Vargas

Dal 1955 al 1960 Enrique Vargas studia drammaturgia, regia e recitazione alla Scuola nazionale d’arte drammatica di Bogotà. Dal 1960 al 1966 studia antropologia teatrale al Kalamazoo College nel Michigan. Dal 1966 lavora come regista al Cafe La Mama di New York realizzando le opere New York attraverso il naso e Cuchifrito, che portano il segno della ricerca di un linguaggio del corpo forte. Nel 1967 riceve il primo premio del Festival di teatro dell’Expo in Canada. Dal ’68 al ’72 lavora come direttore e drammaturgo per il Gut Theatre ad East-Harlem a New York. Dal 1972 al ’75 si occupa di drammaturgia di animazione dell’oggetto presso il Teatro centrale di Praga.

Dal 1975 al 1996 è professore del Taller de investigacion de la imagen dramatica di Santafè di Bogotà centrando il suo lavoro sulle relazioni tra gioco infantile, il rituale e i miti delle comunità indigene della regione amazzonica colombiana. Ha ricevuto altri importanti premi durante gli ultimi anni: premio nazionale di Drammaturgia in Colombia nel 1988, primo premio Salon nacional de artes plasticas in Colombia nel 1992, il premio Tucan de Oro al Festival di teatro di Cadice nel 1993, il premio Unesco 1995 per la ricerca teatrale. Ha collaborato con il quotidiano “El Espectador”, ha pubblicato i saggi: Rito, Mito y Juego, Tiempos de Metafora, Imagen sensorial e Investigacion y la busqueda de lo no dicho.

Svolge da molti anni un’attività permanente di ricerca, creazione e formazione che comprende laboratori, seminari e messe in scena sulla drammaturgia dell’immagine sensoriale. Le sue ricerche si sono concentrate principalmente sulla relazione tra mito, gioco e rito in contesti basati sul linguaggio dell’oscurità, del silenzio e della solitudine. Negli ultimi anni Vargas ha realizzato una trilogia, Sotto il segno del labirinto , che comprende: Il filo di Arianna, La fiera del tempo vivo e Oracoli, tutti realizzati fra il 1990 e il 1996. Lo spettatore viene invitato a entrare in percorso in cui – oltre a seguire un testo – è costretto a esplorare forti suggestioni che rimandano a archetipi dionisiaci.

Censi

Figlio della danzatrice futurista Giannina Censi, Cristiano Censi inizia la sua carriera di attore comico, grazie anche al suo viso dai lineamenti fortemente marcati, con la compagnia di Dario Fo e Franca Rame. Alla fine degli anni ’70 si dedica, con Isabella del Bianco, all’allestimento di testi contemporanei, compresi i fumetti antimilitaristi americani di J. Feiffer. Con S. Satta Flores e I. Del Bianco ha fondato il gruppo «I compagni di scena».

Moscato

Capofila della ‘nuova drammaturgia napoletana’ degli anni ’80, Enzo Moscato ha segnato questa stagione con prove come Embargos (premio Ubu 1994), Rasoi (premio della Critica italiana, Biglietto d’oro Agis) e con drammi, commedie, monologhi che da Festa al celeste e nubile santuario , a Pièce Noire , Occhi gettati , Cartesiana , Partitura , fino ai recenti Mal-d’-Hamlé (1994), Recidiva (Biennale di Venezia, 1995), e Lingua, carne, soffio (Santarcangelo, 1996), esplorano con audacia e sensibilità una pluralità di registri linguistici e idiomatici arcaici e contemporanei. Partendo dalla contraddittoria e complessa realtà sociale partenopea, e cercando nella contaminazione la forma di una modernità espressiva, aspira a un `teatro di poesia’ di ascendenza pasoliniana, con rimandi a Genet, Artaud e ai `maledetti’ (tra cui Rimbaud, `musa’ del recente Acquarium Ardent e oggetto di studio in un saggio di carattere semiotico pubblicato in precedenza). Premio Riccione-Ater, premio Ubu nell’88 come nuovo autore, Oscar della radio italiana e primo premio al Festival internazionale di Radio Ostankino (Russia), ha tradotto Ubu re di Alfred Jarry, e ha lavorato anche nel cinema con Mario Martone in Morte di un matematico napoletano (1992), con Pappi Corsicato in Libera (1993), e con Raul Ruiz in Il viaggio clandestino (1993) .

Landi

Gino Landi è figlio di due artisti di varietà, che caldeggiano i suoi studi di danza sotto la guida di Oreste Fraboni. Debutta in teatro come ballerino, ma ben presto si accorge di non amare esibirsi davanti al pubblico e sceglie di dedicarsi alla composizione coreografica. Nel 1957 la sua firma compare per la prima volta sulla locandina di Non sparate alla cicogna di Macario, dopodiché è autore dei balletti di Io e l’ipotenusa (1959) e di Cieli alti (1962). Nel frattempo entra alla Rai con la qualifica di regista (1958) chiamato a realizzare le coreografie per Buone vacanze (1959) e per Giardino d’inverno (1961). Intanto la sua carriera teatrale si consolida grazie ai successi di Febbre azzurra (1965), L’onorevole (1965) e Non sparate al reverendo (1967), nuova collaborazione con Macario. Dal 1969 inizia un importante sodalizio con Garinei e Giovannini che lo vogliono creatore dei balletti di tutti i loro principali spettacoli, da Angeli in bandiera ad Alleluja brava gente (1970), da Aggiungi un posto a tavola (1974) a Felicibumta (1975), da Bravo! (1981) alle riprese di Rugantino (1978) e di Un paio d’ali (1997). Per lo spettacolo leggero della Rai è il coreografo di trasmissioni popolari come Johnny 7 (1964), La prova del nove (1964), Scala reale (1966) e Partitissima (1967). Dopo aver diretto una brillante versione televisiva delle commedie musicali La granduchessa e i camerieri e Felicibumta intensifica la sua attività in televisione nella duplice veste di coreografo e di regista in varietà come Cielo mio marito (1980), Noi con le ali (1983), prima di legarsi nella buona e nella cattiva sorte agli spettacoli di Pippo Baudo. Per il teatro lirico viene chiamato a realizzare Vivì (1962) e Il barbiere di Siviglia (1989). È anche regista di operette e di musical (Can-Can, 1998).

Bordon

Laureato in Legge, Furio Bordon ha lasciato la professione forense a 25 anni per dedicarsi all’attività di narratore (quattro romanzi), drammaturgo (ha vinto il Premio Idi nel ’94), sceneggiatore (al cinema ha lavorato con V. Zurlini) e regista teatrale: Tradimenti di H. Pinter con Bonacelli-Bacci; Lo zoo di vetro di T. Williams con P. Degli Esposti, Oblomov da Goncarov con G. Mauri e T. Schirinzi, La vita xe fiama di Marin con G. Moschin, Amici, devo dirvi da D. M. Turoldo con R. Sturno. Dal 1988 al 1992 ha diretto il Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia (che gli aveva allestito la prima commedia). Tra le opere, Giochi di mano (1974), Il canto dell’orco (1985), Il favorito degli dei (1988), La città scura (1994), Le ultime lune , addio al palcoscenico di M. Mastroianni, prodotto nella stagione 1996-97 dal Teatro stabile del Veneto con la regia di G. Bosetti.

Guicciardini

Dedicatosi fin dalla giovinezza al teatro, Roberto Guicciardini esordisce come aiuto regista di spettacoli lirici e di prosa. La sua prima regia è Edipo a Hiroshima di Candoni al Teatro stabile di Torino (1964). La mandragola e Clizia di Machiavelli sono gli spettacoli più significativi del periodo tra il 1964 e il ’69, anno in cui è tra i fondatori del Gruppo della Rocca, realtà nata per dare vita ad un teatro di forte impegno civile. Negli allestimenti del Gruppo della Rocca risulta fondamentale il contributo di tutti i componenti, che partecipano integralmente alla realizzazione delle messe in scena. Tra i molti lavori ricordiamo: Perelà uomo di fumo (1970) dal romanzo di Palazzeschi, Viaggio controverso di Candido e gli altri negli arcipelaghi della ragione (1971) tratto da Voltaire, Il tumulto dei Ciompi (1973) di M. Dursi, L’undicesima giornata del Decamerone (1973) di F. Doplicher. Successivamente, al di fuori del gruppo, allestisce: L’impresario del re (1972) tratto da Turcaret di Lesage, Peccato che sia una sgualdrina (1974) di J. Ford, Il negromante di Ariosto, Arturo Ui di Brecht, Notte italiana di von Horváth (1974), Troilo e Cressida di Shakespeare, Anatol di Schnitzler e Una storia emiliana di A. Dallagiacoma (1975).

L’esplorazione e il confronto con i classici della storia del teatro, di cui viene messa in luce l’attualità, prosegue con Le Troiane (1981) di Seneca, Gl’innamorati (1984) di Goldoni, Sonata di fantasmi (1989) di Strindberg, Maria Stuarda (1990) di Schiller, Strindberg Quartetto (1990) da testi di Strindberg. Fra il 1975 e il 1992 ha svolto un’intensa attività quale regista e elaboratore di testi in diversi teatri di lingua tedesca. Ha anche curato l’allestimento di opere liriche: Dafni di G. Mulé (1991), Der Traumgorge di Zemlinskji (1995). Dal 1992 al settembre del 1998 ha diretto il Teatro Biondo-Stabile di Palermo e la scuola di teatro e il laboratorio di drammaturgia legati alla struttura, realizzando rassegne dedicate alle forze teatrali autonome della città e ponendo una particolare attenzione alle attività musicali e alla danza. Fra le sue regie più recenti testi di P. Handke, di H. Müller, Pasolini (Porcile 1988), R. D’Onghia, ( Lezioni di cucina di un frequentatore di cessi pubblici , 1992) Hölderlin, Ionesco ( Il rinoceronte , 1995) Calderón de la Barca ( La figlia dell’aria , 1996) e Horcynus orca dal romanzo di S. D’Arrigo.

Testoni

Nel suo primo periodo Alfredo Testoni si dedicò a lavori di tipo sperimentale. Scrisse anche per il teatro in dialetto, riscuotendo notevoli consensi nell’ambiente bolognese, di cui mise in scena i costumi. Vanno ricordati i lavori: El trop è trop (1878), Insteriari (Stregonerie, 1881), Scuffiareini (1882, dove si riscontra una forte influenza di Giacosa e Gallina), I Pisuneint (Gli inquilini, 1883, commedia dichiaratamente comica), Acqua e ciaccher (1899), El noster prossum (1910), Quand a j era i franzis (1926), El fnester davanti (1927). Dopo i primi segnali nella stesura di Quel certo non so che (1902), la sua vena comico-pochadistica emerse appieno con Il cardinale Lambertini (1905 nella versione italiana e 1931 nella versione dialettale, il suo vero successo, che fornì anche tre soggetti per il cinema), dove viene esaltata l’arte della mediazione, su uno sfondo fatto di moralità e malizia, di tipico ambiente bolognese. La commedia venne interpretata da grandi attori, tra i quali Zacconi e Cervi.

Soldati

Nonostante il suo forte interesse per il teatro, pochissime sono le scritture sceniche di Mario Soldati. La sua prima opera (mai allestita) fu proprio un dramma in tre atti, Pilato (1924): premiato dalla federazione cattolica di Torino, il testo – punto di approdo di un giovane nutrito di educazione religiosa – è incentrato sulla figura di Pilato che, dopo il ripudio, arriva quasi alla conversione. In tempi più recenti, nel 1977, si colloca invece l’adattamento di Il vero Silvestri (Milano, Teatro Filodrammatici), un lungo racconto pubblicato nel 1957. Soldati è stato anche autore di numerose sceneggiature, spesso frutto di personali ed efficaci riletture dei classici della nostra letteratura. Significativa fu la collaborazione con Pirandello ed Emilio Cecchi nella stesura del soggetto di Acciaio, film del regista tedesco Walter Ruttmann (1933).

Rossi Stuart

Figlio d’arte (suo padre Giacomo era stato attore in film western e mitologici), dopo il successo popolare in televisione con Fantaghirò Kim Rossi Stuart è approdato al cinema in Senza pelle di A. D’Alatri e Al di là delle nuvole di M. Antonioni. Nel 1995 è stato Edmund nel Re Lear di Ronconi poi protagonista de Il visitatore di Schmitt con T. Ferro, regia di A. Calenda.

Baty

Gaston Baty cresce in una benestante famiglia lionese. Si accosta al teatro grazie a un soggiorno di studio a Monaco, dove ha occasione di conoscere il lavoro scenografico di F. Erler, da Baty considerato un geniale innovatore della scena, lontano com’era dalle convenzionalità della tradizione. Baty approda tardi alla regia: dal 1908 al 1914, infatti, il suo impegno è principalmente critico e teorico. È Gémier nel 1919, visti alcuni suoi progetti di regie, a volerlo come assistente. I pochi mesi di lavoro alla Comédie Montaigne accanto a Gémier costituiscono un fondamentale apprendistato per B., il quale firma sei regie, tra cui un Avaro interpretato da C. Dullin.

Nel 1921, Baty fonda la Compagnie de la Chimère per la quale firma lo strepitoso successo Intimité di J.-V. Pellerin, spettacolo apprezzato anche dal grande Antoine. Nel 1923 apre, nel quartiere di Saint-Germain-des-Près a Parigi, `La Baraque de la Chimère’, teatro che, per ragioni economiche, ha purtroppo vita breve. Chiusa la Baraque, Baty passa attraverso esperienze teatrali diverse: torna a lavorare con Gemiér all’Odéon; poi dal 1924 al 1928 è allo Studio des Champs-Elysées dove realizza alcune delle sue regie più celebri (Maya di S. Gantillon); dopo una parentesi all’Avenue e al Pigalle, Baty ottiene nel 1930 la direzione del Montparnasse, inaugurato lo stesso anno con la brechtiana Opera da tre soldi , testo prima mai rappresentato in Francia. Qui, Baty mette in scena anche sue rielaborazioni drammaturgiche di opere letterarie: Madame Bovary (1930), Delitto e castigo (1933) e Dulcinée (1938) dal Don Chisciotte.

A metà degli anni ’30, Baty lavora anche alla Comédie-Française, accanto a Copeau, Dullin e Jouvet (registi con i quali aveva firmato nel 1926 il celebre Cartel, patto artistico contro l’accademismo e il teatro commerciale), mettendo in scena opere di De Musset, Labiche, Racine, Salacrou. Fermamente cattolico, B. ha espresso nella sua pratica registica – così come nella teoresi sul teatro del saggio Le masque et l’encensoir – la convinzione che il teatro non debba limitarsi a descrivere i conflitti umani, ma che debba al contrario trasmettere un’idea di armonia universale dominata dalla presenza divina. Mezzi privilegiati in tale processo di ricerca, anche spirituale, saranno quelli specificatamente teatrali: luci, costumi, scenografia e musica sono infatti per lui strumenti determinanti nella riuscita dello spettacolo scenico.

Non alieno ad interventi sul testo – un esempio per tutti, la sua versione del Lorenzaccio di De Musset – Baty ha privilegiato per la sua compagnia un repertorio di classici, senza però trascurare opere contemporanee come L’annuncio a Maria di Paul Claudel, uno dei suoi maggiori successi, con Il malato immaginario e L’avaro di Molière, I capricci di Marianna di De Musset, Fedra e Berenice di Racine. Solo regista del Cartel a non subire la diretta filiazione di Coupeau, Baty si allinea tuttavia alla direttrice estetica di questo periodo storico che prevede un atteggiamento di allontanamento dai moduli di messa in scena del repertorio monopolio della Comédie Française, ma non la sua contestazione. Con la sua attività artistica Baty dichiara di voler «spostare il proiettore» e illuminare, attraverso l’intervento registico, la natura spettacolare e non esclusivamente letteraria del teatro.

