Wilson

Robert Wilson nasce in una famiglia di ceto medio, suo padre è avvocato e diventerà amministratore della cittadina natale, una delle tante perse al centro del Texas. La nonna materna, Mrs. Hamilton – che in seguito lo affiancherà in performance e spettacoli come The Life and Times of Sigmund Freud, The Life and Times of Joseph Stalin, A Letter for Queen Victoria – è una straordinaria compagna di giochi; con lei e altri bambini, dall’età di otto anni, organizza piccoli spettacoli nel garage di casa. Durante gli anni della scuola media partecipa alle rappresentazioni organizzate dal Waco Children’s Theatre (con la regia di Jearnine Wagner) e dal Teenage Theatre della Baylor University. Questo, nonostante l’handicap della balbuzie da cui guarirà solo a 17 anni grazie alla signorina Byrd `Baby’ Hoffman. Miss Hoffman è un’insegnante di danza di Waco che, stimolandolo a praticare movimenti lenti ( slow motion ), farà sì che Wilson impari a sciogliere la tensione del proprio corpo.

Si diploma alla High School nel 1959 e, per assecondare la volontà dei genitori, si iscrive a un corso di laurea in economia aziendale ad Austin, all’Università del Texas, che abbandonerà nel 1962, un anno prima di laurearsi. Sono fondamentali per questo cambiamento radicale l’esperienza con i bambini disabili e i laboratori di teatro per l’infanzia in cui Wilson trasmette la terapia appresa da Miss Hoffman. Wilson decide così di seguire la propria vocazione: le arti figurative. Si trasferisce a New York (autunno 1962) per iscriversi ad architettura e progettazione d’interni al Pratt Institute di Brooklyn dove, grazie all’elasticità del piano di studi può frequentare corsi di pittura e design. A New York avviene l’incontro decisivo con gli spettacoli di Martha Graham, Merce Cunnigham e Alwin Nikolais.

Folgorato dalla Graham le scrive per ringraziarla e in cambio viene invitato ad assistere alle prove della sua scuola. Con Nikolais e il suo gruppo nasce immediatamente una collaborazione tanto che nel 1964 Wilson disegnerà le scene per Junk Dances e Landscape, due coreografie di Murray Louis, assistente di Nikolais. Alla ricerca di una sua strada continua a studiare al Pratt, a lavorare con i bambini handicappati e a fare esperienze: nel 1963 gira un cortometraggio cinematografico astratto, Slant (10′), per WNET-TV; nell’estate del 1964 va a studiare pittura a Parigi dove si è trasferito George McNeil, un docente del Pratt che faceva parte della corrente pittorica dell’espressionismo astratto; nel 1965, oltre a presentare alcune sue performance (Duricglte & Tomorrow a New York; Modern Dance, una parodia del concorso per Miss America, a Waco; Silent Play, a San Antonio), gira il film (incompiuto) The House e crea scene e costumi per America Hurrah! di Jean Claude van Itallie messo in scena dal gruppo del Café La Mama; nel 1966 presenta due spettacoli di danza, Clorox e Opus 2 ed è invitato da Jerome Robbins all’American Theatre Laboratory.

Nell’estate dello stesso anno si unisce alla comunità dell’architetto utopista Paolo Soleri che a Scottsdale, in Arizona, aveva cominciato dieci anni prima a costruire la città di Arcosanti seguendo un metodo compositivo che andava a recuperare forme simboliche e miti arcaici (soprattutto quelli degli indiani nordamericani). Al grande attivismo di questi anni segue una violenta crisi esistenziale che lo costringe a curarsi per alcuni mesi in una clinica per malattie mentali. Ristabilitosi dal crollo nervoso ritorna a New York dove prende in affitto un locale al 147 di Spring Street, ex sede dell’Open Theatre. Il loft diventa un luogo di ritrovo non solo per artisti, ma anche per artigiani, uomini d’affari, casalinghe, pensionati, studenti, insegnanti e portatori di handicap. Tra gli altri troviamo la coreografa e compositrice Meredith Monk, la nonna di Wilson e il futuro critico Stefan Brecht.

