A. Laurents), accolto malissimo eppure di carattere innovativo; del 1965 Do I Hear a Waltz? , solo libretto e lyrics, dalla commedia The Time of Cuckoo dello stesso Sondheim, musica di Richard Rodgers. Successivamente cura testo e musiche di: Company (1970); Follies (1971); A Little Night Music (1973, ispirato al film di I. Bergman Sorrisi di una notte d’estate ); The Frog (1974); Pacific Overtures (1976, fiasco totale, soprattutto perché basato su un argomento – l’ingerenza occidentale nel Giappone feudale – ritenuto inopportuno e provocatorio); Sweeney Todd (1979; storia `brechtiana’ di un barbiere assassino, alla Woyzeck); Merrily We Roll Along (1981); Sunday in the Park with George (1984, Premio Pulitzer); Into the Woods (1987). Fra gli altri contributi al teatro vanno annoverati i versi addizionali scritti per la ripresa del 1974 del musical Candide di Leonard Berstein e le musiche di scena per le commedie Girls of Summer di N.R. Nasch e Invitation to a March.

Due musical di Sondheim sono stati trasposti sullo schermo: Dolci vizi al Foro (A Funny Thing Happened on the way to the Forum, 1967, regia R. Lester) e The Little Night Music (1978, regia H. Prince). Inoltre il nostro autore ha composto musiche e/o canzoni originali per i seguenti film: Stavisky il grande truffatore (Stavisky, 1974, di A. Resnais); Scherlock Holmes: soluzione settepercento (1976, di H. Ross); Reds (1981, di W. Beatty: musiche addizionali di Dave Grusin); Dick Tracy (1990, di W. Beatty: solo canzoni, mentre la musica di commento è di Danny Elfman. “Sooner or Later” merita l’Oscar 1990 per la migliore canzone); Cartoline dall’inferno (1990, di M. Nichols; solo la canzone “I’m Still Here”, mentre la musica di commento è di Carly Simon). Per il cinema, Sondheim ha sceneggiato i film Gigi di H. Prince e The Last of Sheila di H. Ross. Famoso negli Usa, poco conosciuto da noi, Sondheim è un talento multimediale che ha lasciato un segno nel teatro musicale americano per il suo anticonformismo e per i risultati originali, anche quando non accolti favorevolmente dal pubblico per i temi spesso drammatici, lontani dall’ottimismo a ogni costo della tradizione di Broadway.

 

 

 

 

 

Sardou

Victorien Sardou deve il suo grande successo in tutta Europa all’indovinata tecnica patetica che fa leva sul sentimentalismo del pubblico, indotto a simpatizzare con i protagonisti dei suoi drammi e commedie. Ha offerto ruoli alle più grandi attrici del secolo (Sarah Bernhardt in Francia, Eleonora Duse e Virginia Reiter in Italia), continuando a scrivere fino alla morte; i suoi ultimi lavori risalgono ai primi anni del nuovo secolo: La sorcière (1903) e L’affaire des poisons (1905). Oggi è ricordato soprattutto per le opere tratte da alcuni dei suoi drammi: Fedora (1882), da cui l’omonima opera di Giordano (1898); Tosca (1887), ripresa da Puccini (1900); Madame Sans-Gêne (1893), che offrì il soggetto all’opera di Giordano (1915).

Simon

Neil Simon si fece le ossa come autore di gag per comici televisivi, e a partire dal 1961 diede alle scene una serie pressoché ininterrotta di copioni di successo, che per quantità e continuità non avevano precedenti nella storia di Broadway. Cominciò con farse di modeste pretese come A piedi nudi nel parco (Barefoot in the Park, 1963), La strana coppia (The Odd Couple, 1965), Appartamento al Plaza (Plaza Suite, 1968), L’ultimo degli amanti infuocati (Last of the Red Hot Lovers, 1969); passò a testi dove alla comicità si mescolava una punta d’amarezza, come Il prigioniero della Seconda Strada (The Prisoner of Second Avenue, 1972) e I ragazzi irresistibili (The Sunshine Boys, 1972); evocò con ironica nostalgia il proprio passato con Capitolo secondo (Chapter Two, 1977), Brighton Beach Memoirs (19/83), Biloxi Blues (1984), Smarrito a Yonkers (Lost in Yonkers, 1991) e Risata al 3º piano (Laughter on the 23rd Floor, 1993); e scrisse libretti per musical, adattamenti da racconti di Cechov e dalla Bibbia, sceneggiature cinematografiche.

Quasi tutte queste opere ebbero centinaia di repliche a New York, furono tradotte in film e rappresentate con successo anche in Europa. Appartenevano al teatro commerciale e ne rispettavano le regole, preoccupandosi di fornire favole avvincenti costellate da battute di sicuro effetto comico. Ma si sviluppavano con una tecnica che, data una situazione di partenza, la portava alle estreme conseguenze, non attraverso le complicazioni dell’intreccio ma accumulando tutte le variazioni possibili, senza modificarla sostanzialmente. E sollecitavano nel pubblico della middle-class americana un processo d’identificazione, presentando personaggi generalmente di mezza età e più o meno inseriti che, davanti a un mondo non più comprensibile, si rendevano conto della propria solitudine e della propria fragilità, anche se le esigenze del lieto fine li portavano in qualche modo a guardare al futuro con un pizzico di ottimismo.

Samsova

Galina Martnovna Samsova studia presso l’Istituto coreografico di Kiev e fa parte dal 1956 al 1960 del balletto del Teatro Sevcenko di Kiev. Sposa il danzatore canadese Ursuliak e dal 1961 al 1964 danza con il National Ballet of Canada, poi dal 1964 al 1973 fa parte del London Festival Ballet. Stella ospite in Francia, Germania, Australia, Italia, Sudafrica. Dal 1980 al 1990 è prima ballerina e maître presso il Sadler’s Wells Royal Ballet. Dal 1990 al 1991 dirige lo Scottish Ballet. Danzatrice che incarna le qualità della ballerina classica di scuola russa, nella sua carriera affronta i principali ruoli del repertorio classico, i balletti di Balanchine (Allegro Brillante), Tudor (Jardin aux Lilas), Ashton (La fille Mal Gardée), MacMillan (Isadora).

Sequi

Sandro Sequi si laurea in lettere all’università di Roma nel 1956 e nello stesso anno entra all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ (corso di regia), diplomandosi nel 1959 con lo spettacolo-saggio Il giuoco delle parti di Pirandello. Già durante l’università svolge attività di critico, collaborando alla realizzazione dell’ Enciclopedia dello spettacolo e assumendo la rubrica di danza nel quotidiano romano “Il Tempo”. Dal 1960 al 1962 è assistente di F. Enriquez alla direzione artistica del Teatro stabile di Napoli, dove debutta come regista di prosa con la novità di Aldo Nicolaj Il soldato Piccicò (protagonista Gian Maria Volontè); allestisce anche una serie di atti unici italiani (di Guaita, Flaiano e Wilcock) al Festival di Spoleto. Inizia la sua attività nel campo della regia lirica, che lo porterà nei maggiori teatri europei (Covent Garden, Opéra, Scala) e americani (Metropolitan di New York).

Nella prosa, nel 1969 dirige l’attività del Teatro Flaiano (allora Teatro Arlecchino) per il Teatro Stabile di Roma, mettendo in scena due novità assolute: Faust ’67 di Landolfi e Soluzione finale di Augias. Nel 1970 forma una compagnia con la Brignone e Santuccio per una riuscita edizione de Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (con Proietti, Adriana Asti e Sergio Fantoni) e di un’ importante Danza di morte di Strindberg con le scene di E. Colombotto Rosso; in tv dirige, nel corso degli anni ’70, una ventina di commedie. Nel 1980 fonda a Roma la Cooperativa Teatromusica, per la quale presenta, nei suoi tre anni di vita, tre spettacoli basati sull’idea di un teatro di alto valore poetico: Stella di Goethe, Britannico di Racine e Olimpiade di Metastasio.

Lavora in seguito quasi sempre in strutture pubbliche, come Veneto Teatro (I pettegolezzi delle donne di Goldoni, 1982; Elettra di Hofmannsthal e Il campiello di Goldoni, 1983; I pitocchi fortunati di Gozzi, 1984; La sorpresa dell’amore di Marivaux, 1989), il Teatro stabile di Catania (Bellini di Isgrò, 1986; La vita che ti diedi di Pirandello, 1987; Rapacità di Gor’kij, 1988; Stelle del firmamento di Puig, 1989), il Teatro di Roma (La bella selvaggia di Goldoni, 1987). Poche le collaborazioni con compagnie private: Molto rumore per nulla di Shakespeare con la Moriconi e Micol, Il malinteso di Camus (1985) e A porte chiuse da Sartre e Mishima (1987) con la compagnia Valli-Malfatti. Dal 1989 al 1996 è direttore artistico del Centro teatrale bresciano; il primo progetto di lavoro da lui avviato, dedicato alla cultura russa, inizia con I villeggianti di Gor’kij (1989-90) e si conclude nella stagione 1990-91 con Hotel des âmes di Enrico Groppali e Anfissa di Andreev.

Con la stagione 1991-92 inizia il progetto dedicato al teatro francese, nell’ambito del quale mette in scena Britannico e Berenice di Racine (in un’unica serata) e Vittime del dovere di Ionesco. Nella stagione 1992-93 allestisce una novità assoluta per l’Italia, Non c’è domani di Julien Green, e successivamente (1993-94) A mosca cieca di Groppali. Dalla stagione successiva iniziano i `Percorsi di teatro anglosassone‘: Sequi propone la prima rappresentazione in Italia di La sposa di campagna di Wycherley e, nella stagione 1995-96, Ali di Kopit e Macbeth di Shakespeare. Fra i maggiori successi in campo lirico, l’ Ifigenia in Tauride di Gluck con le scene e i costumi di G. Manzù (Firenze 1981) e il Rigoletto di Verdi (Vienna 1983), entrambi diretti da Riccardo Muti, e la prima mondiale del Saint François d’Assise di Messiaen (Parigi 1983). L’ultimo suo lavoro, prima dell’incidente automobilistico in cui ha perso la vita, è stato Il barbiere di Siviglia di Rossini, che ha debuttato all’Opera del Cairo nel marzo 1998.

Steffen

All’inizio Paul Steffen firma i balletti di alcuni musical off-Broadway e di varietà televisivi in onda da New York. Per un breve periodo è anche a Hollywood come coreografo di Rita Hayworth. Arriva in Italia a metà degli anni ’50 con lo spettacolo dei Paul Steffen Dancers, che si rivela un imprevisto trionfo. Garinei e Giovannini non perdono tempo a legarlo alle loro produzioni musicali: già nel 1954 firma le coreografie di Giove in doppiopetto, dove contribuisce in modo determinante al successo di Delia Scala, ideando per lei sorprendenti movenze acrobatiche. L’impegno con Garinei e Giovannini si rinnova nella stagione successiva con La granduchessa e i camerieri . Nel teatro di rivista è autore dei balletti per I fuoriserie (1958), Sayonara Butterfly (1958) e Un juke-box per Dracula (1959). Il suo stile internazionale, che porta una scossa al provincialismo dello spettacolo italiano, è apprezzato anche dall’ambiente del cinema: Antonio Pietrangeli lo chiama nel 1955 per il film Lo scapolo (Alberto il conquistatore). Nel varietà televisivo il suo nome resta legato alle coreografie di Un, due, tre (1954) e L’amico del giaguaro (1961).

Struckova

Terminato l’Istituto coreografico di Mosca, danza al Teatro Bol’šoj dal 1944 al 1978, con una particolare predilezione per i balletti russi contemporanei: Pagine di vita (di Leonid Lavrovskij), La canzone del bosco (di Tarasova e Lapauri), Cenerentola , Romeo e Giulietta , Gajanè , Il papavero rosso. Ma è anche interprete del repertorio classico: Il lago dei cigni , Bella addormentata , Schiaccianoci . Purezza di linee, morbida femminilità, grazia e perfezione tecnica caratterizzano la sua danza.