Nel 1949, Baty abbandona l’attività registica e si dedica ai Guignols, marionette popolari lionesi, sulle quali scrive testi storici e teorici, considerandole autentica e radicale forma di espressione teatrale. Spesso le teorie sceniche di B. sono state contestate e sbrigativamente giudicate, in ragione del gusto del paradosso e del carattere intransigente del loro autore. L’espressione Sire le mot , per esempio, titolo di uno dei suoi saggi più celebri, gli costa l’accusa di ostilità al testo drammaturgico. In realtà, Baty intende affermare che il testo è uno degli elementi, ma non l’unico, che concorre alla creazione dell’illusione scenica. Diversamente, infatti, si giungerebbe a un teatro letterario cui Baty è ostile, prediligendo un teatro quale luogo del sogno e dell’evasione dalla quotidianità. Lontano dal teatro politico e engagé , Baty ravvisa proprio nei burattini il senso ultimo dell’arte teatrale, la sola verità del sogno.

Fabrizi

Rielaborando attraverso le sue straordinarie doti di caratterista comico i modi popolari di una Roma tanto cinica quanto bonaria, Aldo Fabrizi debuttò nel 1931 al cinema Corso di Roma interpretando due caricature di sua composizione: Bruneri o Cannella? e Nel duemila. Affinò quindi le sue innate doti d’improvvisatore traendo spunto dalla conversazione col pubblico per dar vita a numerosi monologhi sull’attualità, e giunse al successo rappresentando nel teatro di rivista le sue più celebri macchiette, dal vetturino al pugile, dal postino al tranviere. Proprio a quest’ultimo personaggio – oltre che alla sua indisponente schiettezza – Aldo Fabrizi dovette il suo primo ancorché tardivo successo cinematografico in Avanti c’è posto! (1942), in cui l’ormai provato talento comico mostrava già i segni dell’inevitabile drammaticità che generalmente gli compete. Le avvisaglie di una nuova poetica cinematografica erano già avvertibili in questo film, cui succedette nel 1945, con Roma città aperta di Rossellini, la piena affermazione sia della tematica neorealista sia della statura attorale di Aldo Fabrizi, nella parte del prete partigiano don Morosini, al fianco di Anna Magnani. Durante le lunghe pause di lavorazione del film F., a ulteriore riprova della sua impellente passione creativa, interpretò al Salone Margherita e al Quirino una serie di commedie di ambiente romano originate dall’osservazione della povera e agitata cronaca di quel periodo: Buon Natale! , Salvo complicazioni, Poveri noi! e Tordinona lo videro nuovamente nelle vesti di autore, affiancato in un secondo tempo da M. Mattoli e M. Marchesi nella stesura delle successive Volemose bene e Come si dice in inglese. Al termine di queste rappresentazioni riprendeva però il via, a discapito del teatro e dopo il successo nel capolavoro di Rossellini, la sua carriera sul grande schermo, da cui trasse continui riconoscimenti da parte del pubblico italiano e internazionale (come nel caso della trilogia della famiglia Passaguai, di cui fu anche regista tra il 1951 e il ’52) e alterne soddisfazioni artistiche: dal bellissimo Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli al serrato susseguirsi di produzioni commerciali con Tino Scotti, Totò e Peppino De Filippo. Solo nel 1963 tornò al teatro, ma per interpretare il suo ruolo più amato, il boia Mastro Titta nella commedia musicale Rugantino di Garinei e Giovannini. Soggettista, sceneggiatore, produttore e regista oltre che attore e comico in tutti i ruoli e le accezioni che il termine comporta, Aldo Fabrizi fu conscio della propria grandezza tanto da saper elevare i toni più grevi di una Roma plebea all’altissimo livello della sua arte.

Libertini

A Sesto Fiorentino, con la compagnia de I Piccoli Principi Alessandro Libertini ha creato nell’ambito del teatro-ragazzi un originale percorso, grazie a un indubbio fascino personale, tra arte figurativa, teatro di animazione e performance di intelligente e forte suggestione. Presentati ad alcuni tra i festival italiani più importanti, non solo di teatro-ragazzi e di figura, i suoi spettacoli noti sono Così mi piace , del 1984, rilettura in chiave narcisistica della commedia shakespeariana, che poi infatti l’anno seguente sfocia in Narciso amore mio ; del 1994 è invece il più recente A partire da Miles.

Scaparro

Figura di regista e operatore teatrale tra le più interessanti e attive in Italia e all’estero, Maurizio Scaparro inizia la sua attività nel campo dello spettacolo come critico teatrale. Poco più che ventenne, infatti, collabora a “l’Avanti!” e, più tardi, a “Maschere, rassegna mensile di vita del teatro” diretto da Giovanni Calendoli. È, poi, direttore responsabile di “Teatro Nuovo”, rivista fondata con Ghigo De Chiara e Lamberto Trezzini (1961). Nel 1963, Scaparro è chiamato a dirigere il Teatro stabile di Bologna, poi, l’anno successivo, esordisce nella regia con Festa grande di aprile, novità di Franco Antonicelli, presentata al Teatro Municipale di Reggio Emilia.

Avverso a ogni forma di spettacolarità eccessiva, Scaparro fa dell’allusione e dell’illusione chiavi di lettura possibili dei propri spettacoli, contrassegnati da una tensione verso una teatralità riccamente utopica, cha abbia sempre al centro il destino dell’uomo. La consacrazione come regista avviene il 26 giugno 1965, al Festival dei due Mondi di Spoleto: Scaparro presenta La venexiana di Anonimo del Cinquecento (ripresa nel 1985 in una nuova edizione), con, una straordinaria Laura Adani e le scene di Roberto Francia (suo abituale collaboratore). Infaticabile ed instancabile, firma oltre sessanta spettacoli, tra i quali si ricordano Sagra del Signore della nave di Pirandello (1967); Chicchignola di E. Petrolini (1969) con Mario Scaccia; Amleto di Shakespeare (1972) con Pino Micol, che sarà protagonista di molti spettacoli di Scaparro; Cirano di Bergerac di Rostand (1977, 1985 e 1995); Don Chisciotte di M. Cervantes nella riduzione di R. Azcona e T. Kezich (1983, Festival di Spoleto, e successivamente in spagnolo nel 1992); Il fu Mattia Pascal (1986); Pulcinella, di Manlio Santanelli da un soggetto inedito di Roberto Rossellini, con Massimo Ranieri (1987); Vita di Galilei di Brecht (1988); Una delle ultime sere di carnovale di Goldoni (1989) e Memorie di Adriano di M. Yourcenar con Giorgio Albertazzi (1989 e 1994); Morte di un commesso viaggiatore di Miller (1997).

Contemporaneamente al suo affermarsi come regista, Scaparro conferma le sue capacità di organizzatore innovativo e acuto, dirigendo compagnie autonome (Teatro Indipendente, dal 1967 al 1969 e Teatro Popolare di Roma, 1975-79), Teatri Stabili (dopo Bologna, Bolzano dal 1969 al 1975; e Roma 1983-1990); e istituzioni pubbliche in Italia e in Europa, come la Biennale, durante la quale crea il celebre Carnevale del teatro (1980-82), il settore spettacolo dell’Expò di Siviglia nel 1992, o l’Ente teatrale italiano, di cui è commissario straordinario nel 1994-95. Nel 1997 assume la direzione del Teatro Eliseo di Roma.

Marcucci

Egisto Marcucci abbandona, poco prima della laurea, la facoltà di lettere di Firenze per iscriversi al corso per attori alla Civica scuola del Piccolo Teatro di Milano. Diplomatosi nel 1961, partecipa a numerosi spettacoli del Piccolo e di Visconti, con cui interpreta nel 1967 Egmont di Goethe. Nel 1969 è tra i fondatori del Gruppo della Rocca e nel 1972 debutta nella regia con Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Da questo momento in poi, grazie anche alla collaborazione con il gruppo, si dedica esclusivamente alla direzione, allestendo Il mandato di Erdman (1976), Ballata e morte di Pulcinella capitano del popolo di I. dell’Orto (1977) tratto dal romanzo di L. Compagnone e Il suicida di Erdman (1978). Dal 1979 al 1981 insegna alla scuola del Teatro stabile di Genova, dove approfondisce nuove idee sulla pedagogia dell’attore, che si riflettono nelle messe in scena di Re Nicolò di Wedekind, Emma B. vedova Giocasta di Savinio e Il rinoceronte di Ionesco. Seguono regie significative di opere non convenzionali quali: Il vampiro di San Pietroburgo di Suchovo-Kobylin (1984), La lezione di Ionesco (1986), La coscienza di Zeno di Kezich da Svevo e Il silenzio delle sirene di Albertazzi e Del Corno (1987), La marchesa von O. dalla novella di Kleist (1990), La famiglia Mastinu di Savinio (1990), Stadelmann di C. Magris e Il suo nome di A. Savinio (1991). Ha curato anche la regia di opere liriche, tra cui: L’italiana in Algeri (1981) e Il turco in Italia (1982) di Rossini e Giulio Cesare di H&aulm;ndel (1989). Ultime regie: Dyskolos (1995) di Menandro, La lezione (1996) e Le sedie (1997) di Ionesco, Una burla riuscita da Svevo (1988).

Strasberg

Dopo aver lavorato come aiuto regista per la Theatre Guild, Lee Israel Strasberg fu nel 1931 uno dei fondatori del Group Theatre, per il quale diresse fino al 1936 (quando dissensi personali e artistici ne determinarono l’allontanamento) quasi tutti gli spettacoli, ottenendo particolare successo con la messinscena di Uomini in bianco di S. Kingsley (1933) e del musical Johnny Johnson di K. Weill (1936). Ma la sua vera carriera iniziò nel 1951, con la nomina a direttore artistico dell’Actors Studio. Qui ebbe modo di mettere in pratica la sua personale versione del sistema di Stanislavskij, il cosiddetto ‘metodo‘ fondato più sul lavoro dell’attore su se stesso che sulla costruzione del personaggio, con esercizi che tendevano a mettere in risalto la verità delle emozioni a parziale scapito delle tecniche espressive. Produsse così interpreti a proprio agio in quei drammi (e soprattutto in quei film) che permettevano loro di lavorare sulle proprie nevrosi personali, come dimostrò nel 1963 il tentativo di costituire una compagnia permanente dell’Actors Studio, con molti dei suoi allievi più famosi; tentativo che si concluse nel giro di un anno, con una infelice ripresa delle Tre sorelle di Cechov che lo stesso Strasberg aveva diretto.

Tieri

Profondo conoscitore del mondo dei sentimenti, che indagò con freddo distacco, Vincenzo Tieri fu però anche il creatore di alcuni sorprendenti personaggi femminili, giudicati con durezza e crudeltà. Si ricordano in questo senso Giovanna, protagonista di Taide (1932), Barbara de L’ape regina (1941) e Giulia de La battaglia del Trasimeno (1942). Nel dopoguerra si dedicò alla regia di gialli sentimentali: Processo a porte chiuse, Interno 14 e Domani parte mia moglie.

Lari

Dopo varie esperienze giornalistiche in diversi quotidiani, dal 1924 al ’42 Carlo Lari fu critico teatrale della “Sera” di Milano. Ha pubblicato libri sul teatro di D’Annunzio (1927), Sem Benelli (1928) e sulla Duse (1929). Negli anni ’50 tentò l’avventura registica, creando a Milano insieme a Lida Ferro il teatro Sant’Erasmo a scena centrale, convinto che in tale spazio si potessero rappresentare lavori di disparata natura, contando sul particolare contatto dell’attore con il pubblico. Gli spettacoli da lui diretti (ricordiamo: La calzolaia ammirevole di García Lorca; L’altro figlio e Come prima, meglio di prima di Pirandello; L’annuncio a Maria e Le père humilié di Claudel; Nora seconda di C.G. Viola; Suo fratello di C.M. Pensa; La moglie saggia di Goldoni; Isa dove vai? di C.V. Lodovici) suscitarono reazioni diverse, ma sempre con vivo interesse di pubblico. Nel 1953 vinse il premio Idi per la miglior regia di un testo italiano.

Scaldati

Franco Scaldati inizia come attore lavorando con gruppi spontanei palermitani e continua da sempre un importante che unisce teatro e impegno sociale nel quartiere della Kalsa di Palermo. Intensissima l’attività di autore, che lo porta, tra il 1972 e il ’73, a firmare Attore con la o chiusa per sempre . Un esordio che è una sorta di reazione al teatro della perfetta dizione e alla scena governata da modalità registiche verso le quali lui e i suoi attori sono insofferenti. Seguono molti altri testi-spettacoli, lavori in cui la scrittura non nasce mai sola, ma sempre insieme al lavoro di palcoscenico e di forti motivazioni etiche: Il pozzo dei pazzi, spettacolo fortunato e eclatante per la forza visionaria e una lingua ricca di impasti dialettali e immagini sceniche. Lo spettacolo, dopo aver debuttato al Piccolo Teatro di Palermo, nel 1974, prodotto dalla cooperativa I draghi, è stato ripreso, sempre con la regia dell’autore nel 1980 e con grande successo – che l’ha imposto alla ribalta nazionale – con la regia di E. De Capitani (1989).

Seguono Lucio (regia A. Ardizzone, 1978 e, con maggiore eco, quella di Cherif nel 1990), Mano mancusa (1978), Il cavaliere sole , Occhi (1987), Totò e Vicè (che ha debuttato alle Orestiadi di Gibellina nel 1993, ripreso negli anni successivi), Assassina, Ofelia e una dolce pupa tra i cuscini . A Sant’Arcangelo nel 1995 mette in scena Femmine dell’ombra, da cui nascerà poi il laboratorio permanente di Palermo fondato da Antonella Di Salvo, impegnato a rappresentare esclusivamente testi della compagnia. Seguono Sul muro c’è l’ombra di una farfalla, Si aprono i tuoi occhi ed è l’aurora. Nel 1997 La locanda invisibile e Ombre folli che debutta a Sant’Arcangelo con una strepitosa interpretazione di Antonella Di Salvo. Nel ’98 Scaldati riscrive La tempesta di Shakespeare che viene allestita con la regia di Cherif, mentre all’Albergheria apre una nuova sezione di teatro per ragazzi. Notevole le sue prove d’attore, oltre che dei suoi testi, anche nelle partecipazioni straordinarie (La sposa di Messina di Schiller a Gibellina, regia di E. De Capitani).

Foà

Di origine ebraica dopo le prime esperienze con il teatro universitario Arnoldo Foà s’iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, dal quale però verrà espulso nel 1938 a causa delle leggi razziali. Continua comunque a lavorare in quel periodo come doppiatore utilizzando un nome d’arte. Dopo il secondo conflitto mondiale comincia la sua ascesa con La brava gente (1945) di I. Shaw e poi con Delitto e castigo e La luna è tramontata , regia di Visconti. Forte delle esperienze fatte con Luigi Cimara e Sarah Ferrati viene scritturato al Piccolo di Milano per interpretare una parte nel Giulio Cesare (1953-54). Con l’avvento degli anni Cinquanta, come molti, intraprende l’avventura del cinema che fioriva, e interpreta tra altri titoli minori Altri tempi (1951), Il processo (1962), Il sorriso del grande tentatore (1973). Mette poi in scena in qualità di regista teatrale una commedia da lui stesso scritta dal titolo Signori, buonasera e lavora contemporaneamente con Visconti e Squarzina. In seguito torna a collaborare con il Piccolo chiamato per La lanzichenecca (1964-65) e dopo pochi mesi fonda la sua prima compagnia. Interpreta Lazzaro di Pirandello, Paura di me (1965) di V. Bompiani, Ruy Blas (1966) di V. Hugo, Zio Vanja (1968) e Golem di Fersen è del 1969. Nel corso degli anni il suo discorso teatrale si arricchisce di sempre nuovi strumenti ed elementi e si orienta sempre più sulla drammaturgia e approfondisce le sue competenze e qualità di regista: esempi di questo intenso periodo sono Al testimone con Lea Padovani e Warner Bentivegna, Diana e la Tuda di Pirandello, La corda a tre capi da lui stesso scritto e diretto.

