Quaglio

José Quaglio visse in Francia dall’età di due anni e fino al 1964. Oltralpe recitò con registi famosi, come Vilar, Dasté, Mercure, Meyer. Debuttò nel 1940 con il gruppo La Saison Nouvelle. La prima regia la firmò nel 1953, mettendo in scena Velca di T. Pinelli. Raggiunse il successo nel 1959 allestendo, prima in Francia e poi, nel 1962, in Italia Sicario senza paga di Ionesco. Trasferitosi in Italia, diresse lavori di Brusati (La fastidiosa, 1963), Ionesco (Il re muore, 1963), Eliot (Il ministro a riposo, 1964), Moretti (Processo a Giordano Bruno, 1970), Neveux (Querela contro ignoto, 1968), Suffran (Savonarola, 1970), Bolt (Un uomo per tutte le stagioni, 1974), Mrozek (Gli emigranti, 1975) e Pirandello, di cui curò la regia di un celebre Enrico IV (1964), grazie alla grande prova di S. Randone e alla valorizzazione dei personaggi minori. Del 1973 è La papessa Giovanna una commedia di grande successo con Andrea Giordana e Paola Quattrini. Tra le sue interpretazioni cinematografiche va annoverata quella nel film Il terrorista (1963) di G. De Bosio, nel quale diede vita a Piero, partigiano comunista veneziano. Q. è stato anche un prezioso diffusore della cultura teatrale italiana in Francia.

Purcarete

Silviu Purcarete studia regia all’Accademia d’arte drammatica di Bucarest diplomandosi nel 1974. Inizialmente lavora con il gruppo teatrale sperimentale Youth Teatre di Piatra Neamt: Romeo e Giulietta è proprio del 1974, invece più tardi mette in scena uno straordinario Campiello (1986) di Goldoni che vince il premio nazionale per il teatro. Dal 1978 collabora con il Teatrul Mic (Piccolo Teatro) e insegna all’Accademia dove si era diplomato; di questo anno è La folle di Chaillot di Giraudoux. Lavora con il Teatro di Craiova dal 1991 e nel 1992 viene nominato direttore artistico del Teatro Bulandra di Bucarest, senza interrompere la sua collaborazione con quello di Craiova. Con quest’ultimo e la sua compagnia, Purcarete crea quattro spettacoli di altissimo livello che sono stati osannati dal pubblico e dalla critica internazionale: Lo gnomo di un giardino d’estate di D.R. Popescu (1989), Ubu re con scene da Macbeth da A. Jarry e Shakespeare (1990), Titus Andronicus e Fedra da Seneca e Euripide (1992 e 1993 rispettivamente). Questi spettacoli oltre a essere stati premiati e ospitati dai più importanti festival del mondo, come quello di Edimburgo, del Quebec e di Montreal, hanno mostrato l’incredibile originalità e forza esressiva di adattamenti e accostamenti stilisticamente arditi e intensi. Con la compagnia del Teatro di Craiova P. è stato invitato anche in importatntissimi teatri come il Theatre Globe di Tokyo e il Theater der Welt di Monaco, che ne hanno consacrato il successo. Si ricordano inoltre fra gli altri spettacoli La leggenda degli Atridi (1978) , Ecuba di Euripide (1982), Decameron 645 da Boccaccio (1993), La Celestina di F. de Rojas, al Piccolo Teatro di Milano (1994).

Piccardi

L’esordio a teatro di Silvano Piccardi è del 1956 con Madre natura di Luigi Cimara. Segue un’intensa attività con le maggiori compagnie italiane: Calindri-Solari-Zoppelli, I giovani (De Lullo, Falk, Guarnieri-Valli). Lavora per oltre tre anni con Dario Fo, anche autonomamente, con regia e testi propri, e col Gruppo della Rocca. Nel 1979 inizia la collaborazione con il milanese Teatro Filodrammatici, dove interpreta Romeo e Giulietta , Il ladro di casa di Svevo (1983-84), Terzetto , una raccolta di atti unici di Pirandello con la regia del fratello Alvaro. Nel 1991 allestisce per il Festival di Spoleto Dialoghi con nessuno , e l’anno successivo dirige per il Festival di Asti, P. Zappa Mulas e P. Nuti in Parole al buio di Paolo Puppa. Nel 1993 allestisce al Carcano la ripresa di Tre sull’altalena di Lunari con G. Pambieri, L. Tanzi ed E. Beruschi che arriverà anche in tv. Tra le sue tante regie ricordiamo La principessa dei sogni (la guerra in Jugoslavia) di Rocco D’Onghia, andato in scena al teatro Verdi di Milano. Tra il 1986 e l”88, su richiesta del carcere di San Vittore e del Sindacato attori italiano, conduce un laboratorio di drammaturgia con un gruppo di detenuti per reati di terrorismo che porterà al testo Labirinto , presentato in forma di spettacolo nell’88 al Salone Pier Lombardo con la partecipazione di F. Parenti e L.Morlacchi.

Cronyn

Buon caratterista nel teatro e nel cinema, Hume Cronyn si trasferì negli Usa dove sposò, nel 1942, l’attrice inglese Jessica Tandy (19091994), con la quale formò una delle coppie più apprezzate dei palcoscenici americani per il garbo, la tecnica e il senso dell’umorismo. Recitarono insieme, spesso con la regia di Cronyn, testi come Letto matrimoniale di De Hartog, I fisici di Dürrenmatt, Un equilibrio delicato di Albee. Furono anche fra i primi ad alternare le recite a Broadway con quelle nei teatri regionali, dove potevano affrontare un repertorio impegnativo con adeguati tempi di preparazione. Senza il marito, la Tandy fu Ofelia accanto a Gielgud e, con particolare successo, la prima Blanche Dubois di Un tram chiamato desiderio .

Binasco

Nel 1987 Valerio Binasco si diploma presso la scuola dello Stabile di Genova. Negli anni immediatamene seguenti lavora per il Teatro di Genova con le regie di Anna Laura Messeri (Il furfantello dell’Ovest , di J. M. Synge, 1987) e Marco Sciaccaluga (La putta onorata e La buona moglie di Goldoni, 1987-88; Inverni di C. Repetti da S. D’Arzo, 1988; Arden di Feversham, 1988-89). Nel 1989 lavora con Mario Jorio in Gelopea di Chiabrera e con Carlo Cecchi in Amleto. Quindi, nel 1991, è nuovamente con lo Stabile di Genova per il Re Cervo di Gozzi con la regia di Marco Sciaccaluga e inizia la sua attività come insegnante presso la scuola di recitazione dello Stabile. Dal 1991-92 lavora con il Teatro degli Incamminati con le regie di Franco Branciaroli (Antigone di Sofocle, Re Lear di Shakespeare, L’ispettore generale di Gogol), G. De Bosio (I due gemelli veneziani di Goldoni), M. Sciaccaluga (Cirano di E. Rostand, La bisbetica domata di Shakespeare). Nel 1994 inizia la duratura collaborazione con C. Cecchi, inizialmente come assistente alla regia per la messa in scena di Nunzio di Spiro Scimone, poi come attore in Finale di partita di Beckett (1995), La serra di H. Pinter (1997), Sogno di una notte di mezza estate e Misura per misura di Shakespeare (1998). Dal 1995, anno in cui ha diretto e interpretato Re Cervo di Gozzi con il gruppo Durandarte, si dedica anche alla regia teatrale. Ha firmato le regie di Bar di Spiro Scimone per il festival di Taormina nel 1997, di Family Voices di H. Pinter nel 1997, di La bella di Leenane di M. Mc Donagh per lo Stabile di Genova nel 1998.

Salveti

Lorenzo Salveti ha diretto numerosi spettacoli con le più importanti compagnie di prosa italiane. Nel corso degli anni ha portato avanti una ricerca personale, con un proprio gruppo, su autori italiani come Natalia Ginzburg, Pasolini, Landolfi, Savinio, Gadda. Dal 1990 al 1994 è stato direttore artistico del Teatro Stabile dell’Aquila. Dal 1977 insegna recitazione all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’; ha tenuto corsi in molte città europee e del Sudamerica. Ha curato numerose regie liriche e ha diretto in tv commedie di G.B. Shaw, A. Christie, V. Sardou, O. Wilde, G. Courteline, A. Roussin, T. Rattigan. Si è dedicato per molti anni alla regia radiofonica, vincendo per due volte il premio Italia.

Ha scritto La donna di Bath (1983) e Il caffè del signor Proust (1990). Tra le sue regie teatrali si ricordano: Brand di Ibsen (1975), La Venexiana (1976), Lulu di Wedekind (1977), Macbeth di Shakespeare (1978), Sindrome italiana , collage di testi di S. Benni (1979), Dialogo di N. Ginzburg (1980), Nostra dea di Bontempelli (1981), Orgia di Pasolini (1982), Il guerriero, l’amazzone, la poesia nel verso immortale del Foscolo di Gadda (1983), La cosa vera di Stoppard (1984), Le notti bianche da Dostoevskij (1985), Orestiade di Eschilo (1987), Metamorfosi da Ovidio (1992), La cognizione del dolore da Gadda (1994), La rappresentazione di Santa Uliva (1995), Delitti disarmati di Ceronetti (1996), Leopardi segreto (1997), Così è (se vi pare) di Pirandello (1998) e La locandiera di Goldoni (1998).

De Fusco

Luca De Fusco si laurea in discipline dello spettacolo al Dams di Bologna nel 1982. I suoi primi spettacoli di rilievo si inseriscono nel filone del teatro sperimentale e si ispirano spesso alla letteratura, come Il centro dell’Aleph da Borges, che inaugura il Teatro del Mondo di A. Rossi nel Carnevale della Biennale di Venezia. Nel 1982 firma la sua prima regia lirica Turandot di Busoni al festival della Valle d’Itria. Nel 1985 passa a un teatro più classico, inaugurando scenicamente Villa Campolieto a Ercolano con Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux. Da questo spettacolo nasce, nell’anno successivo, il festival delle Ville Vesuviane che De F. fonda e dirige fino alla fine dell’esperienza (1992). Nel 1990 torna alla lirica con Lucrezia Borgia di Donizetti al San Carlo di Napoli. Tra le numerose regie di prosa realizzate si può rintracciare, come si diceva, un filone letterario ( Les liaisons dangereuses con P. Pitagora, 1987; Senilità con L. Capolicchio, 1995), uno sei-settecentesco (Turandot di Gozzi con L. Sastri, 1988; Anfitrione di Molière con M. Rigillo, 1990; La finta serva di Marivaux prima con P. Pitagora, poi con V. Ciangottini, 1991 e 1995) e uno di interesse per la nuova drammaturgia o i recuperi di testi dimenticati (Sua Maestà di Cerami con M. Scaccia, 1986; Le smanie per la rivoluzione di Ferrone con G. Tedeschi, 1989; La chunga di M. Vargas Llosa con P. Pitagora e A. Sandrelli, 1994; Il ritorno di Casanova di Schnitzler con M. Rigillo, 1988; Il cilindro di E. De Filippo con R. Bianchi, 1996). Di recente ha realizzato per la Rai la lettura semintegrale de La storia della mia vita di G. Casanova e ha fondato il Piccolo festival europeo di Anacapri, dove ha realizzato un singolare spettacolo-passeggiata, adattando e mettendo in scena Le cronache italiane di Stendhal.

Bene

Carmelo Bene esordisce nel 1959 al Teatro delle Arti di Roma nel Caligola di Camus diretto da Alberto Ruggiero, ma già l’anno successivo offre un lavoro creativo autonomo con Spettacolo Majakovskij , arricchito dalle musiche di S. Bussotti. Gli anni ’60 rivelano la novità dirompente dell’arte di B. Nascono spettacoli di inattesa forza eversiva e di oltraggiosa provocazione: Pinocchio da Collodi (1961), Amleto da Shakespeare (1961), Edoardo II da Marlowe (1963), Salomè da O. Wilde (1964), Manon da Prévost (1964), Nostra Signora dei Turchi (1966), Amleto o le conseguenze della pietà filiale da Shakespeare e Laforgue (1967), Arden of Feversham (1968), Don Chisciotte in collaborazione con Leo De Berardinis (1968). Il decennio, fra i più fecondi nella carriera di Carmelo Bene, consegna a un pubblico spesso scandalizzato spettacoli inattesi, creazioni che l’attore tornerà a rielaborare con accanimento, ricercando un punto prospettico sempre variato e conturbante. In quel decennio Carmelo Bene, oltre a costituire una propria compagnia in sodalizio con Lydia Mancinelli, partecipa all’attività del Beat ’72; sperimenta il cinema, realizzando il lungometraggio Nostra Signora dei Turchi (1968), che segue i mediometraggi Ventriloquio (1967) e Hermitage (1968); aderisce al `Manifesto per un nuovo teatro’ firmato a Ivrea nel 1967 dalle schiere più avanzate della cultura e della ricerca teatrale. Carmelo Bene è ormai il simbolo di un’arte antagonistica, opposta al teatro ufficiale. Per la prima volta, con lui, prende corpo una nuova nozione di attore, che non è soltanto un dissacratore di regole, di repertori e di autori, ma molto di più e di diverso: è l’attore filosofico, l’attore ideologico, l’attore saggista, che si pone «al di qua della rappresentazione e al di là del teatro» (M. Grande). Invece delle superstiti sicurezze dei cosiddetti grandi attori, dà al pubblico dubbi, polivalenze e ambiguità di significati, sottili intarsi culturali, la degradazione parodistica. Nel Romeo e Giulietta (1976), per esempio, si assume la parte di un Mercuzio che non muore a metà della tragedia, ma continua nelle parole di Romeo, da lui plagiato e fagocitato, ridotto a un mimo animato soltanto dal suo padrone e partner, la cui voce gli è trasmessa attraverso il play-back. È un caos doloroso e beffardo, il crollo di ogni illusione interpretativa.

È il cosiddetto teatro della sottrazione o dell’amputazione: Carmelo Bene elimina dai testi il dato ideologico immobile e vi sostituisce una potente forza distruttiva, con cui cancella il rapporto attore-personaggio, autore-regista e, di conseguenza, la rappresentazione convenzionale. Nascono da qui S.A.D.E. (1977), Lorenzaccio (1986), La cena delle beffe e Pentesilea (1989), dove l’elemento negativo sembra travolgere la nozione stessa di teatro. Nasce ancora da qui la rissosa e sfortunata direzione della Biennale Teatro nel 1989, in cui B. promette uno strenuo esercizio di ricerca teorica il cui scopo è il teatro senza spettatori. Pensiero negativo. Ma Carmelo Bene esce dalla negatività per affermare l’unica presenza per lui possibile, quella dell’attore; l’attore che non si nasconde dietro il personaggio, rifiuta di morire con Mercuzio, ma ripropone continuamente se stesso come realtà esistenziale in cui il poeta e la sua visione fantastica si fondono e finiscono con lo scomparire. L’attore, cioè il diverso: con la sua nevrosi, i suoi eccessi e mancamenti, la sua ambiguità sessuale, il suo autobiografismo ostentato, la distruzione di se stesso in pubblico, nell’onda di grandi musiche che enfatizzano i sentimenti caduti. Così, fra l’altalena del dubbio e lo schiocco dell’oltraggio, Carmelo Bene mette in discussione non solo il teatro nella sua accezione storicamente accertata, ma anche lo spettatore, invitato a riconoscere come unica realtà la sofferenza, la nausea, il narcisismo spudorato e malinconico, l’impotenza, la protervia e la mortale consapevolezza dell’attore, che ora ha perduto ogni connotato psicologico ed è diventato una macchina attoriale, arrivando a raccontare se stesso col nastro del play-back, in quinta, e avendo per interlocutori dei manichini. L’elemento vivo della macchina attoriale è la voce, che con Bene diventa phoné: uno strumento duttile, ricco di ombreggiature e di colori, di timbri, di sonorità e di cupezze, messi al servizio non solo dei personaggi anchilosati e collassati, ma anche del verso poetico, che egli esplora non nella cantabilità, ma nella profondità emotiva e concettuale, restituendolo a platee anche immense (Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna nel 1981) con l’uso del microfono, che con lui non è più una protesi, ma è la voce che vince il suo stesso corpo. Ed ecco le letture di Majakovskij e dei Canti orfici di Dino Campana, ecco Leopardi, ecco i concerti per voce recitante, come Manfred di Byron (1979, musica di Schumann), Hyperion di Maderna (1980) ed Egmont da Goethe con musiche di Beethoven (1983); ecco Hamlet Suite (1994), in cui l’opera di Laforgue ha le musiche di B. È l’apoteosi dell’attore-creatore che si è specchiato in G. Deleuze e in Nietzsche, si è sovrapposto ai grandi scrittori della scena reinventandoli in un’assoluta originalità ed è arrivato al grado massimo di narcisismo con l’autobiografia Sono apparso alla Madonna (1983), inserita nell’opera omnia pubblicata nel 1995.