Sarina

Il padre Antonio e il nonno Andrea, burattinai lodigiani, attivi dalla seconda metà dell’Ottocento, avevano incentrato il repertorio sull’epos medievale. Il repertorio di famiglia venne da Giuseppe Sarina elaborato e arricchito fino a comprendere oltre un centinaio tra drammi, commedie e farse: la più rappresentata fu comunque il ciclo carolingio dei Paladini e dei Reali di Francia che, diviso in puntate serali (fino a centoventi), rappresentava per un’intera stagione nella medesima piazza. Sarina – oggi considerato tra i maggiori esponenti del teatro dei burattini italiano – lasciò ufficialmente l’attività nel 1958, continuando fino alla morte a riordinare il prezioso patrimonio raccolto (centinaia di burattini, copioni, partiture, scenari, materiali teatrali, e una ricca biblioteca), ora custodito dagli eredi.

Stevenson

Dopo gli studi con Mary Tinkin e all’Arts Educational School, Ben Stevenson è entrato nel Theatre Arts Ballet nel 1950, poi nel Sadler’s Wells Opera Ballet e nel Sadler’s Wells Theatre Ballet (1957-1959). È stato solista e poi primo ballerino e maître de ballet al London Festival Ballet, fra il 1959 e il 1968. Ha allestito La bella addormentata per questa compagnia e per il Washington National Ballet (1971). Da allora ha lavorato soprattutto negli Usa, dove il suo popolare Three Preludes (su musica di Rachmaninov) è stato creato per la Harkness Youth Company (1969). La sua versione di Cinderella è stata realizzata per il Washington National Ballet nel 1970 e in seguito per altre compagnie (compreso il Balletto dell’Opera di Roma). Dal 1976 è direttore artistico dello Houston Ballet.

Skouratoff

Dopo aver studiato con Preobrajenska, Volinine, Kniaseff, danza nel corpo di ballo del Lido. Nel 1946 entra come primo ballerino nei Nouveau Ballets de Monte-Carlo ( Fille mal gardée , Aubade , Noir et blanc ), l’anno seguente è nell’Original Ballet Russe e nel 1948 è nei Ballets de Paris ( La femme et son ombre e Adam miroir di Janine Charrat, Les demoiselles de la nuit di Petit con la Fonteyn). Successivamente danza con la Toumanova in Il lago dei cigni e Don Chisciotte e con la Chauviré in Suite romantique e Oiseau de feu . Dal 1952 al ’57 è nel Grand Ballet del Marchese de Cuevas. Ospite al London Festival Ballet, a Nizza e al Balletto Scandinavo, è stato maître a Strasburgo (1966-67) e a Bordeaux (dal 1970), dove ha creato diverse coreografie.

Stazio

Formatasi alla danza moderna e contemporanea fonda nel 1984 la compagnia Movimento Danza e crea le prime coreografie, nelle quali il formalismo americano si unisce all’analisi di tematiche legate al mondo e alle tradizioni mediterranee ( Fratelli d’Italia , 1987; Le tre Melarance, 1988; Jesce Juorno , 1989). Dal 1993 collabora con il musicista e regista Roberto De Simone, creando coreografie degli spettacoli Il Cunto de li Cunti (1993), Il convitato di pietra (1995) e Falstaff (1997). Nello stesso tempo prosegue la sua ricerca in opere come Aria ( 1995), Le due anime del Guarracino (1996), La gatta (1997) per Grazia Galante.

Spoldi

Inizia l’attività artistica realizzando performance di strada; negli anni ’70, dopo alcune opere fondate su un approccio concettuale, torna verso una figurazione naïf, fatta di frammenti assemblati. Accompagna il suo lavoro un senso vivo dello spettacolo: S. ha sempre cercato di allargarsi oltre la dimensione del quadro. Parallelamente alla sua attività artistica concepisce negli anni ’80 alcuni spettacoli, di cui scrive i testi, le musiche e realizza le scene: un cabaret plastico-cromatico, popolato di oggetti cinetici e marionette ispirate agli eroi dell’infanzia. Il suo interesse per le marionette nasce dal proposito di realizzare dei tableaux vivants , un quadro colorato che si anima, gesticola, canta, come in Enrico il verde , rappresentato alla Rotonda della Besana di Milano (1987), o in Capitan Fracassa , realizzato al Museo Pecci di Prato (1989) e Circo , un balletto messo in scena alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano (1993).

Sansone

Gaetano Sansone esordisce giovanissimo nella narrativa con lo pseudonimo di Rosso di San Gae. Negli anni ’70 e ’80, si interessa al teatro sperimentale, sia come regista che come attore. Scrive: nel 1974 La famosa presa del potere dei cristiani; nel 1975 Lo sfizio, nel 1977 Tutta notte spettro e morte. Nel 1980 cura la regia, per conto della Biennale di Venezia, di Aspettando che l’inferno inizi a funzionare, dai racconti di Manganelli; lo spettacolo sarà ripreso al castello Sforzesco di Milano, prodotto dal Salone Pier Lombardo. Nel 1980 va in scena Bosco di notte con la regia di Andrée Ruth Shammah, a cui segue, La locanda di Norma Maccanna. Altri suoi titoli sono Valigie bagnate (1990) e Il secondo viaggio della Golden mind (1993). Il teatro di Sansone si caratterizza per la creazione di atmosfere surreali, paradossali e anche metafisiche. Ha formato una scuola teatrale che opera a Milano sotto il nome di ‘Noleggio cammelli’.

Sannoner

Naturalizzata milanese, frequenta l’Accademia dei Filodrammatici. Miss Cinema nel 1961, diviene attrice di teatro negli anni ’60 e ’70 al fianco di A. Foà, L. Masiero, E. Calindri e ottiene parti in sceneggiati televisivi (“Sandokan” di S. Sollima). Il suo progetto di trasformare il Teatro Alle Maschere di Milano, tempio dello spogliarello, in uno spazio per la prosa brillante, fallisce. Nella stagione 1994-95 è protagonista di Desiderio sotto gli olmi di O’Neill al fianco di R. Vallone, con la regia di W. Manfré. Nel ’97 recita D’Annunzio in Francesca da Rimini e La città morta al Vittoriale.

Schanne

Dopo gli studi alla scuola del Balletto reale danese, entra nella compagnia nel 1940, diventandone solista nel 1943. Considerata la maggiore interprete dello stile Bournonville della sua generazione, primeggia in La Sylphide e in balletti del repertorio romantico, come Giselle e Pas De Quatre (Festival di Nervi 1958). Ritiratasi nel 1966, si è dedicata all’ insegnamento.

saltimbanchi

Definizione in uso dal Cinquecento, Saltimbanchi deriva da ‘saltare sul banco’, attribuita agli artisti che si esibiscono in fiere e mercati. La dizione riguarda in particolar modo gli artisti di strada che fanno uso di abilità acrobatiche e in genere di virtuosismi del corpo. Per estensione viene però conferita a tutti coloro che si guadagnano da vivere esibendosi nelle piazze, soprattutto in occasione di fiere e mercati. Quindi, oltre a specialisti delle tradizionali discipline circensi, anche a praticanti il teatro di figura (marionettisti, ombre cinesi) e altri generi caratteristici della piazza, come i digiunatori, i ciarlatani (venditori di unguenti ‘miracolosi’), i cantastorie, e coloro che esibiscono fenomeni (v.). I saltimbanchi, che raccolgono gli oboli offerti dagli occasionali spettatori, vivono il loro periodo d’oro nelle grandi fiere inglesi e francesi del XVIII secolo, per poi scomparire pian piano nel periodo della società industriale.

In questo secolo, dal punto di vista dell’esistenza condotta e della qualità delle esibizioni, il francese George Strehly, uno dei primi storici del circo, nel suo L’Acrobatie e les acrobats (1903), distingue gli artisti in tre classi: i saltimbanchi, che si esibiscono nelle piazze e nei mercati e sono considerati il proletariato del circo; gli artisti legati a un complesso itinerante, che possono godere di buone paghe e di condizioni di vita decenti; gli artisti indipendenti, che si esibiscono sulle scene dei music-hall o nei grandi circhi stabili delle più importanti capitali. Ma la qualità delle esibizioni dei saltimbanchi aumenta decisamente negli anni ’60, quando viene avviata una commistione fra uomini di teatro desiderosi di innovazioni e artisti di piazza detentori di tecniche segrete di antiche discipline. In questo senso dalla tradizione dei saltimbanchi deriva in pratica tutto il moderno teatro di strada.

Simon

Attore antiaccademico, Michel Simon si dedica al teatro dopo mille mestieri: venditore ambulante, fotografo, pugile. Il suo debutto avviene nel 1918 a Ginevra, dove ottiene un minuscolo ruolo in Misura per misura di Shakespeare messo in scena dai leggendari Pitoëff. Il suo aspetto decisamente poco piacevole (figura dinoccolata e viso dai tratti fortemente irregolari) non gli impedisce di riscuotere un grande successo in Androclo e il leone di Shaw (1920) ancora con i Pitoëff. Seguita la compagnia dei Pitoëff a Parigi, Simon, pur stentando a imporsi, ha modo di affinare quelle doti comiche e d’inventiva che saranno il tratto peculiare del suo stile. Finalmente, nel 1923, è il capocomico di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, ruolo che interpreta con magistrale realismo e vivacità. Lasciati i Pitoëff, S. lavora in numerosi spettacoli (nel 1926 è all’Atelier in Je ne vous aime pas di Achard accanto a Jouvet), prediligendo i ruoli comici: è l’indimenticabile Clo-Clo in Jean de la lune di M. Achard e contribuisce al grande successo di Fric-Frac di Bourdet (1936).

Dalla fine degli anni ’30 non appare quasi più sulle scene teatrali. Dal 1925, infatti, si dedica principalmente al cinema: amatissimo dal pubblico per l’umanità che sa infondere ai personaggi, Simon porta tali qualità sullo schermo, creando figure difficilmente dimenticabili, tra le quali forse la più riuscita e intensamente poetica è il burbero e insieme tenero père Jules dell’Atalante di J. Vigo (1934). Già messosi in luce nel 1928 nel capolavoro di Dreyer La passion de Jeanne d’Arc, Simon collabora a lungo con J. Renoir, per il quale interpreta anche lo straordinario clochard di Boudu sauvé des eaux (1933), e con altri registi di vaglia quali M. Allégret (Lac-aux-dames , dove è un vecchio donnaiolo, 1936), Guitry (Faisons un rêve, 1937), Carné (Drôle de drame, 1937; e soprattutto Quai des brumes , 1938), Duvivier (La fin du jour, 1939), Clair (La beauté du diable , girato in Italia nel 1950, dove è Mefistofele). Protagonista di una delle stagioni più feconde del cinema francese, quella degli anni ’30, Simon, con il suo corpo scoordinato, la parlata strascicata e i suoi personaggi grotteschi e beffardi, riesce comunque a fornire prove di qualità fino alla fine della sua carriera.

Schirinzi

Tino Schirinzi è stato uno dei maggiori interpreti del teatro italiano, attore e regista anticonformista non per moda, ma per temperamento e indole. Legato sentimentalmente a Daisy Lumini, assieme alla quale ha tragicamente posto fine alla sua esistenza, durante la sua carriera ha collaborato con il meglio del teatro italiano, creando un felice sodalizio artistico con Piera Degli Esposti (Arden di Feversham e La pazza di Chaillot), partecipando al debutto italiano del giovanissimo Chéreau, lavorando assiduamente allo Stabile di Torino e al Piccolo di Milano. Memorabili le sue operazioni dissacranti (pre e post Sessantotto) sul teatro elisabettiano, su Goldoni e D’Annunzio, fino a essere cacciato dal Vittoriale, insieme a registi come Aldo Trionfo e Giancarlo Cobelli.