Pier’Alli

Pier’Alli (Pierluigi Pieralli) inizia il suo lavoro di ricerca negli ultimi anni ’60 con il gruppo fiorentino Ouroborus. Già dai primi spettacoli, Confronto I (Firenze 1968) su testi di J.M. Synge ( Cavalcata a mare ) e R. Wilcock ( Il Brasile ), e Ludus (Venezia 1970) – tratto da Alta sorveglianza di J. Genet – lo spazio scenico diviene protagonista assoluto, luogo in cui la parola, privata del suo significato, diventa suono puro e l’oggetto scenico perde la sua funzionalità specifica e acquista un valore paritario con l’uomo. Nel 1972, con Signorina Giulia di Strindberg, Pier’Alli definisce la sua ricerca sulla parola con una raffinata scrittura drammaturgica cui contribuisce Gabriella Bartolomei, interprete ideale della sua ricerca sul linguaggio. In un periodo di avanguardia caratterizzato da messe in scene sporche nel linguaggio e approssimative negli allestimenti, Pier’Alli si distingue per precisione espressiva e coerente intransigenza. Con Morte della Geometria di G. Scabia (Firenze 1965) il suono, il gesto, la parola e la luce si riproducono in un linguaggio che supera i modelli della comunicazione, e ogni cosa è accadimento in funzione del suo uso.

In Winnie dello sguardo (tratto da Happy days di S. Beckett, Firenze 1978) la sua ricerca si concentra sull’aspetto vocale-musicale, confermando la possibilità di integrazione fra musica e parola. La partitura musicale è composta da Sylvano Bussotti, mentre la ricerca vocale è sempre di Gabriella Bartolomei. Questo spettacolo costituisce un punto fermo del lavoro di Pier’Alli, perché si vanno definendo gli elementi fondamentali della sua ricerca. Nel 1979 al Castello Sforzesco di Milano con Si come luce, Pier’Alli si misura con uno spazio non teatrale; ma è la scrittura musicale a catturare sempre di più il regista, che nello stesso anno per la Biennale Musica lavora sul Prometeo Liberato da Shelley su musiche di Francesco Carluccio. È del 1980 Giulia round Giulia , una nuova riscrittura della Signorina Giulia di Strindberg con musica di Sylvano Bussotti. Nel 1981 alla Piccola Scala realizza Vanitas su musiche di Salvatore Sciarrino, con cui realizzerà anche Lohengrin da J. Laforgue nel 1983. Nel 1983 Pier’Alli approda al melodramma, firmando la regia de L’elisir d’amore di Donizetti al Teatro La Fenice di Venezia. AlTeatro alla Scala realizza nel 1983 Pierrot lunaire, Die Glückliche hand e Erwartung di Arnold Schönberg.

Nel 1984 mette in scena al Teatro Olimpico di Vicenza il Sogno di Scipione di Mozart, valorizzando le prospettive della scena rinascimentale senza rinunciare alla sua cifra stilistica. Nel 1985, all’interno della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, mette in scena Curlew River e The prodigal son di B. Britten. Nel 1985 a Aix-en-Provence e nel 1986 a Lione firma la regia de Le nozze di Figaro di Mozart. Con La caduta di casa Usher , il frammento d’opera di Debussy, nel 1986 Pier’Alli utilizza l’immagine cinematografica proiettata su un grande fondale in uno spazio teatrale essenziale. Al Teatro Comunale di Bologna inizia nel 1987 Der Ring des Nibelungen , la tetralogia di Wagner che si conclude nel 1992. Nel 1990 Pier’Alli affronta per la prima volta l’opera di Verdi, realizzando Il trovatore all’Opernhaus di Zurigo e nel 1991 Simon Boccanegra al Teatro La Fenice di Venezia (e nel 1992 al Teatro Carlo Felice di Genova). Il rapporto con l’opera romantica si sviluppa ulteriormente con Lucia di Lammermoor di Donizetti, alla Scala nel 1992 e nel 1997. Nel 1998, sempre alla Scala mette in scena Der Freischütz di Weber.

Renzi

L’attività tatrale di Andrea Renzi si concentra nell’esperienza della compagnia Teatri Uniti di Napoli (in origine Falso Movimento) di cui fin dall’inizio è uno dei principali animatori. Nel 1980 recita in Rosso Texaco, testo scritto da lui insieme a M. Martone, che cura anche la regia. Due anni dopo recita in Tango glaciale di Martone a cui seguono: Otello, ispirato all’opera di Verdi (1983), Il desiderio preso per la coda , da P. Picasso (1985), Ritorno ad Alphaville (1987) e La seconda generazione (1988) tratto da Sofocle, Euripide, Virgilio, Ritsos e altri autori, tutti diretti da Martone. Tra le sue regie ricordiamo la messa in scena del suo testo Sangue e arena (1984), che ha ricevuto il premio Narni Opera Prima, oltre che Insulti al pubblico di P. Handke (1992) e A proposito di Van Gogh (1994). Dal 1995 conduce un progetto pluriennale di messa in scena del romanzo di B. Hrabal Una solitudine troppo rumorosa , da cui è stato tratto il film omonimo di S. Incerti (1996). Sempre al cinema ha partecipato a Morte di un matematico napoletano di Martone (1992) ed è stato il protagonista di Teatri di guerra ancora con Martone (1998). Tra le sue altre partecipazioni teatrali sono da ricordare: L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, regia di T. Servillo (1990), Dritto all’inferno spettacolo dedicato a P. P. Pasolini, progetto e regia di A. Neiwiller (1991), Il misantropo di Molière (1995) e il più recente Rosencranz e Guildestern sono morti di T. Stoppard, di cui è stato anche regista (1997).

Vacis

Gabriele Vacis si è laureato in architettura ed è tra i fondatori del Laboratorio Teatro Settimo. Promotore e direttore di festival teatrali, coniuga le proprie conoscenze specialistiche con lo specifico teatrale e nella prima metà degli anni ’80 realizza alcuni progetti urbanistici (la Città Laboratorio e il Piano di ambiente culturale) per la città di Settimo. Per la sua compagnia ha curato tra l’altro la regia di: Esercizi sulla tavola di Mendeleev (1984), Elementi di struttura del sentimento (da Goethe, 1985), Riso amaro (1986), Libera nos (da L. Meneghello, 1989), La storia di Romeo e Giulietta (da Shakespeare, 1991), Sette a Tebe (Eschilo, 1992), Villeggiatura, smanie, avventure e ritorno (da Goldoni, 1993), Novecento (di A. Baricco, 1994), Tartufo (di Molière, 1995), Uccelli (da Aristofane, 1996).

Partecipa, tra l’altro, alla creazione degli spettacoli di M. Paolini, e in particolare all’allestimento del Racconto del Vajont (1994), premio Ubu e premio Idi, trasmesso da Raidue nell’ottobre del ’97 (ma ha curato l’adattamento televisivo assieme a Felice Cappe. In veste di coautore e/o di regista segue e accompagna anche il lavoro personale di scrittura e interpretazione di L. Curino, R. Tarasco e A. Zamboni, che gravitano intorno all’attività di Teatro Settimo, ma anche di L. Costa (Stanca di guerra nel 1996 e Un’altra storia nel 1998), V. Moriconi e M. Venturiello (La rosa tatuata di T. Williams, per lo Stabile delle Marche). Alla prolifica attività di allestitore, con incursioni anche nell’opera (tra le altre regie si ricordano la Lucia di Lammermoor di Donizetti, messa in scena nel ’93 per l’Arena di Verona, ma anche le collaborazioni con N. Campogrande e D. Voltolini nell’opera da camera Macchinario, del ’95, e nel melologo Messaggi e bottiglie , 1997), affianca un’attività di ricerca teorica e pratica a tutto campo che si esplicita nell’attività didattica (alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano e alla Holden di Torino) e nei frequenti momenti seminariali presso varie università.

All’origine della sua idea di teatro, che molto deve alle suggestioni ricavate dallo studio dell’architettura e al neorealismo che ispirava esplicitamente i suoi primi spettacoli, vi è anche la riscoperta linguistica degli elementi popolari del canto, della narrazione e della musica sperimentati e `riversati’ nel lavoro drammaturgico e attorale.

Noble

Formatosi all’università di Bristol e al Drama Centre di Londra, Adrian Keith Noble inizia l’attività nel 1976 come regista associato presso l’Old Vic di Bristol, che porta avanti fino al ’79. Dal 1980 al 1981 è al Royal Exchange Theatre di Manchester dove ottiene il plauso della critica con le due produzioni, La duchessa di Amalfi (The Duchess of Malfi) e Casa di bambola . Sempre nel 1980 comincia la lunga collaborazione con la Royal Shakespeare Company (Rsc) per la quale nel 1982 diviene regista associato e produce, tra le altre, interessanti versioni del Re Lear (King Lear, 1982), dell’ Enrico V (Henry V, 1984), e di Come vi piace (As You like It, 1985). Nel 1988 produce uno spettacolo di grande successo rielaborando e comprimendo le tre parti dell’ Enrico VI (Henry VI) insieme al Riccardo III (Richard III) per dar vita alla trilogia dal titolo i Plantageneti (Plantagenets). Al momento della dipartita di Terry Hands, nel 1990 N. assume il ruolo di direttore artistico della Rsc e mette in scena le due parti dell’ Enrico IV (Henry IV) e tre drammi di Sofocle: Edipo Re , Edipo a Colono e Antigone . A tutt’oggi a capo della compagnia, N. ha raccolto in particolare successi personali con Amleto (Hamlet, 1992) interpretato da Kenneth Branagh, Re Lear (King Lear, 1994) con Robert Stephens, Macbeth con Derek Jacobi e con Travesties di Tom Stoppard. Nella stagione teatrale 1997-98 della Rsc ha curato la regia di La dodicesima notte (Twelfth Night) e La tempesta (The Tempest).

Zacharov

Laureato in storia dell’arte, Rostislav Vladimirovic Zacharov si è diplomato nel 1926 presso l’Istituto coreografico di Leningrado ed è stato solista al Teatro Kirov dal 1926 al ’29. Successivamente, dal 1934 al ’36 è stato coreografo nello stesso Teatro. Dal 1936 al 1956 è coreografo e regista d’opera al Teatro Bol’šoj di Mosca. La sua prima grande prova come coreografo è stata La fontana di Bachisaraj ispirata a Puškin su musica di Asaf’ev, e realizzata nel 1934 per il Teatro Kirov. Maestro del `drambalet’ (balletto drammatico in voga in Urss negli anni ’30 e ’40), ha realizzato Illusioni perdute (1936), Il prigioniero del Caucaso (1938), Taras Bul’ba (1946), Il cavaliere di bronzo (1949). Altro suo grande successo la prima versione di Ce nerentola di Prokof’ev nel 1945. Gli anni ’50 lo vedono in lotta con i giovani coreografi (Grigorovic, Belskij) che introducono tendenze più innovative nella coreografia sovietica. È stato molto attivo al Teatro Bol’šoj anche come regista d’opera (Ruslan e LjudmilaCarmen, Gli Ugonotti, Guerra e pace).

Ronconi

Nato in Tunisia, dove la madre a quel tempo si trovava a insegnare, Luca Ronconi deve forse anche a questo spiazzamento d’origine la capacità di distanziazione critica che l’ha distinto dai suoi colleghi, specie dai registi della prima generazione, lui che come capofila della seconda, era più portato a mettersi continuamente in questione, a sfuggire alle etichette, a inventarsi sulla propria pelle una poetica personale, perseguendo un modo di comunicare dettato da diverse modalità espressive e spaziali. È anche rilevante il fatto che approdi alla regia nel 1963, con un Goldoni sfortunato e controcorrente per gli eccessi naturalistici (La buona moglie, frutto di un dittico con La putta onorata – che in un rifacimento televisivo chiamerà Bettina), da una carriera d’attor giovane applaudito ma poco convinto, in cui affronta tra l’altro, con regie di Squarzina, Costa, De Lullo e anche Antonioni, due edizioni di Tre quarti di luna accanto rispettivamente a Gassman e a Carraro, Romagnola dello stesso Squarzina, il doveroso Candida, e due successi d’epoca quali Tè e simpatia con la Villi e Il diario di Anna Frank con la Guarnieri. Ma la messinscena che lo fa conoscere sarà, tre anni più tardi, quella dei Lunatici di Middleton e Rowley, dove trasferisce nel manicomio assieme al protagonista savi e pazzi con effetti di recitazione esasperata che subito lo fanno apparentare al Teatro della Crudeltà artaudiano, rilanciato in quegli anni da Brook.

Nello stesso senso s’indirizzano i due successivi Shakespeare: un Misura per misura estivo e un importante Riccardo III con Vittorio Gassman imprigionato in una protesi, dentro una scena di sculture lignee preesistenti di Mario Ceroli, che con ardue scale delineano il meccanismo del potere e mettono a dura prova gli attori, impediti nei movimenti come sul pendio ripidissimo della Fedra senechiana. Il principio di lettura è strutturalista e fa scattare le contraddizioni anziché risolverle, come accadrà per altri elisabettiani del periodo, da La tragedia del vendicatore di Tourneur con tutti i 24 personaggi interpretati da sole donne alla Partita a scacchi di Middleton con i ragazzi dell’Accademia in funzione di pedine. Ma alla base di questi testi a interessare Ronconi c’è lo stesso delirio barocco che si ritrova nel Candelaio di Giordano Bruno, dove, in pieno Sessantotto, le parti dei marioli contestatori sono affidati ad attori presi dalla vita da contrapporre ai professionisti, e nelle ardite stranezze della Centaura seicentesca di G. B. Andreini, montata ancora con gli allievi in uno studio di Cinecittà.

Sempre determinante per l’interpretazione è il contenitore, esaltato in un altro lavoro il cui tema è ancora la follia, e che per la prima volta sottolinea la spinta del regista a misurarsi con l’irrappresentabile. L’Orlando furioso, ridotto e volto in prima persona da Edoardo Sanguineti nel ’69, con un occhio alla festa rinascimentale piuttosto che al teatro dei pupi, è giocato da una quarantina d’attori (protagonista Massimo Foschi) in un grande quadrilatero dove le loro azioni simultanee si svolgono tra il pubblico itinerante secondo un principio di coinvolgimento teorizzato da Schechner: gli spettatori, a diretto contatto con i personaggi, spingono i palcoscenici mobili e i carrelli su cui sono disposti gli elementi figurativi di Uberto Bertacca semplici come giocattoli, ma che spiazzandoli con i loro improvvisi movimenti li mettono in uno stato d’insicurezza e ne eccitano la partecipazione. Non essendo possibile vedere in una sola volta l’intero spettacolo, ciascuno si sceglie un proprio percorso come se sfogliasse le pagine d’un libro e si costruisce un’immagine personale della rappresentazione. Il successo è enorme, a dispetto della diffidenza italiana di critica e autorità, e dilaga in tutto il mondo, tanto che piovono dall’estero nuove proposte.