Grotowski

Jerzy Grotowski è uno dei grandi riformatori del teatro europeo, l’ultimo grande teorico e regista di un teatro concepito come occasione suprema di verità dell’umano. Studiò recitazione e regia alla scuola superiore d’arte teatrale di Cracovia e si perfezionò quindi a Mosca e in Cina. Tornato in patria diresse fra il 1957 e il 1959 alcuni spettacoli (Le sedie di Jonesco, Zio Vanja di Cechov) con cui si fece notare. L’avventura teatrale autonoma di Grotowski  inizia nel 1959, quando gli viene affidato un teatro nella città secondaria di Opole, così piccolo che prendeva il nome dalle tredici file di poltrone che lo costituivano (Teatr 13 Rezdow). Grotowski  mise in piedi un gruppo di collaboratori giovani come lui (fra cui il più importante è il drammaturgo Ludwik Flaszen; dopo qualche anno arriverà a fargli da braccio destro uno studente italiano residente in Norvegia, E. Barba) e iniziò un lavoro molto approfondito e sistematico di sperimentazione linguistica e pedagogica, con l’obiettivo dichiarato di cercare un teatro capace di resistere alla concorrenza del cinema e della televisione. Fra numerosi spettacoli messi in scena negli anni di Opole, si ricordano Orfeo di Cocteau, Caino di Byron, Faust di Marlowe, Mistero buffo di Majakovskij, Sakuntala di Kalidasa, Akropolis di Wyspiansky.

Tutti questi testi subivano un profondo processo di elaborazione drammaturgica, che spesso puntava a rinnovarne il senso attraverso un radicale spostamento di ambientazione e di clima psicologico, e insieme una sperimentazione, allora del tutto inedita, dello spazio scenico. Così Akropolis, testo fondamentale del romanticismo nazionale polacco, invece che nel palazzo reale di Cracovia, si svolgeva in un lager nazista, dove gli spettatori apparivano imprigionati insieme agli attori. Faust, invece, era rappresentato durante una sorta di ultima cena, di nuovo condivisa fra interpreti e spettatori. Il lavoro si concentrava però soprattutto sull’arte dell’attore: i suoi attori giunsero rapidamente alla pratica di un allenamento quotidiano sulla base di esercizi tecnici e creativi, ma soprattutto si sforzarono di superare limiti fisici e psicologici, per arrivare all’autentica `autopenetrazione’: lavoravano sulla voce, sul corpo, imparavano a trasformare le facce in maschere di carne, cercavano soprattutto un’estrema verità della presenza. «Per un anno», raccontava il suo attore più noto Riszard Cieslak, «ho lavorato come se potessi imparare a volare col mio corpo».

Nel frattempo il Grotowski  regista sconvolge tutte le regole: distrugge lo spazio separato dello spettacolo, elimina gli accessori artificiali come luci esterne e musiche registrate, mescola attori e spettatori, fabbrica spettacoli sorprendenti con materiali poverissimi, inventa aspri sarcasmi sui sacri testi della drammaturgia polacca. Da Opole il teatro si trasferisce nel 1965 a una città molto più importante come Wroclaw, ma sempre in uno spazio molto piccolo e sotterraneo, denominato programmaticamente Teatr Laboratorium. Incominciano ad arrivare qui dei visitatori europei, qualche spettacolo come Il principe costante e Apocalypsis cum figuris arriva in Occidente, suscitando enorme interesse. Un suo libro, Per un teatro povero compilato con E. Barba, diventa la bibbia della sperimentazione teatrale di tutto il mondo, dal Sudamerica al Giappone. Nel momento del trionfo internazionale, verso il 1967, G. fa una gesto imprevedibile: abbandona il teatro, almeno il tradizionale `teatro dello spettacolo’. Nel suo progetto di riscatto del teatro come `spazio dell’incontro’ non gli basta più nemmeno l’estremismo delle sue messinscene aspre e perfette. Vuole più verità, non può più accettare il principio della finzione che sta alla base di ogni spettacolo.

Guida gruppi che lavorano per settimane in stanzoni vuoti, senza copione e senza spettatori, cercando `azioni organiche’, oppure li porta in luoghi naturali a prendere coscienza del corpo e del mondo, delle sostanze naturali. Inventa la `drammaturgia dell’incontro’, il ‘parateatro’, che conosce a sua volta verso la fine degli anni ’70 un momento di forte interesse. Ma neanche queste cerimonie segrete e commoventi, che arrivano in Italia a una celebre Biennale di Venezia, gli bastano a lungo. Esse hanno per lui il difetto di limitarsi all’incontro interpersonale, e con ciò di restare alla superficie del nocciolo più importante della natura umana. Grotowski  esplora allora le culture più diverse, alla ricerca delle tradizioni che usano il corpo in movimento come strumento di rivelazione e di esperienza: i neri del vodoo, i messicani, le canzoni degli indiani bauli. Riporta queste esperienze fisiche `della solitudine’ in una serie di seminari che si chiamano `teatro delle sorgenti’, lentamente delinea una teoria del performer come colui che è in grado di canalizzare nel suo corpo ricordi ancestrali ed energie cosmiche, teorizza `l’arte come un veicolo’. Tutta questa esperienza ricchissima, accumulata nel corso degli anni ’80 e ’90, non resta privata, si diffonde attraverso incontri, seminari, scambi, conferenze, che sono organizzati per lo più a Pontedera, dove ha sede il suo laboratorio, grazie al generoso aiuto del Centro di sperimentazione teatrale.

Appare qualche suo saggio sulla nuova teoria del performer, un film che illustra il suo lavoro; e in qualche occasione isolata e molto protetta è possibile a pubblici selezionati vedere le cerimonie (piuttosto che spettacoli) in cui si esprime l’ultima fase del suo lavoro: eventi rituali costituiti di semplici azioni fisiche e di canti fortemente evocativi, che colpiscono con una profonda suggestione emotiva i loro `testimoni’ (non più spettatori). G. è sempre di più il maestro di generazioni di teatranti: un maestro segreto, in apparenza silenzioso, ma essenziale.

Brasch

Figlio di emigrati ebrei, nel 1947 Thomas Brasch rientra in Germania, nella Rdt, dove il padre è funzionario del Sed, il Partito socialista unitario tedesco, e viceministro della cultura. Dal ’56 al ’60 frequenta l’Accademia militare come allievo ufficiale e, dopo il ’64, studia pubblicistica a Lipsia. Espulso dalla scuola, tra il ’67 e il ’68 frequenta l’istituto superiore di cinematografia a Berlino, ma viene espulso anche da questo istituto con l’accusa di sobillazione contro lo Stato. Dal ’72 lavora come scrittore indipendente e nel ’76 espatria a Berlino Ovest.

Nel ’77 vince il premio Gerhart-Hauptmann e nel ’87 il premio Kleist. La rivolta dell’individuo contro le limitazioni sociali, il tentativo di evadere dall’imposizione dei ruoli viene elaborato da Brasch attraverso la sperimentazione di nuove forme drammaturgiche e di una nuova estetica. Dalla disgregazione della società borghese nonché del concetto di individuo sorge la necessità di una nuova specie di eroi, ma eroi tra virgolette: in testi come Der Papiertiger (1976), Lovely Rita (1977), Rotter (1977), Anton Tschechovs Platonow (1978), Lieber Georg (1980), Mercedes (1983), Frauen. Krieg. Lustspiel. (1989), tanto poco ruolo ha l’eroe in quanto individuo, tanto si riduce anche la tematica.

I personaggi sono spesso messi in una posizione azzerata, in una situazione di bonaccia, così come l’autore la definisce, per evidenziare come essi usano il tempo libero che è stato loro concesso, al quale sono stati forzati o che si sono presi. Pertanto, tutti i testi di Brasch sono incentrati sul tema del lavoro considerato non solo secondo un’accezione economica: la disoccupazione, nel senso di essere utile o non utile, è secondo Brasch l’esperienza decisiva e fondamentale nelle società moderne.

Vasil’ev

Dopo gli studi universitari a Rostov, Anatolij Vasil’ev lavora come ricercatore in un istituto di chimica in Siberia, poi su un battello impegnato in ricerche oceanografiche. Nel 1968 si iscrive al GITIS (Istituto di Stato per il Teatro) di Mosca, e segue gli insegnamenti di A. Popov e M. Knebel, già allieva di Stanislavskij. Nel 1973, una volta conseguito il diploma in regia, entra al MKat (Teatro d’Arte di Mosca): alla sua prima regia, Assolo per orologio a pendolo di O. Zagradnik, fanno seguito la prima versione di Vassa Zeleznova di Gor’kij (1978) e La figlia adulta di un uomo giovane di V. Slavkin al Teatro Stanislavskij di Mosca (1979) che lo consacrano regista di successo. Lavorando sempre con lo stesso gruppo di attori, ed affrontando la cosiddetta ‘nouvelle vague sovietica‘ (Novaja Volna), Vasil’ev suscita interesse perché affronta temi quotidiani della generazione dei quarantenni e per le sue innovative teorie estetiche.

Approdato al teatro della Taganka di J. Ljubimov, dopo essere stato costretto ad abbandonare il Teatro Stanilavskij, il regista, nel 1982, inizia le prove di Cerceau, la nuova pièce di V. Slavkin che, pur non raggiungendo livelli eccelsi, rimane una pietra miliare del Teatro. Nel 1982, in un nuovo fermento culturale che anima la città, Vasil’ev presenta una bellissima edizione dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, dapprima al GITIS, poi nel suo nuovo teatro, la Scuola d’arte drammatica di via Povarskaia, (attiva dal 24 febbraio 1987). Nel 1990 mette in scena Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello, e due anni dopo presenta Il ballo in maschera , di Lermontov alla Comédie-Française; nel 1994 Il sogno dello zio tratto da Dostoevskij, prima a Budapest poi a Mosca (e dello stesso autore metterà in scena anche I demoni e Il giocatore, 1997); infine nel 1997 Le lamentazioni di Geremia, libro dell’Antico Testamento trasposto in canto, per il quale riceve due Maschere d’oro, premio nazionale della Russia.

Fautore di un rigoroso metodo di lavoro sull’attore, Vasil’ev si richiama alla scuola stanislavskiana e all’Etjud (‘studio’, detto anche `metodo dell’analisi dell’azione’): processo di lavoro, dalle forti connotazioni pedagogiche, finalizzato all’acquisizione del testo e costituito da improvvisazioni che si svolgono parallelamente e contemporaneamente all’azione della pièce, cui prende parte tutto il gruppo di attori senza ruoli prestabiliti. Le fasi di lavoro di Ciascuno a suo modo di Pirandello (Mosca, Roma, 1991-92) sono state aperte al pubblico e da allora gli Etjud prevedono una fase performativa pubblica. Tra i tanti riconoscimenti al suo lavoro due premi Stanislavskij (1988 e 1995), il Cavalierato delle arti e delle lettere in Francia (1989), il premio Europa a Taormina (1989).

Biancoli

Oreste Biancoli esordì con L’uomo di Birzulah , scritto in collaborazione con Dino Falconi. Con Falconi collaborò alla stesura di numerosi atti unici, alcuni dei quali per la compagnia ZaBum (Il sabato del villaggio, Soldati, Visitare gli infermi, Rosso e Nero). Si dedicò soprattutto alla rivista (ricordiamo Lucciole della città), collaborando con diverse compagnie, tra le quali quella di Macario e la Viarisio-Porelli. Nel cinema svolse un’intensa attività firmando numerosi soggetti e sceneggiature (Noi vivi – Addio, Kira, 1942; Domani è troppo tardi, 1949; Altri tempi, 1951; Don Camillo, 1952). Il suo nome figura anche fra gli sceneggiatori di Ladri di biciclette (1948). Da ricordare la serie televisiva Cantachiaro per Anna Magnani.

Cirino

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, Bruno Cirino si forma come attore, dopo alcune partecipazioni in spettacoli di Zeffirelli (Romeo e Giulietta), De Lullo (Il giuoco delle parti) e Patroni Griffi (Napoli notte e giorno), sotto la guida di Eduardo De Filippo (Il contratto, 1967), dimostrandosi dotato di ottima tecnica. Negli anni ’70 fonda la cooperativa teatrale Teatroggi con la quale mette in scena, nella borgata romana di Centocelle, due testi agit-prop di Dacia Maraini, Gli anni del fascismo (1971) e Viva l’Italia (1972), curando anche la regia. La sua successiva carriera si muove in bilico tra l’impegno, con lavori come Marat-Sade di P. Weiss o Il diavolo e il buon Dio di Sartre per la regia di A. Trionfo, e la rivisitazione dei classici della tradizione (Georges Dandin di Molière, 1979) e del Novecento (La lezione e Le sedie di Ionesco).

La sua migliore interpretazione resta l’Idiota diretto da Aldo Trionfo (1977), che stempera la sua vena mattatoriale con un alone di crudo sarcasmo. Altri lavori di rilievo: I confessori di V. Di Mattia (1978), Uscita d’emergenza di M. Santanelli, allestito con la cooperativa teatrale `Gli ipocriti’ (1980), e Liolà di Pirandello (1981). In campo cinematografico sono da segnalare le sue partecipazioni a Allonsanfan di P. e V. Taviani (1974) e Libera, amore mio di M. Bolognini (1975). Ha svolto parallelamente un’intensa attività televisiva, prestando la sua profonda carica di umanità a sceneggiati come Dedicato a un bambino (1970), Dedicato a un medico (1973), Il diario di un maestro (1973).

Wilson

Robert Wilson nasce in una famiglia di ceto medio, suo padre è avvocato e diventerà amministratore della cittadina natale, una delle tante perse al centro del Texas. La nonna materna, Mrs. Hamilton – che in seguito lo affiancherà in performance e spettacoli come The Life and Times of Sigmund Freud, The Life and Times of Joseph Stalin, A Letter for Queen Victoria – è una straordinaria compagna di giochi; con lei e altri bambini, dall’età di otto anni, organizza piccoli spettacoli nel garage di casa. Durante gli anni della scuola media partecipa alle rappresentazioni organizzate dal Waco Children’s Theatre (con la regia di Jearnine Wagner) e dal Teenage Theatre della Baylor University. Questo, nonostante l’handicap della balbuzie da cui guarirà solo a 17 anni grazie alla signorina Byrd `Baby’ Hoffman. Miss Hoffman è un’insegnante di danza di Waco che, stimolandolo a praticare movimenti lenti ( slow motion ), farà sì che Wilson impari a sciogliere la tensione del proprio corpo.

Si diploma alla High School nel 1959 e, per assecondare la volontà dei genitori, si iscrive a un corso di laurea in economia aziendale ad Austin, all’Università del Texas, che abbandonerà nel 1962, un anno prima di laurearsi. Sono fondamentali per questo cambiamento radicale l’esperienza con i bambini disabili e i laboratori di teatro per l’infanzia in cui Wilson trasmette la terapia appresa da Miss Hoffman. Wilson decide così di seguire la propria vocazione: le arti figurative. Si trasferisce a New York (autunno 1962) per iscriversi ad architettura e progettazione d’interni al Pratt Institute di Brooklyn dove, grazie all’elasticità del piano di studi può frequentare corsi di pittura e design. A New York avviene l’incontro decisivo con gli spettacoli di Martha Graham, Merce Cunnigham e Alwin Nikolais.