Il gruppo prende il nome di Byrd Hoffman School of Byrds e Wilson quello di Byrd o Byrdwoman. L’attività è soprattutto quella del workshop che viene interrotta da performance come Baby Blood , nel 1967, e l’anno dopo da: Alley Cats (un duetto di W. con Meredith Monk), Theatre Activity 1 e 2 e ByrdwoMAN, una `rappresentazione’ itinerante che comincia nello spazio di Spring Street – dove accadono semplicissime azioni (i `Byrds’ salgono su e giù da assi, si appoggiano a fili) – e continua nella Jones Alley dove il pubblico viene trasferito a bordo di camion scoperti e si trova al centro di un’azione creata dai `Byrds’ sui tetti degli edifici circostanti. Tutta questa attività laboratoriale, che è agita in contesti non convenzionali e si nutre delle suggestioni del clima culturale newyorkese, prelude a una svolta.

Con The King of Spain del 1969 – che Wilson considera il suo primo spettacolo – il suo lavoro si sposta in un teatro, il fatiscente Anderson Theatre. Wilson comincia a elaborare quella visione bidimensionale dello spazio e quell’originalissima dimensione del tempo teatrale che diventerà la cifra inconfondibile del suo stile e lo porterà a preferire gli spazi tradizionali. Allontanandosi dai presupposti della ricerca a lui contemporanea: la dominante centralità del corpo, che si esprimeva attraverso il teatro gestuale, e il coinvolgimento diretto dello spettatore, Wilson giunge a un’idea di composizione dallo straordionario impatto visivo. The King of Spain con le sue tre sorprendenti e contraddittorie ambientazioni (una spiaggia, un salotto vittoriano e una caverna), in cui non accade sostanzialmente nulla, e con il collage ricchissimo di oggetti, persone, luci e forme apparentemente casuali rimanda a un gioco neo-dadaista che colpisce e ammalia riscuotendo un inatteso successo. Quello stesso anno la Brooklyn Academy of Music invita Wilson a creare una nuova opera, The Life and Times of Sigmund Freud, che altro non è che una ricomposizione e un ampliamento della precedente in cui la misteriosa alchimia dello sguardo si ripete.

Alla fine del 1970 debutta all’Università dello Iowa Deafman Glance, `un’opera del silenzio’, nella quale la partitura visiva scorre davanti agli occhi di un sordomuto. Il ritmo acquista per la prima volta quella scansione lenta che recupera quel `tempo naturale’ che sulla scena appare dilatato ed estenuante, ma che fa scattare lentamente una dimensione ‘altra’ nella quale immergersi e fluire sull’onda delle immagini. Con questo spettacolo, nel 1971, scoppia in Europa il caso Wilson; rapidamente diventerà un regista di culto. Dal 2 al 9 settembre del 1972 per 7 giorni e 7 notti sulle 7 montagne attorno a Shiraz-Persepoli si svolge il monumentale KA MOUNTAIN AND GUARDenia TERRACE, rappresentazione sulla ‘storia di una famiglia e di alcune persone che cambiano’, come recita il sottotitolo, che mette in sequenza vicende della cultura orientale e occidentale, ma anche episodi biografici (i giorni che W. ha appena passato in carcere a Cipro per detenzione di hashish).

E come se non bastasse la durata straordinaria, l’opera è preceduta da un’ Ouverture già in parte montata a New York e poi rimontata e ampliata per il Festival d’Automne a Parigi: 24 ore ininterrotte di spettacolo in cui hanno spazio anche pièce autonome di alcuni `Byrds’. La più intensa è la liberatoria mise en espace della crisi depressiva di Cindy Lubar, collaboratrice storica del gruppo. Altro prezioso apporto è offerto da Christopher Knowles che, oltre a mettere in scena `naturalmente’ il suo handicap in Ouverture, scriverà in seguito con W. importanti brani di Einstein on the Beach , T.S.E. e creerà insieme a lui numerosi duetti (The $ Value of Man, i vari DiaLog). A Letter of Queen Victoria (presentato al festival di Spoleto nel 1974) sembra interrompere i precedenti esercizi di espressione fisica dello stato psichico; qui a essere in gioco è il tempo, a partire dalla diseguale estensione dei quattro atti, volutamente contrapposti l’uno all’altro; e acquista sempre maggiore spazio la musica, che nel successivo Einstein on the Beach (1976, festival d’Avignone) non è più semplice accompagnamento ma elemento imprescindibile dell’azione scenica. La ripetitività della partitura di Philip Glass (che è mira di accese contestazioni) scandisce ossessivamente la personale ricostruzione biografica che il regista dedica al più famoso fisico del nostro secolo. Gli attori (tra cui Patricia Hearst, figlia di un magnate dell’editoria, con trascorsi da terrorista, che in una serie di `istantanee’ ispirate alle fotografie delle pagine di cronaca dei quotidiani impersona se stessa) si muovono seguendo le coreografie di Andrew Degroat, in intima relazione con uno spazio scenico ridotto a pochi oggetti caricati di valore emblematico, fino alla conclusiva apparizione di una macchina del tempo, simbolo dell’interiorizzazione delle teorie di Einstein trasposte in una riflessione sui tempi e i luoghi della scena.