All’Odéon di Parigi, il regista monta una casa a due piani dove XX , testo commissionato a Rodolfo Wilcock su un colpo di stato fascista, viene recitato da 10 attori italiani e 10 francesi nella rispettiva lingua, dentro 20 camerette per 20 persone ciascuna, che col progressivo crollo delle pareti divisorie formeranno uno spazio unico. Sul lago di Zurigo viene montata su galleggianti anche per il pubblico la romantica Kaetchen von Heilbronn di Kleist, come una sagra del meraviglioso affidata da Arnaldo Pomodoro a materiali elementari; ma lo spettacolo sarà vietato dalla polizia cantonale alla vigilia della prima per motivi di sicurezza. Va in scena invece nello stesso 1972, al Festival di Belgrado e poi alla Biennale, l’Orestea di Eschilo, otto ore di durata, per cui Enrico Job costruisce un vero teatro con tre gradinate attorno alla scena su due piani in legno e ferro, comprensiva di due ascensori e di un piano bilanciabile, con una grande porta che s’apre su un altro spazio. Ma il grande spettacolo, che ha le sue premesse nella perdita della tradizione che il coro cerca di ricreare balbettando, offre un approccio antropologico alla tragedia che procede da una zona cosmica a un interno borghese, a una città quasi futuribile, dove si compie un compromesso pseudodemocratico, dopo che dalla teocrazia era nato un matriarcato tirannico.

Al termine di un importante giro straniero questo spettacolo verrà però considerato inagibile per l’Italia nella sua integralità e Ronconi, eletto ormai regista delle macchine e dell’impossibile, per reazione si autoesilierà dalla nostra prosa, optando per la lirica (tra l’altro La Walkiria e Sigfrido alla Scala), l’insegnamento, la televisione con una nuova versione di Orlando, o il Burgtheater di Vienna, dove in quattro anni, realizzerà sul palcoscenico Le baccanti di Euripide, Gli uccelli di Aristofane, e una più sintetica Orestea. Il confronto col teatro necessario delle origini corrisponde a un’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro ricominciando dall’inizio, comune nello stesso periodo a una serie di registi della stessa generazione, da Stein a Grüber a Serban al più anziano Brook, e quando Ronconi viene chiamato a un compito istituzionale come direttore del settore prosa della Biennale veneziana torna ai Greci: nel ’75 riunisce un collage di 7 commedie di Aristofane in versione contemporanea, in un nuovo kolossal di molte ore, che avrà un seguito nell’allestimento del Pluto a Epidauro.

Utopia è montato come un fumettone su una piccola borghesia anni ’50, un romanzo-fiume che scorre all’infinito lungo una strada con le gradinate degli spettatori per marciapiedi: un gorgo di camion, aerei, macchine arredate da Luciano Damiani come case, stanze da letto kitsch, pezzi di vita in cui lo spettatore che spia dalla sua immaginaria finestra è invitato a riconoscersi. È la premessa del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, occasione per formare un gruppo a lungo termine e sperimentare un metodo recitativo che già ha conosciuto i suoi prodromi nelle ricerche sulla dizione dell’Orestea. Il piano ha per oggetto la comunicazione e si avvale del contributo di personalità di diversi rami tra cui spicca Gae Aulenti alla guida del `gruppo spazio’ e, anche se non approderà al compimento triennale, rimarrà uno dei risultati più notevoli di questi decenni per le sue finalità analitiche. Da una parte lo smontaggio del concetto di personaggio realizzato mirabilmente da Marisa Fabbri in una esecuzione a una sola voce per 24 spettatori della prima parte delle Baccanti in un andirivieni per diverse stanze. Dall’altra lo smontaggio di un testo, La vita è sogno di Calderón, solo studiato nel suo impianto metaforico, ma visitato sviscerandone due rifacimenti d’altra epoca: Calderón di Pasolini viene creato nella sua natura di manifesto ideologico tra la scena e la platea del Teatro Metastasio che si specchiano l’una nell’altra per gli spettatori nei palchi; La torre di Hofmannsthal viene demistificata nell’ambiguità della sua interpretazione cristologica da una lettura naturalistica nell’ex-hangar del Fabbricone trasformato con un falso ostentato nella sala della reggia tedesca di Würzburg.

A questo punto si può dire che Ronconi abbia definito i canoni della sua opera creativa: lettura dei testi secondo le loro vere motivazioni, scelta spaziale ad hoc tesa a ristabilire il rapporto originario tra l’autore e il suo pubblico, recitazione volta a demistificare i possibili piani di lettura. Il suo lavoro futuro spesso riuscirà a realizzare queste premesse, anche nella lirica dove contiene al massimo gl’interventi recitativi, ma gioca sui rovesciamenti prospettici sempre badando al rapporto con la tradizione: coglie quindi risultati particolari quando la mancanza di precedenti o l’uscita dall’ambiente canonico gli permette una libertà interpretativa. Da citare in questo senso i rossiniani Il viaggio a Reims e Il barbiere di Siviglia dell’Odéon, l’Orfeo di Luigi Rossi alla Scala e quello di Monteverdi al Goldoni di Firenze, l’autobiografismo dei Capricci di Strauss con Raina Kabaivanska, protagonista anche di un vertiginoso Caso Makropulos di Janacek contemporaneo all’originale in prosa di Capek con Mariangela Melato. Durante il Laboratorio, Ronconi aveva cominciato lo studio su Ibsen con L’anitra selvatica, giocata per il Teatro di Genova sulla moltiplicazione delle immagini sceniche, mentre John Gabriel Borkman dilata il suo naturalismo nell’edizione televisiva e Spettri isola i tormenti dei personaggi in un cinematografico alternarsi di campi e controcampi sotto una serra liberty che incamera su un lato dell’enorme pedana anche gli spettatori. Vi si sente un sadomasochismo alla Strindberg, autore avvicinato solo per un saggio dell’ Accademia in un Sogno avvincente, ma che influirà anche sul ritorno del regista a Goldoni con una crudissima Serva amorosa tutta livori tra i mobili affastellati, protagonista Annamaria Guarnieri, come nella Fedra di Racine formato Ottocento.

Correlativamente avanza il filone austriaco che, dopo La torre, presenta Schnitzler: ed ecco Al pappagallo verde svolto come un esercizio teatrale dove a ogni posa corrisponde un cambio di luce e La commedia della seduzione galleggiare trepida sull’acqua. Ma al centro di questo travaglio, interrotto dall’esplosione emozionante del teatro nel teatro del prediletto Andreini nelle Due commedie in commedia per la Biennale, l’avvenimento degli anni ’80 è, ancora al Fabbricone, Ignorabimus di Arno Holz: un manifesto sconosciuto del `naturalismo conseguente’ scritto all’inizio del secolo per resuscitare l’antica tragedia in una cronaca di famiglia che rasenta il dibattito scientifico e non ignora effetti parapsicologici, rappresentato in tempi reali (12 ore), in una scena in cemento di Margherita Palli, da cinque attrici-mostri (Fabbri, Nuti, Aldini, Gherardi, Boccardo) di cui solo l’ultima interpreta un personaggio femminile per smitizzare con l’aspetto la caricata verità dei loro comportamenti.

Il ritorno a Shakespeare per Il mercante di Venezia alla Comédie-Française e la collaborazione con tre teatri stabili per l’affollata messinscena dei Dialoghi delle Carmelitane (in occasione del bicentenario della rivoluzione francese!), il primo Cechov (Le tre sorelle in flashback) e l’unico Alfieri (Mirra con la debuttante Galatea Ranzi), precedono la chiamata del regista a dirigere il Teatro Stabile di Torino, dove la sua attenzione si sposta con più insistenza sul repertorio del secolo: di nuovo Hofmannsthal con una bellissima edizione di Un uomo difficile con Umberto Orsini; di nuovo Pasolini, ma con un trittico che prevede accanto a un’impegnativa Affabulazione le riuscite di Pilade e Calderón grazie alla freschezza della nuova scuola del Teatro; e l’atteso incontro con O’Neill con le sei ore di Strano interludio , un risultato assai più impressionante del Lutto si addice ad Elettra che seguirà poi a Roma, in una ironica atmosfera da film anni ’50.

Ma entrano in campo anche novità autentiche: Botho Strauss con Besucher, la sperimentazione di Simone Veil su Venezia salva , addirittura un testo italiano un po’ hard uscito dal Premio Riccione, L’aquila bambina di Antonio Syxty, come contrappeso al remake di Misura per misura (1992) tradotto da Garboli e puntato sulla ricerca d’identità con la scena che però continua i palchi del Carignano, come se il pubblico dovesse ritrovarsi nella teatralizzazione di quella Vienna corrotta. Un’altra Vienna parimenti emblematica era già apparsa l’anno prima nell’ennesimo spettacolo impossibile e in assoluto forse il più grandioso di Ronconi, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, già da vent’anni da lui messo allo studio sia in Italia che in Francia e finalmente allestito nell’ambiente ideale del Lingotto alla vigilia della chiusura, in una vera sala presse con macchine d’epoca, ma anche vagoni ferroviari e personaggi in volo sul filo: una ripetizione dei fasti dell’ Orlando per le masse mobilitate, la scelta itinerante, la simultaneità di almeno sei azioni e anche l’ironia dell’autore alle prese stavolta con la manipolazione dell’opinione pubblica di fronte a una catastrofe come la prima guerra mondiale.

Ma a riscontro di quella precedente esperienza tutto figura più perfettamente tecnicizzzato e perfino lo spettatore potrebbe sentirsi soggetto alla manipolazione generale, quasi il percorso da scegliere gli venisse subliminalmente suggerito. Al Teatro di Roma, dove arriva sulla scia di un allestimento di Aminta, Ronconi sembra lasciarsi prendere, come già del resto nell’ Affare Makropulos , dal piacere di raccontare spesso sacrificato a preoccupazioni concettuali. È già evidente nel Re Lear, dove la trama con le sue insensatezze prende il sopravvento alla Kurosawa sulle problematiche. E lo conferma la felicità del suo ultimo Ibsen, Verso Peer Gynt , che coi suoi tagli era nato come un primo approccio al capolavoro e che, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Massimo Popolizio nelle due età della balorda spensieratezza e della resa dei conti, s’è imposto come risultato a se stante di superba immediatezza espressiva.

Lo si rivede nei suoi due primi Pirandello, firmati entrambi all’estero: I giganti della montagna a Salisburgo in tedesco, letti come un travestimento del rapporto tra l’autore e Marta Abba; Questa sera si recita a soggetto , a Lisbona per l’Expo ma in italiano, con il sacrificio dei pirandellismi alla vicenda. E mentre si moltiplicano i minispettacoli tratti da racconti o novelle a cura specialmente di Enzo Siciliano, e viene commissionato e rappresentato un testo di Alessandro Baricco, il romanzo vero e proprio fa capolino nei programmi del maestro: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, tale e quale, com’è scritto, con tagli ma senza adattamento del racconto che resta in terza persona, detto dal personaggio che viene descritto con qualche gesto d’appoggio… Insieme al plurilinguismo così costruito di Gadda che in piedi trova un’insperata verifica della propria funzionale verosimiglianza, nel giallo ocra della scena semplice e allungata verso la platea di Margherita Palli è la Rometta fascista a rivivere in questo evento degli anni ’90. E I fratelli Karamazov – fermi per ora alla seconda puntata, escludendo il processo, sono un bis più dialogato data la natura del testo, con qualche ombra data dall’enormità dell’assunto, ma in grado di condurre il lungo tragitto ronconiano tra le imprese impossibili al traguardo, dall’ostilità un po’ sospettosa che ne ha bollato per anni l’imprevedibilità, a riconoscere in lui un grande narratore del nostro tempo.

Krejca

Folgorato dagli spettacoli di E.F. Burian, a diciannove Otomar Krejca anni decide di fare l’attore. Durante la guerra entra in una compagnia di giro, ma la sua gavetta dura poco: nella stagione 1946-47 comincia a lavorare con Jirí Frejka, direttore del Teatro municipale di Praga, per il quale interpreta Cirano , Prometeo incatenato e Macbeth . Presto la vocazione di attore si spegne, per far luogo a quella di regista. Nel 1949 K. mette in scena il primo testo, La moneta falsa di Gor’kij; il successo dell’allestimento gli permette di approdare nel 1951 al Teatro nazionale, dove dal 1956 è direttore artistico. Qui, assieme a Karel Kraus, avvia un’opera di svecchiamento della tradizione, commissionando la scrittura di nuovi testi a Josef Topol, Frantisek Hrubín e Milan Kundera (I proprietari delle chiavi, 1962). Ma, accanto al rinnovamento e all’anticonformismo, affiora in Otomar Krejca la necessità di rompere i rigidi vincoli dell’ideologia; la scelta è naturalmente avversata dal regime, che lo costringerà a dimettersi dall’incarico. Senza perdersi d’animo, nel 1963 K. presenta La festa in giardino di Václav Havel, prima pièce dello scrittore, che diventerà uno dei protagonisti della Primavera di Praga e poi presidente della Repubblica dopo la `rivoluzione di velluto’ del 1989. Nel 1965, assieme ai suoi più stretti collaboratori, tra i quali lo scenografo Josef Svoboda, apre una piccola sala, il teatro Za branou (`dietro la porta’), che presto diventerà uno dei focolai del dissenso. Nel 1968, con la `normalizzazione’, a Krejca viene tolta la direzione del teatro; gli è anche proibito lavorare all’estero.

Si rifugia così nei classici e comincia quel lungo e straordinario confronto con Beckett, Shakespeare e soprattutto Cechov che avrà risonanza internazionale e segnerà tutta la sua carriera, in patria e fuori. Dopo forti pressioni dall’estero, Krejca può lasciare il suo Paese; comincia un esilio artistico che lo porta prima a dirigere il teatro di Düsseldorf e poi a collaborare con le più importanti istituzioni europee. Del grande autore russo interpreta in varie edizioni Il gabbiano (Bruxelles 1966, Stoccolma 1969, Praga 1972, Parigi 1980), Tre sorelle (Praga 1966), Il giardino dei ciliegi (Düsseldorf 1976, Berlino 1987, Stoccolma 1988), Platonov (Stoccolma 1979); di Beckett riprende in varie lingue Aspettando Godot (Salisburgo 1970, Avignone 1978). Particolarmente intensa la collaborazione di K. con il Teatro stabile di Genova, dove ha allestito Tre sorelle (1984), Terra sconosciuta di Schnitzler (1985, prima italiana) e La signorina Giulia di Strindberg (1986): saggi maturi di quel suo realismo poetico, essenziale e rigoroso da cui scaturisce un grande impatto emotivo, che supera i confini delle lingue e delle culture. Nel 1991, dopo il crollo del muro di Berlino, è tornato in patria dove ha rifondato il Za branou, riprendendo il dialogo interrotto con la propria comunità. Tra le sue ultime messe in scena, ancora Beckett (con un nuovo allestimento di Aspettando Godot , 1991), l’ Antigone di Sofocle (Comédie-Française, 1992), L’uomo difficile di Hofmannsthal (1993) e I giganti della montagna di Pirandello (1994).