Ma di mezzo ci si mise la malattia, che alla fine degli anni ’70 lo colpì duramente e contro la quale lottò tenacemente per riuscire a recuperare la sua prestanza scenica e il suo straordinario timbro di voce. Ci riuscì, forse non del tutto, ma continuò a lavorare portando in scena nuovi e vigorosi personaggi come l’Ercole morente delle Trachinie (1983) per la regia di M. Castri e Stadelmann, il vecchio servo di Goethe, nell’omonimo spettacolo tratto dalla scrittura di Claudio Magris che, felice di questa esperienza, per Schirinzi aveva scritto un nuovo testo. Insieme a Piera Degli Esposti ricordiamo Caccia al lupo di Verga con La morsa di Pirandello, spettacoli di cui fu anche regista; e ancora L’illusion comique di Corneille (1979, al Piccolo Teatro con la regia di W. Pagliaro), Delitto e castigo per la regia di J. Ljubimov (1984) e nel 1986 allo Stabile di Bolzano, insieme al regista M. Bernardi, Qualcuno volò sul nido del cuculo e soprattutto il teatrante dell’amato T. Bernhard, spettacolo che gli permise per una volta di lavorare insieme alla sua compagna. Sempre nel 1986 partecipa all’ Antigone di Sofocle al Teatro greco di Siracusa; ancora a Bolzano, nel 1987, recita e cura la regia di La favola del figlio cambiato di Pirandello, del quale all’Ater recita Il berretto a sonagli con la regia di M. Castri (1989). Il suo ultimo ruolo è stato quello del servitore Zachar in Oblomov di I. Goncarov, nell’adattamento di Furio Bordon (Trieste 1992).

Scabia

Preceduto dal testo poetico scritto per La fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964) e da altri, raccolti in Servo & Padrone (1965), l’esordio come autore teatrale di Giuliano Scabia con Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea alla Biennale di Venezia (1967) rappresenta uno degli episodi che inaugurano la controversa stagione dell’avanguardia teatrale italiana (Scabia ha fatto anche parte del Gruppo 63 e a lavorato in coppia con Quartucci). Nella sua formulazione ‘acentrica’, aperta alla partecipazione collettiva, Zip anticipa i temi politici e antistituzionali del Sessantotto teatrale e prepara la serie dei testi `aperti’ che Scabia va componendo ( All’improvviso, 1967; Visita alla prova de l’isola Purpurea di Michail Bulgakov, 1968; Scontri generali, 1969-71), mentre amplia il proprio intervento attraverso le formule militanti e sperimentali dell’`animazione’ (laboratori nei quartieri operai di Torino, interventi in una scuola della campagna emiliana, ‘azioni’ teatrali con ragazzi in dodici centri dell’Abruzzo).

Nasce nel corso di quest’ultima esperienza, con Forse un drago nascerà (1972), l’immagine di un ‘teatro vagante’ che caratterizzerà per molto tempo la poetica di Scabia, sia come stimolo profondo sia come pratica di lavoro: un teatro pellegrino che si muove su percorsi estranei alle direttrici di maggioranza, modellato secondo l’antica consuetudine dei trovatori e intessuto di momenti rappresentativi e narrativi, che lo stesso autore si incaricherà di realizzare nelle sue ‘camminate’ (vere e proprie passeggiate a piedi, anche di più chilometri, trasformate, a seconda delle esigenze e del contesto, in apparizioni, evocazioni, visite, visioni, lettere). Questo lavoro acquista notorietà e risonanza, anche internazionale, lungo tutto l’arco degli anni ’70, quando Scabia è ideatore e anima di esperienze come Marco Cavallo (con i ricoverati e gli operatori dell’ospedale psichiatrico di Trieste, diretto allora da Franco Basaglia, 1972-73), Il gorilla quadrumàno (con gli studenti del Dams bolognese, presso cui è docente di drammaturgia, stimolati alla ricerca di un ‘teatro di stalla’ sulle montagne dell’Appennino emiliano, 1974-75), Il Diavolo e il suo angelo (con l’invenzione, nella Venezia del Carnevale, di una `nuova Commedia dell’Arte’, 1979).

Durante gli anni ’80, Scabia intensifica l’attività di teatrante-viandante e dà forma di ciclo alla sua scrittura. Riassorbendo Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno (1971) e Fantastica visione (1973), il ciclo del `Teatro vagante‘ comincia a comporsi nei suoi diciannove testi, tra i quali Lettera a Dorothea (1980), Commedia del poeta d’oro con bestie (1982-87), Ma io insistetti per stare volando ancora un poco (seconda lettera a Dorothea, 1983), Lettere a un lupo (1983) , Cinghiali al limite del bosco (1983), Tragedia di Roncisvalle con bestie (1985), Gli spaventapasseri sposi (1985), Apparizione di un teatro vagante sopra le selve (1986-87). Vanno così scoprendosi, dentro una scrittura che l’autore stesso definisce ‘amorosa’, le costanti del suo immaginario narrativo: radici che affondano in un paesaggio italiano di boschi e di cieli, ma soprattutto nelle aie contadine della pianura padana, dalla cui tradizione orale, innestata al piacere della poesia e dell’affabulazione, si sviluppa nel corso degli anni ’90 la stagione letteraria di Scabia, segnata dai romanzi In capo al mondo (1990) , Nane Oca (1992) e dal libro di poesia e disegni Il poeta albero (1995), oltre che dal riallestimento di testi teatrali precedenti a cui si aggiungono, nel 1997, Gloria del teatro immaginario e Visioni di Gesù con Afrodite.

 

 

 

Squarzina

Considerato fra i maggiori esponenti del teatro di regia italiano, Luigi Squarzina nel 1945 si laurea in legge e nello stesso anno si diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, dove aveva seguito il corso di regia. Il suo saggio di fine corso del secondo anno (1943), una riduzione di Uomini e topi di Steinbeck, è il primo spettacolo teatrale rappresentato nella Roma liberata. Fra i suoi compagni d’Accademia divenuti celebri ricordiamo, oltre a Vittorio Gassman – con il quale Squarzina firma il primo Amleto apparso in Italia in edizione integrale (1952) – anche Adolfo Celi e Luciano Salce. Squarzina fa sua la cifra dell’Accademia damichiana: offrire testi fondamentali della drammaturgia in versione integrale e seguire con cura ogni fase della messinscena: “Il teatro che ci apprestavamo a costruire presentava forme simili a quelle del teatro di oggi, ma allora era una modalità nuova e poco frequentata, spesso temuta dal mondo teatrale dell’epoca che intendeva mantenere le sue antiche abitudini. Avviammo anche un processo di svecchiamento del repertorio ormai degenerato da decenni di censura fascista. Introducemmo numerosi testi stranieri, francesi, inglesi, americani che permisero un allargamento dell’orizzonte culturale e stimolarono nuove e più libere concezioni teatrali dopo tanti anni di dittatura. In Italia la regia nasce, dunque, come emblema di libertà, di indipendenza, di superamento delle costrizioni del passato”.

La personalità di Squarzina è caratterizzata – come egli stesso dice di sé nella voce dell’ Enciclopedia dello spettacolo – dall’eclettismo e dalla versatilità: studi giuridici, attività registica, impegno drammaturgico e universitario, produzione teorica con celebri saggi e studi (per esempio Da Dioniso a Brecht ), direzione di importanti teatri stabili (Genova, Roma); un impegno vario e multiforme, che in lui trova un rigoroso e coerente equilibrio. Il primo periodo registico – dopo la collaborazione iniziale con Orazio Costa (Giorni senza fine di O’Neill, 1946, compagnia Borboni-Randone-Carnabucci-Cei) – è segnato da uno spiccato interesse per la drammaturgia americana, pressoché sconosciuta in Italia: Erano tutti miei figli di Miller (1947), Un cappello pieno di pioggia di Vincent Gazo (1956), Anna dei miracoli di Gibson (1960) in cui debutta una Ottavia Piccolo ancora bambina. Contemporaneamente affronta opere difficili e originali; pensiamo a Tieste di Seneca (1953), interpretato da Gassman, testo solitamente ritenuto irrappresentabile che Squarzina invece allestisce con grande successo.

Gli anni ’50 segnano anche il passaggio alla scrittura drammaturgica: Tre quarti di luna, interpretato da Gassman e da un giovanissimo Luca Ronconi (1953), La sua parte di storia (1955), Romagnola (1957). Sono testi che mettono già in luce le intenzioni di Squarzina drammaturgo: promuovere l’impegno sociale e di denuncia, indagando la verità del rapporto tra l’uomo e la Storia. Il picco dell’attività registica di Squarzina è senz’altro rappresentato dalla lunga permanenza allo Stabile di Genova, una collaborazione nata da un avvicinamento graduale: come regista esterno allestisce Misura per misura di Shakespeare (1957) e Uomo e superuomo di Shaw (1961), spettacoli memorabili che portano S. a dirigere lo Stabile accanto a Ivo Chiesa dal 1962 al ’76. In questo lungo lasso di tempo, grazie anche alla soppressione della censura, S. compie scelte di repertorio prima impraticabili, come Il diavolo e il buon dio di Sartre (1962), allestimento che suscita reazioni e scandali. La struttura stabile consente di operare in libertà e disponibilità di mezzi, permettendo inoltre a Squarzina di avvalersi di uno strepitoso team di attori quali Alberto Lionello, Omero Antonutti, Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Lina Volonghi.

Nell’ambito dello Stabile di Genova Squarzina ha modo di approfondire la ricerca su Goldoni (“Avevo una gran paura di mettere in scena Goldoni, nonostante avessi già allestito I due gemelli veneziani (1963) che venne accolto molto favorevolmente dal pubblico, anche per merito di Lionello, e che fece il giro del mondo: ma per me era uno spettacolo poco impegnativo a livello di significato. Esitai, dunque, moltissimo quando venne dalla Biennale di Venezia la proposta di fare Una delle ultime sere di carnovale . Dopo averci pensato per mesi, accettai e da questo spettacolo, non prima, nacquero il mio amore sfrenato per Goldoni e il desiderio e la necessità di continuare con I rusteghi , La casa nova , Il ventaglio : spero di non abbandonare la ricerca su Goldoni perché non voglio estrarre il dito dalla piaga”), che proseguirà anche una volta lasciata Genova. Tale ricerca culmina con l’allestimento di Una delle ultime sere di carnovale (1968), che S. traduce in una suggestiva riflessione sul ruolo dell’intellettuale. S. inizia, inoltre, un lungo scavo nella drammaturgia pirandelliana ( Non si sa come , 1966; Questa sera si recita a soggetto , 1972; Il fu Mattia Pascal, 1974) e rivela un’attenzione vivissima verso la drammaturgia italiana moderna di Betti, Praga, Rosso di San Secondo, Banti.

Sempre negli anni genovesi si data un primo accostamento a Brecht – non scevro di una certa polemica verso Strehler, in quegli anni considerato il detentore dell’ortodossia brechtiana – con allestimenti di grande spessore: Madre Coraggio (1970) interpretato da Lina Volonghi, Il cerchio di gesso del Caucaso (1974). Infine, il rilancio in grande stile della tragedia classica con Le baccanti di Euripide (1968) che, realizzato alle soglie della contestazione, coglie l’eccezionalità del momento storico: il coro è, infatti, costituito da un gruppo di hippies e Dioniso incarna le nuove e perturbanti istanze del cambiamento. Nel 1975 S. diviene ordinario di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, per passare in seguito alla romana Sapienza. Nel 1976 lascia lo Stabile di Genova per quello di Roma; qui lavora, in particolare, sulla drammaturgia elisabettiana (Volpone di Jonson e Timone d’Atene di Shakespeare) e su Brecht (Terrore e miseria del Terzo Reich). Dal 1983 sceglie la libera professione, continuando tuttavia a coltivare i propri interessi drammaturgici: Pirandello (Il berretto a sonagli; L’uomo, la bestia e la virtù; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La vita che ti diedi), Goldoni (La locandiera e Il ventaglio), Shakespeare (Il mercante di Venezia), la drammaturgia classica (Oreste di Euripide, I sette contro Tebe di Eschilo).