In I was Sitting On My Patio This Guy Appared I Thought I Was Allucinating (1977) W., anche interprete accanto a Lucinda Childs, induce lo spettatore a concentrarsi sulle minime varianti in una trama di ripetizioni di parole e gesti. Con Death Destruction & Detroit (1979) comincia la fortunata serie delle sue produzioni tedesche. Con questo spettacolo di cinque ore denso di autocitazioni che si presenta come l’inconfessabile biografia di un criminale nazista mai pentito, Wilson offre una sorta di riassunto del proprio teatro. La parola è sfruttata per il suo valore sonoro, sostenuta armonicamente dalle musiche composte da Alan Lloyd, Keith Jarret e Randy Newman. L’importanza della luce e l’originale ricostruzione scenica della vita di alcuni celebri personaggi storici si saldano in Edison (1979), una seriosa celebrazione degli Stati Uniti, composta di `cartoline’ che riproducono i quadri di Hopper oppure le tipiche architetture vittoriane, avvicendandosi nell’immancabile ritmo dato dalla musica di Michael Riesman, fermo restando che visione e ascolto devono rimanere contrapposti e indipendenti.

Il teatro di Wilson non racconta, ma esibisce una struttura di rimandi visivi e uditivi; caratteristica che non smarrisce nemmeno quando privilegia decisamente la parola nella sua materialità sonora, come avviene in Die Goldenen Fenster ( Le finestre d’oro , 1982), dove il testo arriva a determinare con precisione la gestualità dell’attore. Progettato per essere presentato in contemporanea in cinque città diverse – con l’intento di stabilire una continuità spaziale autoreferenziale – ma andato in scena solo a Monaco, si prolunga idealmente in CIVIL warS, a Tree is Best Measured When it is Down, ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, che consiste in sei parti affidate a duecentocinquanta interpreti coinvolgendo sei città di tre differenti continenti. Un’opera globale, `il più grande spettacolo del mondo’, utopico campionario degli episodi della storia umana `raccontati’ alla maniera di Wilson, probabilmente irrappresentabile per la sua complessità, ma che vive anche di tutti i tentativi che Wilson fa per riuscire a portarlo a termine. Delle sei previste solo quattro sezioni sono state effettivamente completate: quella di Rotterdam (1983), quella di Colonia (gennaio 1984) – che segna l’inizio della collaborazione con Heiner Müller -, quella di Roma (marzo 1984) e quella di Minneapolis (aprile 1984), i Kneeplays , con David Byrne come autore delle musiche e narratore.

La tensione di Wilson verso lo spettacolo totale si ritrova nel successivo rivolgersi alla tragedia classica; nascono così le due versioni operistiche di Medea (di Charpentier e di Bryars, 1984) e, soprattutto, di Alcesti di Euripide (1986), con un intenso monologo scritto da Müller, di cui W. porterà poi in scena Hamletmachine (sempre del 1986) e Quartett (1987), rivisitazione   di Le relazioni pericolose di Laclos, oltre a collaborare con lui in Death, Destruction & Detroit II e in The Forest (1988). Death, Destruction & Detroit II (1987) riprende il progetto di otto anni prima, proponendosi come sua continuazione – ancora una volta incidendo sul concetto di tempo della rappresentazione – per contrapposizione più che per analogia, incentrata sulla rielaborazione di alcune opere di Kafka.

È l’inizio di una nuova fase del lavoro di Wilson che, senza abbandonare la dimensione visiva del suo teatro, si accosta ad alcuni testi scenici – Cechov (l’atto unico Il canto del cigno ), Ibsen (Quando noi morti ci ridestiamo, testamento dell’autore e di tutto l’Ottocento), Büchner (La morte di Danton) – o narrativa come nella trasposizione scenica del romanzo di Virginia Woolf, Orlando , in un monologo affidato a Jutta Lampe (nell’edizione tedesca del 1989), a Isabelle Huppert (in quella francese del 1993, presentata anche a Milano nel 1994) e a Miranda Richardson (in quella inglese, presentata al festival di Edimburgo nel 1996).