Folgorato dalla Graham le scrive per ringraziarla e in cambio viene invitato ad assistere alle prove della sua scuola. Con Nikolais e il suo gruppo nasce immediatamente una collaborazione tanto che nel 1964 Wilson disegnerà le scene per Junk Dances e Landscape, due coreografie di Murray Louis, assistente di Nikolais. Alla ricerca di una sua strada continua a studiare al Pratt, a lavorare con i bambini handicappati e a fare esperienze: nel 1963 gira un cortometraggio cinematografico astratto, Slant (10′), per WNET-TV; nell’estate del 1964 va a studiare pittura a Parigi dove si è trasferito George McNeil, un docente del Pratt che faceva parte della corrente pittorica dell’espressionismo astratto; nel 1965, oltre a presentare alcune sue performance (Duricglte & Tomorrow a New York; Modern Dance, una parodia del concorso per Miss America, a Waco; Silent Play, a San Antonio), gira il film (incompiuto) The House e crea scene e costumi per America Hurrah! di Jean Claude van Itallie messo in scena dal gruppo del Café La Mama; nel 1966 presenta due spettacoli di danza, Clorox e Opus 2 ed è invitato da Jerome Robbins all’American Theatre Laboratory.

Nell’estate dello stesso anno si unisce alla comunità dell’architetto utopista Paolo Soleri che a Scottsdale, in Arizona, aveva cominciato dieci anni prima a costruire la città di Arcosanti seguendo un metodo compositivo che andava a recuperare forme simboliche e miti arcaici (soprattutto quelli degli indiani nordamericani). Al grande attivismo di questi anni segue una violenta crisi esistenziale che lo costringe a curarsi per alcuni mesi in una clinica per malattie mentali. Ristabilitosi dal crollo nervoso ritorna a New York dove prende in affitto un locale al 147 di Spring Street, ex sede dell’Open Theatre. Il loft diventa un luogo di ritrovo non solo per artisti, ma anche per artigiani, uomini d’affari, casalinghe, pensionati, studenti, insegnanti e portatori di handicap. Tra gli altri troviamo la coreografa e compositrice Meredith Monk, la nonna di Wilson e il futuro critico Stefan Brecht.

Il gruppo prende il nome di Byrd Hoffman School of Byrds e Wilson quello di Byrd o Byrdwoman. L’attività è soprattutto quella del workshop che viene interrotta da performance come Baby Blood , nel 1967, e l’anno dopo da: Alley Cats (un duetto di W. con Meredith Monk), Theatre Activity 1 e 2 e ByrdwoMAN, una `rappresentazione’ itinerante che comincia nello spazio di Spring Street – dove accadono semplicissime azioni (i `Byrds’ salgono su e giù da assi, si appoggiano a fili) – e continua nella Jones Alley dove il pubblico viene trasferito a bordo di camion scoperti e si trova al centro di un’azione creata dai `Byrds’ sui tetti degli edifici circostanti. Tutta questa attività laboratoriale, che è agita in contesti non convenzionali e si nutre delle suggestioni del clima culturale newyorkese, prelude a una svolta.

Con The King of Spain del 1969 – che Wilson considera il suo primo spettacolo – il suo lavoro si sposta in un teatro, il fatiscente Anderson Theatre. Wilson comincia a elaborare quella visione bidimensionale dello spazio e quell’originalissima dimensione del tempo teatrale che diventerà la cifra inconfondibile del suo stile e lo porterà a preferire gli spazi tradizionali. Allontanandosi dai presupposti della ricerca a lui contemporanea: la dominante centralità del corpo, che si esprimeva attraverso il teatro gestuale, e il coinvolgimento diretto dello spettatore, Wilson giunge a un’idea di composizione dallo straordionario impatto visivo. The King of Spain con le sue tre sorprendenti e contraddittorie ambientazioni (una spiaggia, un salotto vittoriano e una caverna), in cui non accade sostanzialmente nulla, e con il collage ricchissimo di oggetti, persone, luci e forme apparentemente casuali rimanda a un gioco neo-dadaista che colpisce e ammalia riscuotendo un inatteso successo. Quello stesso anno la Brooklyn Academy of Music invita Wilson a creare una nuova opera, The Life and Times of Sigmund Freud, che altro non è che una ricomposizione e un ampliamento della precedente in cui la misteriosa alchimia dello sguardo si ripete.

Alla fine del 1970 debutta all’Università dello Iowa Deafman Glance, `un’opera del silenzio’, nella quale la partitura visiva scorre davanti agli occhi di un sordomuto. Il ritmo acquista per la prima volta quella scansione lenta che recupera quel `tempo naturale’ che sulla scena appare dilatato ed estenuante, ma che fa scattare lentamente una dimensione ‘altra’ nella quale immergersi e fluire sull’onda delle immagini. Con questo spettacolo, nel 1971, scoppia in Europa il caso Wilson; rapidamente diventerà un regista di culto. Dal 2 al 9 settembre del 1972 per 7 giorni e 7 notti sulle 7 montagne attorno a Shiraz-Persepoli si svolge il monumentale KA MOUNTAIN AND GUARDenia TERRACE, rappresentazione sulla ‘storia di una famiglia e di alcune persone che cambiano’, come recita il sottotitolo, che mette in sequenza vicende della cultura orientale e occidentale, ma anche episodi biografici (i giorni che W. ha appena passato in carcere a Cipro per detenzione di hashish).

E come se non bastasse la durata straordinaria, l’opera è preceduta da un’ Ouverture già in parte montata a New York e poi rimontata e ampliata per il Festival d’Automne a Parigi: 24 ore ininterrotte di spettacolo in cui hanno spazio anche pièce autonome di alcuni `Byrds’. La più intensa è la liberatoria mise en espace della crisi depressiva di Cindy Lubar, collaboratrice storica del gruppo. Altro prezioso apporto è offerto da Christopher Knowles che, oltre a mettere in scena `naturalmente’ il suo handicap in Ouverture, scriverà in seguito con W. importanti brani di Einstein on the Beach , T.S.E. e creerà insieme a lui numerosi duetti (The $ Value of Man, i vari DiaLog). A Letter of Queen Victoria (presentato al festival di Spoleto nel 1974) sembra interrompere i precedenti esercizi di espressione fisica dello stato psichico; qui a essere in gioco è il tempo, a partire dalla diseguale estensione dei quattro atti, volutamente contrapposti l’uno all’altro; e acquista sempre maggiore spazio la musica, che nel successivo Einstein on the Beach (1976, festival d’Avignone) non è più semplice accompagnamento ma elemento imprescindibile dell’azione scenica. La ripetitività della partitura di Philip Glass (che è mira di accese contestazioni) scandisce ossessivamente la personale ricostruzione biografica che il regista dedica al più famoso fisico del nostro secolo. Gli attori (tra cui Patricia Hearst, figlia di un magnate dell’editoria, con trascorsi da terrorista, che in una serie di `istantanee’ ispirate alle fotografie delle pagine di cronaca dei quotidiani impersona se stessa) si muovono seguendo le coreografie di Andrew Degroat, in intima relazione con uno spazio scenico ridotto a pochi oggetti caricati di valore emblematico, fino alla conclusiva apparizione di una macchina del tempo, simbolo dell’interiorizzazione delle teorie di Einstein trasposte in una riflessione sui tempi e i luoghi della scena.

In I was Sitting On My Patio This Guy Appared I Thought I Was Allucinating (1977) W., anche interprete accanto a Lucinda Childs, induce lo spettatore a concentrarsi sulle minime varianti in una trama di ripetizioni di parole e gesti. Con Death Destruction & Detroit (1979) comincia la fortunata serie delle sue produzioni tedesche. Con questo spettacolo di cinque ore denso di autocitazioni che si presenta come l’inconfessabile biografia di un criminale nazista mai pentito, Wilson offre una sorta di riassunto del proprio teatro. La parola è sfruttata per il suo valore sonoro, sostenuta armonicamente dalle musiche composte da Alan Lloyd, Keith Jarret e Randy Newman. L’importanza della luce e l’originale ricostruzione scenica della vita di alcuni celebri personaggi storici si saldano in Edison (1979), una seriosa celebrazione degli Stati Uniti, composta di `cartoline’ che riproducono i quadri di Hopper oppure le tipiche architetture vittoriane, avvicendandosi nell’immancabile ritmo dato dalla musica di Michael Riesman, fermo restando che visione e ascolto devono rimanere contrapposti e indipendenti.

Il teatro di Wilson non racconta, ma esibisce una struttura di rimandi visivi e uditivi; caratteristica che non smarrisce nemmeno quando privilegia decisamente la parola nella sua materialità sonora, come avviene in Die Goldenen Fenster ( Le finestre d’oro , 1982), dove il testo arriva a determinare con precisione la gestualità dell’attore. Progettato per essere presentato in contemporanea in cinque città diverse – con l’intento di stabilire una continuità spaziale autoreferenziale – ma andato in scena solo a Monaco, si prolunga idealmente in CIVIL warS, a Tree is Best Measured When it is Down, ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, che consiste in sei parti affidate a duecentocinquanta interpreti coinvolgendo sei città di tre differenti continenti. Un’opera globale, `il più grande spettacolo del mondo’, utopico campionario degli episodi della storia umana `raccontati’ alla maniera di Wilson, probabilmente irrappresentabile per la sua complessità, ma che vive anche di tutti i tentativi che Wilson fa per riuscire a portarlo a termine. Delle sei previste solo quattro sezioni sono state effettivamente completate: quella di Rotterdam (1983), quella di Colonia (gennaio 1984) – che segna l’inizio della collaborazione con Heiner Müller -, quella di Roma (marzo 1984) e quella di Minneapolis (aprile 1984), i Kneeplays , con David Byrne come autore delle musiche e narratore.

La tensione di Wilson verso lo spettacolo totale si ritrova nel successivo rivolgersi alla tragedia classica; nascono così le due versioni operistiche di Medea (di Charpentier e di Bryars, 1984) e, soprattutto, di Alcesti di Euripide (1986), con un intenso monologo scritto da Müller, di cui W. porterà poi in scena Hamletmachine (sempre del 1986) e Quartett (1987), rivisitazione   di Le relazioni pericolose di Laclos, oltre a collaborare con lui in Death, Destruction & Detroit II e in The Forest (1988). Death, Destruction & Detroit II (1987) riprende il progetto di otto anni prima, proponendosi come sua continuazione – ancora una volta incidendo sul concetto di tempo della rappresentazione – per contrapposizione più che per analogia, incentrata sulla rielaborazione di alcune opere di Kafka.

È l’inizio di una nuova fase del lavoro di Wilson che, senza abbandonare la dimensione visiva del suo teatro, si accosta ad alcuni testi scenici – Cechov (l’atto unico Il canto del cigno ), Ibsen (Quando noi morti ci ridestiamo, testamento dell’autore e di tutto l’Ottocento), Büchner (La morte di Danton) – o narrativa come nella trasposizione scenica del romanzo di Virginia Woolf, Orlando , in un monologo affidato a Jutta Lampe (nell’edizione tedesca del 1989), a Isabelle Huppert (in quella francese del 1993, presentata anche a Milano nel 1994) e a Miranda Richardson (in quella inglese, presentata al festival di Edimburgo nel 1996).

Nel 1990 ad Amburgo va in scena The Black Rider (1990) che riunisce tre grandi artisti americani, affini per la loro capacità di sperimentare: oltre a Wilson, lo scrittore William Burroughs e il musicista Tom Waits. È un musical ispirato a Il franco cacciatore di Weber, un’opera rock affidata all’esecuzione di un’orchestra di soli otto elementi, che gioca abilmente con l’ironia, muovendo gli attori travestiti e truccati in modo grottesco, innescando una serie di allusioni cinematografiche (che vanno dai film muti a Guerre stellari ) e marionettistiche. Il felice esito di questa collaborazione non si rinnova nel successivo Alice (1992), sempre con Waits, mentre Wilson riesce a offrire una divertente ricapitolazione della storia del rock in Time Rocker (1996), con le musiche di Lou Reed. Nel 1992 prende avvio il progetto Doctor Faustus Lights the Lights, su libretto di Gertrude Stein, musica per l’occasione da Hans Peter Kuhn; recitato in inglese dai giovanissimi allievi della scuola di teatro dell’ex Rdt, sfruttando la particolare musicalità del loro accento tedesco.

I progetti misti di musica e recitato avvicinano naturalmente Wilson alla regia lirica; è chiamato da molti teatri, anche se le sue realizzazioni non mancano di sollevare contestazioni: è il caso della Salome di Strauss alla Scala (1987, con Monserrat Caballé nel ruolo del titolo), del Martyre de Saint Sébastien di Debussy (1988, commissionato da Rudolph Nureyev per il teatro di Bobigny), in cui Wilson firma un originale montaggio operando tagli e aggiunte di scene e del Doktor Faustus di Giacomo Manzoni (ancora alla Scala nel 1989). Tra gli altri importanti allestimenti ricordiamo: Il flauto magico di Mozart (1991); Lohengrin e Parsifal di Wagner (1991); Madama Butterfly di Puccini (1993). A Gibellina nel 1994 porta T.S.E.: `Come in Under the Shadow of this Red Rock’ (il titolo è l’acronimo del poeta T.S. Eliot, dove la biografia si colora di tracce autobiografiche per assurgere infine alla dimensione atemporale del mito).

Wilson sostiene costantemente, fin dall’inizio della sua carriera, l’ostilità al naturalismo opponendo una personale e suggestiva maniera di `raccontare’ che si evidenzia con particolare forza nel confronto con un testo narrativo, come avviene in La mite , tratto dal romanzo di Dostoevskij (1994), dove i tre personaggi maschili (tra cui lo stesso regista) recitano ognuno nella propria lingua madre – inglese, tedesco e francese – intrecciando un dialogo senza comunicazione, avvolti dalla presenza muta della ballerina Marianna Kavallieratos.

Wilson Torna in scena in prima persona in Hamlet: A Monologue (1995), come protagonista unico dello spettacolo in cui gli altri personaggi sono presenze oniriche evocate da costumi vuoti, animati dalla voce del solo interprete, che sulla scena esibisce con lucidità le lacerazioni della condizione umana. Nella fittissima teatrografia degli ultimi anni W. alterna spettacoli calligrafici come La maladie de la mort di Marguerite Duras con Michel Piccoli e Lucinda Childs (1991, ripreso nel 1996) a coreografie come Snow on the Mesa , commissionato dalla Martha Grahm Company (1995), opere contemporanee come Hanjo/Hagoromo: dittico giapponese di Yukio Mishima e Zeami (musiche e libretto di Marcello Panni e Jo Kondo, 1994) a opere del Novecento storico Il castello di Barbablù di Bartók e Erwartung di Schönberg (presentate assieme a Salisburgo, 1995); e Oedipus Rex di Stravinskij (1996).

E ancora, Wilson passa dalla continua ricerca sui giochi testuali di Gertrude Stein ( Four Saints in Three Acts, 1996 e Saints&Singings, su musiche di H.P. Kuhn, 1997) alla riscoperta di testi poco frequentati di Brecht (il radiodramma Der Ozeanflug ovvero il volo di Lindberg, al Berliner Ensemble, con Bernhardt Minetti, 1997) o alla rilettura di classici come Il piccolo Principe di Saint-Exupery (Wings on Rock, musiche di Pascal Comelade, 1998). È del 1998 il primo allestimento in italiano, La donna del mare di Ibsen, riscritta da Susan Sontang, con Dominique Sanda e Philippe Leroy. Infine, sempre nel 1998 ha debuttato una ambiziosa opera multimediale in 3D, Monsters of Grace , con cui si ricompone la coppia Glass-Wilson (i testi sono tratti dalle liriche del poeta sufi Rumi).