Pur a contatto con differenti realtà teatrali, Squarzina mantiene la propria cifra stilistica, orientata al realismo e attraversata da tensioni storiche, sociologiche e psicoanalitiche. L’attività drammaturgica di Squarzina ha sempre affiancato l’impegno registico, ponendosi in diretta relazione con il proprio tempo, analizzandone le conflittualità, le crisi, i miti, le tensioni profonde, con uno stile che può mutare anche drasticamente da una pièce all’altra, per garantire una autentica aderenza alla realtà da narrare e per valutare criticamente gli strumenti espressivi prodotti dalla propria epoca. Il suo primo lavoro, L’esposizione universale (1948), che segue le vicissitudini di un gruppo di senzatetto, propone una narrazione corale, un affresco di storia contemporanea senza facili concessioni al patetismo. Il più celebre Tre quarti di luna (1952) discute la posizione dell’intellettuale nella società attraverso la vicenda di due studenti che indagano sul misterioso suicidio di un loro compagno. Il linguaggio dell’opera evita una funzione meramente illustrativa del reale, mescolando sapientemente squarci lirici a serrati dibattiti di idee. La sua parte di storia (1955) e Romagnola (1957) drammatizzano, invece, il mondo popolare e contadino. Il primo narra un fatto di cronaca nello scenario di uno sperduto paesino sardo; il secondo – definito dall’autore una `kermesse’ – illustra la partecipazione collettiva alla ricostruzione dopo il fascismo, attraverso la vicenda personale di Michele e Cecilia. L’opera, ritmata come una grande ballata popolare, è strutturata in dieci giornate e trenta quadri, rifiutando così la scansione convenzionale degli atti, in favore di una successione di quadri di sapore brechtiano.

A partire dagli anni ’60 emerge una duplice tendenza nella drammaturgia squarziniana e nella sua indagine critica sulla nostra identità storica e morale. Da un lato il dramma d’invenzione che, pur non estraneo al realismo, può attingere, anche in forma parodica, alle istanze dell’avanguardia (Emmetì , 1963), oppure giocare con le forme del grottesco per una satira di costume sociale (I cinque sensi, 1987), o anche miscelare a sorpresa l’elemento metafisico e il tono brillante di una commedia di costume (Siamo momentaneamente assenti, 1992). Dall’altro lato, il dramma-documento che risponde a finalità didattiche e affonda direttamente nella storia mediante la scrupolosa ricostruzione di eventi realmente accaduti (Cinque giorni al porto, 1969 e Rosa Luxemburg, 1974, scritti con Vico Faggi; 8 settembre, 1971, scritto con De Bernart e Zangrandi).

Salvatores

Gabriele Salvatores si trasferisce giovanissimo con la famiglia a Milano, dove studia giurisprudenza all’università; si diploma alla scuola del Piccolo Teatro. Nel 1972 fonda insieme a Elio De Capitani, Ferdinando Bruni e alcuni reduci della Comune di Dario Fo il Teatro dell’Elfo, per cui curerà come regista e autore più di venti spettacoli. L’esordio nella regia risale al 1971 (l’adattamento di 1789 di A. Mnouchkine), quando ancora la compagnia provava al centro sociale Leoncavallo e girava l’Italia su un furgone. Seguono Zumbi (1972), Woyzeck di Büchner (1973), Bertoldo a corte (1973), Pinocchio bazar (1975), Pulcinella nel paese delle meraviglie (1975), Le mille e una notte (1977), testo collettivo liberamente tratto dalla raccolta di novelle orientali, e Satyricon, da Petronio (1979).

L’Elfo si caratterizza subito per l’abolizione del diaframma tra palcoscenico e platea e per la mescolanza dei generi (cinema, danza, musica), oltre che per la scrittura collettiva dei testi, spesso incentrata sull’improvvisazione. Verso la metà degli anni ’70 l’Elfo ha già un pubblico di fedelissimi, e nel 1976 trova una sede stabile nella sala di via Ciro Menotti. Del 1979 è Dracula il vampiro , spettacolo basato sul romanzo di Bram Stoker, e del 1980 Il gioco degli dei , scritto insieme a F. Bruni ispirandosi all’ Odissea , opera che i due contaminano e trasformano attraverso vari romanzi e fumetti di fantascienza. Il musical Sogno di una notte d’estate (1981), che nel 1983 sarà la sua prima pellicola, è un ricchissimo insieme di canto, recitazione, ballo, che sconvolge qualsiasi schema in nome della più assoluta libertà.

Altro spettacolo musicale è Elzapoppin (1983), remake di un musical del 1938 portato sullo schermo da H.C. Potter, in cui Salvatores, in linea con la regola di contaminazione linguistica propria della compagnia, aggiunge ai lati del palcoscenico uno schermo che non solo ritrae gli attori in alcuni momenti della performance, ma su cui appaiono dei personaggi con i quali gli attori sul palco scambiano battute estemporanee. Ricordiamo ancora, fra i titoli per l’Elfo, Sognando una sirena con i tacchi a spillo (1984) e Amanti (1985), scritto insieme a Bruni, De Capitani e Ida Marinelli. Nel 1986 mette in scena Comedians di Trevor Griffiths, interpretato da Paolo Rossi, e l’anno dopo Eldorado, scritto con Gino e Michele: spettacoli di grande successo, che lo lanciano verso una fortunata carriera cinematografica (premio Oscar nel 1992 per Mediterraneo ). Ancora a teatro, è autore nel 1989 (insieme a Gigio Alberti, Claudio Bisio e Antonio Catania) di Café Procope. Al cinema ha realizzato in oltre: Kamikazen – Ultima notte a Milano (1987), Marrakech Express (1989), Turné (1990), Puerto Escondido (1992), Sud (1993) e Nirvana (1996).

spalla

La spalla, in rapporto a un comico, è colui che lo mette in valore collaborando, in negativo o in positivo, alla sua comicità. Ci può essere la spalla torrenziale, aggressiva, come l’inimitabile Carlo Rizzo che circondava lo stupito Macario, quasi muto, di un turbine di parole; e poi c’è la spalla discreta, a sua volta quasi muta, solo reattiva, come il grandissimo Mario Castellani, spalla di Totò, o il caloroso e stupefatto Enzo Turco, che opponeva stupore a stupore in duo con Nino Taranto. Qual è la differenza tra un comico che lavora insieme alla sua spalla e una coppia di comici che agiscono insieme? Sostanzialmente la differenza consiste nella posizione dei nomi sui manifesti; per quanto attiene al lavoro sul palcoscenico (stiamo parlando dei tempi antichi del varietà e della rivista) il confine è invece molto labile. Un esempio per tutti, la coppia Billi e Riva. Billi era il vero comico, alle origini, Riva più `presentatore’: nello svolgersi dei loro interventi Billi andava a occupare il ruolo di spalla, nei dialoghi, ma era lui quello che `faceva ridere’ (tra virgolette perché in memoria dei mirabili urli romaneschi all’avanspettacolo “facce’ ride”‘).

Tra Franchi e Ingrassia la chimica era ancora più complessa: a una frettolosa definizione e in apparenza era Ingrassia a fare da spalla a Franchi, ma poi un’occhiata silenziosa del primo annullava cinque minuti di agitazione psicomotoria del secondo. E ancora: nei loro primi sketch insieme Raimondo Vianello indossava il ruolo di spalla a favore di Ugo Tognazzi; ne bastarono pochissimi, di questi sketch, per rimettere in pari la situazione e giustamente si parlò da allora di una coppia di comici. Poi c’è (ma questo si è visto soprattutto in cinema) la situazione complessa che si viene a creare quando due comici di pari genio, e come tali valutati, si vengono a trovare insieme nella stessa storia.

Se nel caso, ad esempio, di Totò e Peppino De Filippo – attore grandissimo questi e con le stesse origini di Totò – Peppino si presentava in una specie di subalternità, più connessa alla sua maschera comica che alla definizione del suo ruolo, nel caso invece di Totò e Aldo Fabrizi (ancora una volta origini comuni nell’avanspettacolo) non si veniva a creare una coppia comica vera e propria (nonostante tutto i due erano troppo lontani) ma un meraviglioso `mano a mano’, una di quelle gare a chi osa di più comuni solo fra i toreri, appunto, e fra gli acrobati, una situazione in cui il rischio era di spingersi oltre qualsiasi limite accettabile. Hanno poi occupato il ruolo di spalla, e in modo assai atipico, certi attori di grande qualità, come – esempio massimo – Aroldo Tieri in una serie di film in cui veniva affiancato a grandi comici (ancora una volta, per esempio, Totò) e destinato a metterli in valore: ebbene Tieri, senza nulla togliere alla sua personale interpretazione, riusciva ad aggiungervi la caratteristica di essere una spalla perfetta.

Un po’ meno clamorosamente, ma pur sempre con grande classe, nello stesso genere di film e anche in rivista, Gianni Agus riusciva in questo arduo compito: mantenere la sua compatta eleganza di attore e porgere al comico in titolo tutto l’aiuto necessario; gli riuscì persino con un capocomico che comico non era, e cioè Wanda Osirispalla Va citato anche un attore arrivato al ruolo di spalla nella maturità: quel Carlo Campanini che opponeva, quando gli fu accanto, alla stralunata e fluviale comicità di Walter Chiari il suo non appannabile stupore e un’altrettanto eccentrica e stralunata maniera di affrontare il rapporto con l’altro e con il pubblico.

Szondi

Di origine ebraica, Peter Szondi subì la deportazione nel campo di concentramento di Bergen-Belsen; è stato professore universitario a Berlino, Gottinga e Heidelberg. Allievo di Steiger, nella sua formazione furono importanti anche i lavori di Lukács, Benjamin e Adorno. Szondi sviluppa un concetto di ermeneutica in cui critica, poetica e riflessione filosofica si pongono in un rapporto di integrazione reciproca. Da qui la sua posizione polemica sia nei confronti del circolo ermeneutico di Heidegger, sia verso il pensiero di Dilthey, a cui contrappone la ripresa di un’idea totale dell’opera, ispirata innanzitutto dall’ Estetica di Hegel. In particolare ricordiamo i suoi saggi dedicati al teatro: Teoria del dramma moderno (1956); Saggio sul tragico (1961); La teoria del dramma borghese nel secolo XVIII (primo volume delle Lezioni, 1973-1974).

Stein

Specializzato negli studi di germanistica e storia dell’arte con una base filologica essenziale al suo approccio ai classici, Peter Stein deve al grande Fritz Körtner, regista e attore, l’insegnamento che farà di lui il punto di riferimento del teatro tedesco nella seconda metà del secolo, demiurgo e sperimentatore di grandi progetti e nuovi spazi, specie nell’esplosione inventiva degli anni ’70. Ma la sua personalità è anche legata a un’ idea di gruppo, identificato con la Schaubühne berlinese di cui è fondatore nel 1970, per quasi un decennio direttore e comunque socio di un complesso autogestito, composto nel suo nucleo storico da compagni e allievi degli inizi, quali Bruno Ganz, Edith Clever, Jutta Lampe, Michael König, elevati negli anni da questa esperienza recitativa coi loro più giovani colleghi ai vertici della scena europea.