Nel 1990 ad Amburgo va in scena The Black Rider (1990) che riunisce tre grandi artisti americani, affini per la loro capacità di sperimentare: oltre a Wilson, lo scrittore William Burroughs e il musicista Tom Waits. È un musical ispirato a Il franco cacciatore di Weber, un’opera rock affidata all’esecuzione di un’orchestra di soli otto elementi, che gioca abilmente con l’ironia, muovendo gli attori travestiti e truccati in modo grottesco, innescando una serie di allusioni cinematografiche (che vanno dai film muti a Guerre stellari ) e marionettistiche. Il felice esito di questa collaborazione non si rinnova nel successivo Alice (1992), sempre con Waits, mentre Wilson riesce a offrire una divertente ricapitolazione della storia del rock in Time Rocker (1996), con le musiche di Lou Reed. Nel 1992 prende avvio il progetto Doctor Faustus Lights the Lights, su libretto di Gertrude Stein, musica per l’occasione da Hans Peter Kuhn; recitato in inglese dai giovanissimi allievi della scuola di teatro dell’ex Rdt, sfruttando la particolare musicalità del loro accento tedesco.

I progetti misti di musica e recitato avvicinano naturalmente Wilson alla regia lirica; è chiamato da molti teatri, anche se le sue realizzazioni non mancano di sollevare contestazioni: è il caso della Salome di Strauss alla Scala (1987, con Monserrat Caballé nel ruolo del titolo), del Martyre de Saint Sébastien di Debussy (1988, commissionato da Rudolph Nureyev per il teatro di Bobigny), in cui Wilson firma un originale montaggio operando tagli e aggiunte di scene e del Doktor Faustus di Giacomo Manzoni (ancora alla Scala nel 1989). Tra gli altri importanti allestimenti ricordiamo: Il flauto magico di Mozart (1991); Lohengrin e Parsifal di Wagner (1991); Madama Butterfly di Puccini (1993). A Gibellina nel 1994 porta T.S.E.: `Come in Under the Shadow of this Red Rock’ (il titolo è l’acronimo del poeta T.S. Eliot, dove la biografia si colora di tracce autobiografiche per assurgere infine alla dimensione atemporale del mito).

Wilson sostiene costantemente, fin dall’inizio della sua carriera, l’ostilità al naturalismo opponendo una personale e suggestiva maniera di `raccontare’ che si evidenzia con particolare forza nel confronto con un testo narrativo, come avviene in La mite , tratto dal romanzo di Dostoevskij (1994), dove i tre personaggi maschili (tra cui lo stesso regista) recitano ognuno nella propria lingua madre – inglese, tedesco e francese – intrecciando un dialogo senza comunicazione, avvolti dalla presenza muta della ballerina Marianna Kavallieratos.

Wilson Torna in scena in prima persona in Hamlet: A Monologue (1995), come protagonista unico dello spettacolo in cui gli altri personaggi sono presenze oniriche evocate da costumi vuoti, animati dalla voce del solo interprete, che sulla scena esibisce con lucidità le lacerazioni della condizione umana. Nella fittissima teatrografia degli ultimi anni W. alterna spettacoli calligrafici come La maladie de la mort di Marguerite Duras con Michel Piccoli e Lucinda Childs (1991, ripreso nel 1996) a coreografie come Snow on the Mesa , commissionato dalla Martha Grahm Company (1995), opere contemporanee come Hanjo/Hagoromo: dittico giapponese di Yukio Mishima e Zeami (musiche e libretto di Marcello Panni e Jo Kondo, 1994) a opere del Novecento storico Il castello di Barbablù di Bartók e Erwartung di Schönberg (presentate assieme a Salisburgo, 1995); e Oedipus Rex di Stravinskij (1996).

E ancora, Wilson passa dalla continua ricerca sui giochi testuali di Gertrude Stein ( Four Saints in Three Acts, 1996 e Saints&Singings, su musiche di H.P. Kuhn, 1997) alla riscoperta di testi poco frequentati di Brecht (il radiodramma Der Ozeanflug ovvero il volo di Lindberg, al Berliner Ensemble, con Bernhardt Minetti, 1997) o alla rilettura di classici come Il piccolo Principe di Saint-Exupery (Wings on Rock, musiche di Pascal Comelade, 1998). È del 1998 il primo allestimento in italiano, La donna del mare di Ibsen, riscritta da Susan Sontang, con Dominique Sanda e Philippe Leroy. Infine, sempre nel 1998 ha debuttato una ambiziosa opera multimediale in 3D, Monsters of Grace , con cui si ricompone la coppia Glass-Wilson (i testi sono tratti dalle liriche del poeta sufi Rumi).