Pintilie

Dopo aver studiato all’Istituto di arte di Bucarest Lucien Pintilie si fa notare con l’allestimento de I figli del sole di Gor’kij, nel 1961, al teatro ‘Lucia Sturdza Bulandra’. Negli anni successivi nello stesso teatro vengono rappresentati: Cesare e Cleopatra di G.B. Shaw (1963); Biedermann e gli incendiari di M. Frisch (1964); Il gabbiano di Cechov (1967); L’ispettore generale di Gogol’ (1972). Con questi spettacoli P. contribuisce al rinnovamento del teatro romeno, nella convinzione che la messa in scena della realtà – senza ricorrere ad alcuna stilizzazione simbolica – sia di per sé significativa. Dalla metà degli anni ’70 è a Parigi, al Théâtre de la ville, che mette in scena i suoi spettacoli; fra questi, Il gabbiano di Cechov (1975); Biedermann e gli incendiari di M. Frisch (1976); Jacques o la sottomissione e L’avvenire è nelle uova di Ionesco (1977); Gli ultimi di Gor’kij (1978); Tre sorelle di Cechov (1979); Le coefore di Eschilo (presentato al Festival d’Avignone, 1979); L’anatra selvatica di Ibsen (1981, di cui cura anche l’adattamento in francese); L’albergo dei poveri di Gor’kij (1982); Il flauto magico di Mozart (a Aix-en-Provence, 1982); Carmen di Bizet (a Cardiff, Galles, 1983); Tartufo di Molière (a Minneapolis, 1984); Questa sera si recita a soggetto di Pirandello (1987); Danza di morte di Strindberg (1990); Scènes de Carnaval di I.L. Caragiale (al Théâtre des Nations di Parigi, 1992).

Patroni Griffi

Trasferitosi a Roma alla fine della seconda guerra mondiale, Giuseppe Patroni Griffi fa parte di quel gruppo di letterati e intellettuali napoletani che elessero la capitale a loro luogo di lavoro, conducendosi appresso comunque tutti i caratteri della loro origine. Infatti il teatro di Patroni Griffi, prevalentemente di intreccio borghese, porta sulla scena gli aspetti più evidenti e profondi della napoletanità. Un esempio in questa direzione è rappresentato da In memoria di una signora amica (1963), dove la categoria della donna partenopea diventa un tipo universale: è esaltata la capacità di adattamento alle situazioni, anche le più difficili e impensabili. Prima di questo testo, Patroni Griffi aveva comunque già conosciuto il successo nel 1958 con D’amore si muore , suo lavoro d’esordio, scritto appositamente per la Compagnia dei Giovani. Ancora continuando il filone dedicato a Napoli e alla sua umanità, va ricordato Persone naturali e strafottenti (1974), nel quale si mette in scena la vita di quattro reietti di Piedigrotta e, attraverso un allestimento di stampo classico, ma dalla lingua viva e colorita, viene rappresentata prima di tutto la loro lotta contro un destino di rassegnazione.

Discussioni intellettuali, riferimenti all’attualità, intrecci amorosi inseriti in un impianto realistico connotano la produzione di Patroni Griffi Con Metti una sera a cena (1967, di due anni successivo è il film tratto dalla commedia), l’ipocrisia degli affetti borghesi trova la sua rappresentazione nella messa in scena delle passioni d’amore di una coppia, il cui vincolo d’unione rimane però indissolubile. Queste caratteristiche si trovano ulteriormente evidenziate ne Gli amanti dei miei amanti sono i miei amanti (1984), dove la protagonista Paloma, cantante lirica di successo, concede le sue grazie in un ambiente dove la chiacchiera salottiera la fa da padrona. Fra gli altri titoli: Lina e il cavaliere (1958), Anima nera (1960), Un aeroporto troppo distante (1966), Prima del silenzio (1979), Cammuriata (1983).

Da ricordare inoltre le regie eleganti, taglienti e frizzanti, che Patroni Griffi ha firmato in collaborazione con lo scenografo A. Terlizzi. Al cinema ha lavorato con V. Zurlini, A. Lattuada e F. Rosi. Al teatro stabile di Trieste, dal 1982 al 1988 si dedica all’allestimento della trilogia pirandelliana consacrata al `teatro nel teatro’; successivamente la sua ricerca si volge all’opera di T.S. Eliot, A. Cechov e C. Goldoni. Nel 1989 fonda una propria compagnia e trasferisce a Roma la sede del proprio lavoro (Teatro Giulio Cesare): l’intenzione è quella di approfondire la ricerca con giovani attori e di rendere più fluido l’accostamento ai testi. Fra gli spettacoli allestiti con il nuovo gruppo da ricordare, nel 1995, Romeo e Giulietta . Non va dimenticata inoltre la sua attività di narratore, con un esordio che anticipava tematiche pasoliniane, Ragazzo di Trastevere (1955), cui hanno fatto seguito i romanzi Scende giù per Toledo (1975), La morte della bellezza (1987) e i racconti Gli occhi giovani (1977).

Savary

Figlio di uno scrittore e della figlia di Frank Higgins, governatore dello stato di New York, Jérôme Savary compie studi artistici e musicali a Parigi. A diciannove anni si trasferisce a New York, dove frequanta gli ambienti del jazz e conosce artisti come Lenny Bruce, Count Basie, Thelonius Monk. Di ritorno in Francia incontra Lavelli, Copi, Arrabal che influenzeranno notevolmente le sue scelte artistiche successive. Nel 1965 fonda la Compagnia Jérôme Savary, che diventerà, nel 1968, il Grand Magic Circus et ses animaux tristes. Dal 1982 al 1985 dirige il Centre Dramatique du Languedoc-Roussillon e nel 1986 è nominato direttore del Carrefour Européen du Théâtre di Lione, che lascia nel 1988 per la direzione del Théâtre du Chatillon di Parigi. Regista particolarmente attivo, dotato di grande creatività, immaginazione e respiro internazionale, Savary esordisce in teatro nel 1969, con Os Montros a San Paolo, in Brasile; poi, nel 1977 firma la regia di Leonce e Lena di Büchner, allo Schauspielhaus di Amburgo.

Tra i numerosi lavori si ricordano Peccato che sia una puttana , di John Ford (1980, Schauspielhaus di Bonn e 1997 Théâtre National Chaillot); Cyrano di Bergerac di Rostand (1983, Theatre Mogador e 1997, Theatre National Chaillot); D’Artagnan dello stesso Savary (1988, Théâtre National Chaillot, poi al Théâtre Mogador; 1989, Schiller Theater di Berlino); Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (1990 al Festival d’Avignone); La resistibile ascesa di Arturo Ui (1993) e Madre Coraggio (1995) di Brecht; Il borghese gentiluomo di Molière (1996). Intensa la sua attività anche nella lirica (tra le sue regie: L’histoire du soldat di Stravinskij alla Scala, 1982; Don Giovanni di Mozart, all’Opera di Roma, 1984; Le comte Ory di Rossini all’Opera di Lyon, 1988; Attila di Verdi, alla Scala, 1991; Rigoletto di Verdi all’Opera Bastille e La Cenerentola di Rossini, all’Opera Garnier di Parigi, 1996), nell’operetta e nel teatro musicale ( Cabaret , 1986-1998; Asterix , 1988; Zazou , 1990; Marilyn Montreuil , 1991; A drum is a woman , 1996; Y’a d’la joie , 1997). Di rilievo, naturalmente gli spettacoli firmati per il Grand Magic Circus: dal primo, Les Boites et L’Invasion du vert olive (1965), fino a Nina Stromboli (1995).

Salvini

Giudo Salvini studiò giurisprudenza e musica all’università e al Conservatorio di Padova. Tra il 1925 e il 1927 collaborò con il Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello; tra l’altro, guidò la compagnia in una fortunata tournée all’estero, e successivamente (a Praga, Vienna e Budapest) allestì con attori locali testi di Pirandello e Bontempelli. Al ritorno in Italia firmò regie di spettacoli di prosa, lirica e balletto, curando spesso anche la scenografia. Nel 1930 costituì una compagnia di giovani (formata da R. Ricci, C. Ninchi, E. Biliotti, B. Starace Sainati, P. Cei) con cui mise in scena la prima versione italiana di Questa sera si recita a soggetto. Nel 1933 fu direttore dell’allestimento scenico e responsabile del settore prosa alla prima edizione del Maggio musicale fiorentino, invitando, per la prima volta in Italia, Max Reinhardt e Jacques Copeau. Organizzatore di grandi spettacoli all’aperto in luoghi particolarmente suggestivi (Giardino di Boboli), sostenne la creazione di un teatro nazionale e di teatri stabili, istituzioni ritenute in grado di formare adeguatamente gli attori italiani. Tra il 1938 e il 1944 insegnò regia all’Accademia d’arte drammatica e, dal 1950 al 1952, diresse la compagnia del Teatro Nazionale. Salvini, oltre a curare il repertorio classico, fu attento valorizzatore della drammaturgia contemporanea. I suoi allestimenti furono molto apprezzati anche all’estero.

Torta

Carlina Torta esordisce nel gruppo Teatro del Sole per poi fondare, a metà degli anni ’80 con A. Finocchiaro, la compagnia Panna acida, che realizza spettacoli come Scala F, Viola, Maldimare, in scena al Teatro Verdi di Milano. Nella stagione 1988-89 scrive e dirige Lucertole ; nel 1996 allestisce Manicomio primavera, ispirato a un racconto dell’omonimo libro di Clara Sereni, in cui, ha detto l’attrice, «c’è il senso della vita come l’ho espressa nel mio teatro: dolore e piacere, sofferenze e gioia». Nella stagione 1997-98 è nel Re Lear di Shakespeare, con la regia di A. R. Shammah.

Crivelli

Attivo in campo nazionale e internazionale, Filippo Crivelli da anni collabora con i maggiori enti lirici in Italia e con importanti teatri stranieri. Ha collaborato a lungo con la Rai, realizzando trasmissioni dedicate a cantanti come Milly e Milva, radiodrammi, sceneggiati e programmi radiofonici. Tra gli spettacoli di prosa si ricorda L’Orestea di Gibellina di Emilio Isgrò (1983-85), da Eschilo, con le macchine sceniche di Arnaldo Pomodoro, realizzata all’aperto sulle rovine di Gibellina; ha inoltre riproposto, dopo anni di oblio, i testi teatrali di Achille Campanile (Manuale di teatro , 1976). Il suo nome è legato alla ripresa del Ballo Excelsior di Manzotti e Marenco (Firenze, Maggio musicale 1967), con la coreografia di Ugo Dell’Ara e le scene e i costumi di Giulio Coltellacci; lo spettacolo, dopo la ripresa scaligera del 1975, si replica ancora oggi nei maggiori teatri italiani. Al Teatro alla Scala ha recentemente curato la regia di La fille du régiment di Donizetti (1996), restituita in tutta la sua preziosa verve; del compositore bergamasco ha allestito ben diciannove titoli, ricevendo nel 1993 il premio Donizetti e, precedentemente, il premio Illica per la sua attività nel teatro d’opera. È considerato tra i più eleganti registi d’operetta (sei edizioni di La vedova allegra di Lehár, e Al Cavallino bianco di Benatzky, Parata di primavera di Stolz, Il pipistrello di Strauss, The Mikado di Gilbert e Sullivan). Firma la regia di numerosi spettacoli di canzoni, di cabaret e recital per Milly, Laura Betti, Ornella Vanoni, Maria Monti, Rosalina Neri, Valentina Cortese, Tino Carraro, Milva. A C. sono inoltre legate le diverse e numerose edizioni di Milanin Milanon , spettacolo dedicato a Milano attraverso le sue poesie e le sue canzoni, scritto con Roberto Leydi (1963). Sempre con Leydi ha scritto Bella ciao, spettacolo di canzoni popolari presentato al festival di Spoleto nel 1964. Collabora da anni con il Teatro della Tosse di Genova, per cui ha curato la regia di Dodici Cenerentole (adattamento da Dodici Cenerentole in cerca d’autore di Rita Cirio e Emanuele Luzzati; 1991), Gilbert & Sullivan & Company , Il conte Chicchera di Goldoni (1993) e Voilà Labiche (1995), riduzione da Il cappello di paglia di Firenze di Labiche. Nel 1993 ha realizzato per la Rai i Mémoires di Goldoni in edizione integrale radiofonica. È tra quei registi della scena italiana che si sono misurati con ogni forma di teatro, dai monologhi all’opera lirica, dalla tragedia all’operetta, dagli spettacoli di canzoni popolari alla commedia brillante. Esperienza e creatività, tecnica e precisione formale fanno di Crivelli una presenza importante del teatro in Italia.

Strehler

Giorgio Strehler ovvero il Regista, scritto proprio con la maiuscola, allo stesso modo in cui lui scrive e pensa al Teatro: come a una sfida iperbolica, a un diorama, a un palcoscenico in cui si concretizza l’immagine del mondo dove, in punta di piedi, i grandi signori della scena, ai quali di diritto appartiene, possono dialogare con il popolo dei personaggi e, attraverso di loro, con gli spettatori. Accanto a questo modo `regale’ di intendere il teatro, che fa di lui il vero erede di Max Reinhardt (l’ultimo dei registi demiurghi, peraltro ammirato da bambino), Strehler ne ha sempre avvicinato un altro più severo, quasi giansenista, che si era incarnato nella tradizione di Copeau e di Jouvet, dove il regista – questa volta con la minuscola, ma non perché sia meno importante – parte dal presupposto che tutto è nel testo e che quanto è già stato detto e scritto può essere mediato, incarnato, dall’Attore, non a caso scritto con la maiuscola. Questi due modi di intendere la regia si rendono evidenti esemplarmente in due fra i suoi ultimi spettacoli – Faust frammenti, al quale lavora ininterrottamente dal 1988 al 1991, recitando anche nel ruolo del titolo, e Elvira o la passione teatrale (1987) – e hanno trovato la possibilità di svilupparsi anche grazie alle sue ascendenze familiari. S. nasce infatti a Barcola, un paesino vicino a Trieste, in una famiglia in cui si intrecciano lingue e culture.

Suo nonno è musicista (anche Giorgio studierà musica e direzione d’orchestra) e di cognome fa Lovric; sua nonna è francese e si chiama Firmy, cognome che il nipote prenderà quando firmerà le prime regie durante l’esilio svizzero. Suo padre, Bruno, muore giovanissimo, quando il figlio ha poco più di due anni; la madre, Alberta, è un’apprezzata violinista. Il giovane S. cresce così in un’atmosfera artisticamente `predestinata’, e in un ambiente a forte matrice femminile. Questa immersione nel femminile gli sarà utile nel disegnare le sue protagoniste, e lo renderà impareggiabile nel rendere sensibile il mistero e l’incanto, ma anche il bugiardo silenzio delle sue eroine. Da ragazzino Strehler si trasferisce con la madre a Milano, dove compie gli studi prima al convitto Longone e poi al liceo Parini, fino a frequentare l’università, facoltà di legge; ma fin da adolescente, accanto allo studio, coltiva l’amore per il teatro, frequentato anche (dice la sua leggenda) come claqueur . Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dove trova il suo maestro di elezione in Gualtiero Tumiati.

Le sue prime prove fuori dalla scuola sono da attore, nel gruppo Palcoscenico di Posizione a Novara e anche alla Triennale, in un testo di Ernesto Treccani. Ma già qui, a soli ventidue anni, pensa che il teatro italiano, allora dominio degli ungheresi e dei falsi dottori, abbia bisogno della scossa salutare e demiurgica della regia. Lo scrive in un articolo del 1942, Responsabilità della regia , pubblicato su “Posizione”: fondamentale, pur nello slancio assoluto tipico dell’epoca, per capire anche lo Strehler successivo. In quegli anni che precedono la guerra S., legato da un’amicizia fortissima a Paolo Grassi, conosciuto (come hanno sempre affermato i protagonisti) alla fermata angolo via Petrella del tram numero sei, direzione Loreto-Duomo, fa la fronda nei Guf e morde il freno. L’entrata in guerra dell’Italia lo trova militare e poi rifugiato in Svizzera nel campo di Mürren, dove stringerà amicizia, fra gli altri, con il commediografo e regista Franco Brusati. Qui, poverissimo, ma già con una grande abilità nell’usare a proprio favore le difficoltà, riesce, con il nome di Georges Firmy, a trovare i soldi per mettere in scena, fra il 1942 e il 1945, Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot, Caligola di A. Camus e Piccola città di T. Wilder.