Ripercorrendo i primi 35 anni della ricerca artistica di Wilson affiora immediatamente un’idea di teatro come `spettacolo’ in cui il formalismo – basti pensare all’esasperata ricercatezza delle luci o all’estrema precisione di ogni gesto sulla scena – si ricongiunge con una coscienza critica che anziché trattare problemi e avvenimenti in modo diretto, secondo canoni narrativi, affronta la contemporaneità frantumandola e presentandola nelle sue mille compresenti sfacettature. Wilson scompone i contenuti della storia per ricomporli in una nuova sintesi dell’immaginario che invece di procedere per sequenze lineari di causa-effetto scandisce il nostro tempo interiore e rilegge il calendario sociale secondo un processo elicoidale. Il cerchio di Wilson si chiude su un piano sempre più alto, i temi – da quelli individuali (legati al rapporto corpo-psiche), a quelli universali, dettati dalle grandi vicende umane (l’avventura del progresso, la tragedia della guerra, …) – vengono ripensati secondo un’estetica raffinatissima che trasforma i grandi interrogativi etici in perfette e cristalline visioni. Porre domande, più che dare risposte è, forse, la tensione del Novecento e Wilson è riuscito a farlo con le immagini così come Beckett lo ha fatto con le parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ljubimov

Jurij Petrovic Ljubimov frequenta la scuola del teatro Vachtangov, dove insegna fra l’altro il grande attore Scukin. Durante e dopo la guerra interpreta molti ruoli sia al Teatro Vachtangov sia al cinema (Cyrano 1951, Tjatin in Egor Bulycov e altri di Gor’kij per cui riceve il premio Stalin nel 1951, Treplev in Il gabbiano di Cechov, 1954; Romeo, 1956). A partire dal 1959 insegna alla scuola del Teatro Vachtangov (chiamata Istituto Scukin in onore dell’attore scomparso): nel 1963 con gli allievi mette in scena L’anima buona di Sezuan di Brecht, che suscita scalpore per la forza del discorso politico che sottende lo spettacolo. Nel 1964 viene nominato direttore del Teatro Taganka: riprende il testo di Brecht con gli allievi della scuola che formano la nuova compagnia, a cui si unisce alla fine dell’anno Vladimir Vysockij, noto cantautore non allineato che diventa popolarissimo, grazie ad alcune interpretazioni di straordinaria intensità (Galileo nell’omonimo testo di Brecht, Amleto, Lopachin ne Il giardino dei ciliegi ecc;). Ljubimov inaugura un nuovo genere di spettacolo: il montaggio di testi di poesia o di prosa, mescolati a canzoni spesso composte dagli attori stessi, soprattutto Vysockij, di autori classici o contemporanei, sempre comunque con precisi e polemici riferimenti all’attualità difficile, opprimente (va ricordato che nell’ottobre del 1964, Chrusciov viene destituito e inizia la plumbea era di Breznev: non a caso nel 1964 c’è il processo e la condanna del poeta Brodskij e nel 1965 l’altrettanto scandaloso processo agli scrittori Sinjavskij e Daniel).

Ogni nuovo spettacolo è per il pubblico moscovita un evento: coinvolto direttamente nel lavoro degli attori, aderisce con entusiasmo al tono anticonformista, alla libertà di lettura, al coraggio nel parlare apertamente del male di vivere di quegli anni. Fondamentale resta in tutti questi anni la collaborazione con lo scenografo D. Borovskij, che con pochi elementi crea scenografie di straordinario interesse (il sipario di luce utilizzato in molti spettacoli, la grande rete di corda per Amleto ecc.). Esempi dei montaggi sono: Un eroe del nostro tempo da testi di Lermontov (1964), Gli antimondi da Voznessenskij (1965), I dieci giorni che sconvolsero il mondo testi sulla Rivoluzione d’ottobre sulla base del volume omonimo di J. Reed (1965), Ascoltate! Majakovskij , montaggio di versi majakovskiani (1967), Pugacev da Esenin (1967), Che fare da Cernysevskij (1970), Credi, compagno… montaggio di testi puskiniani (1973), I cavalli di legno da una serie di racconti di F. Abramov sulla dura realtà contadina (1974), Lo scambio da un racconto di J.Trifonov sulla difficoltà di trovare alloggio a Mosca (1976), Delitto e castigo da Dostoevskij (1979), Il maestro e Margherita da Bulgakov (preparato nel 1977, autorizzato solo nel 1980), La casa sul lungofiume da Ju.Trifonov sulle purghe staliniane (1980). Accanto ai montaggi, alcuni spettacoli di grande richiamo, anch’essi in aperta polemica con la tradizione e con la linea di partito: Vita di Galilei di Brecht (1966), Tartufo di Molière (1968), Amleto di Shakespeare (1971), Tre sorelle di Cechov (1981). Nel periodo brezneviano la persecuzione politica di L. è incessante: vengono vietati spettacoli come Caligola di Camus, Marat/Sade di Weiss, Il suicida di Erdman, un montaggio di cronache shakespeariane (da Enrico V , Riccardo II e Riccardo III ), una riduzione dei Demoni di Dostoevskij, alcuni montaggi poetici fra cui quello in memoria di Vysockij. Non solo: molto delle tournée all’estero della compagnia, su invito dei maggiori festival europei, non vengono autorizzate; altri inviti personali a Ljubimov per regie o partecipazioni a congressi gli vengono negate. La situazione è talmente insopportabile che L. è costretto a rivolgersi direttamente a Breznev per chiedere quale futuro è previsto per il teatro e per lui personalmente. Nel 1975 viene autorizzato a recarsi a Milano per la regia di Al gran sole carico d’amore di Ljubimov Nono alla Scala.

Nel 1977 finalmente il teatro va in tournée a Parigi, nell’ambito del festival d’Automne e Ljubimov riceve il premio per la miglior regia (Amleto). Sempre alla Scala di Milano dirige Boris Godunov (1979), Chovanscina (1981), al Maggio musicale fiorentino Rigoletto (1984). Nel 1984, essendo ancor peggiorati i rapporti con il potere sovietico, Ljubimov  viene sostituito senza preavviso alla direzione della Taganka (gli subentra A. Efros) e poco dopo gli viene tolta la nazionalità sovietica. Il suo nome viene cancellato dalle locandine del teatro. Inizia il periodo di esilio (1984-1988), durante il quale L. lavora in vari paesi europei, fra cui l’Italia ( Delitto e castigo da Dostoevskij all’ATER di Bologna 1984; La passione secondo Matteo di Bach alla chiesa di S. Marco a Milano per la Scala 1985; Le piccole tragedie di Puškin all’ATER di Bologna 1985; I demoni da Dostoevskij a Karlsruhe1986; Jenufa di Janacek all’Opera di Zurigo 1986). Nel 1988, con Gorbacev a capo del governo, Ljubimov ritorna a Mosca, a capo della Taganka, dove riprende le prove di Boris Godunov di Puškin e dello spettacolo dedicato a Vysockij, che cinque anni prima erano stati vietati. Ma il ritorno non è senza problemi: troppa attività all’estero (Ljubimov è nominato regista stabile all’Opera di Bonn), richiesta di pieni poteri nel caso di privatizzazione del teatro; parte degli attori, con a capo il direttore degli anni precedenti N. Gubenko, si dichiara insoddisfatto delle posizioni assunte da L. e chiede di gestire autonomamente una delle sale di cui dispone il teatro. Ljubimov accetta la divisione e continua l’attività con una sua compagnia con cui mette in scena I fratelli Karamazov (1997).

Barbareschi

Dopo aver studiato allo Studio Fersen di Roma, ai corsi di Lee Strasberg, Nicholas Ray e Stella Adler a New York, Luca Barbareschi debutta al Teatro di Verona con Enrico V di Shakespeare per la regia di Virginio Puecher. È impegnato come attore nel cinema, in televisione e in teatro (è stato uno degli interpreti di Sogno di una notte d’estate , il musical di Gabriele Salvatores). Tra i numerosi lavori che lo hanno visto regista ed interprete si ricordano American Buffalo (1984), Sexual Perversity in Chicago (1985), Mercanti di bugie (1989) e Oleanna (1993) tutti testi di David Mamet, autore che per primo ha portato in Italia. Provocatore ed irriverente, B. nel 1995 mette in scena il violento Piantando chiodi nel pavimento con la fronte di Eric Bogosian, adattandolo alla realtà italiana. Nel febbraio 1990 fonda la Casanova Entertainment, che si occupa di produzioni cinematografiche e teatrali. Nel marzo 1998 entra a far parte del Consiglio d’Amministrazione del Piccolo Teatro di Milano.

Syxty

Personalità eclettica con vari interessi nei differenti campi della comunicazione: dal teatro al cinema, dalla pubblicità al design. Antonio Syxty ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro come assistente alla regia e in seguito si è specializzato in corsi di video, editing e comunicazione. È stato anche regista per alcune produzioni di spettacolo legate al mondo della canzone leggera italiana. Ha realizzato inoltre cortometraggi a soggetto e attualmente sta lavorando al suo primo lungometraggio. Tra le sue regie teatrali più significative si evidenziano: Tieste di Seneca 1991, Molto rumore per nulla di Shakespeare con la Compagnia Pambieri-Tanzi 1994, L’annunzio a Maria di Paul Claudel (adattamento con D. Rondoni, traduzione e regia, 1995) di cui ha anche curato la regia televisiva. In qualità di autore ha messo in scena tra gli altri, Una danza del cuore (Pietre) che ha partecipato al Festival di Asti nel 1995, Armageddon di Filippo Betto (premio Riccione Tondelli, 1997) e L’aquila bambina, segnalato dal premio Riccione del 1992 e messo in scena da Luca Ronconi. Nel Cantiere Laboratorio su La guerra delle due rose, realizzato per il Centro servizi e spettacoli di Udine, finalizzato alla messa in scena di uno dei drammi più lunghi e complessi di Shakespeare, l’ Enrico IV. Artefice della prima messa in scena integrale del testo shakespeariano, Syxty per questo lavoro ha voluto un allestimento scenico ricchissimo di oggetti più vari, soprattutto bare, che di volta in volta delimitano gli spazi mentali enucleandone la finalità ossessivamente mortuaria.

Zambon

Lorenza Zambon inizia lo studio e la pratica teatrale al Centro universitario teatrale dell’università di Padova. Dal 1981 collabora regolarmente con Alfieri Società Teatrale (ex Teatro Magopovero) con cui recita in numerosi allestimenti tra i quali: Van Gogh (1988) di L. Nattino, Giorni felici (1992) di Beckett, Maudie e Jane (1994) da Il diario di Jane Somers di D. Lessing, riscuotendo un grande successo assieme a J. Malina e cura la regia di La fortezza vuota (1995) di L. Nattino. Nella stagione 1997-98 ha recitato insieme ad alcuni attori del Living Theatre di New York nella riscrittura di Nattino del Chisciotte di Cervantes. La Zambon conduce da molti anni un’esperienza di sperimentazione teatrale all’interno del Collettivo Teatrale del carcere di Pavia.

Marconi

Saverio Marconi è, con Michele Renzullo e Tommaso Paolucci, l’anima della Compagnia della Rancia che, con sede a Tolentino, in Umbria, ha rilanciato dal 1983 in poi il musical sui nostri palcoscenici, allevando, come una vera e propria factory a ciclo continuo, una nuova generazione di attori, cantanti e ballerini. A lui e al suo gruppo si deve la popolarità, presso il pubblico giovanile, di un genere di spettacolo che ha conosciuto così un nuovo slancio negli anni ’90, con l’allestimento, per la prima volta in Italia, dei leggendari successi di Broadway. Se al musicale deve la sua affermazione come regista, talent scout e imprenditore, Marconi ha iniziato come classico attore di prosa, dal ’66 in poi, recitando accanto a esperti colleghi Machiavelli e Aretino, lavorando sui canovacci della Commedia dell’Arte a partire da Arlecchino e partecipando a spettacoli di Enriquez (Macbeth con Moriconi e Mauri), Trionfo (Nerone è morto? con la Osiris, Gesù di Dryer con Branciaroli e Vita e morte di re Giovanni ), Lucchesini (La mandragola ), Lavia (Otello) e altri. Nei primi anni ’80 inizia la produzione di spettacoli con Post scriptum il tuo gatto è di James Kirkwood e Happy end con Lombardo Radice, mentre come regista mette in scena testi di Campanile, Anouilh e Schwartz e firma il testo di Arlecchino innamorato.

Ma il successo lo attende dietro l’angolo del musical. Il primo spettacolo si chiama La piccola bottega degli orrori, di Ashman e Menkel, viene da un successo off-Broadway horror satirico che ha avuto due fortunate versioni al cinema. Adoperandosi a tutto tondo, anche nella richiesta dei diritti, nella ricerca dei coreografi, nella traduzione delle canzoni, nelle audizioni, nella riduzione e traduzione dei testi, nel ’90 la Rancia parte alla grande con il musical più celebrato della nuova Broadway, A chorus line di Michael Bennett, James Kirkwood e Nicholas Dante, in un allestimento assai lodato e più volte ripreso negli anni, mutando e migliorando sempre il cast (l’ultima edizione è del 1998-99), in collaborazione con la coreografa Bayork Lee. E se un tempo era difficile trovare materiale umano e ginnico per questo genere, dagli anni ’90 in poi, sempre migliorando, la nuova generazione di ballerini e cantanti attori, del tutto assimilabili a quelli americani, frequenterà i varietà tv e i nostri palcoscenici, partendo dall’esperienza positiva e dalla costanza della Rancia. Il gruppo di Marconi, che diventa il regista stabile e il nuovo profeta della commedia musicale (ma talvolta si concede ancora il lusso di fare l’attore), mette poi in scena altri successi americani. E se riceve una mezza (e ingiustificata) delusione commerciale nel 1991 da un fastoso e spiritoso allestimento della Cage aux folles di Herman e Fierstein (tratto dal Vizietto , celebre commedia e celebre film) con Carlo Reali e Gianfranco Mari nei ruoli che furono di Tognazzi e Serrault e di Dorelli e Villaggio, nel ’93 trionfa con Cabaret di Masteroff, ispirato a Van Druten e a Isherwood. Al posto di Liza Minnelli, Oscar per il ruolo sullo schermo diretta da Bob Fosse, si mette in luce con determinata bravura Maria Laura Baccarini, star di un ottimo e variegato cast che comprende Gennaro Cannavacciuolo, Reali, la Fusco. Tra gli altri titoli messi in scena, un remake sentimental coniugale di Garinei e Giovannini anni ’60, Il giorno della tartaruga , in cui la Baccarini e Fabio Ferrari recitano nei ruoli `storici’ di Delia Scala e Rascel (1992); Dolci vizi al foro di Sondheim, Shevelove e Gelbart, Fregoli con Arturo Brachetti nel ruolo trasformista a lui più congeniale (1995), mentre l’anno dopo sarà il prototipo cinematografico nell’antologico Brachetti in technicolor , scritto con lo stesso Marconi Ma soprattutto la Rancia prosegue il lavoro sui best seller made in Usa allestendo, con sfruttamenti biennali, e ipotizzando una sede stabile milanese in cui i titoli si possano alternare a lunga tenitura, come nelle grandi capitali teatrali.