Il germe della compagnia è già al fianco di Stein a Monaco, dove il regista trentenne debutta al Werkraumtheater con il provocatorio Saved di Edward Bond e l’anno dopo, nel fatidico Sessantotto, presenta il Brecht giovanile di Nella giungla delle città e il polemico Discorso sul Vietnam di Peter Weiss, concluso da una colletta a favore dei Vietcong. L’ensemble si matura e arricchisce grazie a nuovi incontri nel trittico per lo Schauspielhaus di Zurigo ( Early Morning ancora di Bond, Il bel chicchirichì di O’Casey e I lunatici elisabettiani), e a Brema, nel confronto col romanticismo tedesco dello schilleriano Intrigo e amore e del Torquato Tasso di Goethe; uno spettacolo-capolavoro quest’ultimo, che fa scandalo facendo del protagonista `un clown dell’emozione’ che scavalca le epoche nella sua contestazione d’artista al potere. Non a caso verrà ripreso nel repertorio della Schaubühne, denominata `am Halleschen Ufer’ dal luogo della sua prima sistemazione `povera’ e periferica e, a partire dal 1980, progettato `am Lehniner Platz’ dopo il traferimento in un ex cinema progettato da Mendelssohn negli anni ’20 e ristrutturato da Karl-Ernst Herrmann, scenografo `storico’ di Stein, con tre sale modulari e unificabili.

La prima Schaubühne s’inaugura con un Brecht eretico: La madre in versione più psicologica che educativa con la bravissima Therese Giehse in funzione anti-Weigel, a direzione collettiva come il successivo Interrogatorio all’Avana di Enzensberger. A liquidare i conti con il poeta di Augusta provvederanno indirettamente nello stesso periodo due ulteriori messinscene politiche: in onore dello scomodo Tairov un classico sovietico come La tragedia ottimista di Visnevskij e alla caccia dei sensi di colpa tedeschi Pionieri a Ingolstadt della Fleisser, che di Brecht fu una discussa `compagna di strada’. Ma La madre, col suo abbraccio della scena al pubblico avvolto da tre lati, apre anche un discorso sullo spazio destinato ad assumere maggior respiro nei classici assieme alla ricerca di un’identità, punto chiave di un Peer Gynt integrale in due serate, con sei attori a interpretare gli otto Peer (torna più volte il solo Ganz) su un’isola planetaria in mezzo agli spettatori, dietro ai quali si levano paesaggi ricavati da stampe d’epoca. Con Il principe di Homburg , affidato al fascino di un onirismo visionario che ispirerà Rohmer, è in gioco invece l’io tedesco conteso tra istinto e ragion di stato, insieme all’ambiguità di Kleist da sottrarre a un’ipoteca nazista. Teatralmente il discorso trova il suo sviluppo nello studio e nelle contraddizioni del naturalismo e non a caso nell’ampiezza del suo percorso Stein può arrivare a leggere politicamente un vaudeville tipo Cagnotte dando a Labiche uno spessore molieriano.

L’escursione preventiva sui luoghi dell’autore diventa d’obbligo per un approfondimento stanislavskiano, come lo spettacolo propedeutico sul tema, per esempio sui greci. Così in un enorme padiglione da fiera, nel 1974, Esercizi per attori  (Antikenproject 1) è un’ipotesi fortemente emozionale e coinvolgente sulla nascita della tragedia, seguita a sere alterne dalle Baccanti allestite da Grüber e sei anni dopo dalle nove ore dell’ Orestea , che farà il giro del mondo e rivivrà nel l993 in un’edizione russa con la Compagnia dell’Armata Rossa. È il vero culmine creativo del regista che arriva ad abolire la scena, sostituita dal muro del Palazzo, situando in mezzo agli spettatori seduti per terra su bassi gradini il cantilenante coro da cui escono via via i personaggi ripercorrendo la storia dell’uomo e del teatro. Dura addirittura due sere la grande mostra-museo di Shakespeare Memory, premessa al Bardo che figlia in uno studio cinematografico una monumentale edizione narrativa di Come vi piace, dove l’attraversamento di un lungo cunicolo fitto d’immagini separa la prima parte, con l’antefatto cittadino in clima neoclassico e stilizzato da vedere in piedi, dalla foresta dell’evasione dove tutto è falsamente vero: passeranno dodici anni, con l’intermezzo di Otello e Falstaff nelle edizioni liriche verdiane montate veristicamente per la compagnia di Cardiff, perché si arrivi a una nuovo testo shakespeariano, il controverso Tito Andronico, diretto dal regista poliglotta in italiano per il Teatro di Genova. Nell’intervallo c’era anche stato Der Park, macroscopico adattamento dal Sogno di una notte d’estate di Botho Strauss, a lungo `dramaturg’ del regista e da lui stesso lanciato come autore con La trilogia del rivedersi , sull’eterno tema dell’arte e dell’impegno, letta come appassionata biografia della Schaubühne e il dispersivo Grande e piccolo visto come occasione interpretativa per la Clever e scenografica per Herrmann.

Più interessato al solito ai classici per i più ampi margini d’autonomia ricreativa da questi consentiti, Stein mette alla prova della finzione anche il teatro-verità di Kroetz ( Né carne né pesce ) e del più riuscito Nemico di classe dell’inglese Nicol Williams in una ricostruzione berlinesizzata di una scuola. Ma il tentativo risulta più arduo alla prima mondiale postuma di Roberto Zucco (1990), perché riesce difficile trasferire al Tiergarten l’allegorismo di cui Koltès riveste un’azione peraltro rubata alla realtà. Ma a parte certe avventure già citate, oltre al nuovo omaggio a Tairov col kolossal di un transatlantico a ridosso del pubblico nello Scimmione peloso di O’Neill e la parentesi francese (un’effettistica e potente edizione di Les Nègres per cui Genet, colpito dalle prove aveva addirittura scritto un nuovo finale e la Fedra raciniana), gli anni ’80 avevano avuto per Stein il loro baricentro in Cechov, già studiato, con tanto di viaggio in Russia, al tempo dei Villeggianti di Gor’kij (l974), ancora una storia di borghesi con l’hobby dell’arte, ritagliata su misura per la troupe, con gli attori sempre presenti negli spazi riservati ai loro personaggi a improvvisarsi una vita di controscene.

Dieci anni dopo, Tre sorelle sono un magistrale concertato di gesti, suoni, luci, ritmi che inseguono nel tempo la propria verità in una scena che ricalca il modello stanislavskiano per allungarsi a inghiottire un’altra sala della nuova Schaubühne nell’atto finale del duello, in una campagna che s’inventa una verità perdendosi nell’infinito. Ma la seconda edizione, che trionfa tra l’altro in tournée a Mosca, calandosi anche con qualche cambio d’interprete in una quotidianità meno sontuosamente perfetta tra tic banali velati dalla memoria, sembra addirittura rigenerare quel risultato. Anche Il giardino dei ciliegi conosce due versioni, coricando di un più introspettivo tormento a Salisburgo l’immagine quasi contemporanea di un’umanità turisticamente in corsa verso la fine vista a Berlino, con il mirabile intervallo nel 1994 dello Zio Vanja italiano `alla russa’ con Herlitzka, Pozzi, Girone, Crippa, Giovampietro: una complessa collezione di segni per snidare l’insondabile presenza della comicità nella tragedia che rappresenta il nocciolo inafferrabile dell’opera di Cechov.

Intanto, lasciata la Schaubühne, infoltite le regie liriche da Debussy a Schönberg a Berg, Stein assume per sei anni la direzione della sezione prosa di Salisburgo, dove si propone di ricalcare il modello Reinhardt con una serie di grandi spettacoli unici affidati anche ad altri registi importanti e giovani, riunendo a livello d’interpreti il meglio del teatro pantedesco. Il sogno di un estivo Walhalla teatrale si realizza alla Felsenreitschule col suo Giulio Cesare, memorabile saggio sulla retorica politica e sulla manipolazione delle masse, svolto a luce naturale con travolgente maestria tecnica, primo degli Shakespeare romani programmati che vedranno anche un suo stanco Antonio e Cleopatra, prima del ripiegamento verso un duplice e più esteriore omaggio alla scena austriaca con le messinscene di due classici nazionali, Il re delle Alpi e il misantropo di Ferdinand Raimund e il meno frequentato Libussa di Grillparzer, preludio a un allestimento nel tradizionale Theater viennese der Josefstadt nel giugno ’98, dell’ultima complicata novità dell’amico Botho Strauss (Die Aulmhnlichen, i somiglianti), trasformata in felice occasione registica, ricca di autocitazioni. Ma la sua mente è già tesa al Faust integrale in sette giornate che da tempo lo travaglia, destinato a realizzare all’Expo 2000 di Hannover, 20 anni dopo l’Orestea, l’opera della sua vita.

Stefanescu

Diplomatosi all’Accademia di ballo della sua città, Marinel Stefanescu si perfeziona al Bol’šoj di Mosca e al Kirov di Leningrado. Vincitore della medaglia d’oro al Concorso Internazionale di Balletto di Varna (1966) viene nominato primo ballerino dell’Opera di Bucarest, dove interpreta tutto il repertorio classico-romantico; trasferitosi poi in Italia (1976) stringe un sodalizio artistico con Liliana Cosi, con la quale fonda l’Associazione Balletto Classico (1977), centro didattico e compagnia con cui presenta balletti del repertorio (Don Chisciotte) e molte sue creazioni caratterizzate da una forte ispirazione religiosa (Risveglio dell’umanità, 1989).

Sarti

Dino Sarti inizia a farsi conoscere alla fine degli anni ’60, cantando il blues in dialetto bolognese nei night-club; debutta quindi nel cabaret al Derby di Milano. La sua scelta del dialetto è drastica: «o si è bolognesi o si sa l’inglese». Restano famose le sue canzoni “Tango imbezell”, “Viale Ceccarini” e “Bologna campione”, e le caricature di personaggi quali «Spomèti», il viveur impomatato di brillantina, e `i biassanüt’ (i nottambuli). Traduce in dialetto J. Brel (“I vié”), G. Bécaud e C. Aznavour, e crea canzoni su alcune poesie di Tonino Guerra (“I limon”, “I madon”, “Dmanda”). Nel 1970 incide il suo primo album, Bologna invece!. Il 14 agosto 1974, in piazza Maggiore a Bologna, circa trentamila persone si radunano per il suo spettacolo in dialetto; da allora fino al 1985 l’evento si ripete tutti gli anni, tanto che S. viene ricordato da molti come `quello di piazza Maggiore’. Ha al suo attivo, tra gli altri, gli album Spomèti (1982) e Sentimental Bertoldo (1994), un film con Pupi Avati e alcuni libri.

Sartre

Insignito nel 1964 del premio Nobel (che rifiuterà), propugnatore dei grandi temi dell’esistenzialismo (fortunata corrente di pensiero che in Francia permea non solo la filosofia e la letteratura, ma tutte le arti), Jean-Paul Sartre ha sempre posto al centro della sua riflessione il tema dell’uomo e della sua ricerca di libertà: un `libero arbitrio’ individuale, una misura fondamentale dell’esistenza alla quale rapportarsi. Il suo primo dramma, Le mosche (Les mouches), messo in scena da C. Dullin nel 1943, in piena occupazione nazista – in cui riprende il grande tema dell’Orestea secondo l’ottica di una saga familiare segnata dal delitto e dalla colpa -, è scritto negli stessi anni in cui S. compone un importante saggio filosofico, L’essere e il nulla (L’être et le néant, 1943), e dopo il romanzo-manifesto La nausea (La nausée, 1938).

Come i due testi citati, anche Le mosche è un testo-manifesto: vi si dibattono i temi di una guerra non solo familiare ma civile, che giustifica il matricidio di Oreste, il quale si assume responsabilmente il compito di vendicare l’uccisione del padre assassinando – contro ogni legge, che non sia quella di una superiore spinta morale – la madre traditrice. Fra il 1945 e il 1946 Sartre scrive altri drammi, da A porte chiuse (Huis clos, 1945), dove la situazione claustrofobica mette a nudo come la vita dei protagonisti – un uomo e una donna che cercano di accaparrarsi l’amore di una giovane – subisca dei condizionamenti reciproci, a La sgualdrina timorata (La putain respectueuse) e Morti senza sepoltura (Morts sans sépulture), entrambi del 1946.