La fine della guerra lo vede però di ritorno in Italia, ormai deciso a fare il regista. Il suo primo spettacolo, dopo la `regia’ del gruppo di cammelli alla festa per la Liberazione al Castello Sforzesco, è Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, con Memo Benassi e Diana Torrieri. Firma anche tutta una serie di regie d’occasione per compagnie famose, senza crederci troppo, e torna a recitare in Caligola di Camus (che ha spesso fra i suoi spettatori un altro signore della scena, Luchino Visconti), dove dirige Renzo Ricci e riserva a se stesso il ruolo di Scipione. Nel frattempo è stato anche critico teatrale per “Momento sera”, senza mai rinunciare però al sogno, condiviso con Paolo Grassi, di costruire dal nulla un teatro diverso. L’occasione sarà la fondazione nel 1947 del Piccolo Teatro della Città di Milano: primo stabile pubblico italiano, che aprirà i suoi battenti il 14 maggio, con l’andata in scena di L’albergo dei poveri di Gor’kij, dove S. riserva a sé il ruolo del ciabattino Aljosa. Questo spettacolo, che riesce a coagulare buona parte della compagnia che per alcuni anni sarà stabile al Piccolo e che avrà le sue punte in Gianni Santuccio, Lilla Brignone e Marcello Moretti, ha avuto un anno prima un’`anticipazione’ in Piccoli borghesi di Gor’kij, andato in scena con la regia di S. e l’organizzazione di Paolo Grassi all’Excelsior.

Alla fondazione del Piccolo corrisponde anche la prima regia operistica di Strehler, unaTraviata alla Scala destinata a lasciare il segno. Dal 1947, però, gli sforzi maggiori di Strehler (prima regista stabile, poi direttore artistico, poi direttore unico) sono essenzialmente per il Piccolo Teatro, dove dirige spettacoli che appartengono alla storia del teatro e della regia. All’interno di questa storia, che potremmo definire positivamente eclettica, si può tuttavia rintracciare una costante: l’interesse per l’uomo in tutte le sue azioni. Questa scelta, che Strehler perseguirà per tutta la vita, è un atto di fedeltà alle ragioni profonde dell’esistenza di cui si fa portatore Satin, uno dei protagonisti dell’Albergo dei poveri : «Tutto è nell’uomo». E, in questo suo porre l’uomo sotto la lente d’ingrandimento del suo teatro, ecco venire alla luce alcuni rapporti che gli interessano: l’uomo e la società, l’uomo e se stesso, l’uomo e la storia, l’uomo e la politica. Scelte che si riflettono a loro volta nella predilezione per alcuni autori chiave, veri e propri compagni di strada nel lavoro teatrale del grande maestro (anzi `Maestro e basta’, come è stato chiamato): Shakespeare soprattutto, ma anche Goldoni, Pirandello, la drammaturgia borghese, il teatro nazional popolare di Bertolazzi, Cechov e, nei primi anni, la drammaturgia contemporanea; Brecht gli rivela un diverso approccio al teatro, alla recitazione, una `via italiana’ all’effetto di straniamento.

All’interno di questi autori, pur non potendo entrare nel merito delle più di duecento regie da lui firmate, sono enucleabili alcuni spettacoli guida: Riccardo II (1948), Giulio Cesare (1953), Coriolano (1957), Il gioco dei potenti (1965), Re Lear (1972), La tempesta (1978) per Shakespeare; Arlecchino in tutte le sue versioni (a partire dal 1947), lo spettacolo italiano più visto nel mondo e quello di più lunga vita, La trilogia della villeggiatura (1954), Le baruffe chiozzotte (1964) e Il campiello (1975) per Goldoni; Platonov (1959) e Il giardino dei ciliegi (1955 e 1974) per Cechov; le diverse edizioni de I giganti della montagna (1947, 1966, 1994) e Come tu mi vuoi (1988) per Pirandello; El nost Milan (1955 e 1979) e L’egoista (1960) per Bertolazzi; La casa di Bernarda Alba di García Lorca (1955) e, soprattutto, Temporale di Strindberg (1980) per la drammaturgia borghese; La visita della vecchia signora di Dürrenmatt (1960), La grande magia di Eduardo De Filippo (1985) per la drammaturgia contemporanea; L’opera da tre soldi (1956), L’anima buona di Sezuan (1958, 1981 e 1996), Santa Giovanna dei macelli (1970) e soprattutto Vita di Galilei (1963) per Brecht.

Ma, all’interno di una produzione stupefacente, a venire in primo piano è il lavoro sui segni del teatro (le scene, le atmosfere, le sue inimitabili luci, e quella capacità prodigiosa nel saper ricreare, con apparente leggerezza, situazioni di altissima poesia) e lo scavo esigente, duro, mai soddisfatto sulla recitazione, che trova il suo vertice nel vero e proprio corpo a corpo che egli instaura con gli attori: un vero esempio di maieutica; e, per chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue prove, l’epifania di un metodo teatrale. La storia di Strehler, scandita dall’aprirsi e dal chiudersi dei sipari, si svolge eminentemente al Piccolo Teatro, ma non solo: nel 1968 abbandona via Rovello per fondare un suo gruppo, il Teatro Azione, su basi cooperativistiche; con questo gruppo presenta La cantata del mostro lusitano di P. Weiss (1969), spettacolo anticipatore di un teatro concettualmente `povero’, e Santa Giovanna dei macelli (1970), che sigla il suo ritorno ‘a casa’.

Ma Strehler ha anche diretto il neonato Teatro d’Europa, voluto da Jack Lang e da Françoise Mitterrand a Parigi. Del resto il suo cursus honorum è lunghissimo: parlamentare europeo, senatore della Repubblica, un lungo elenco di onorificenze, fra cui l’amatissima Legion d’onore; ma gli ultimi anni sono segnati dall’amarezza per un processo che lo vedrà, alla fine, innocente. È morto nella notte di Natale; le sue ceneri riposano a Trieste, nel cimitero di sant’Anna, nella semplicissima tomba di famiglia. Notevole l’apporto registico di Strehler all’opera lirica, favorito dalla conoscenza della musica e dalla «abilità di saper svecchiare i gesti inseparabili e tradizionali dei cantanti».

Delle tantissime regie, da ricordare le partecipazioni al Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia (Lulu di A. Berg, 1949; La favola del figlio cambiato di G.F. Malipiero, 1952; L’angelo di fuoco di S. Prokof’ev, 1955), al Maggio musicale fiorentino ( Fidelio di Beethoven, 1969), al Teatro alla Scala (fin dalla primavera del 1946 con Giovanna d’Arco al rogo di A. Honegger, con Sarah Ferrati), almeno per il Verdi, oltre che della già citata Traviata , del Simon Boccanegra (1971), del Macbeth (1975) e del Falstaff (1980); e di Mascagni, della lodatissima Cavalleria rusticana diretta da Karajan (1966); alla Piccola Scala per L’histoire du soldat di I. Stravinskij (1957), Un cappello di paglia di Firenze di N. Rota (1958) e Ascesa e caduta della città di Mahagonny di K.Weill (1964); oltre al lavoro sul prediletto Mozart, condotto attraverso Il ratto dal serraglio (1965) e Il flauto magico (1974) al festival di Salisburgo, Le nozze di Figaro a Parigi (1973), Don Giovanni alla Scala (1987) e la soave leggerezza di Così fan tutte, inno all’amore e alla giovinezza: più che un testamento, un ponte (anche se dall’impalcatura ancora scoperta, a causa dell’improvvisa scomparsa a pochi giorni dalla prima) gettato fra il lavoro di cinquant’anni e il nuovo secolo (per il teatro milanese nella nuova sede e per chi è rimasto e può raggiungerlo ormai solo col ricordo).

Avogadro

Mauro Avogadro frequenta l’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ negli anni 1971-74. Dal 1974 al 1976 lavora nella compagnia Valli-De Lullo ( Il malato immaginario di Molière, Tutto per bene di Pirandello, Terra di nessuno di Pinter). Parallelamente inizia a collaborare con L. Ronconi, partecipando all’allestimento di molti dei suoi spettacoli (tra cui Utopia da Aristofane, Spettri di Ibsen, La commedia della seduzione di Schnitzler, La torre di Hofmannsthal e Calderòn di Pasolini al Laboratorio di Prato; Tre sorelle di Cechov e, per il Teatro stabile di Torino, Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, L’uomo difficile di Hofmannsthal, Misura per misura di Shakespeare, Venezia salva di Simone Weil). Nel 1987 inizia la sua attività di regista allestendo con la sua compagnia, l’Associazione Culturale Isola, L’histoire du soldat di Stravinskij, Sogno di un tramonto d’autunno di D’Annunzio-Malipiero, Fuochi freddi da Lunaria di Vincenzo Consolo. Con la stessa associazione, per il festival di Borgio Verezzi, nel luglio del 1994, ha curato la regia della commedia Il cavaliere e la dama di Goldoni, con Annamaria Guarnieri e, nell’aprile del 1994, ha messo in scena lo spettacolo I ciechi di Maeterlinck. Ha curato inoltre la regia degli spettacoli Pasiphae di H. de Montherlant, Il viaggiatore di Amiel , Alcassino e Nicoletta di Bruno Cerchio e Piero Ferrero, Pasolini , viaggio in Grecia di F. De Melis e Battaglia di dame di Scribe. Si è cimentato nell’opera lirica curando la regia dell’ Arlesiana di Bizet (1994) per l’Opera di Roma, Le convenienze e le inconvenienze teatrali di Donizetti (1995), Il corsaro di Verdi (1996). Per il Teatro stabile di Torino ha messo in scena lo spettacolo L’onorevole Ercole Malladri di Giacosa (1995), Nella tua breve esistenza di Ada e Piero Gobetti e Pelléas e Mélisande di Maeterlinck (1996). Dal 1996 è direttore artistico del festival di Chieri. Dal 1991 insegna recitazione alla scuola del Teatro stabile di Torino e dal 1997 ne è direttore didattico.

Stanislavskij

Figlio di un facoltoso industriale, Konstantin Sergeevic Stanislavskij frequenta fin dall’infanzia teatri e circhi moscoviti; inoltre sia nella tenuta di Ljubimovka, vicino a Mosca, sia nella casa di città, la famiglia possiede due teatrini privati dove Stanislavskij con i fratelli organizza spettacoli amatoriali, soprattutto operette e vaudeville. Nasce così il ‘circolo Alekseev’, molto apprezzato nella buona società moscovita, dove comincia la lunga carriera di Stanislavskij attore e regista dilettante: una carriera lunghissima, più che ventennale, che dura dal 1877 (inaugurazione del teatrino di Ljubimovka) fino al 1898 (apertura del Teatro d’Arte). Frequenta per breve tempo la scuola d’arte drammatica dei teatri imperiali, prende lezioni di canto da F. Komissarzevskij, ma capisce presto che la vera scuola sono le tavole del palcoscenico e partecipa perciò molto attivamente a spettacoli filodrammatici in circoli e associazioni diverse, scegliendosi lo pseudonimo di Stanislavskij.

Nel 1888 con il regista Fedorov, il cantante Komissarzevskij e il pittore F. Sollogub fonda la ‘Società d’arte e di letteratura’, che è insieme club di amatori delle arti, scuola e circolo filodrammatico: Stanislavskij interpreta alcuni ruoli molto importanti (il Barone ne Il cavaliere avaro di Puškin, Sotenville in Georges Dandin di Molière, Ananij Jakovlev in Amaro destino di Pisemskij, Ferdinando in Amore e raggiro di Schiller, Paratov in Senza dote di Ostrovskij e Otello). Fra le attrici scritturate c’è la giovane Lilina, che diventa sua moglie nel 1889 e gli rimarrà accanto tutta la vita, interpretando ruoli di primo piano in molti spettacoli da lui diretti. Oltre che interprete sempre più apprezzato da critica e pubblico, Stanislavskij è anche regista: grande interesse suscita I frutti dell’istruzione di L. Tolstoj (1891), dove viene approfondito con coraggio il tema sociale (ne scrive entusiasta un critico che di lì a poco si unirà a Stanislavskij nell’impresa del Teatro d’Arte, Vladimir Nemirovic-Dancenko), a cui seguono Uriel Acosta di Gutzkow (1895), Otello di Shakespeare (1896), Senza dote di Ostrovskij, L’ebreo polacco di Erckmann (1896), La campana sommersa di Hauptmann (1898).

Nel 1890 è in tournée a Mosca la compagnia tedesca del duca di Meiningen: Stanislavskij è colpito dalla ferrea disciplina ottenuta dal regista nel lavoro con gli attori, dalla perfezione delle scene di massa, dalla ricercatezza di ambienti e costumi, tutti elementi che Stanislavskij cerca di introdurre nel suo lavoro. Una svolta nella vita di Stanislavskij segna l’ormai leggendario incontro con il critico Nemirovic-Dancenko del 21 giugno 1897: in un colloquio durato quindici ore pongono le basi della futura collaborazione e tracciano le linee del loro programma. Viene decisa la fondazione del Teatro d’Arte, con una compagnia formata da elementi della Scuola dove insegna Nemirovic (I. Moskvin, O. Knipper, Vs. Mejerchol’d ecc.) e da attori della Società guidata da  (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem ecc.). Precise sono le competenze: Nemirovic, scrittore e amico di scrittori, si assume il compito di guidare il nuovo teatro nelle scelte di repertorio; Stanislavskij, più esperto in campo registico, ha la responsabilità del settore artistico.

Ogni consuetudine, in atto da decenni nei maggiori teatri russi, viene rivoluzionata: priorità della figura del regista nei confronti della compagnia; nessuna distinzione tra ruoli («Oggi Amleto, domani comparsa, ma sempre allo stesso livello artistico»); lunghi periodi di prove (invece delle quattro, cinque tradizionali), prima a tavolino poi in scena, con dettagliata disamina del testo, dell’ambiente culturale dell’autore, del periodo storico ecc.; accurata preparazione di scenografie e costumi studiati per ogni singolo spettacolo, al posto di inerti fondali e costumi di repertorio; abolizione della musica generica in apertura di spettacolo e negli intervalli; collaborazione stretta e continua tra tutti i collaboratori allo spettacolo («L’autore, l’attore, il pittore, il sarto, l’operaio devono servire all’unico fine posto dall’autore alla base della sua opera»). Stanislavskij, per facilitare e insieme rendere più rigoroso il lavoro degli attori, prepara per ogni spettacolo note precise a ogni singola battuta, con i movimenti di chi la pronuncia e di chi la ascolta, e indicazione di intonazione: i suoi copioni di regia, oggi in gran parte pubblicati, testimoniano la straordinaria cura e intelligenza del lavoro preparatorio per ogni spettacolo.

Il Teatro d’Arte si inaugura il 14 ottobre 1898 con Lo zar Fëdor Ioannovic di A. Tolstoj, che suscita meraviglia per la precisione naturalistica, la ricchezza di scene e costumi, l’intensità d’interpretazione dell’intera compagnia. Il primo testo di argomento contemporaneo (e anche il primo in cui Stanislavskij e Nemirovic collaborano alla regia) è Il gabbiano di Cechov: Nemirovic riesce a vincere le resistenze dell’autore (due anni prima era stata un fiasco al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo) e lo spettacolo nella nuova edizione ottiene un trionfo, diventa simbolo della rivoluzione operata dal Teatro d’Arte. Da allora tutti i nuovi lavori di Cechov vanno in scena al Teatro d’Arte con immutato successo: Zio Vanja (1899), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904). Nella sua autobiografia S. divide le regie dei primi anni in diverse linee: la linea storica (La morte di Ivan il Terribile di A. Tolstoj, 1899; lavori di Shakespeare, Hauptmann), la linea della fantasia (La fanciulla di neve di Ostrovskij, 1900; L’uccellino azzurro di Maeterlinck, 1908), la linea del simbolismo e dell’impressionismo ( L’anitra selvatica , 1901 e Spettri , 1905 di Ibsen; Il dramma della vita di Hamsun, 1907; La vita dell’uomo di Andreev, 1907), la linea dell’intuizione e del sentimento (oltre ai lavori di Cechov, Un mese in campagna , 1909 e i vaudeville, 1912, di Turgenev), la linea social-politica (soprattutto i lavori di Gor’kij: Piccoli borghesi e Bassifondi , 1902 e I figli del sole , 1905).