È la volta nel 1995 di West side story, il celebre e rivoluzionario spettacolo neo realista di Robbins, Bernstein e Sondheim, che fu leggendario film di Wise nel ’60 e che può contare un cast giovane, acrobatico, affiatato, che comprende Leandro Amato, Annalena Lombardi, Michele Canfora, Elisa Santarossa, Pierluigi Gallo. Nel ’96 un altro grande successo accoglie la prima versione italiana del mitico Cantando sotto la pioggia di Comden e Green, Brown e Freed, segue un riuscito, trionfale allestimento di Sette spose per sette fratelli (1998-99). È soprattutto in questa occasione che risulta evidente il grado di professionalità del nuovo corpo di ballo. Marconi mette anche in scena a Parigi, alle nuove Foliès Bergère, nel 1997, una applaudita edizione di Nine , il musical di Yeston e Kopitt tratto dal capolavoro Otto e mezzo di Fellini, allestito in Usa da Bob Fosse e recitato molto bene in Francia da Jerome Pradon. E sempre al maestro Fellini si ispira Marconi per una riduzione in musical delle Notti di Cabiria (1998), diversa da quella di Bob Fosse e la MacLaine, Sweet charity , con un’indovinata coppia protagonista: Chiara Noschese e Gennaro Cannavacciuolo, nel ruolo, ora determinante e molto felliniano, dell’Illusionista. Ma il successo kolossal di Marconi, col gruppo Musical Italia, è l’allestimento di Grease di Jacobs e Casey, 1996-97, titolo di culto che passa di generazione in generazione anche grazie alla popolarità del film di Randal Kleiser con Travolta e la Newton John. Nello spettacolo, primo long runner italiano che batte tutti gli incassi con teniture record a Milano e a Roma, debutta con fortuna Lorella Cuccarini, star tv che passa con gentile determinazione, e in un ruolo kitsch a lei congeniale, al musical. Ma nel cast ci sono altri bravi protagonisti, dal sempre più affermato e disinvolto Giampiero Ingrassia, figlio d’arte, a Renata Fusco, mentre indovinate partecipazioni straordinarie sono offerte da Mal, angelica apparizione nel ruolo di se stesso, e Mal, che gioca a fare il d.j. tra il tripudio del pubblico teen ager per la prima volta conquistato a un musicale teatrale.

Brusati

Franco Brusati ha cominciato a lavorare nel cinema come sceneggiatore e come regista. Ma nel 1959, al Teatro Valle di Roma, ottiene un grande successo con Il benessere, scritta in collaborazione con Fabio Mauri, che lo rivelò come autore dai dialoghi raffinati, dalla scrittura per immagini, ricca di tensioni interiori. Seguì un altro successo: La fastidiosa, che vinse il premio Idi nel 1963, con al centro anche qui una figura femminile che cerca di inserirsi nella vita del marito e del figlio, con premure e sollecitudini che finiscono per infastidirli. Nel 1966 scrive Pietà di novembre, la vicenda di un giovane mediocre che, nella disperata ricerca di identità, approda al delitto. Seguirono: Le rose del lago (1974); La donna sul letto (1984), Conversazione galante (1987). La drammaturgia di Brusati ha un vero respiro europeo; abile nella scrittura come nelle metafore, ricca di ‘immagini’ borghesi, si caratterizza per l’uso raffinato dei dialoghi. Come regista cinematografico ottiene un discreto successo con I tulipani di Haarlem (1971) e Pane e cioccolata (1974); non ripetuto con Il padrone sono me (1956), da un romanzo un tempo famoso di Panzini e Il disordine. Divertente e feroce, aperto alla commedia brillante, a volte tenera, a volte disperata, Brusati è certamente uno dei nostri migliori commediografi, non solo per la qualità dello stile, ma per aver svecchiato la nostra drammaturgia dalla tradizionale barriera del naturalismo. Le sue commedie hanno avuto grandi interpreti e grandi registi, da L. Adani ad E. Magni; dalla Proclemer, alla Aldini, da Ricci a Randone, da Albertazzi a Ferzetti, da Squarzina a Missiroli.

Bernardi

Marco Bernardi ha studiato all’università di Bologna con Ezio Raimondi e Luciano Anceschi ed è stato allievo di M. Scaparro col quale ha collaborato per sette anni. Nel 1973 debutta in teatro allo Stabile di Bolzano come aiuto regista di Scaparro nell’ Amleto . Nel 1975 insieme a Scaparro e Micol fonda il Teatro Popolare di Roma dove nel ’76 cura la sua prima regia con Murales , uno spettacolo multimediale con il quartetto di Giorgio Gaslini. Nella stagione 1977-78 ha fatto il critico teatrale per il quotidiano “L’Adige” di Trento e nella stagione seguente ha lavorato per la Biennale di Venezia, collaborando alla progettazione del Carnevale del Teatro.

Dal ’79 si dedica regolarmente alla regia e nel 1980 diventa direttore artistico del Teatro stabile di Bolzano. Nei sui lavori si possono individuare due linee guida: la prima è quella di una grande fedeltà al teatro di parola riscontrabile in Andria (1979), Romeo e Giulietta (1980), William Shakespeare Hotel (1982), Sogno di una notte di mezza estate (1983), Minetti (1984) e Il Teatrante (1986) di T. Bernhard; la seconda incentrata sui rapporti drammaturgici tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico come in Coltelli (1981) di J. Cassavetes, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1986), Anni di piombo (1989) di M. von Trotta. Altre produzioni di Bernardi allo Stabile di Bolzano: La rigenerazione (1990) di I. Svevo, Libertà a Brema (1991) di Fassbinder, La locandiera (1993), Hedda Gabler (1995) di Ibsen e Il contrabbasso (1995) di P. Suskind.

Yacine

Kateb Yacine si accostò al teatro dopo l’amara esperienza della prigione (1946) subita per la sua adesione al movimento d’indipeùndenza. Dopo lo scoppio della guerra d’Algeria, nel 1954 si trasferì in Francia, dove fece il giornalista. L’opera che lo rese famoso fu Le cercle des représailles , una trilogia drammatica pubblicata a Parigi nel 1959. Seguono altri testi di forte impegno politico Le Cadavre Encerclé (1964), Les Ancêtres Redoublent de Férocité (1967, messo in scena al Théâtre National Populaire) e una pièce in omaggio di Ho Chi Minh, L’Homme aux Sandales de Caoutchuc che, allestita da Maréchal al Teâtre National de Lyon nel 1971 fu censurata dal sindaco della città. Nello stesso anno Yacine tornò in Algeria per fondare la compagnia Action Culturelle des Travailleurs, con la quale mise in scena alcune opere in dialetto algerino (Mohamed, Prends ta valise). Un anno prima di morire si trasferì definitivamente in Francia.

Bragaglia

Anton Giulio Bragaglia aderì al movimento futurista e nel 1918 fondò la Casa d’arte Bragaglia a Roma, luogo di promozione artistica attraverso mostre e conferenze. Dal 1916 al 1922 diede vita alle riviste “Ruota” e “Cronache d’attualità”, che si occupava di problemi d’arte, di teatro e di cultura. Impegnò le sue forze soprattutto nel rinnovamento del teatro per mezzo di nuove soluzioni scenotecniche e scenografiche, dando così risposta all’esigenza del tempo di ammodernamento del palcoscenico, in polemica con lo stile dei mattatori e con il loro repertorio commerciale. Secondo B., che sostenne questa tesi in numerosi interventi, il teatro era qualcosa di diverso dalla produzione letteraria ed in quanto tale doveva essere affidato ad un `corago’, piuttosto che ad uno scrittore. Nel 1922 fondò, nelle cantine di Palazzo Tittoni, il Teatro degli Indipendenti, dove i protagonisti di testi scritti da letterati erano attori dilettanti. L’esperienza, che si concluse nel 1931 con La veglia dei lestofanti di Brecht, permise la messa in scena di lavori, tra gli altri, di Strindberg, Turgenev, Schnitzler, Unamuno, Apollinaire, Jarry, O’Neill, Pirandello (L’uomo dal fiore in bocca, All’uscita ) e Campanile (Centocinquanta la gallina canta, Il ciambellone, L’inventore del cavallo). Dopo aver scritto alcuni saggi di critica teatrale, nel 1937 assunse la direzione del Teatro delle Arti, dove allestì testi italiani poco rappresentati e copioni di autori contemporanei. Per il cinema firmò tre regie: Perfido incanto e Thais (entrambi del 1916) e Vele ammainate (1931). Alla tecnica della fotodinamica dedicò alcuni studi.

Fabre

Jan Fabre è nipote del grande entomologo Jean-Henri Fabre. Fin da giovanissimo è protagonista di ‘soli’ di arte performativa. A ventun anni dirige il suo primo spettacolo (Theatter geschreven met een K is een kater , ad Anversa) cui segue, nel 1982, This is theatre like it was to be expected and foreseen (Bruxelles). Celebre per l’uso della Bic blu con cui disegna soggetti onirici e colora carta, stoffe, legno e altri materiali, nella sua carriera d’artista espone, crea installazioni, rielabora ambienti in tutto il mondo. Nel 1984 debutta alla Biennale di Venezia con The power of theatrical madness e, a Documenta 8 (a Kassel) presenta Dance Sections, uno studio preliminare alla realizzazione di Das Glas im Kopf wird vom Glas (coreografia del 1990 per la De Vlaamse Opera di Anversa, musiche di Eugeniusz Knapik). Dopo Prometheus Landscape (1988), nel 1989 mette in scena The interview that dies, The Palace at four o’clock in the morning e The reincarnation of God , scritti nella seconda metà degli anni ’70. Su frammenti musicali di Knapik, Bernd Zimmermann e i Doors, nel ’90 allestisce il balletto The sound of one hand clapping (Francoforte). Tra il ’91 e il ’97 lavora, tra l’altro, a Silent Screams, Difficult Dreams (Documenta IX, Kassel, 1992) e alla trasfigurazione concettuale del corpo umano con la trilogia Sweet Temptations , Universal Copyright 1 & 9 e Glowing Icons . Interdisciplinare e irriducibile sperimentatore, contamina con spregiudicata e originale sintesi le sintassi dei diversi generi espressivi a cui si accosta sulla scorta delle suggestioni surreali di Magritte e Dalì e della lezione di Duchamp. Con gli scarabei e gli insetti che ricorrono in tutte le sue produzioni (dal teatro alla performance alle suggestioni figurative degli inchiostri o penne biro su vari materiali) lavora sulle qualità percettive e ri-creative di archetipi come il labirinto e la metamorfosi, alla ricerca della vita e della libertà rigenerativa sprigionata dall’elaborazione del deteriore e degli scarti.

Ronconi

Formatosi alla scuola di Kantor e Grotowski, Cesare Ronconi, artista eclettico e versatile, nel 1978 collabora con Peter Schumann e il Bread and Puppet Theatre per la realizzazione dello spettacolo Masianello. Nel 1979 fonda con Mariangela Gualtieri il Valdoca Teatro, del quale assume la direzione artistica. Nel 1982 in collaborazione con Achille Bonito Oliva, Franco Quadri, Giuseppe Bertolucci e altri, realizza il progetto Segni in atto. Movimenti nelle arti e nello spettacolo , firmando la sua prima regia. Per il Valdoca oltre a curare numerose regie ( Lo spazio della quiete , 1983; Le radici dell’amore , 1984; Ghetzemane , 1985; Otello e le nuvole , 1987; Cantos , 1988; Riassunto del Paradiso , 1990; la trilogia Antenata , 1991/92/93; Fuoco centrale , 1995) è anche autore e si occupa della formazione degli attori che via via lavorano con lui. È anche autore di video tra i quali: Eva nascente e Il desiderio di Eva (primo premio Festival cinematografico di Salsomaggiore); Folgorazioni (1986), Fine fine è il respiro (1987) e MCMXC (primo premio della seconda edizione di Videoland). Nel 1997 firma la regia teatrale di Nei leoni e nei lupi , spettacolo intenso nel quale le vicende degli attori, attraverso i differenti registri del tragico e del comico, trovano – sulle note della musica di cabaret di Kurt Weill e su quelle sacre dello Stabat Mater di Pergolesi – nell’animalità archetipa le radici della parola e della cultura.

Dall’Aglio

Gigi Dall’Aglio inizia la sua lunga e ricca esperienza teatrale come attore e regista al Cut (Centro universitario teatrale) dove lavora sotto la guida di B. Jerkovijc. Dal 1969 al 1971 ne diventa direttore, frequentando i maggiori festival stranieri nei quali viene a contatto con le personalità più rilevanti del teatro europeo. Nel 1971 è tra i fondatori della Compagnia del Collettivo di cui diventa ben presto il riferimento artistico. Nella celebre trilogia shakespeariana (Amleto, 1979; Macbeth, 1980; Enrico IV, 1981). D’Allaglio, insieme ai suoi compagni di lavoro, crea un’originale metodologia di lavoro che ha nell’attore il fulcro creativo della messa in scena, rivolta sempre alla costruzione di un teatro che serva a costruire «la coscienza dell’oggi». Regista-autore, mai accademico (L’istruttoria, 1984; Nozze, 1987; La bottega del caffè, 1998), si è cimentato anche con opere musicali conducendo nel 1995 un curioso progetto a tre, con M. Martone e G. Barberio Corsetti, su L’histoire du soldat (festival di Avignone 1995).

Marchese

Bob Marchese inizia alla Scuola cooperativa spettatori del Piemonte diretta da Franco Pastore, nei primi anni ’50. Dal 1956 fino al ’64 lavora allo Stabile di Torino. Passa poi al Piccolo Teatro di Milano, dove rimane fino al 1967 interpretando Il gioco dei potenti da Shakespeare con la regia di Strehler, La lanzichenecca di De Mattia per la regia di Puecher. Nel frattempo lavora con Dario Fo in due tournée, quelle del 1961 (Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri ) e del 1967 (La colpa è sempre del diavolo). Nel 1970 torna a Torino, entra nel Gruppo della Rocca dove cura anche la regia di Il re muore di Ionesco. Dal 1976 al 1980 è al Salone PierLombardo, co-protagonista dell’ Arialda di Testori e di La palla al piede di Feydeau. Nel 1980 ricomincia a lavorare con il Gruppo della Rocca e partecipa alle produzioni del Teatro Biondo di Palermo. Nel 1997 interpreta Le furberie di Scapino di Molière. È inoltre animatore di molte attività seminariali a Firenze, al festival internazionale dell’attore, all’Università di Siena e al Teatro Biondo.

Coppola

Luca Coppola ha firmato la regia di pochi spettacoli, fra i quali Elettra o la caduta delle maschere (1986), Dialogo nella palude di Marguerite Yourcenar (1987), che gli aveva riservato l’esclusiva delle traduzioni dei suoi testi, e Dialogo di Natalia Ginzburg (1987). Delle grandi scrittrici femminili contemporanee era appassionato frequentatore, a cominciare da Elsa Morante. Stava lavorando alla messinscena della Pasifae di Henry de Montherlant, quando fu ucciso in circostanze misteriose su una spiaggia della Sicilia occidentale, assieme a Giancarlo Prati, anch’egli attore e traduttore. La vivacità e la curiosità intellettuali avevano fatto conoscere Coppola, nonostante la giovanissima età, al di là e prima di quei pochi spettacoli. Era stato assistente di Giancarlo Cobelli e Carlo Cecchi, e aveva conosciuto il lavoro di Luca Ronconi attraverso il sodalizio con Prati, interprete di quasi tutti gli spettacoli del regista romano (a partire dal Candelaio di Giordano Bruno nel 1968). Insieme avevano firmato la traduzione di Tutto il teatro di Yourcenar. Coppola aveva scritto diversi saggi di argomento letterario e teatrale, apparsi tra l’altro sulla rivista “Paragone” diretta da Cesare Garboli.