Ripercorrendo i primi 35 anni della ricerca artistica di Wilson affiora immediatamente un’idea di teatro come `spettacolo’ in cui il formalismo – basti pensare all’esasperata ricercatezza delle luci o all’estrema precisione di ogni gesto sulla scena – si ricongiunge con una coscienza critica che anziché trattare problemi e avvenimenti in modo diretto, secondo canoni narrativi, affronta la contemporaneità frantumandola e presentandola nelle sue mille compresenti sfacettature. Wilson scompone i contenuti della storia per ricomporli in una nuova sintesi dell’immaginario che invece di procedere per sequenze lineari di causa-effetto scandisce il nostro tempo interiore e rilegge il calendario sociale secondo un processo elicoidale. Il cerchio di Wilson si chiude su un piano sempre più alto, i temi – da quelli individuali (legati al rapporto corpo-psiche), a quelli universali, dettati dalle grandi vicende umane (l’avventura del progresso, la tragedia della guerra, …) – vengono ripensati secondo un’estetica raffinatissima che trasforma i grandi interrogativi etici in perfette e cristalline visioni. Porre domande, più che dare risposte è, forse, la tensione del Novecento e Wilson è riuscito a farlo con le immagini così come Beckett lo ha fatto con le parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Balanchine

Creatore rigoroso, raffinato formalista e principale fautore del balletto neoclassico, passato indenne attraverso tutte le rivoluzioni della danza del Novecento, George Balanchine è stato, secondo Rudolf Nureyev, che alla sua morte fornì una delle più lucide definizioni della sua arte, un artista «indispensabile» per lo sviluppo del balletto nel nostro secolo. Le sue principali coreografie hanno determinato lo stile, il tempo, la linea, la musicalità, l’agilità e l’arte del fraseggio danzato. Oltre al genio personale, qualità imponderabile, hanno forse contribuito a renderlo un creatore `indispensabile’ le frequentazioni di ambienti culturali diversi, le scelte drastiche e decisive, come quella di abbandonare la Russia già nel 1924, dopo aver compreso che le sue idee coreografiche poco interessavano al Teatro Marijinskij di Pietroburgo in cui era entrato a far parte nel 1921, dopo aver terminato gli studi di balletto all’annessa Scuola imperiale (i suoi maestri furono Andrejanov e Pavel Gerdt), ma anche quelli di pianoforte e di teoria al Conservatorio della stessa città.

Aveva firmato la sua prima coreografia (La Nuit , ribattezzata in seguito Romance) nel 1920, all’età di sedici anni, ma tra le sue prime opere spicca anche una Sagra della primavera su musica di Stravinskij di cui purtroppo non esistono documenti, né tracce. Più importanti di quanto non si sia sino ad oggi creduto, furono, per i suoi esordi creativi, i contatti con l’avanguardia teatrale russa: l’incontro con Vladimir Majakovskij, la visione delle coreografie innovative di Kazian Goleizovskij e Nikolas Foregger, l’attività al teatro sperimentale FEKS e nel cabaret, indirettamente influenzata dalla biomeccanica di Vsevolod Mejerch’old. Ottimo danzatore e musicista, oltre che precoce talento coreografico, non gli fu difficile ottenere dal governo rivoluzionario sovietico il permesso di espatriare in Germania, appunto nel 1924, con una piccola compagnia di cui facevano parte Alexandra Danilova e Tamara Geva che, tra l’altro, divennero, una dopo l’altra, le sue due prime mogli. Nel 1925 (l’anno in cui mutò il suo nome in George Balanchine, più semplice all’orecchio occidentale), Sergej Diaghilev lo chiamò a Parigi ed egli rimase nella compagnia dei Ballets Russes sino al suo scioglimento (1929), respirandone il clima innovativo e condividendo l’idea di svecchiare il balletto, liberandolo dalle convenzioni del passato. Non era simpatico a Diaghilev, forse per la sua spiccata predilezione per il sesso femminile (ebbe in tutto cinque mogli), ma questo piccolo ostacolo non gli impedì di diventare il coreografo di riferimento nell’ultima fase della celebre compagnia diagleviana. Tutte le coreografie che firmò per i Ballets Russes si tramutarono in successi immediati come lo stravinskijano Le chant du rossignol (1925), La chatte (1927) su musica di Henri Sauguet, Il figliol prodigo (1929) su musica di Sergej Prokof’ev, persino Le Bal (1929) su musica di Vittorio Rieti ma soprattutto Apollon Musagète (1928): il balletto che, oltre a inaugurare la sua collaborazione a quattro mani con Stravinskij (dopo Apollon, Orpheus del 1948 e Agon del ’57), si impose come primo e compiuto, esempio della sua nuova estetica neoclassica. Un credo analogo al neoclassicismo musicale di Stravinskij, imperniato sull’utilizzo più ampio e completo del vocabolario tradizionale della `danse d’école’: ma rinnovato, reso veloce, epurato dai manierismi stilistici accumulati nei secoli e alimentato da nuovi stimoli dinamici (come la gestualità sportiva o quella quotidiana).