Con Le mani sporche (Les mains sales, 1948) S. analizza ancora una volta, nella figura del giovane Hugo, il contrasto fra le leggi della politica e l’idealismo personale. In Il diavolo e il buon Dio (Le diable et le bon Dieu, 1951), attraverso il personaggio goethiano di Goetz von Berlichingen, che percorre le scelte opposte della santità e della perversione, S. mostra come tutto, anche la scelta del proprio destino, sia condannato al relativo. Nekrassov (1955), invece, è una violenta satira contro l’anticomunismo dilagante al tempo della guerra fredda, mentre in I sequestrati di Altona (Les séquestrés d’Altona, 1959) – attraverso la vicenda di un ex ufficiale nazista che, dopo essersi nascosto per anni nella soffitta della casa del padre ad Altona, sceglie di suicidarsi non appena si rende conto che il mondo seguito al conflitto rifiuta la responsabilità degli eventi, scegliendo di essere senza memoria – mette ancora una volta in scena il contrasto fra responsabilità collettiva e responsabilità del singolo.

Importante – oltre a quello di sceneggiatore per il cinema – è il lavoro di riscrittura operato da Sartre su alcuni classici: in particolare sulle Troiane di Euripide (1965) e su Kean, dall’opera di Dumas padre, che ha per protagonista il grande attore ottocentesco inglese Edmund Kean, rappresentato nella basilare contraddizione di genio e sregolatezza.

Sammataro

Inizia la sua attività con la Compagnia dei giovani, interpretando il ruolo del Figlio nella celebre edizione dei Sei personaggi in cerca d’autore con la regia di De Lullo; recita poi nelle Tre sorelle di Cechov e in Il confidente di D. Fabbri. Nel 1966-67 lavora allo Stabile di Roma dove interpreta La bottega del caffè di Goldoni e Dal tuo al mio di Verga. Nel 1974 è al Piccolo Teatro di Milano, dove partecipa al Giardino dei ciliegi di Cechov con la regia di Strehler. Fra gli altri spettacoli di questi ultimi anni, Lorenzaccio di De Musset al Teatro Olimpico di Vicenza diretto da M. Scaparro (1997), dove interpreta il cardinale Cybo.

Sportiello

Allievo della Scuola della Scala entra a far parte del Corpo di ballo dove si segnala come vivace danzatore di carattere nelle vesti del Governatore nel Cappello a tre punte di L. L. Massine (1951). Sempre in ruoli di caratterista si mette in evidenza in balletti del repertorio, creazioni di A. Milloss ( I sette peccati capitali ) e appunto di Massine, del quale danza numerose coreografie ( La commedia umana, Il barbiere di Siviglia , Choreatium ) nella formazione del Balletto Europeo (1957). Diventato in seguito maître de ballet, con la moglie Susanna Della Pietra è autorevole riproduttore dell’opera di Massine.

Scaglione

Comincia a lavorare nel 1955 alla sede Rai di Torino, dove rimarrà per trentasette anni. Nel contempo collabora con il Teatro Stabile di Torino e fonda il Teatro delle Dieci (1958), con un repertorio legato al teatro dell’assurdo, a Beckett e Ionesco. Si dedica anche allo studio della cultura piemontese, fondando nel 1970 un gruppo con Gipo Farassino. Fra le sue regie ricordiamo Antigone con Tino Carraro. Regista di prosa in tv, ha diretto anche programmi culturali, spettacoli di intrattenimento, sceneggiati ( I giovedì della signora Giulia , soggetto di P. Chiara, 1970); sua anche la regia della parodia dei “Promessi sposi” con il trio Lopez-Marchesini-Solenghi (1990).

Soyinka

Considerato una delle figure cardine della cultura africana per la sua capacità di unire impegno civile e recupero delle tradizioni mitico-letterarie del suo paese, nel 1986 ha ricevuto il Nobel per la letteratura (primo africano insignito di tale onoreficenza). S. è cresciuto in una famiglia cristiana di etnia yoruba, e ha ricevuto un’istruzione tradizionale, perfezionata però in Inghilterra, all’università di Leeds, dove si è specializzato in letteratura sotto la guida del noto critico shakespeariano G. W. Knight. A teatro esordisce nel 1960, a Lagos in Nigeria, dove nel frattempo era tornato, in occasione dei festeggiamenti per l’indipendenza, con Danza della foresta (A Dance of the Forest), opera basata su una complessa rivisitazione della mitologia yoruba. Il continuo accostarsi alle sue radici etniche unito ad alcuni ingredienti propri della cultura occidentale (soprattutto del teatro di Shakespeare) saranno i fili conduttori della sua poetica teatrale svolta in spettacoli quali: Il leone e la perla (The Lion and the Jewel, 1963), La strada (The Road, 1965), La morte e il cavaliere del re (Death and the King’s Horsman, 1975). Sono da ricordare anche Pazzi specialisti (Madmen and Specialists, 1970), lavoro che risente dell’esperienza del carcere, patita dall’artista per motivi politici, e un’intrigante rivisitazione delle Baccanti di Euripide, Bacchae: a Communion Rite (1973), in cui la figura di Dioniso coincide con quella del dio yoruba. Fra le sue successive opere teatrali ricordiamo: Opera Wonyosi (1980), Requiem for a Futurologist e A Play for Giants (1984). All’attività di drammaturgo S. ha sempre alternato quella di romanziere, saggista e poeta, con all’attivo due romanzi, Gli interpreti (The Interpreters, 1965) e Stagione di anomia (Season of Anomy, 1973), un’autobiografia, un diario dal carcere e almeno cinque raccolte tra poesie e saggi di critica letteraria.

Scarnicci

Giulio Scarnicci (Firenze 1913 – ivi 1973) e Tarabusi Renzo (Firenze 1906 – ivi 1968), autori di copioni per riviste goliardiche fiorentine, esordirono in campo nazionale con i testi di Chi vuole esser lieto sia , con Franco Scandurra e Carlo Campanini, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, stagione estiva 1951. L’anno dopo, scrissero Dove vai se il cavallo non ce l’hai? con Elena Giusti, Tognazzi-Vianello. Della rivista faceva parte la canzone “Scalinatella”, che la Giusti interpretava mentre da uno scalone scendevano le soubrettine in costume folk partenopeo. Seguì, per la stessa formazione, Barbanera bel tempo si spera : sfarzo, umorismo, effetti speciali (con un trimotore grande quanto il palcoscenico, che si levava in volo tra vorticar di eliche).

Per Erminio Macario scrissero Tutte donne meno io, audace esperimento di spettacolo al femminile (1953-54), con quaranta ragazze, tra cui Carla Del Poggio, l’annunciatrice tv Fulvia Colombo, la cantante indiana Amru Sani (cantava “Souvenir d’Italie”, musiche di Lelio Luttazzi). Mattatore senza `spalla’, Macario in uno dei suoi allestimenti più curati e sfarzosi. Nella stessa stagione, Passo doppio, con Tognazzi-Vianello, Bramieri, Silvana Blasi e, per la prima volta come `primadonna’, la brava Dorian Gray; lo spettacolo venne anche rappresentato in Francia. Nel 1957, i due autori affrontarono la prosa leggera, scrivendo Caviale e lenticchie per Nino Taranto, al quale destineranno anche Masaniello (1963).

In Campione senza volere, 1955-56, con Hélène Remy, moderna soubrette, dilagava la comicità aggressiva e scattante della coppia Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Qui Tognazzi si esibiva anche in un incontro di catch. Nel 1957-58, con musiche di Luttazzi, fecero Uno scandalo per Lili , con regia di L. Salce e interpretazione di L. Masiero e U. Tognazzi, affiancati da un buon cast: A. Maestri, M. Scaccia, M. Monti, G. Tedeschi. Nella stagione 1960-61, Il rampollo con C. Dapporto e M. Del Frate più attrice che cantante; ancora per Dapporto, nella stagione 1965-66, L’onorevole, intrigo pochadistico con M. Martino e con E. Vazzoler e F. Giacobini comprimari. Intensa la loro attività per riviste radiofoniche e televisive, nel decennio dal 1955 al 1965.

Sinagra

Negli anni ’60 Antonio Sinagra inizia la sua attività come pianista e compositore, in questo periodo diventa collaboratore della Rai. L’incontro con Roberto De Simone segna l’avvio di un fecondo sodalizio artistico. È direttore d’orchestra di La gatta Cenerentola – di cui è autore assieme a De Simone – per la Nuova Compagnia di Canto Popolare, andata in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto (1976). Nel 1978 scrive L’opera ‘a muort ‘e famme , che debutta a Roma, con la regia di Armando Pugliese (1979). Il successo ottenuto con questo musical lo invita a comporne altri: Annella a Portacapuana (1981); Fiaboplast (1983); Guerra dei topi e delle rane (1984). Alla morte di Nino Rota, nel 1980, Eduardo De Filippo lo vuole come suo collaboratore, Sinagra è autore delle musiche di tutti i suoi successivi spettacoli, fino all’ultimo, La tempesta , rappresentato nel 1985 alla Biennale di Venezia dalla Compagnia di Marionette dei Colla, regia di Eugenio Monti-Colla. In seguito compone le musiche di: Un’ora al San Carlino (1986, testo di E. Murolo); Partitura (1988, testo di E. Moscato); Sona Sona (1989, per la Nuova Compagnia di Canto Popolare); Medea di Portamedina (1991, testo di A. Pugliese); Teatro Excelsior (1993, testo di V. Cerami).

Sforzi,

Alla fine dell’Ottocento è attivo il Circo Europa, diretto da Gaudenzio Sforzi e dalla moglie Linda Pellegrini, entrambi di famiglia circense. Gli otto figli Clodomiro, Esilda, Cesare, Italo, Armando, Erminia, Angelo e Adriano, sono tutti buoni generici. Si distingue Angelo che, a scopo pubblicitario, salta lunghe file di cavalli e di autovetture. Nel 1928 viene creata una società con il Circo Bizzarro (v.). La seconda guerra mondiale porta a una grave crisi del complesso, che comunque, con l’aiuto dei Caroli e dei Lizzi, va avanti fino al 1959. Negli anni ’60 e ’70 è soprattutto un figlio di Angelo, Alberto, detto `Bertino’, a distinguersi come valido giocoliere, ripresentando alcune delle routine create da Enrico Rastelli (v.).