Braunschweig

Dopo gli studi di filosofia all’Ecole Normale Supérieure, nel 1987 Stéphane Braunschweig entra all’Ecole du Théâtre National du Chaillot diretta da Antoine Vitez. Debutta alla regia già nel 1988 al festival d’Alès con Woyzeck di Büchner, messo in scena con la sua compagnia Théâtre-Machine: considerato un enfant prodige e un regista tra i più interessanti della nuova generazione francese, è sostenuto e accolto dalle istituzioni. L’esplorazione dell’universo europeo d’inizio Novecento prosegue con Tambours dans la nuit di Brecht (1989) e Don Juan revient de guerre di Horváth (1990). I tre lavori formano la trilogia Les hommes de neige , che a Gennevilliers riceve il premio per la rivelazione teatrale del Syndacat de la critique (1991). Sempre del 1991 è la messa in scena a Digione di Ajax di Sofocle, di La cerisaie di Cechov a Orléans nel 1992, entrambi presentati al festival d’Automne. Nel 1993, in collaborazione con G. Barberio Corsetti, realizza a Digione Doctor Faustus da Thomas Mann; allestisce quindi Le conte d’hiver di Shakespeare e nello stesso anno è nominato direttore del Centre dramatique national d’Orléans-Loiret Centre. Affronta H. von Kleist con Amphitryon e Paradis Verrouillé (Sur le théâtre des marionettes, Penthésilée, fragments) nel 1994 per il festival d’Avignone, confermando la predilezione per i classici e per il lavoro sul testo, punto di partenza per la produzione di un universo poetico-emotivo che susciti nel pubblico uno `stupore lucido’. Si dedica anche alla regia lirica: Le chevalier imaginaire di P. Fénelon (1992), Le chateau de Barbe Bleu di B. Bartók (1993), Fidelio di Beethoven (1995, Staatsoper di Berlino, ripreso a Venezia nel 1998), La rosa de Ariadna di G. Dazzi, Jenufa di L.Janácek (Parigi, Théâtre du Chatelet 1996). Del 1995-96 sono Franziska di F. Wedekind e Peer Gynt di Ibsen; del 1997 è la consacrazione europea con Measure for measure di Shakespeare su commissione del festival di Edimburgo per l’edizione del cinquantenario. Dans la jungle des villes di Brecht (1997-98) è l’ultimo spettacolo messo in scena per il Centre dramatique national d’Orléans, direzione che lascia nel luglio 1998. Per il gennaio 1999 prepara con il suo Théâtre-Machine, in coproduzione con il Théâtre Bouffes du Nord di Parigi, Le marchand de Venise di Shakespeare, che quindi riallestirà con attori italiani per il Nuovo Piccolo Teatro di Milano in primavera.

Tanguy

François Tanguy fonda, nel 1979, la compagnia del Théâtre du Radeau a Le Mans. Dopo aver rappresentato Molière e Shakespeare, si dedica alle creazione di opere, tra le quali si ricordano L’Eden et ses cendres, Le Retable de Séraphin e, nel 1986, Mystère Bouffe, che sarà dapprima ripreso a Parigi, al Théâtre de Bastille, e poi portato in tutta la Francia e all’estero. Dal 1987 comincia una ricerca sul linguaggio che tende a restituire al teatro la sua oracolare poeticità e a recuperarne le origini mitiche. Vanno in questa direzione gli spettacoli Jeu de Faust (Atelier lyrique du Rhin, 1987), Woyzeck-Büchner-Fragments forains (1989) e Chant du bouc (1991), ispirato all’ Agamennone di Eschilo, ma costellato da frammenti di autori tedeschi, francesi e, soprattutto, da lunghe pause di assoluto silenzio. Nel 1994, schierandosi per la cessazione delle ostilità nella ex Jugoslavia, presenta Choral, in cui la scena buia, popolata di figure femminili avvolte in tuniche bianche e di uomini alati, è tesa a restituire l’angoscia di una situazione claustrofobica in cui si muovono esseri umani che non sono più che ombre.

Mezzadri

Mina Mezzadri lavora per la Compagnia della Loggetta di cui è uno dei fondatori, poi diventata Centro Teatrale Bresciano, e vi allestisce, nel decennio 1960-70, numerosi testi classici, destrutturizzandoli, attualizzandoli e arricchendoli di notizie sull’autore: Eschilo, Molière, Büchner a fianco di molti altri contemporanei, Beckett, (Finale di partita ), Genet: (Le serve ), Svevo (La rigenerazione ; 1966, prima rappresentazione italiana). Allestisce significativi spettacoli nel genere del teatro-documento: Una proposta di Don Milani , Lettere a un sindaco (1968) – un testo di Renzo Bresciani, satirico verso il potere comunale e basato su documenti tratti dal Municipio – e L’obbedienza non è più una virtù (1969). Lavora allo Stabile di Genova come insegnante e regista. Fonda poi la cooperativa teatrale Teatro Tre (1975-76), con cui realizza Il pellicano di Strindberg con Enrico Job (1975) e Luci di Bohème di Valle-Inclan (1976). Seguono Il padre di Strindberg con Virginio Gazzolo, Rosmersholm di Ibsen con Paolo Ferrari e Ileana Ghione (1977) e Sogno di un tramonto di autunno di D’Annunzio (1981-82). A Brescia cura la regia di Adelchi di Manzoni nei luoghi dove Ermengarda trascorse gli ultimi anni (1993-94). L’anno dopo realizza La colonna infame da Manzoni, sempre con Gazzolo. Infine per il Ctb realizza Don Perlinplin di García Lorca (1998).

Catalano

Formatosi come mimo, negli anni Antonio Catalano ha sviluppato una personale sintesi tra gesto e parola, rivelandosi come uno dei più interessanti protagonisti del teatro di ricerca. Ha fondato e lavorato con Alfieri Società Teatrale (ex Teatro del Magopovero) lavorando in Pietre (1986), testo e regia di L. Nattino, Balena (1988) di L. Nattino, spettacolo di cui ha curato la regia, e più recentemente in Nella nebbia (1994) di D. Mamet e nel suo testo (scritto insieme a Nattino) Moby Dick (1995). Ha recitato nell’allestimento di De Berardinis de I giganti della montagna (1996) e, nella stagione 1997-98, insieme agli attori del Living Theatre, ha interpretato da protagonista il Chisciotte di Nattino. Da alcuni anni svolge un’attività seminariale di formazione dei giovani attori.

Cinieri

Fin dagli inizi il percorso artistico di Cosimo Cinieri è segnato dalla ricerca e dalla sperimentazione teatrale: si prova così nelle forme più diverse di spettacolo, spaziando dal `teatro di strada’ ai `grandi palcoscenici’. Nel solo 1965 si susseguono spettacoli come Aspettando Godot, Finale di partita, Atto senza parole, Zip, Lip, Vap, di Scabia, La fantesca di Della Porta, Libere stanze di Lerici, tutti per la regia di Quartucci. Dal 1968 al ’72 realizza una serie di messe in scena di cui è anche autore; si ricordano titoli come Onan (1968), Domenico del mare (1968), Chez Mignot (1969), Alleluja Requiem (1970), San Sebastiano (1971, teatro di strada, in collaborazione con la coppia De Berardinis-Peragallo), Vietnam (1972).

Nel 1974 è sulle scene del Teatro Manzoni di Milano con Sade: libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina di Bene, con il quale lavora anche nell’ Otello (1979). Dal 1978 dirige, con Irma Palazzo, la Compagnia Cinieri-Palazzo, percorrendo tre strade parallele di ricerca: la teatralizzazione della poesia, la reinvenzione dei classici, la drammaturgia breve, con allestimenti come La Beat Generation. Show in versi (1978), Cosimo Cinieri è/o Macbeth di Shakespeare (1982-83) e un repertorio di trenta atti unici dei più vari autori (Pinter, Schnitzler, Strindberg, E. De Filippo, García Lorca, Ionesco, Feydeau, Pirandello, Cechov e altri), che vanno in scena dal 1985 al 1989. Nell’ultimo decennio poesia e musica sono le protagoniste assolute degli spettacoli di C., come appare già dai titoli: Canzoniere italiano. Poesia in concerto (1991), García Lorca in flamenco (1993), `Luoghi della memoria’ dei Sepolcri (1994), Giocar di versi. Café della voce (1996-97). Nell’ultima stagione interpreta La mandragola (regia di Missiroli) e Giovanna d’Arco. Donna armata di L. Fontana. Alla sua attività teatrale alterna partecipazioni in produzioni cinematografiche, televisive e radiofoniche; è voce recitante in opere musicali e si dedica, inoltre, a stage di recitazione e psicotecnica.

Spadaro

Laureatosi in giurisprudenza, Ottavio Spadaro fondò nel 1942 il Teatro universitario di Bolzano. Nel 1948 si diplomò all’Accademia nazionale d’arte drammatica con un allestimento del Cane del giardiniere di Lope de Vega. Tra le sue molte regie vanno ricordate quelle legate al teatro pirandelliano, quella di Corruzione al Palazzo di Giustizia di U. Betti (1956) e quelle di testi contemporanei. Nei suoi spettacoli dedicò un’attenzione particolare alla cura della recitazione, considerandola l’elemento primo e fondante di ogni messa in scena. Scrisse anche alcuni importanti saggi sul teatro di Betti.

Tairov

Aleksandr Jakovlevic Tairov lavora prima come attore dal 1905 al ’13, anche sotto la direzione di Mejerchol’d (è il mendicante in Suor Beatrice di Maeterlinck e la maschera azzurra in La baracca dei saltimbanchi di Blok, entrambi del 1906), poi nel 1913 viene chiamato dal regista Marzanov al Teatro Libero, dove dirige la pantomima Il velo di Pierette di Schnitzler e il montaggio La blusa gialla. Nel 1914 con Alisa Koonen (che diventerà la maggior interprete delle sue regie e sua moglie) e un gruppo di giovani attori fonda il Teatro da Camera, inaugurato con Sakuntala del poeta indiano Kalidasa. Dopo alcuni spettacoli molto vicini al teatro `convenzionale’ mejercholdiano (Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, ripresa di Il velo di Pierette di Schnitzler), trova uno stile personalissimo con la tragedia lirica Tamiri il Citaredo di I. Annenskij, dove per la prima volta collabora con la scenografa cubista A. Ekster.

Negli anni prerivoluzionari il Teatro da Camera diventa una sorta di crogiuolo della pittura d’avanguardia: Larionov e la Goncarova firmano la scenografia di Il ventaglio di Goldoni (1915), Lentulov quella di Le allegre comari di Windsor (1916), la Ekster quella di Salomè di Wilde (1917), Jakulov quella di Lo scambio di Claudel. Con particolare attenzione T. segue la preparazione dei suoi attori, a cui chiede da un lato una gestualità ieratica per le tragedie, dall’altro una acrobatica, sciolta plasticità per le pantomime e le commedie musicali. Il repertorio del suo teatro, infatti, negli anni immediatamente post-rivoluzionari, segue essenzialmente due linee: l’arlecchinata (riviste, operette, capricci) e la tragedia, sia classica sia contemporanea. Esempi della prima linea: Re Arlecchino di R. Lothar (1917), Principessa Brambilla su temi di Hoffmann (1920), Giroflé-Girofla di Lecocq (1922), L’opera da tre soldi di Brecht-Weill (1930), spettacoli costruiti con un ritmo perfetto, pieni di vita, di eccentriche invenzioni, di trovate sgargianti.

Alla seconda linea appartengono la già citata Salomè di Wilde (1917), Adriana Lecouvreur di Scribe (1919), L’annuncio a Maria di Claudel (1920), Romeo e Giulietta di Shakespeare (1921), dove T. fa un uso elettrizzante della scena a piattaforme della Ekster, Fedra di Racine (1922), L’uragano di Ostrovskij (1924), Santa Giovanna di Shaw (1924), la trilogia di O’Neill (La scimmia villosa, Desiderio sotto gli olmi, Tutti i figli di Dio hanno le ali, 1929). Accusato d’indifferenza politica, costretto da pressioni da parte dei burocrati di partito, si rivolge tardi al repertorio sovietico, inizialmente senza trovare il tono giusto per le regie: Natal’ja Tarpova di S. Semenov (1929), La sonata patetica di N. Kulis, Soldati ignoti di N. Pervomajskij (1932). Finalmente con Una tragedia ottimistica di V. Visnevskij (1933, stupenda scena elicoidale di Ryndin) ottiene un incondizionato successo, trasmettendo un autentico pathos rivoluzionario all’intera compagnia.

Dopo il 1934, con il peggiorare delle condizioni politiche e il rafforzarsi dello stalinismo, la situazione di Tairov si fa sempre più difficile: dopo qualche spettacolo duramente attaccato dalla critica militante, è costretto a ripiegare su modesti testi propagandistici o su grigie riduzioni di classici (Madame Bovary da Flaubert, 1940). Dopo la guerra il suo teatro sopravvive con la messinscena di Il gabbiano di Cechov (1944) e di Il vecchio di Gor’kij (1946), prima di chiudersi un anno prima della morte del suo regista. Particolare interesse suscita ancora oggi Appunti di un regista (1921), dove T. esprime il suo credo sul teatro e sull’arte dell’attore: un testo che ha esercitato un notevole influsso sul pensiero teatrale delle avanguardie europee.

Bussotti

Osserva Roland Barthes che un manoscritto di Silvano Bussotti è già un’opera d’arte totale: in lui il teatro (il concerto) comincia a germinare fin dall’apparato iconografico che ha il compito di trasmetterne il programma. Per Silvano Bussotti l’opera musicale scritta, ben lungi dall’esaurirsi nelle potenzialità di un prodotto, è infatti un momento di un’ operazione sinestetica, insieme acustica, visiva e gestuale, che prelude ai sinuosi labirinti del suo teatro. Compositore, regista, scenografo e costumista tra i più originali comparsi sulla scena dell’avanguardia italiana negli ultimi decenni, Silvano Bussotti ha sempre coltivato un proprio mondo musicale di concentrata intensità autobiografica, nutrito di ossessioni, desideri e pulsioni sensuali debordanti – una visione liberatoria ed estetizzante dell’erotismo campeggia al centro di tutto il suo progetto artistico – che deflagrano spazialmente a partire dal suo segno grafico. Gli spartiti di due dei Five Piano Pieces for David Tudor (1959), ad esempio, saranno materiali per i siparietti di Oggetto amato (1975), `mitologie danzate’ con coreografia di Amedeo Amodio; mentre la gestualità dei Tableaux vivants per due pianoforti (1964) funge da cartone preparatorio per il `mistero da camera’ La passion selon Sade (1965); o ancora, le pianistiche Novelletta (1973) e Brillante (1975) verranno poi rielaborate in versione ballettistica. Nella Passion , in particolare, Silvano Bussotti attinge forse al più alto livello del suo sperimentalismo, nell’assoluta ambivalenza dei ruoli di esecutori e attori, nel continuo trascolorare delle azioni dall’esecuzione strumentale alla finzione scenica o all’happening vero e proprio.

A partire dagli anni ’70 la fucina del `Bussottioperaballet’, sigla sotto la quale il compositore ama far rientrare ogni suo lavoro teatrale, ha prodotto circa venti titoli tra opere (delle quali ricordiamo Lorenzaccio, 1972, Nottetempo, 1976, L’ispirazione, 1988) e balletti. Quest’ultimo versante è particolarmente ricco; spiccano Raramente (Biennale di Venezia 1971, coreografia di Aurelio Milloss), Le bal Miró (1981, coreografia di Joseph Russillo, scene e costumi di Miró), Cristallo di rocca (Scala 1983) e Nuit de faune (1990-91), denominato ‘concerti con figure’. Già direttore di La Fenice di Venezia (1976-77) e della Biennale Musica (1991-93), sin dagli anni ’60 Silvano Bussotti ha affiancato all’impegno per le regie, le scene e i costumi di quasi tutti i propri spettacoli, un’assidua presenza nel campo della musica di scena (da Beckett a Hofmannsthal, alcune collaborazioni con Carmelo Bene) e soprattutto della regia, sia per balletti d’altri autori sia per il teatro d’opera (dal 1974 in poi, per le scene e i costumi si è avvalso in prevalenza della collaborazione di Tono Zancanaro). Anche quest’ultima e non secondaria branca della sua attività appartiene e si fonde con il ridondante gusto figurativo del suo teatro. Se la sua musica è pervasa da una poetica che elegge il frammento prezioso e la citazione dotta a sistema, analogamente l’invenzione visiva attinge ai toni del fantastico e del fiabesco per contagiarli con un’ostentazione compiaciuta di sfarzo ed eccessività che gioca a sfiorare il kitsch, ma che definire `barocca’ sarebbe limitativo. L’intento di B. è invece quello di riguadagnare al proprio narcisistico quanto nobile gesto, in una lucidità che si direbbe quasi ‘neo-rinascimentale’ nei suoi momenti migliori, la perduta pienezza interdisciplinare e totale del fare artistico.