Nel 1905, insoddisfatto del sistema di lavoro fino allora attuato, pronto a tentare nuove vie ma convinto dell’impossibilità di sperimentarle in un teatro con spettacoli giornalieri, prove per tutto il giorno, bilancio rigidamente calcolato, fonda uno Studio (chiamato di via Povarskaja, dal nome della via dove ha sede) e chiama a dirigerlo un suo attore, divenuto regista lontano dal Teatro d’Arte, Vsevolod Mejerchol’d: con lui rivoluziona il sistema di prove, elimina la lettura a tavolino, va direttamente in scena e studia nuove soluzioni insieme agli attori, con improvvisazioni, ricerche sulla gestualità. La morte di Tintagiles di Maeterlinck, spettacolo che dovrebbe inaugurare lo Studio, non soddisfa Stanislavskij che decide di chiudere l’esperimento; ma la spinta verso un rinnovamento sia del metodo di lavoro sia del repertorio rimane.

Comincia in questi anni le prime ricerche sul `sistema’ (vedi sistema stanislavskiano): come far sì che la parte, ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori? Stanislavskij pone le basi di un nuovo lavoro dell’attore su se stesso e sulla parte; lavoro sia interiore, sulla psiche, sia esteriore, sulla gestualità. Intanto l’esperimento fallito dello Studio lascia tracce: Stanislavskij rivolge l’attenzione a un diverso tipo di testi, soprattutto simbolisti (Hamsun, Andreev), allontanandosi dall’eccessivo psicologismo e dal naturalismo delle messinscene cechoviane e gorkiane. Il tentativo di una maggiore `convenzionalità’ culmina nella messinscena dell’ Amleto, in collaborazione con il regista inglese Gordon Craig (1910): collaborazione difficile, perché all’astratta concezione di una scenografia geometrica (impostata su pannelli mobili) e di attori-marionette di Craig si contrappone l’idea stanislavskiana di una scena verosimile, abitata da attori in carne e ossa.

Nel 1912 riorganizza uno Studio (il Primo Studio del Teatro d’Arte) dove, con un gruppo di giovani attori e l’aiuto di un prezioso collaboratore, L. Sulerzickij, si mette a studiare il `sistema’, ad approfondire le ricerche su voce, movimento, rapporto tra testo e psiche dell’attore. La rivoluzione d’Ottobre cambia totalmente la situazione anzitutto economica di Stanislavskij: non è più il facoltoso figlio di un ricco industriale, deve guadagnarsi da vivere con il suo lavoro di attore e regista. Inoltre accettare la nuova situazione significa cambiare il repertorio, rinnovare gli autori, adeguarsi ai radicali mutamenti nel sistema di vita e di organizzazione del teatro. S. entra in crisi (e con lui il Teatro d’Arte): non riesce a uscire dal circolo chiuso dei classici; La dodicesima notte al Primo Studio (1917) ha successo ma non va certo nella direzione del rinnovamento che ci si aspetta, la messinscena di Caino di Byron (1920) è un mezzo fiasco, quella del Revisore di Gogol’ (1921) viene lodata soprattutto per l’interpretazione del protagonista Michail Cechov (nipote del drammaturgo). Gli organi di stampa dei bolscevichi attaccano il Teatro d’Arte, decrepito monumento del vecchio regime spazzato dalla rivoluzione.

Nel 1922-24 Stanislavskij con una parte della compagnia compie una trionfale tournée in Europa e in America, che riconferma anche in patria la credibilità del Teatro d’Arte; su richiesta di un editore americano scrive La mia vita nell’arte , ampia autobiografia dove parla già ampiamente del `sistema’. Al ritorno, dopo Cuore ardente di Ostrovskij (1926), S. si apre al repertorio sovietico, senza tuttavia esporsi in prima persona (fa firmare le regie a I. Sudakov); e ottiene due successi con I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926) e Il treno blindato 14-69 di Vs. Ivanov (1927), a cui seguono Untilovsk di Leonov (1928) e I dissipatori di Kataev (1928). Ma gli spettacoli che gli riescono meglio sono ancora i classici, Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol’, Attrici di talento e ammiratori di Ostrovskij (1933). Nel 1928, in seguito a un attacco cardiaco durante una replica di Tre sorelle , smette fino alla morte di recitare e si dedica completamente alle ricerche sul `sistema’ e a qualche regia ( Molière di Bulgakov, Tartufo di Molière), la cui lunghissima gestazione gli serve più per controllare gli esperimenti sull’attore che per approdare a un vero spettacolo. La dittatura staliniana lo trasforma in un rigido simbolo del realismo in teatro, forzatamente contrapponendolo a registi d’avanguardia come Mejerchol’d, accusati di formalismo, di deviazione dalle linee di partito. Nel 1937 conclude il primo volume del suo lavoro sull’attore, Il lavoro dell’attore su se stesso (che esce pochi mesi dopo la morte, alla fine del 1938), e ha pronta una gran quantità di materiali per il seguente, Il lavoro dell’attore sul personaggio .

Vasile

Dal 1941 Turi Vasile si dedica alla composizione di drammi che affrontano problematiche religiose, con temi e argomenti legati alla cultura e alla realtà siciliana. Debutta al Teatro nazionale dei Guf di Firenze dove va in scena La procura , seguono: Arsura (1942) e l’ Orfano (1943). Nella sua vasta produzione successiva, degni di nota sono quei testi che risentono delle influenze di U. Betti e D. Fabbri: L’acqua (1948), I fiori non si tagliano (1950), I cugini stranieri (1951), Anni perduti (1954), Le notti dell’anima (1957). Negli anni alterna alla scrittura l’impegno di autore e regista televisivo e di produttore cinematografico tornando ogni tanto all’originario amore per il palcoscenico. Del 1965 è la commedia musicale Il Plauto magico , mentre degli anni ’80 sono due testi che lo riportano all’attenzione del pubblico e della critica: Lia rispondi, premio Fondi La Pastora (1984) e La famiglia patriarcale, premio Flaiano (1986). Ha scritto anche alcuni radiodrammi.

Rubini

Sergio Rubini si diploma all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’. Nel 1983 è con la Compagnia Ultimo Atelier in American Buffalo di D. Mamet con la regia di Franco Però, spettacolo in cui si trasponeva l’azione, originalmente ambientata nel Bronx, in una città del nord Italia. In seguito, recita in La stazione (1987) di U. Marino a fianco di M. Buy e E. Fantastichini, stesso cast che lo stesso Rubini utilizzerà per portare lo spettacolo al cinema, nell’omonimo film del 1990. La pellicola consentirà a Rubini, che comunque aveva già fatto un’importante apparizione ne L’intervista (1987) di F. Fellini, di cominciare una brillante carriera cinematografica che comprende quattro regie (la più recente è Il viaggio della sposa , 1997) e più di venti interpretazioni tra le quali: Una pura formalità (1994) di G. Tornatore, Nirvana di G. Salvatores (1996) e il recente L’albero delle pere (1998) di F. Archibugi.

Giannini

Ettore Giannini esordisce come regista teatrale con grande successo nel 1940 e diventa subito direttore di compagnie primarie per tutti gli anni ’40. Nel 1944-45 è direttore del servizio prosa di Radio Roma. Ha messo in scena moltissime commedie con grande eclettismo nelle scelte, che vanno da Courteline a Strano interludio di O’Neill, a ‘O voto di Salvatore Di Giacomo. Il suo spettacolo fondamentale è quel Carosello napoletano (1950) da lui scritto e diretto che, seguendo un efficace pretesto, racconta la storia di Napoli attraverso le sue canzoni. Se lo spettacolo teatrale ebbe gran successo di pubblico e di critica in Italia e in Europa, ancora maggiore notorietà e riconoscimenti ottenne il film Carosello napoletano (1954), sempre con la sua regia, premiato al festival di Cannes, che resta il vero monumento del film musicale in Italia.

Punzo

Il nome di Armando Punzo da dieci anni a questa parte si lega al lavoro della Compagnia della Fortezza composta di detenuti-attori della casa circondariale di Volterra. Nel 1988 Carte Blanche, l’associazione fondata esattamente un anno prima dallo stesso Punzo insieme ad Annet Henneman con l’intento di occuparsi di teatro, animazione e soprattutto di produrre spettacoli propri, entra per la prima volta nel carcere volterrano con un progetto di laboratorio teatrale da realizzarvi all’interno. Comincia così la collaborazione di questo piccolo teatro con un gruppo che va dai venti ai trenta detenuti, una collaborazione mai interrotta finora e concretizzatasi in diversi allestimenti tra cui La gatta Cenerentola di Roberto de Simone (1989), Masaniello (1990) e `O juorno `e San Michele (1991) di Elvio Porta, che poi scrive, appositamente per la compagnia, Il Corrente (1992). Quindi è la volta di una serie di adattamenti: Marat Sade da Peter Weiss (1993), La prigione da Kenneth H. Brown (1994), L’Eneide da Virgilio (1995), I negri da Jean Genet (1996). Del 1998, infine, è l’ Orlando furioso da Ariosto. Armando Punzo, che prima di questo viaggio all’interno della realtà carceraria aveva lavorato con il Gruppo Internazionale L’Avventura e accanto a Thierry Salmon come aiuto regista in A. da Agatha (1986), ha portato la Compagnia della Fortezza a individuare una sua precisa condizione espressiva che, nella scelta della lingua napoletana, progressivamente ampliatasi ad accogliere le inflessioni degli altri dialetti meridionali, e nella condivisione di una cultura comune spesso tragica, violenta e marginale, delinea la propria linea di sperimentazione.

Chéreau

Nato in una famiglia di artisti (il padre è un noto pittore, la madre disegnatrice), allievo al liceo Louis-le-Grand di Parigi, Patrice Chéreau si unisce subito alla compagnia formata dagli studenti di cui diventa, con Jean-Pierre Vincent (anche lui futuro regista), direttore. Per questo gruppo firma, a vent’anni, la sua prima regia, L’intervention di Victor Hugo, che lo rivela alla critica più attenta per «una vitalità teatrale che sembra inesauribile» (Bernard Dort). Inizia così il suo apprendistato registico, che culmina nel 1966 quando diventa direttore del Théâtre de Sartrouville, una città dormitorio a quindici chilometri da Parigi; qui nel 1967 mette in scena I soldati di Lenz, che lo fa conoscere anche a un pubblico internazionale e, fra l’altro, un Don Giovanni di Molière in cui il protagonista incarna la crisi dell’intellettuale moderno. Il grave deficit accumulato lo costringe ad abbandonare il teatro. Nel 1969 esce per la prima volta dai confini francesi, per dirigere un’opera di Rossini al festival di Spoleto (un’ Italiana in Algeri destinata a fare scalpore).

Subito dopo, nel 1970, firma Riccardo II di Shakespeare a Marsiglia, affiancato – come già a Spoleto – da quelli che diventeranno i suoi collaboratori fissi: lo scenografo Richard Peduzzi e il costumista Jacques Schmidt. In questo spettacolo – tutto giocato sul ruolo fatale di un re bambino omosessuale, incapace di rispettare le regole di una società che farà di tutto per liberarsi di lui – Patrice Chéreau, sull’onda di un’eccentrica colonna sonora che mescola Maria Callas a Janis Joplin, ritaglia un ruolo anche per sé. Sempre in quell’anno Paolo Grassi lo chiama al Piccolo Teatro, dove Patrice Chéreau dirige tre spettacoli: da uno sconcertante e sconvolgente Splendore e morte di Joaquín Murieta di Neruda (1970), in cui rappresenta, con un’evidenza carnale, la sua idea di `teatro politico’ come apoteosi, travestimento e derisione, al gelo brechtiano di Toller di T. Dorst, parabola di una rivoluzione fallita (1971), fino alla stupefacente Lulu (1972), il più bel Wedekind che si sia visto in Italia, dove – per raccontare la vita fatale e drammatica di una donna che porta rovina a sé e agli altri – riesce a raccogliere attorno a sé, con l’autorità di un maestro, attori come Renzo Ricci, Valentina Cortese, Tino Carraro, Alida Valli.

Intanto, fra uno spettacolo e l’altro al Piccolo, firma, sempre a Spoleto, La finta serva (1971), il suo secondo Marivaux (dopo una giovanile L’ereditiera del villaggio , festival di Nancy 1965): autore destinato a una continuità nella vita artistica di questo regista, che dirà su di lui cose definitive, fino alla strepitosa messinscena della Dispute (Parigi 1973). Intanto ha già messo in scena Massacro a Parigi di C. Marlowe (al Théâtre National Populaire di Villeurbanne, 1972), spettacolo claustrofobico giocato su di un palcoscenico invaso dall’acqua, elemento primigenio e apocalittico insieme. Sempre a Villeurbanne firma il suo unico Ibsen, Peer Gynt , con Gérard Desarthe. Dopo un periodo speso da Patrice Chéreau, fra l’altro, a rivoluzionare l’iconografia delle interpretazioni wagneriane con l’allestimento a Bayreuth de L’anello dei Nibelunghi (1976, direttore Pierre Boulez), visto come una parabola sull’ascesa e la caduta di una stirpe industriale, gli anni che seguono vedono l’ex enfant terrible dirigere, a partire dal 1982, il Teatro di Nanterre, con l’idea di farne, al tempo stesso, un’istituzione stabile e in movimento, aperta, dove si rappresenta un repertorio che si potrebbe definire eclettico, mescolando il prediletto Marivaux alla scoperta di un giovane talento – destinato a sparire troppo presto – come Bernard-Marie Koltès, di cui diventa il regista a partire dal 1983, con Negro contro cani protagonista Michel Piccoli. Un sodalizio che si sublima nelle tre edizioni di Nella solitudine dei campi di cotone , di cui due interpretate dallo stesso Patrice Chéreau.

Sempre a Nanterre mette in scena I paraventi di Genet (1983) poco prima della scomparsa dell’autore, che spesso assiste alle prove e pare condividere il lavoro del regista. Sempre a Nanterre – che apre a registi come Luc Bondy e Pierre Romans – monta il suo celebre Amleto freudiano (1988) con musiche di Prince, con Gérard Desarthe che trionfa ad Avignone e in mezzo mondo. Dopo le dimissioni dalla direzione del teatro questo artista geniale e inquieto si dedica essenzialmente al cinema dove, a partire dal 1975 con Un’orchidea rosso sangue (a cui partecipano alcuni attori della Lulu come Alida Valli, Valentina Cortese e Renzo Ricci), ha diretto con alterne fortune, fra l’altro, Judith Therpauve con Simone Signoret (1978), La regina Margot con Isabelle Adjani, Vincent Perez e Virna Lisi (1994), e il recentissimo Quelli che amano prendono il treno (1998).