Sordi

Straordinario attore di cinema, emblema dell’italiano medio e mediocre, ricettacolo di vizi e virtù del borghese piccolo piccolo, A. S. debutta nell’avanspettacolo e varietà, dove incrociò il suo destino con quello di F. Fellini, che lo scelse per i suoi primi film inseguendolo nelle tournée. Nel 1937 S. è sul palco dell’Augustus di Genova, quando lo nota Aldo Fabrizi e dal 1938 al 1942 lavora per due compagnie di rivista, con la Riccioli-Primavera in Ma in campagna è un’altra cosa di Benini e Gori, e la Fineschi-Donati in Tutto l’oro del mondo di Galdieri. Ma bisogna ricordare, nel 1943, anche l’apparizione di S. nella compagnia di Fanfulla in Teatro della caricatura, al Teatro della Galleria di Roma, dove, festeggiata da S., passò la sua prima serata coniugale la coppia Fellini-Masina. Dopo molta gavetta, nel 1943, preparato sugli umori del pubblico visto dall’altezza della passerella, S. recita Ritorna Za-bum, diciotto episodi di Galdieri in cui appare al fianco di Scandurra, Ave Ninchi, Benti, Campanini, Pavese, Ada Dondini, Lupi. Nel 1944 lo troviamo ancora in avanspettacolo: in Un mondo di armonie, accanto ai fratelli Bonos e De Vico, imita Stanlio e Ollio (che poi incontrerà di nuovo in sala di doppiaggio); e in Imputati… alziamoci! di Galdieri, anche regista, con Benti, Brazzi, Pavese, Rondinella e Olga Villi. Nel 1947 è ancora in scena, a Milano e Roma, nella rivista E lui dice di Benecoste, diretta da Adolfo Celi, con la Villi, Giorda, la Bagni, Rovere, Cortese, Rosi (il regista), Caprioli, Salce, Panelli, Carlo Mazzarella e Benti: un cast irripetibile. Nello spettacolo, allestito per il pubblico romano e infatti accolto meno bene al Nord, S. recitava uno sketch destinato alla celebrità (fu ripreso in Accadde al commissariato di Simonelli, nel 1954), quello di «pensa a te e alla famiglia tua» in cui indossava un gonnellino scozzese. Nel 1945 passa con Garinei e Giovannini, due giovani talenti della satira, nella rivista Soffia, so’… diretta da Mattoli, creatore di Za-bum. Sono momenti difficili, polemiche in agguato, il pubblico suscettibile, le ferite della guerra ancora aperte. A Genova, durante una scena in cui S. faceva con Viarisio lo sketch del balilla, scoppiarono tumulti in sala e nel secondo anno di repliche, a Milano, ci furono serata assai calde, in cui il giovane S. ha modo di dimostrare il suo sincero temperamento non eroico. Il destino sulla passerella torna e si conclude nel 1952, quando, trentenne, viene scritturato dalla regina Wanda Osiris in Gran baraonda di Garinei, Giovannini e Kramer, con Enzo Turco, Marisa Mangini, in arte Dorian Gray, i Cetra che cantavano “Un bacio a mezzanotte”, Gianni Agus, Turco, una distribuzione a mezza strada tra la rivista e la prosa. Lo spettacolo si basava sull’idea di mettere il mondo, per ridere, a testa in giù. E per dissacrare fino in fondo, gli autori fecero apparire in scena la `Wandissima’ con grande fasto, ma era S. a scendere le scale al suo posto, importunandola di continuo con uno sketch rimasto famoso in cui il comico ripeteva il fastidioso tormentone di «mi permette Wandaosiri?», dandole pacche e manate sulle spalle. Ma fu la sigla di un ammirato affetto: tanto che la Wanda torna in una scena del film che Sordi, mai più tornato al teatro, ha dedicato nel 1973 alla vita raminga ma felice dell’avanspettacolo Polvere di stelle. Il grande attore romano si è spento a Roma il 24 febbraio 2003 dopo una breve malattia.Imponenti le manifestazioni di affetto del suo pubblico.

Soldati

Nonostante il suo forte interesse per il teatro, pochissime sono le scritture sceniche di Mario Soldati. La sua prima opera (mai allestita) fu proprio un dramma in tre atti, Pilato (1924): premiato dalla federazione cattolica di Torino, il testo – punto di approdo di un giovane nutrito di educazione religiosa – è incentrato sulla figura di Pilato che, dopo il ripudio, arriva quasi alla conversione. In tempi più recenti, nel 1977, si colloca invece l’adattamento di Il vero Silvestri (Milano, Teatro Filodrammatici), un lungo racconto pubblicato nel 1957. Soldati è stato anche autore di numerose sceneggiature, spesso frutto di personali ed efficaci riletture dei classici della nostra letteratura. Significativa fu la collaborazione con Pirandello ed Emilio Cecchi nella stesura del soggetto di Acciaio, film del regista tedesco Walter Ruttmann (1933).

Saez

Vicente Saez studia tecnica Graham e danza moderna a Barcellona, entrando nel primo corso di tecnica contemporanea dell’Istituto del Teatro catalano, dove firma la sua prima coreografia (El Dueto, 1983). In seguito frequenta i corsi di Lydia Azzopardi e Cesc Gelabert, del quale danza La Naude (1985) e Desfigurat (1987); contemporaneamente collabora anche con Anna Teresa de Keersmaeker e il gruppo Rosas. Formato nel 1987 il gruppo Saéz/Taba inizia una importante ricerca nella quale la struttura del movimento è analizzata in costruzioni formali rigorose ma ricche di una potente carica di energia, in lavori come Ens (1988), Uadi (1992), Wirbel (Berlino, Komische Oper 1996), Regina Mater (1996) dove appare evidente, anche se reso in maniera del tutto astratta, un riferimento costante alla cultura e alle liturgie spagnole.

Shepard

Sam Shepard fece rappresentare il suo primo copione a diciannove anni, vinse il suo primo premio a ventitre, scrisse la sua prima sceneggiatura a venticinque, iniziò una fortunata carriera di attore cinematografico a trentacinque. Diede alle scene una quarantina di opere, quasi tutte allestite off-off Broadway o al Magic Theatre di San Francisco, dove lavorò stabilmente per alcuni anni. Rifacendosi spesso a vari aspetti della mitologia popolare statunitense, dal film western alla musica rock, fu in teatro l’autore che seppe meglio esprimere le tematiche e i valori della controcultura della seconda metà del secolo, in un linguaggio di notevole suggestione e in strutture drammaturgiche innovative e sconcertanti, che divisero radicalmente il pubblico e la critica. Si potevano riconoscere nella sua opera tre differenti fasi, accomunate da temi come la ricerca delle proprie radici e la fine del cosiddetto sogno americano. Per definire i testi della prima, iniziata con Cowboy (1964), si è usato il termine `collage’, in quanto composti di soliloqui insieme lirici e grotteschi con vaghe connessioni fra loro.

Carattere sperimentale avevano anche le cosiddette `fantasie’ della seconda fase – esemplificata soprattutto da La Turista (1966) e Il dente del delitto (The Tooth of Crime, 1972), ma i personaggi e i loro sfoghi s’inserivano in trame più compatte e sovraccariche di incidenti. Alla terza fase, infine, appartenevano le opere più significative e più conosciute di questo autore Il bambino sepolto (Buried Child, 1978), Pazzo d’amore (Fool for Love, 1979), Vero West (True West, 1980), Una menzogna della mente (A Lie of the Mind, 1985) e Stati di shock (The States of Shock, 1991), che segnarono una svolta in senso realistico, sviluppando coerentemente gli intrecci e dando maggiore consistenza ai personaggi. Per questi testi, che sviluppavano soprattutto il tema della famiglia e dei suoi orrori con evidenti ambizioni tragiche, si fece da più parti il nome di O’Neill.

Scaparro

Figura di regista e operatore teatrale tra le più interessanti e attive in Italia e all’estero, Maurizio Scaparro inizia la sua attività nel campo dello spettacolo come critico teatrale. Poco più che ventenne, infatti, collabora a “l’Avanti!” e, più tardi, a “Maschere, rassegna mensile di vita del teatro” diretto da Giovanni Calendoli. È, poi, direttore responsabile di “Teatro Nuovo”, rivista fondata con Ghigo De Chiara e Lamberto Trezzini (1961). Nel 1963, Scaparro è chiamato a dirigere il Teatro stabile di Bologna, poi, l’anno successivo, esordisce nella regia con Festa grande di aprile, novità di Franco Antonicelli, presentata al Teatro Municipale di Reggio Emilia.

Avverso a ogni forma di spettacolarità eccessiva, Scaparro fa dell’allusione e dell’illusione chiavi di lettura possibili dei propri spettacoli, contrassegnati da una tensione verso una teatralità riccamente utopica, cha abbia sempre al centro il destino dell’uomo. La consacrazione come regista avviene il 26 giugno 1965, al Festival dei due Mondi di Spoleto: Scaparro presenta La venexiana di Anonimo del Cinquecento (ripresa nel 1985 in una nuova edizione), con, una straordinaria Laura Adani e le scene di Roberto Francia (suo abituale collaboratore). Infaticabile ed instancabile, firma oltre sessanta spettacoli, tra i quali si ricordano Sagra del Signore della nave di Pirandello (1967); Chicchignola di E. Petrolini (1969) con Mario Scaccia; Amleto di Shakespeare (1972) con Pino Micol, che sarà protagonista di molti spettacoli di Scaparro; Cirano di Bergerac di Rostand (1977, 1985 e 1995); Don Chisciotte di M. Cervantes nella riduzione di R. Azcona e T. Kezich (1983, Festival di Spoleto, e successivamente in spagnolo nel 1992); Il fu Mattia Pascal (1986); Pulcinella, di Manlio Santanelli da un soggetto inedito di Roberto Rossellini, con Massimo Ranieri (1987); Vita di Galilei di Brecht (1988); Una delle ultime sere di carnovale di Goldoni (1989) e Memorie di Adriano di M. Yourcenar con Giorgio Albertazzi (1989 e 1994); Morte di un commesso viaggiatore di Miller (1997).

Contemporaneamente al suo affermarsi come regista, Scaparro conferma le sue capacità di organizzatore innovativo e acuto, dirigendo compagnie autonome (Teatro Indipendente, dal 1967 al 1969 e Teatro Popolare di Roma, 1975-79), Teatri Stabili (dopo Bologna, Bolzano dal 1969 al 1975; e Roma 1983-1990); e istituzioni pubbliche in Italia e in Europa, come la Biennale, durante la quale crea il celebre Carnevale del teatro (1980-82), il settore spettacolo dell’Expò di Siviglia nel 1992, o l’Ente teatrale italiano, di cui è commissario straordinario nel 1994-95. Nel 1997 assume la direzione del Teatro Eliseo di Roma.

Strindberg

Figlio di Carl Oskar, che lavorava nelle spedizioni marittime, e di Ulrika Eleonora Nozling, figlia di un sarto ed ex donna di servizio. Degli anni che vanno dal 1849 al 1867, un ampio resoconto si trova in Il figlio di una serva (1886). Nel 1867 August Strindberg prende la maturità. Tra il 1868 e il 1872 decide di scrivere per il teatro. Nascono così i primi lavori: Ermione, A Roma, Il libero pensatore, Il bandito. Nell’estate del 1872 si cimenta col dramma storico e libertario: Maestro Olof . Nel 1875 incontra Madame la Baronne de W., ovvero Siri von Essen, moglie separata del barone Gustaf Wrangler; se ne innamora immediatamente e l’anno successivo la sposa.

Il 9 giugno del 1881 va finalmente in scena al Nya Teater la prima versione di Maestro Olof , che riscuote un vero e proprio successo. Nel novembre 1882 viene rappresentata La moglie di Bengt . Nel 1887 nascono i primi contrasti con la moglie; si fa strada la gelosia e l’odio tra i sessi. Scrive ancora racconti ( Vivisezione ), un romanzo ( Gente di Hemsö , 1888) e i suoi primi capolavori teatrali: Il padre (1887), La signorina Julie (1888), I creditori (1889), Paria (1889) e La più forte (1889). Nel 1893, dopo un veglione, per la strada una ragazza austriaca gli dà un bacio: si tratta di Frida Uhl, ventunenne. Si sono conosciuti in gennaio, a maggio si sposano. Continua la fortuna per l’autore di teatro: da Parigi arriva il successo della Signorina Julie , testo che viene messo in scena al Théâtre Libre; Autodifesa di un folle viene tradotto in tedesco; a dicembre va in scena a Parigi Il padre.

Nel 1896 inizia il Diario occulto . In questo periodo S. attraversa una crisi mistica e medita di rifugiarsi presso i benedettini di Solesmes. Legge la Divina Commedia e il Faust . Il viaggio di Dante gli ispira un nuovo testo drammatico, Verso Damasco, il prototipo di quel ‘dramma a tappe’ che egli riproporrà successivamente e che ispirerà la grande drammaturgia espressionista. Nel frattempo perfeziona anche il dramma onirico, iniziato con L’avvento (1898), e che raggiungerà il momento più maturo con Rappresentazione di un sogno (1900). Nel 1899 compie cinquant’anni, scrive la commedia C’è delitto e delitto e tre drammi storici, fra cui Gustavo Vasa .