Vallone

Raf Vallone esordisce in teatro nel 1957 con Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller per la regia di Peter Brook, ma, all’epoca, è già nella rosa degli attori più affermati del cinema italiano (Riso amaro di De Sanctis, Il cammino della speranza di Germi, Thérèse Raquin di Carné). L’esperienza del dramma milleriano, che segna la sua maturazione artistica, lo spinge a dedicarsi quasi totalmente al teatro, non solo nella recitazione, ma anche nella regia e nella scrittura drammaturgica. Alla fine degli anni Sessanta è impegnato nuovamente nel dramma di Miller di cui cura anche la regia e poi la messa in scena de Il prezzo. Nel 1970 debutta come autore con Proibito? Da chi?, che però non viene accolto molto positivamente dalla critica. Nel corso degli anni Settanta si divide fra gli impegni teatrali (Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello con la compagnia di J. Bertheau nel 1973, Il costruttore Solness di Ibsen diretto da F. Piccoli nel 1975) e quelli televisivi; si dedica anche alla regia lirica nella quale ottiene un buon successo con Norma di Bellini nel 1974. Nel 1980 torna a dirigere e interpretare una nuova edizione di Uno sguardo dal ponte. Negli anni successivi è impegnato con due registi tedeschi: K. M. Grüber (Nostalgia di Franz Jung, 1984 e La medesima strada di Eraclito, Empedocle, Parmenide, Sofocle, 1988, al Piccolo Teatro di Milano) e P. Stein (Tito Andronico di Shakespeare allo Stabile di Genova, 1989). Nel 1991 dirige Frankie & Johnny di Terence Rattigan, l’anno seguente interpreta Il presidente di Rocco Familiari (testo a lui dedicato) per la regia di K. Zanusi. Nel 1993 è impegnato nella elaborazione e interpretazione di Tomaso Moro dall’apocrifo scespiriano che viene presentato all’Estate teatrale veronese con la regia di Ezio Maria Caserta.

Ratto

L’esordio di Gianni Ratto con Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1945) gli consente di stringere un intenso rapporto con Strehler, che lo introduce al nascente Piccolo Teatro di Milano; fino al 1953, la sua attività si identifica con la vicenda artistica del teatro milanese, e la partecipazione costante ed attenta gli permette di sviluppare una notevole sensibilità interpretativa: tra i molti, si ricordano gli allestimenti per L’albergo dei poveri di Gor’kij (1947), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (1947), Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (1953). Dal 1954 vive e lavora in Brasile come scenografo (Cesare e Cleopatra di Shakespeare, regia di Z. Ziembinski, San Paolo, 1963; Riccardo III di Shakespeare, regia di A. Filho, San Paolo, 1975; La vita di Galileo di Brecht, regia di C. Nunes, 1989) e come regista citiamo gli ultimi lavori Don Giovanni di Mozart (Rio de Janeiro, 1980), Incontri clandestini di T. Williams (San Paolo, 1982) e Rigoletto di Verdi (1991).

Quartucci

Figlio d’arte, Carlo Quartucci giunge a Roma alla fine degli anni ’50 per studiare architettura, pittura, cinema, ma i suoi interessi si volgono presto al linguaggio teatrale e al suo rinnovamento. Nel 1959 esordisce come regista, scenografo, attore in Aspettando Godot di Beckett; seguono gli allestimenti di C’era folla al castello di J. Tardieu (1960), Le sedie di Ionesco (1961), Finale di partita di Beckett (1963). Quartucci rifiuta subito l’impostazione naturalistica e sperimenta audacemente le possibilità sceniche di un uso astratto e formalizzato della parola come “comunicazione ritmica e fonetica”; considera la scenografia “architettura scenica del gesto” che interagisce con l’attore, il testo come spazio di lavoro. Arricchisce quindi la sua ricerca sulla lingua della scena con altri mezzi espressivi (cinema, video, nastro magnetico, radio, fotografia): così in Cartoteca di T. Rózewicz (1965) con studenti e gente di strada, nel collage La mucca parla a Pasquale (1966) con gli operai dell’Italsider di Genova, e in Zip Lap Lip Vap Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam alle prese con la società contemporanea da un testo di G. Scabia (Biennale di Venezia 1965) con dieci maschere e i suoi attori (tra gli altri L. de Berardinis, R. Sudano, C. Remondi).

Zip, primo tentativo di scrittura scenica a più mani, provoca il primo scontro tra artisti della sperimentazione e sostenitori della tradizione in Italia e segna il tentativo di collaborazione tra sperimentazione (Teatro studio di Quartucci) e teatro pubblico (lo Stabile di Genova diretto da Squarzina). Dopo il dispositivo scenico per stadi e piazze Majakovskij e compagni alla rivoluzione d’Ottobre (1967), I testimoni di Rózewicz (1968), il teatro in campo magnetico (l’opera radiofonica Pantagruele , 1969) ed elettronico ( Don Chisciotte per la televisione, 1970), e Il lavoro teatrale di R. Lerici (Biennale di Venezia 1969), nel 1972 ha inizio l’esperienza di `Camion’. Il termine indica nome del gruppo, mezzo di trasporto, luogo della performance, esigenza di lavoro collettivo e di rendere il pubblico partner attivo. Un decennio di eventi, che vedono l’importante contributo dell’attrice e coautrice Carla Tatò, e trovano testimonianza nei film per la tv Borgatacamion , Robinson Crusoe e Nora Helmer .

Del 1980 è Opera, trilogia teatrale e cinematografica. Nel 1981 Quartucci raduna a Genazzano (Roma) diversi artisti visivi, musicisti, scrittori, cineasti, e dà vita con C. Tatò, J. Kounellis, G. Paolini, R. Lerici, G. Celant, R. Fuchs al progetto artistico `La zattera di Babele’; obiettivo è una nuova lingua della scena attraverso l’interagire delle arti. Nascono così le creazioni, portate in tournée europee, Comédie italienne (1981), Didone e Funerale (1982). A Berlino nel 1984 sviluppa il progetto su Kleist e la sua Pentesilea con Canzone per Pentesilea (musiche di Giovanna Marini; già allestito a Bologna nel 1983), Rosenfest Fragment XXX e Nach Themiscyra (Vienna 1986).

Dal 1986 il progetto ‘Zattera di Babele’ si trasferisce a Erice in Sicilia, dove nasce il festival `Le giornate delle arti’, laboratorio permanente sui diversi linguaggi artistici. Nascono per le regie di Quartucci La favola del figlio cambiato (1987) e I giganti della montagna (1989) di Pirandello; Primo amore , `sinfonia scenica’ da atti unici di Beckett (1989); Il giardino di Samarcanda (presso il restaurato teatro Gebel Hamed, 1990); Tamerlano il Grande di Marlowe (Berlino 1991); Antigone di Sofocle, nell’adattamento di Brecht (Segesta 1991); Macbeth di Shakespeare (1992; seguito da Il cerchio d’oro dei Macbeth , `studio per un teatro scenico video-elettronico’, 1993); Ager sanguinis (1995) e Medea (1989 e ’98) di A. Pes. Nel 1998 nascono i progetti Il cerchio d’oro del potere e La favola dell’usignolo , che coinvolgeranno Quartucci e gli artisti di `La zattera di Babele’ fino al 2001.

Martinelli

Marco Martinelli è fondatore insieme alla moglie Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni del Teatro delle Albe. La sua attività ha inizio nel 1977 quando insieme a Montanari avvia il suo apprendistato teatrale lavorando in diversi gruppi e allestendo testi di Beckett, Büchner, Campanile. La sua drammaturgia è caratterizzata da una forte narratività che attinge dai registri del comico e del tragico per riscrivere la realtà quotidiana e calarla in personaggi autentici. I suoi testi infatti sono spesso scritti quasi su misura degli attori. Autore di notevole sensibilità artistica, M. è caratterizzato da una scrittura di una levità quasi ingenua ma al contempo incisiva e di grande forza espressiva. Tra i lavori più significativi Ruh. Romagna più Africa uguale (1988), Siamo asini o pedanti? (1990), I refrattari (1992) e I ventidue infortuni di Mor Arlecchino (1993), rielaborazione goldoniana che ha avuto molta risonanza in Italia e in Europa e tradotta in diverse lingue, centrata sulla singolare figura di un Arlecchino africano. Operazione significativa, voluta da Martinelli, è stata l’acquisizione nella compagnia delle Albe di attori senegalesi e la collaborazione con altre realtà teatrali quali il Kismet Opera di Bari e Tam Teatromusica di Padova con cui ha realizzato All’Inferno (1996), un affresco da Aristofane, splendido esempio di meticcio teatrale nel quale musiche, lingue e dialetto si sposano in una sintesi di alto valore artistico-comunicativo. Con instancabile vitalità espressiva, Martinelli ha partecipato a numerosi progetti e convegni internazionali di teatro, a Lisbona, Copenaghen, Stoccolma, Cambridge. Nel 1991 è stato nominato direttore di Ravenna Teatro, centro per la ricerca teatrale attivo al Teatro Rasi di Ravenna, in cui opera stabilmente il Teatro delle Albe, insieme alla Compagnia Drammatico Vegetale. Nel 1995 vince il premio Drammaturgia In/Finita, promosso dall’università di Urbino, con il testo Incantati , una parabola sul gioco del calcio nella periferia romagnola. Nel 1996, in qualità di direttore artistico, ritira per Ravenna Teatro il premio Ubu per l’impegno e la ricerca linguistica, mentre nel 1997 vince il premio Ubu per la drammaturgia di All’Inferno . Il suo ultimo lavoro, Perhinderion , di cui è coautore insieme al poeta Nevio Spadoni, ha debuttato nel luglio 1998 al Teatro Rasi di Ravenna. Sospeso tra il libero esercizio del fantastico e la cruda realtà della terra di Romagna, il testo di M. ha per tema principale l’ossessivo rapporto tra madre e figlio. Sacralità e senso del profano per questa ultima operazione di M. nata sotto l’ala di Alfred Jarry a cui si è ispirato (Les jours e les nuits e L’amour absol) e nei continui rimandi al dialetto, che rendono mirabilmente il nucleo emotivo dei luoghi in cui è ambientato. Spettacolo onirico in cui il triplice omicidio `officiato’ sulla scena dai figli, amanti sacrileghi, di madri-Madonne, riconduce al bisogno iterativo di ogni uomo di liberarsi dai retaggi infantili e al contempo prende le distanze dall’assunto teologico cristiano.

Massimini

Sandro Massimini è stato un personaggio dello spettacolo `pronto a tutto’, soprattutto a una gran baraonda di idee, nel periodo del boom, compreso il momento clou della moda show di cui l’attore fu il primo ideatore-promotore. Nato a Milano, ma lombardo veneto per la madre veneziana, fu un attore-ragazzo per bene e raffinato. Figlio e nipote affettuoso, nonostante venticinque traslochi di casa e città, ha avuto una carriera divisa in tre tempi, trionfando alla fine nell’operetta, di cui ha svecchiato la struttura e con cui ha festeggiato le nozze d’argento in un allestimento del Paese dei campanelli , record d’incasso. I cromosomi del nipote d’arte gli vengono dal bisavolo, l’attore di chiara fama Ernesto Rossi. «Il teatro è stato il mio colpo di fulmine, debuttai a diciassette anni con Esperia Sperani e Pupella Maggio, per incoscienza di Maner Lualdi che me lo propose» raccontava nelle interviste, tornando agli inizi, quando, complice la rivoluzione del ’68, il cabaret fece un salto di qualità e quantità, specie a Milano. Il giovane Massimini ebbe la prima scrittura da Elvio Calderoni, re dell’operetta di allora (in cartellone Madama di Tebe e La danza delle libellule ), ma si trattò di un episodio casuale. Il suo mondo era quello del Derby Club, di Vaime, Cobelli, Bajini, Franceschi, Nebbia e gravitava intorno al teatro bomboniera Gerolamo, i cui spettacoli erano scritti dal meglio dell’intellighenzia dell’epoca, Flajano, Mauri, Bompiani, Carpi, Eco. Un bellissimo mondo teatral letterario, dove Massimini debuttò nel 1964-65 con Tanto di cappello , regia di Filippo Crivelli, con la giovanissima Mariangela Melato, testo in cui Eco faceva appunto l’elogio della sua barba a spolvero. Massimini si afferma con Più crudele di Venere di Vaime, indi scrive e interpreta, sdoppiandosi en travesti , uno sketch di successo radical chic, l’epistolario tra due scrittori `off’, Domenico Campana e Sibilla Aleramo; poi, nel secondo tempo, c’era Carmelo Bene che recitava Majakovskij. Tra le altre novità porta il teatro sotto il tendone del circo Medini, imitando il Gassman dell’ Adelchi , ma vi recita Il salto morale . Quattro mesi di esauriti, cui si aggiunge l’anno dopo, con altri testi di Marchesi, Terzoli e Vaime, Il doppio salto morale . Intanto, il secondo tempo, va dal ’65 al ’75: deluso dal teatro, gira mezzo mondo, Tokyo, Parigi, Roma, New York, allestendo le sfilate di moda come dei veri e propri show, pieni di luci, coreografie, trovate da rivista; quando lascia la partita è solo per saturazione dell’ambiente. Con lui nacque la moda show, in anticipo su stilisti e top model. Il terzo atto della carriera inizia quando, nel ’70, Vito Molinari e Fulvio Gilleri lo scritturarono proprio nel Paese dei campanelli e proprio nel regno incantato del genere, il mitteleuropeo festival di Trieste. Massimini conquistò i primi successi facendo La Gaffe nel testo di Lombardo e Ranzato e Sigismondo in Al cavallino bianco di Benatzky-Stolz.

Massimini decise di riabilitare l’operetta, di farne un genere da `modernariato’ rispettando ogni professionalità, soprattutto vocale. Passò così sedici anni a Trieste e otto in compagnia da capocomico, garantendo le sue qualità di attore gentile, discreto, di sicuro effetto. Partì dalla Principessa della Czarda , poi allestì molti titoli classici ma anche scoperte, cercando di far uscire quel teatro dal museo generazionale delle buone cose di pessimo gusto come la cipria e il rosolio. Nel ripassare i testi eliminò le zone morte, le battute superate e quel po’ di volgarità coatta, avvicinandosi al musical. Diventa così il nuovo `re’ dell’operetta, cui un pubblico fedele e non giovanissimo (ma c’è un ricambio anche di gusti e di età) perdona le basi registrate, quando l’orchestra dal vivo comincia a costare troppo. Negli ultimi anni allestì anche due musical in grande stile, My Fair Lady (1992-93) e la riduzione del film di Edwards Victor Victoria (1993-94), ma l’ultimo spettacolo che lo vede in scena, mentre una grave malattia minava il suo entusiasmo, è ancora e sempre Il paese dei campanelli , recitato con un po’ di karaoke in platea, impegnata nel refrain collettivo “Luna tu”. Negli anni di capocomicato, Massimini alterna il repertorio di Abraham (Vittoria e il suo ussaro, Il fiore di Hawaii, Ball al Savoy), Kálmán (La duchessa di Chicago), Lehár (La vedova allegra , da sempre un best seller); ma affronta anche testi meno consueti e italiani, come quelli di Pietri Acqua cheta e La donna perduta , ben coadiuvato da cast in cui si distinse la bella voce di soprano di Daniela Mazzuccato, che fu a lungo sua partner.