Sepe

Dopo gli studi classici e una grande passione per il cinema, nel 1963, in un teatrino di un oratorio, Giancarlo Sepe cura la regia del suo testo I giorni dell’insieme. Nel 1965 il Centro di cultura russa di Roma gli affida la regia de Il revisore di Gogol’, una scelta di atti unici di Cechov insieme ad altri testi. Mentre continua la sua attività teatrale si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza e, nel 1967, fonda la Comunità teatrale italiana, con cui allestisce: Zoo di vetro di T. Williams (1967), Donna Rosita nubile di García Lorca (1969), Finale di partita di Beckett (1970), Ubu re di Jarry (1972). La sua cifra stilistica e la sua personale direzione e scrittura scenica sono riscontrabili in spettacoli quali Scarrafonata (1974), Lumière Cinématographique (1975), In albis (1976), Accademia Ackermann (1978), che lo affermano come regista e autore provocatorio e intelligente. Negli anni ’80 si alternano regie di testi classici, rivisitati criticamente, come Iliade di Omero (1980), Così è (se vi pare) di Pirandello (1982), Victor o i bambini al potere di Vitrac (1985), a scritture drammaturgiche di testi originali come Itala Film Torino (1986), L’età del jazz (1987). In seguito, in collaborazione con Mariangela Melato, allestisce Vestire gli ignudi di Pirandello, Medea di Euripide e Anna dei miracoli di W. Gibson. Altri suoi lavori sono Marionette, che passione! (1988) di Rosso di San Secondo, Processo a Gesù di D. Fabbri (1989) e nel 1991 Salomé-Lettera alla mamma da O. Wilde. L’anno dopo dirige G. Sbragia in Edipo re , spettacolo presentato al Teatro Greco di Siracusa. Ultime regie: Il marito ideale (1995) di O. Wilde, E ballando… ballando (1997), Il re muore di Ionesco (1998) e il discusso Puccini, dissacrante rivisitazione delle opere del compositore.

De Marchi

Laureato in lettere, Michele De Marchi nel 1973 debutta all’Odéon di Parigi con La pierre philosophale . Negli anni successivi interpreta: Il parlamento e Bilboa (anche regia; Biennale di Venezia, 1976); Fool , rielaborazioni di testi shakespeariani di Luca Fontana (Genova 1979); Bas-Tong, ovvero la notte delle sirene (per cui scrive le musiche e il libretto). Nel corso degli anni ha lavorato allo Stabile di Genova (Il cerchio di gesso del Caucaso di Brecht, regia di Squarzina), con Carlo Cecchi (Il borghese gentiluomo e Don Giovanni di Molière), con la regista A.R. Shammah (La vita è un canyon di A. Bianchi Rizzi e Ondine di Giraudoux, 1994) e allo Stabile di Parma (Enrico IV e Molto rumore per nulla, 1994, di Shakespeare); è stato voce recitante di Doktor Faustus di G. Manzoni alla Scala (regia di B. Wilson, 1989). Inoltre ha composto la musica di scena di diversi spettacoli, tra cui Zio Vanja di Cechov (regia di P. Stein), premiato al Festival di Edimburgo nel 1996.

Bertorelli

Toni Bertorelli debutta nel 1969 con il Bruto secondo di Alfieri, poco dopo collabora con lo Stabile di Torino, ma nello stesso anno inizia a lavorare con Carlo Cecchi: Il bagno di Majakoskij, Woyzeck di Büchner, con il quale resterà fino al 1980 interpretando numerosi classici: Molière (Don Giovanni ), Pirandello, Shakespeare, Brecht, Pinter (Il compleanno), caratterizzandoli con una recitazione originale e intensa. Seguiranno altre esperienze, con De Bosio, Caprioli, Sbragia. Interessante la sua parentesi sperimentale con M. Spreafico (1983, 1986, 1987). Nel 1990 incontra Luca De Filippo in Il piacere dell’onestà , e nel 1997 ne Tartufo di Molière con la regia di A. Pugliese. Lavora con Paolo Rossi e Giampiero Solari in Jubil&aulm;um di Tabori al Piccolo Teatro (1994). Cura la regia di Les femmes savantes di Molière (1996). Degna di nota è anche la sua attività cinematografica (con i registi: M. Martone, M. Bellocchio e M.T. Giordana).

Barsacq

André Barsacq è figura eclettica e versatile del panorama teatrale novecentesco. Debutta giovanissimo, nel 1928, accanto a C. Dullin ideando le scene e i costumi per Volpone di Ben Jonson. Dal 1930 assurge a fama internazionale e lavora con J. Copeau, per il quale firma scenografie e costumi del Mistero di Santa Uliva (1933) di anonimo e di Savonarola di R. Alessi nel 1935. L’anno successivo crea scene e costumi per il trionfale Perséphone , scritto da A. Gide e musicato da Stravinskij, all’Opéra di Parigi. Nel 1937 fonda la Compagnie des Quatre Saisons: esperienza cruciale che segna il passaggio di B. anche alla regia con Re Cervo di C. Gozzi. Dopo una significativa parentesi newyokese insieme alla sua compagnia (1937-1940), André Barsacq torna a Parigi nel 1940 in qualità di direttore dell’Atelier al posto di Dullin, carica che conserva fino alla morte. Riesce a coniugare l’impegno all’Atelier con esperienze teatrali diverse: è scenografo per Copeau nel 1943 ( Miracle du Pain Doré ), è regista per L’Invitation au Château di Anouilh (1944), autore quest’ultimo di cui André Barsacq si rivela l’interprete più fedele. Lavora anche in Italia dirigendo la compagnia di A. Pagnani (Chéri di Colette, 1951). È anche scenografo cinematografico per cineasti di vaglia quali J. Grémillon, M. L’Herbier (L’Argent , 1928; L’Honorable Catherine , 1942) e M. Ophuls (Yoshiwara , 1937). La regia cinematografica lo tenta una sola volta: Le rideau rouge (1953). Nel 1958, al fianco di Barrault, Grenier e altri, fonda il Nouveau Cartel. André Barsacq espone i suoi principi estetici in particolare in Lois scéniques , saggio del 1947, dove ritiene necessario porsi criticamente nei confronti della tradizione e ripensare ex-novo lo spazio scenico, progettandolo in modo che sala e scena siano coerentemente relazionate in una unità. Teorico del teatro quale mistero e evento magico, B. crea scene e costumi in modo che producano tale atmosfera, entrando in rapporto con il corpo vivo dell’attore. Quest’ultimo, in quanto officiante del mistero teatrale, viene spesso collocato da B. in posizione sopraelevata rispetto alla folla degli spettatori. B. si cimenta anche con la drammaturgia producendo L’Agrippa ou la Folle Journée (1947), messo in scena all’Atelier. Ispirata a una leggenda bretone, l’opera narra i guasti provocati da un ragazzo malvagio e opportunista.

Lewis

Robert Lewis si formò come attore al Group Theatre, dove debuttò come regista mettendo in scena nel 1939 le prime commedie di W. Saroyan. Nel dopoguerra si dedicò stabilmente alla regia, firmando fra l’altro due spettacoli di grande successo, il musical Brigadoon di Lerner e Loewe e la commedia di J. Patrick La casa da tè della luna d’agosto . Nel 1947 fu tra i fondatori dell’Actor’s Studio, da cui si staccò nel 1951; continuò quindi a insegnare la sua personale visione del sistema di Stanislavskij, contrapposta a quella di Strasberg, ed esposta nel volume Metodo o follia? (Method or Madness?, 1958) privatamente e in varie università.

Mendes

Sam Mendes si distingue a soli vent’anni mentre lavora per diversi teatri del circuito Fringe, e già nel 1989 si guadagna il Critic Cirle Award come regista del Minerva Studio di Chichester. Nello stesso anno approda nel West End londinese guidando Judi Dench ne Il giardino dei ciliegi di Cechov. A un elevato grado di competenza tecnica, M. affianca grande precisione e un talento naturale che lo porta in una carriera lampo a Stratford-Upon-Avon dove nel ’90 per la Royal Shakespeare Company cura la messa in scena di Troilo e Cressida con Simon Russel Beale, ottenendo un incredibile successo di critica. Nel ’91 cura la regia di L’aratro e le stelle (The Plough and the Stars) di Sean O’Casey al Young Vic e Il mare (The Sea) di Edward Bond al National Theatre. Nel ’92 celebra la riapertura del Donmar Warehouse di cui è direttore artistico e allo stesso tempo mette in scena Riccardo III per la Rsc. Nel ’93 nella gestione del programma del Donmar include la visita della compagnia di Athol Fugard, e una sua eccelente rivisitazione di Traduzioni (Translations) di Brian Friel. Nel ’98 mette in scena Otello per la Royal National Theatre Company con David Harewood, Simon Russell Beale e Claire Skinner; nello stesso tempo Natasha Richardson e Alan Cumming vincono il Tony Award a Broadway come migliori interpreti nel musical di sua produzione Cabaret.

Cobelli

Personaggio eclettico e bouleversantGiancarlo Cobelli attraversa gli ultimi cinquant’anni dello spettacolo italiano affiancando all’esperienza teatrale quella televisiva e segnalandosi al pubblico e alla critica per il suo gusto graffiante e parodistico, sovrapponendo la smorfia al sorriso disincantato e talvolta grottesco. Formatosi dal punto di vista artistico alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, a partire dal 1952, secondo l’insegnamento di Strehler e Decroux rispettivamente per la recitazione e per il mimo, ancora studente lascia un segno significativo in La pazza di Chaillot di Giraudoux, nel Revisore di Gogol’ e in Il dito nell’occhio (1953), allestito dalla compagnia Parenti-Fo-Durano. Nel 1957 il suo nervoso talento è protagonista dell’Histoire du soldat di Stravinskij, messo in scena per la regia di Strehler alla Piccola Scala. Pressoché contemporaneo è il debutto televisivo, con la partecipazione a numerosi programmi della tv dei ragazzi, che, con la creazione del personaggio di Pippotto, garantisce al carattere funambolesco dell’attore grande popolarità.

La gestualità beffarda dell’artista, cifra espressiva di una fisicità amplificata dai toni spesso irriverenti, esplode tuttavia nel 1959 in Cabaret ’59, presentato al teatro Gerolamo di Milano. Lo spettacolo, del quale Giancarlo Cobelli è unico interprete, preparato in collaborazione con Giancarlo Fusco, sancisce il debutto ufficiale dell’attore, che espone se stesso in un ‘recital anti-recital’, in cui la vigorosa inventiva comica, senza mai cadere nello stereotipo, evoca esplicitamente la lezione dello `Chat noir’. Il successo dello spettacolo è replicato nel dicembre dello stesso anno in Cabaret 1960 : la forma del cabaret diviene spazio privilegiato per annullare il diaframma fra sperimentazione e spettacolo, campo di battaglia nel quale il regista riesce a far esplodere le tensioni maudites della sua arte. La versatilità dell’artista è sottolineata a metà degli anni ’60 dal continuo passaggio dalla scena alla regia e alla scrittura, e dalla sovrapposizione di generi e forme: dal cabaret Cabaret n. 3 di C., Fusco, Arbasino e Mauri (1963) alla commedia musicale: Un cannone per Mariù di G. Fusco e F. Carpi (1961) e soprattutto La caserma delle fate (1964) di cui, oltre a essere protagonista e regista, fu anche autore in collaborazione con Badessi. La fine degli anni ’60 e gli anni ’70 sono dominati dalla regia attraverso la quale Giancarlo Cobelli, in un continuo processo di costruzione e decostruzione rompendo ogni possibile struttura narrativa, svolge da uno spettacolo all’altro quella che per lui è l’utopia del teatro: Gli uccelli di Aristofane (1968), Woyzec k di Büchner (1969), Antonio e Cleopatra di Shakespeare (nelle due versioni del 1972 e 1974), La pazza di Chaillot di Giraudoux (1972), La figlia di I orio di D’Annunzio (1973), L’impresario delle Smirne di Goldoni (1974), L’Aminta di Tasso, nell’elaborazione dello stesso C. e di Giancarlo Palermo (1974), e il collage Soprannaturale, potere, violenza, erotismo in Shakespeare (1975) rappresentano le tappe più significative di tale itinerario.

Bruciato ogni naturalismo, il mimo Woyzeck urla nell’agonia del corpo la fine di ogni apparenza e nota patetica, così come i personaggi shakespeariani, transitando da un testo all’altro in un’unica messa in scena, sanciscono la perenne e incontrollabile transitorietà del tempo: demistificante «pessimismo che sfocia nell’utopia» (Groppali). I classici reinventati attraverso citazioni spesso contaminate offrono così la possibilità di una ‘ribellione travestita’ al mero estetismo dell’ufficialità. Un percorso quello di Giancarlo Cobelli proseguito su registri analoghi nel corso degli anni successivi, sino ad arrivare a Un patriota per me di J. Osborne (Roma, Teatro dell’Angelo 1991), mai rappresentato in Italia e ulteriore segno della spinta trasgressiva sottesa alla linea registica e drammaturgica dell’artista. Nello stesso anno realizza Il dialogo nella palude di M. Yourcenar e, per i due spettacoli, ottiene il premio Ubu per la migliore regia 1991. Fra gli spettacoli successivi da ricordare almeno l’aspro, spoglio, feroce Troilo e Cressida di Shakespeare e per la Scala, Iphigénie en Tauride di Gluck (1992), L’angelo di fuoco di Prokof’ev (1994, ripreso nel 1999) e Il Turco in Italia di Rossini (1997).

Giancarlo Cobelli si spegne il 16 marzo 2012, all’età di 82 anni. 

Salerno

Mini Salerno inizia come cabarettista con i Gatti di Vicolo Miracoli (v.). Sciolto il gruppo nel 1986, Salerno abbandona il cabaret e inizia una nuova carriera come regista di fiction per la televisione, (tra l’altro la serie de “I ragazzi del muretto”, 1990). Sul grande schermo interpreta una parte ne Il testimone dello sposo , per la regia di Pupi Avati e, nel 1998 è attore teatrale nella commedia brillante Terapia d’urto di W. Lupo.

regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

Kokkos

Nel 1963 Yannis Kokkos si trasferisce in Francia, dove studia alla Scuola superiore d’arte drammatica di Strasburgo. Debutta come costumista de La baye di Philippe Adrien (regia di A. Bourseiller, 1967) al festival d’Avignone e, grazie alla collaborazione con A. Vitez, diventa presto uno dei più importanti scenografi europei. Con il maestro della regia francese crea scene e costumi per quasi tutti i suoi spettacoli: Il precettore di Lenz (1970), Elettra (1971), Madre Coraggio (1973), Partage de midi di Claudel (1975), Iphigénie Hôtel di Michel Vinaver (1977), Faust e Britannicus (1981), Il gabbiano (1984), Ubu roi (1985), Il trionfo dell’amore (1986), Pelléas et Mélisande di Debussy (Scala 1986), L’échange (1986) e Le soulier de satin (1987) di Claudel, La Celestina (1989), Vita di Galilei (1990). Parallelamente sviluppa un intenso e proficuo rapporto con J. Lassalle, con il quale collabora per numerosi allestimenti di autori contemporanei: Théâtre de chambre (1978) e L’émission de télévision (1990) di M. Vinaver, Avis de recherche (1982), scritto dallo stesso regista (1982), e classici come Le false confidenze (1979), La locandiera (1981), Tartufo (1984) e Berenice (1989). Dal 1987 inizia anche l’attività di regista teatrale ( La principessa bianca , da Rilke) e soprattutto lirico: La damnation de Faust di Berlioz (1990), Boris Godunov di Musorgskij (1991 e 1996), Elektra di Strauss (1992), Tristan und Isolde (1993), fino a Götterd&aulm;mmerung (Scala 1998). Gli allestimenti di K. sono caratterizzati da un ‘realismo incantato’, in cui si avverte sempre uno slittamento da ambientazioni naturali a spazi evocativi, capaci di cogliere il senso e lo spirito del tempo sotteso all’opera.