Si arriva così al 1900. Strindberg lavora spasmodicamente per il teatro, scrive Pasqua e La danza della morte . In autunno fa la conoscenza della terza donna della sua vita: Harriet Bosse, ventiduenne, attrice, meravigliosa protagonista di Dama in Verso Damasco. Strindberg se ne innamora e dedica a lei la parte di Eleonora in Pasqua e quella di Svanevit nella commedia fiabesca omonima. La sposa il 6 maggio 1901, e ne avrà una figlia. Nel 1906, per la prima volta, va in scena a Stoccolma La signorina Julie, con grandissimo successo. Intanto continua a lavorare per l’Intima Teater, un locale di centosessanta posti inaugurato il 26 novembre 1907, insieme all’attore-regista August Falck. Scrive: Aria di tempesta , Il luogo dell’incendio , La sonata dei fantasmi, Il pellicano, Il guanto nero. Il modello del `Teatro intimo’ è quello del Kammerspielhaus di Max Reinhardt; qui Strindberg potrà fare ancora certi suoi esperimenti con un tipo di drammaturgia essenziale, carica di motivi simbolici, ricca di visioni parossistiche e di stati di allucinazione.

Nel 1909 scrive il suo testamento spirituale, La strada maestra . L’apparizione di Strindberg nella drammaturgia europea, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, avviene in un momento in cui si sente l’urgenza di grandi cambiamenti, che coinvolgevano soprattutto la forma e il linguaggio, oltre che i generi. Occorreva creare delle mitologie moderne; Strindberg, oltre a inventarle, riuscì a trasferirle in un mondo allegorico e simbolico, mai scandagliato prima della sua comparsa. Egli aveva intuito la crisi della tragedia, aveva capito che la nuova società ricercava rimedi a tutto; intervenendo sull’una e sull’altra, Strindberg crea le basi del teatro moderno. Grazie a lui, il genere drammatico si evolve sino a una sorta di procedimento simbiotico, tanto da far convivere la crisi del dramma con la crisi della coscienza e da far corrispondere la rottura delle forme tradizionali con la frattura del pensiero. Il dramma perde così la lucidità, la razionalità, presenti ancora in Ibsen, per diventare riflesso di coscienza, luogo in cui realtà e sogno coincidono, allegoria e simboli convivono.

Strasberg

Dopo aver lavorato come aiuto regista per la Theatre Guild, Lee Israel Strasberg fu nel 1931 uno dei fondatori del Group Theatre, per il quale diresse fino al 1936 (quando dissensi personali e artistici ne determinarono l’allontanamento) quasi tutti gli spettacoli, ottenendo particolare successo con la messinscena di Uomini in bianco di S. Kingsley (1933) e del musical Johnny Johnson di K. Weill (1936). Ma la sua vera carriera iniziò nel 1951, con la nomina a direttore artistico dell’Actors Studio. Qui ebbe modo di mettere in pratica la sua personale versione del sistema di Stanislavskij, il cosiddetto ‘metodo‘ fondato più sul lavoro dell’attore su se stesso che sulla costruzione del personaggio, con esercizi che tendevano a mettere in risalto la verità delle emozioni a parziale scapito delle tecniche espressive. Produsse così interpreti a proprio agio in quei drammi (e soprattutto in quei film) che permettevano loro di lavorare sulle proprie nevrosi personali, come dimostrò nel 1963 il tentativo di costituire una compagnia permanente dell’Actors Studio, con molti dei suoi allievi più famosi; tentativo che si concluse nel giro di un anno, con una infelice ripresa delle Tre sorelle di Cechov che lo stesso Strasberg aveva diretto.

Scaldati

Franco Scaldati inizia come attore lavorando con gruppi spontanei palermitani e continua da sempre un importante che unisce teatro e impegno sociale nel quartiere della Kalsa di Palermo. Intensissima l’attività di autore, che lo porta, tra il 1972 e il ’73, a firmare Attore con la o chiusa per sempre . Un esordio che è una sorta di reazione al teatro della perfetta dizione e alla scena governata da modalità registiche verso le quali lui e i suoi attori sono insofferenti. Seguono molti altri testi-spettacoli, lavori in cui la scrittura non nasce mai sola, ma sempre insieme al lavoro di palcoscenico e di forti motivazioni etiche: Il pozzo dei pazzi, spettacolo fortunato e eclatante per la forza visionaria e una lingua ricca di impasti dialettali e immagini sceniche. Lo spettacolo, dopo aver debuttato al Piccolo Teatro di Palermo, nel 1974, prodotto dalla cooperativa I draghi, è stato ripreso, sempre con la regia dell’autore nel 1980 e con grande successo – che l’ha imposto alla ribalta nazionale – con la regia di E. De Capitani (1989).

Seguono Lucio (regia A. Ardizzone, 1978 e, con maggiore eco, quella di Cherif nel 1990), Mano mancusa (1978), Il cavaliere sole , Occhi (1987), Totò e Vicè (che ha debuttato alle Orestiadi di Gibellina nel 1993, ripreso negli anni successivi), Assassina, Ofelia e una dolce pupa tra i cuscini . A Sant’Arcangelo nel 1995 mette in scena Femmine dell’ombra, da cui nascerà poi il laboratorio permanente di Palermo fondato da Antonella Di Salvo, impegnato a rappresentare esclusivamente testi della compagnia. Seguono Sul muro c’è l’ombra di una farfalla, Si aprono i tuoi occhi ed è l’aurora. Nel 1997 La locanda invisibile e Ombre folli che debutta a Sant’Arcangelo con una strepitosa interpretazione di Antonella Di Salvo. Nel ’98 Scaldati riscrive La tempesta di Shakespeare che viene allestita con la regia di Cherif, mentre all’Albergheria apre una nuova sezione di teatro per ragazzi. Notevole le sue prove d’attore, oltre che dei suoi testi, anche nelle partecipazioni straordinarie (La sposa di Messina di Schiller a Gibellina, regia di E. De Capitani).

Socìetas Raffaello Sanzio

Socìetas Raffaello Sanzio nasce a Cesena nel 1981 ad opera di due giovanissime coppie di fratelli, Claudia e Romeo Castellucci, Chiara e Paolo Guidi. La storia della  è caratterizzata soprattutto dal percorso di rottura e superamento del linguaggio teatrale tradizionale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore. Il loro teatro, attraverso passaggi graduali, si configura oggi come `teatro dei corpi’. L’ironia con cui hanno accompagnato la sistematica distruzione di ogni valore teatrale colloca la Socìetas Raffaello Sanzio tra i giovani eredi di Jarry, soprattutto per l’anarchica fantasia linguistica e per la consapevolezza della concretezza delle parole.

La loro ricerca si spinge fino alla creazione di una nuova utopica lingua universale, chiamata `generalissima’, assunta nell’opera Kaputt Necropolis , rappresentata con successo alla Biennale di Venezia del 1984. È del 1985 Santa Sofia, Teatro Khmer, l’opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, radicalizzata poi successivamente sul piano del linguaggio con I Miserabili nella quale l’Araldo, figura centrale, per tutta la durata della rappresentazione rimane immobile e muta, quale programmatico agire e parlare scenico. Solo il corpo, condizione prima dell’essere attore, spettatore di se stesso è presente sul palcoscenico. Con La bellezza tanto antica la Socìetas Raffaello Sanzio si accosta al carattere mitico della fiaba. Da qui un orientamento positivo del teatro non in senso morale, ma come situazione di superamento semantico. A sostegno di questo versante sta l’animale, che a partire da questo momento affiancherà in scena l’attore.

La successione di corpi di uomini, donne, animali, di ogni età, dimensione e deformità, sarà quindi la costante del teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. Il corpo, segno significante più potente del teatro stesso, diviene elemento essenziale per le sue componenti comunicative e di diversità. Una sorta di smascheramento del teatro attraverso l’azzeramento dell’attore, che con il suo essere esclusivamente ‘corpo’ rende didascalia il linguaggio. Questo percorso sfocia nella realizzazione nel 1992 dell’Amleto -la veemente esteriorità della morte di un mollusco autistico e nell’Orestea del 1995 in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da un giovane mongoloide.

Con Giulio Cesare del 1997 il teatro diviene ars oratoria, artificio retorico. In questo spettacolo la retorica, grazie alla tecnologia meccanica e chimica, compie un viaggio a ritroso nel discorso, fino alla fonte della parola, della voce e dell’articolazione dei suoni che sono alla sua origine, spiati da una microtelecamera calata nella gola dell’attore e collegata a un grande schermo. Nel succedersi dell’azione con la morte di Cesare, quando Antonio pronuncia la celebre orazione, la carica seduttiva della parola viene cancellata definitivamente. Antonio è infatti un laringectomizzato, le sue parole non vogliono dire più niente, assumono valore di segno come il corpo. Giulio Cesare ha vinto il premio Ubu 1997 quale miglior spettacolo dell’anno. Per settembre ’98 è prevista la preparazione del nuovo progetto teatrale della Genesi. Nel 1988 la Socìetas Raffaello Sanzio ha inaugurato, sotto la direzione di Claudia Castellucci, la Scuola Teatrica della Discesa e le Edizioni Casa del Bello Estremo, che pubblica scritti drammatici filosofici e lirici. Nel 1995 inoltre, proseguendo un suo progetto legato al mondo dell’infanzia, Chiara Guidi ha aperto la Scuola sperimentale di teatro infantile.

Sombert

Studia con Brieux, Gsovskij, Rousanne e Preobrajenska. Esordisce a Losanna nel 1950 e la stagione seguente è nella compagnia di Charrat. Successivamente danza nelle compagnie di Petit (1953-54), di Miskovitch (1956) e di J. Babilée (1957-59). Lavora con Michel Bruel in Russia (1968) e, dal 1972 al ’74, è étoile del Ballet du Rhin. Tra le sue esibizioni più importanti: Le loup di Petit (1953), Prométhée di Béjart (1956), Pique dame di Lifar (1960).

Sfinios

Allieva dell’Opera di Belgrado, nel 1955 entrava nella compagnia dello stesso teatro, dove ha interpretato fra l’altro varie coreografie di D. Perlic. Successivamente ha danzato nella compagnia diretta da M. Miskovitch, poi nel Balletto europeo di L. Massine, danzando anche a Nervi ne La commedia umana (1960). Allo stesso anno data il suo rapporto con Béjart, che la vuole nel Ballet du XXéme Siècle. Incarnazione della melodia, S. sarà la prima, superba protagonista di Bolero (1961). La sua grande classe d’interprete si farà notare in altri lavori, tra i quali Les quatre fils Aymon .

Shaw

Prima di diventare un romanziere di successo, si era affermato in teatro con un paio di opere di un certo interesse: Seppellire i morti (Bury the Dead, 1936), un singolare dramma pacifista dove sei soldati caduti in guerra rifiutano la sepoltura, e La brava gente (The Gentle People, 1939), una divertente parabola antifascista dove alcuni onesti cittadini decidono di ribellarsi al gangster del quartiere e di ucciderlo. Gli insuccessi degli altri suoi testi teatrali – fra i quali si può citare L’uccisore (The Assassin, 1945), suggerito dal caso dell’ammiraglio Darlan ammazzato ad Algeri due anni prima – lo indussero a dedicarsi stabilmente alla narrativa.

Sagan

Quoirez; Cajarc, Lot, 1935), scrittrice e commediografa francese. Il suo esordio letterario, Bonjour, tristesse (1954), le dà una grande notorietà. Al teatro si avvicina dopo pochi anni: nel 1957 al Théâtre des Champs-Élysées viene allestito un balletto, Le rendez-vous manqué , di cui S. scrive il soggetto. Il suo vero debutto come autrice teatrale è nel 1960 con Château en Suède . Da questo momento alterna romanzi e testi teatrali: Les violons parfois (1961); La robe mauve de Valentine (1963); Bonheur, impair et passe (1964; di questo lavoro, interpretato da Juliette Gréco e Jean-Louis Trintignant, è anche regista); Le cheval évanoui (1966); Un piano dans l’herbe (1970); Il fait beau jour et nuit (1978); Le chien couchant (1980); L’excès contraire (1987).