Santella

Mario Santella esordisce giovanissimo come attore, assieme alla sorella Maria Luisa. Con lei anima il Gruppo Teatro Vorlensungen (di cui fa parte anche Renato Carpentieri) e quindi fonda la compagnia Teatro Alfred Jarry, che contribuisce alla diffusione del teatro sperimentale in Italia. Dalla metà degli anni ’60 partecipa attivamente ai fermenti del panorama teatrale napoletano con: I due carnefici (1966); Ciò che conta non è interpretare il mondo, ma trasformarlo (1968); Prova per una messainscena dell’Amleto (1969); Majakovskij-Uomo (1972); Verga: storie di uomini e lupi (1978); La Medea di Portamedina (1980). A S. si devono gli allestimenti di pièce dell’avanguardia francese – La cantatrice calva e Le sedie di Ionesco (1983); Le serve di Genet (1983); Giorni felici (1984), Atti senza parole e L’ultimo nastro di Krapp (1989, anche interprete), Aspettando Godot (1989, anche interprete e scenografo) di Beckett – e di testi del teatro partenopeo – Il romanzo di un farmacista di Edoardo Scarpetta (1986); Ragazze sole con qualche esperienza (1986) e Don Fausto di Antonio Petito (1987) -, oltre a confrontarsi con classici come: La dodicesima notte di Shakespeare (1989), Frammenti di un sogno interrotto da Euripide (1990), Candido di Voltaire (1990); spettacoli di cui cura la versione scenica e la regia, oltre ad esserne interprete.

Nuti

Francesco Nuti esordì nel cabaret con la compagnia dei Giancattivi, insieme ad A. Benvenuti ed A. Cenci, per passare poi all’attività di regista e attore cinematografico, sfruttando le sue doti comiche dalla venatura sferzante, tipica della comicità toscana ( Ad ovest di paperino di Benvenuti, 1982, Io, Chiara e lo Scuro , 1982, Madonna che silenzio c’è stasera , 1982 e Son contento , 1983, per la regia di M. Ponzi, di cui Nuti è anche sceneggiatore). Tra i suoi film Casablanca, Casablanca e Tutta colpa del paradiso del 1985, Stregati del 1986, Caruso Pascovski (di padre polacco) del 1988, Willy Signori e vengo da lontano del 1989, Donne con le gonne del 1991, OcchioPinocchio del 1994.

Navello

Dopo gli studi universitari e alcune esperienze di teatro sperimentale, Beppe Navello ha iniziato la sua attività di regista allo Stabile di Torino come assistente di Mario Missiroli (1977-1981). La sua prima regia è Questa sera da Tosti di A. Gozzi (1983). Il secondo allestimento è La casa dell’ingegnere di S. Ferrone, tratto da La cognizione del dolore di Gadda, con Paolo Bonacelli, un attore con cui N. lavorerà spesso, affidandogli il ruolo di protagonista. Nel 1985 dirige Gli spettri di Ibsen, con C. Scarpitta, per lo Stabile dell’Aquila del quale assumerà la direzione artistica (1986-88). Interessante di quel periodo, oltre alla regia de Il sogno di Oblomov , il progetto dello spettacolo a puntate, una sorta di teatro-gioco su I tre moschetteri, che alterna registi come Proietti, Scaparro, Missiroli e drammaturghi come De Chiara. Dopo varie esperienze con diverse compagnie, dal 1990 al 1993 è direttore artistico del Teatro di Sardegna e si occupa di tutta la programmazione teatrale dell’isola. Di quegli anni: Il gioco delle parti di Pirandello, Casa di bambola di Ibsen con Maddalena Crippa. Ritorna poi alla guida del Teatro Stabile dell’Aquila, ora Teatro Stabile Abruzzese, per cui allestisce La donna del mare di Ibsen, Il misantropo e due atti unici di E.Flaiano. Realizza un secondo gioco teatrale con sessantatre attori: Il Cerchio di gesso del Caucaso. Nel 1998 ha creato I corsari da Salgari presentato a Taormina Arte.

Stafford-Clark

Nel 1974, dopo aver diretto il Traverse Theatre di Edimburgo, Mark Stafford-Clark fonda insieme a W. Gaskill il gruppo Joint Stock Theatre (gruppo seminale degli anni ’70). Dal 1979 al 1993 è direttore artistico del Royal Court Theatre e nel 1993 fonda insieme a Sonia Friedman (produttrice) la compagnia itinerante Out of Joint il cui nome celebra il precedente gruppo degli anni ’70. La sua attività è stata ed è per lo più dedita alla scoperta di nuovi autori e all’incentivazione e messa in scena di nuove produzioni, che hanno legato il suo nome ad alcuni tra i maggiori nomi del teatro contemporaneo anglosassone: Sue Townsend per cui ha curato The Queen and I; Stephen Jeffreys con il suo The Libertine ; Timberlake Wertenbaker con The Break of Day ; l’irlandese Sebastian Barry con The Steward of Christendom ; e Mark Ravenhill per cui ha curato Shopping and Fucking . Tra le sue collaborazioni merita di certo menzione quella con la drammaturga Caryl Churchill con la quale lavora dagli anni ’70, ovvero dall’impresa che generò il dramma di successo Light Shining in Buckinghamshire e che alla fine del 1997 ha prodotto il sesto dramma frutto del prolifico sodalizio: la coppia di atti unici dal titolo Blue Heart.

Noelte

Nel 1945 Rudolf Noelte lavora come attore e assistente alla regia all’Hebbel Theater di Berlino e collabora con J. Fehling. La sua prima regia è Draussen vor der Tür, di Borchert, nel 1948. Nel 1953 mette in scena, sempre a Berlino, Stato d’assedio di Camus e Il castello da Kafka allo Schlossparktheater, conseguendo il successo. Al Residenztheater di Monaco cura la regia di opere come Maria Stuarda (1955) e Edipo Re (1962) e ottiene uno dei suoi maggiori successi dirigendo Il giardino dei ciliegi (1970). Cura anche regie di opere liriche in Germania e all’estero. Tra i suoi lavori più recenti le messe in scena di Les femmes Savantes e del Tartuffe di Molière nel 1988 e nel 1989. Lodato per l’accuratezza delle sue regie, negli ultimi tempi ha avuto minori consensi da parte della critica che ha riscontrato nel suo stile una certa rigidità.

Zadek

Peter Zadek compie la propria formazione teatrale presso la Old Vic School a Londra, dove era emigrato con la sua famiglia nel 1933, a causa delle origini ebraiche. Nel 1947 firma le sue prime regie: Salomé di Oscar Wilde e Sweney Agonistes di T. S. Eliot. Con la messa in scena di Le serve e Il balcone di Jean Genet (1957) ottiene i primi successi internazionali, che gli consentono di uscire dall’ambito produttivo londinese. Tornato in Germania lavora prima presso il Teatro di Colonia, poi dal 1960 presso il teatro di Ulm, dove trova validi collaboratori nell’impresario Kurt Hübner e nello scenografo Wilfred Minks. Poi allo scandalo suscitato con la messa in scena di L’ostaggio di Brendan Behan, nel ’62 la compagnia è costretta a lasciare Ulm per Brema, dove rimane fino al ’67. Nel 1972 Z. fu chiamato a dirigere il Teatro di Bochum (1972-1977), poi lo Schauspielhaus di Amburgo (1985-89), ai quali tuttavia in seguito preferì i piccoli teatri di provincia.

Fra gli autori più frequentati da Zadek emerge, su tutti, Shakespeare, di cui mette in scena Misura per misura (1962-67), Re Lear, Il mercante di Venezia e Amleto per il teatro di Brema, Otello (1976) e Antonio e Cleopatra (1994, Wiener Festwochen). Le sue regie suscitano spesso molto clamore, se non addirittura scandalo, a causa della spregiudicatezza con cui tratta i testi, spesso ridotti alla struttura essenziale dei rapporti fra i personaggi, attualizzati secondo il punto di vista soggettivo del regista. L’uso concettuale della scenografia (per cui si avvale spessissimo della collaborazione di Wilfred Minks) e il ricorso a tecniche di montaggio scenico di tipo cinematografico, con sketch e gag montati in sequenza, sono altri elementi che caratterizzano la poetica del regista. Fra le sue migliori regie si ricordano Misura per misura , Risveglio di primavera di Wedekind (1965) e I masnadieri di Schiller (1967) e il recente Il giardino dei ciliegi di Cechov (1996) per il Burgtheater di Vienna.

Platel

A quarant’anni Alain Platel è già uno dei nuovi maestri della scena europea ed è tra i pochissimi a aver assorbito la lezione di Pina Bausch ma per reinventarla in un teatrodanza che lui stesso definisce `postrealista’. Vi si rintracciano e elaborano sentimenti e presenze nella ricca Europa di fine secolo, con un interesse particolare e talvolta impertinente, per quanto, e quanti, ne stanno ai margini. La sua formazione è assai curiosa: prima di ottenere la laurea in pedagogia, segue corsi di mimo e arte circense e lavora con adolescenti difficili e abbandonati. Quindi incontra la coreografa Barbara Pearce che, a Parigi, lo ingaggia come danzatore non professionista in una compagnia di danza moderna di cui diviene la mascotte. Sembra dunque destinato a abbandonare la missione pedagogica, invece, tornato in Belgio, dà corso a un’attività di teatro amatoriale con un gruppo di amici in cui comincia a applicare metodi pedagogici. Nasce una sorta di `teatro d’appartamento’ che, tuttavia, già nel 1984 (con la pièce Stabat Mater ) viene giudicato sufficientemente professionale per entrare in un piccolo circuito di festival locali.

Ma il 1984 è anche l’anno ufficiale di nascita dei Ballets C. de la B. (Balletti contemporanei del Belgio: un nome ironico che richiama le compagnie storiche del Novecento, come i Ballets Russes). È il gruppo di artisti- dilettanti (ma anche registi come Hans Van de Broeck o Christine De Smedt) che per molti anni si identifica in Platel, anche se egli non ama esserne considerato il coreografo e tanto meno il direttore artistico. Fedele al principio che sulla scena non vi debba essere alcun tipo di interpretazione, ma piuttosto la vita di persone che vogliono raccontare liberamente, senza sottomettersi ai dettati di un regista o di un coreografo, la loro storia, P. si afferma comunque, come metteur en scène della sua compagnia, con lo spettacolo Emma (1988). Ma sono Bonjour Madame (1993) e La tristeza complice (1995) a sbalzarlo, con Les Ballets C. de la B., sulla scena internazionale. Interessato a lavorare anche in strutture diverse, allestisce, assieme al drammaturgo Arne Sierens, Moeder en Kind (1995) e Bernadetje (1996): quest’ultima originale e visionaria rievocazione della Santa di Lourdes che si materializza in una vera pista di autoscontro ben si addice ai giovani attori, danzatori e non professionisti del gruppo belga `Victoria’. Con Hildegard De Vuyst, sua abituale drammaturga-regista, firma, ancora per Les Ballets C.de la B, Iets op Bach (1998) in cui stigmatizza, nel confronto con la musica perfetta di Bach, un mondo in cui la miseria spirituale e culturale è ancor più devastante che la povertà materiale. Il suo teatrodanza non nasce da progetti predeterminati a tavolino, ma dalla scelta delle persone selezionate per dar corpo ai suoi spettacoli: si tratta in genere di personalità molto forti, diverse per esperienza e preparazione nell’ambito della danza, per cultura ed età (spesso sono bambini anche di pochi anni). L’obiettivo è creare un mondo di differenze dal quale lievitino desideri, pensieri, frustazioni, nostalgie: il pedagodo-coreografo-regista ne è il suscitatore e in fine diviene organizzatore `bruitista’ del caos.

Castiglioni

Nel 1973 Silvio Castiglioni è tra i fondatori sia del Centro di Ricerca per il Teatro di Milano, nel cui ambito matura le prime esperienze formative, sia del Teatro di Ventura, uno fra i gruppi più significativi nell’ambito del ‘Terzo Teatro’, con il quale ha realizzato in dieci anni numerosi spettacoli: Il detto del Gatto Lupesco (1977), La tragedia dell’arte (1978). Dal 1987 al 1990 ha realizzato con il regista cileno Raul Ruiz Lo schiavo del demonio, I maghi, Edipo iperboreo, La scoperta dell’America. Di particolare rilievo lo sviluppo del suo lavoro sulla maschera di Arlecchino, che si distacca dagli stereotipi correnti, e la sua ricerca drammaturgica, che culmina nel rigore espressivo e nelle visioni intime dei due monologhi a più voci Corpi estranei (1995), assolo dedicato a Heinrich von Kleist, e Remengòn ; segue Voci dalla guerra (1997), ispirato a un racconto di Nuto Revelli. In collaborazione con François Khan ha scritto e interpretato Il sogno e la vita. Una fantasia sul signor Hoffmann (1998). Dal 1998 è direttore artistico del festival di Santarcangelo dei Teatri.

De Simone

Roberto De Simone studia pianoforte e composizione e inizia una brillante carriera concertistica. Successivamente si dedica all’attività di regista teatrale, compositore, musicologo, drammaturgo ed etnomusicologo. Grande conoscitore della cultura popolare napoletana e della tradizione musicale, è stato l’ispiratore di uno dei gruppi più interessanti di musiche folcloristiche in Italia: la Nuova Compagnia di Canto Popolare. La rielaborazione di musiche tradizionali lo porta alla creazione di spettacoli legati al lavoro di ricerca musicale. Nel 1976 scrive e mette in scena La Cantata dei Pastori e al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nello stesso anno, La gatta Cenerentola , opera che riscuote enorme successo e che sarà presentata in Italia e all’estero. Si tratta di uno spettacolo musicale in cui, attraverso la favola e la musica, si torna alle più antiche radici della tradizione napoletana. Con la Compagnia Ente Teatro Cronaca nella stagione 1977-78 scrive e mette in scena Mistero napoletano e nella stagione 1978-79 La festa di Piedigrotta di R. Viviani. Il 28 ottobre 1980 debutta L’Opera buffa del Giovedì Santo (libretto, musica e regia di R. De Simone), che descrive i fermenti, le speranze, le illusioni della Napoli del Settecento in un lungo Giovedì Santo, in attesa di un sabato di resurrezione e di festa che non arriverà.

Tra i suoi lavori di regista e compositore più interessanti (sempre con la Compagnia Ente Teatro Cronaca) si ricordano inoltre Eden Teatro di Raffaele Viviani (1981), La Lucilla costante di Silvano Fiorillo (1983), La Bazzariota, ovvero la dama del bell’umore di Domenico Macchia (1983), Le religiose alla moda di Gioacchino Dandolfo (1984), Le novantanove disgrazie di Pulcinella , da canovacci anonimi rielaborati da R. De Simone (1988). La particolarità del suo lavoro sta nella mescolanza di drammaturgia, ricerca musicale, tradizione e folclore, fiaba, ritualità e storia. Tra i suoi spettacoli, prodotti dalla Compagnia Media Aetas Teatro, si ricordano Cantata per Masaniello al Mercadante di Napoli (1988-89) e Le Tarantelle del Rimorso al Teatro San Carlo (1993). Già dal 1978 è iniziata una ricca attività di regista d’opera, al fianco dei più importanti direttori d’orchestra e in collaborazione con M. Carosi (scene) e O. Nicoletti (costumi). Tra le opere di Mozart si ricordano le regie di Don Giovanni (Bologna 1982), Idomeneo (Scala 1990), Così fan tutte (Vienna 1994) e Il flauto magico (Scala 1995), le ultime tre con la direzione di Riccardo Muti. Numerose anche le regie di opere di Rossini, tra le quali Il barbiere di Siviglia (Aix-en-Provence 1984) e Cenerentola (Bologna 1992, direttore R. Chailly); da ricordare infine le sue fantasiose riletture di opere del ‘700 napoletano, da Pergolesi ( Lo frate ‘nnamorato , Scala 1989) a Paisiello ( L’idolo cinese ). Tra i suoi libri, Il segno di Virgilio , sul rapporto fra la figura del poeta classico e la cultura popolare e religiosa napoletana (1982), Chi è devoto sulle feste rituali in Campania (1985), Carnevale si chiamava Vincenzo sui rituali del Carnevale popolare (1977) e Fiabe campane , raccolta di circa duecento fiabe popolari desunte da autentici narratori come contadini, pastori, operai (1993). È stato direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli. Attualmente è direttore, per chiara fama, del Conservatorio di Napoli.