In Stravinskij, con il quale formò la seconda coppia russa più famosa e fertile del balletto (dopo la collaborazione tardottocentesca del coreografo Marius Petipa con Cajkovskij), trovò una sorta di alter ego musicale, a lui affine non solo nella Weltanschauung artistica ma anche nei tratti della personalità distaccata e ironica. Basti pensare che nel 1942 i due, uniti per soddisfare una commissione dei Ringling Brothers, crearono addirittura una danza per elefanti: l’effervescente Circus Polka , rappresentata dal grande circo americano per un’intera stagione e con grande successo. Ma ormai Balanchine non era più un artista europeo. Si era trasferito oltre oceano e aveva preso la cittadinanza americana: nel 1934 l’impresario Lincoln Kirstein, che poi si sarebbe rivelato anche un acuto storico del balletto, lo aveva invitato a dirigere la School of American Ballet. Ed egli, che alla morte di Diaghilev era diventato un freelance, attivo a Copenhagen, Londra, Parigi (nel 1933 vi aveva creato, per la compagnia Les Ballets, Mozartiana e soprattutto I sette peccati capitali di Brecht-Weill) accettò. Divenne insegnante e animatore di varie compagnie statunitensi come l’American Ballet, l’American Ballet Caravan, il Ballet Society, prima di trasformare quest’ultimo gruppo nel New York City Ballet (1948) di cui restò direttore artistico sino alla morte. Nel 1964 la città di New York destinò proprio alla sua compagnia l’uso dell’ambitissimo New York State Theatre, presso il Lincoln Center. Negli Usa B. confermò e approfondì la sua ricerca linguistica, creando balletti per lo più astratti, sempre improntati a un attento esame delle partiture musicali. L’influenza del nuovo paese e la sua cultura veloce e di massa contribuirono a rendere persino più `democratico’ il suo stile. Certo principi e regine non entrarono mai nei suoi balletti di pure linee come l’algido Balletto imperiale (1941) su musica di Cajkovskij, o il non meno sfavillante Symphony in C (o Palais de Cristal , 1947), su musica di Bizet, che pure trasudano una vibrante nostalgia per i grandi spettacoli della corte zarista e per il coreografo Marius Petipa, da lui considerato tra i suoi ideali precursori e maestri. Ma Stars and Stripes (1958), Square Dance (1957, poi ripreso e variato nel ’76) soprattutto Who Cares? (1970), su musica di Gershwin (per non parlare delle coreografie per i musical, come On Your Toes , firmate a Broadway alla fine degli anni ’30) rivelano che la sua danza tendeva a rispecchiare gli ideali della nuova classe media americana, pur senza giungere a ibridarsi con altre tecniche moderne, opposte al balletto, come talune opere di Jerome Robbins (il coreografo di West Side Story ) che fu a lungo suo collega al NYCB. Sin dall’inizio Balanchine desiderò che la sua compagnia newyorkese fosse soprattutto espressione della fisicità americana; scelse perciò ballerine atletiche come Tanaquil Le Clercq o Suzanne Farrell, la sua ultima musa, dalle gambe e braccia lunghe e con la testa piccola (come tutte le sue `baby-ballerine’) e danzatori atletici ed eleganti come Peter Martins (che egli stesso designò come suo successore alla testa del NYCB), il nero Arthur Mitchell o l’aitante Edward Vilella.

‘Mister B’, come fu affettuosamente soprannominanto (nonostante godesse la fama di coreografo-tiranno), muoveva questa suoi corpi ‘ideali’ come uno stratega poco interessato alle loro psicologie e personalità, nella convinzione che i ballerini non dovessero «pensare ma solo agire» e che fossero fiori destinati, purtroppo, a morire troppo in fretta e perciò ad essere utilizzati solo all’apice della loro giovanile bellezza e forza fisica. Per nulla affascinato dalla danza narrativa, si può capire perchè avesse allestito nella sua lunga carriera solo alcuni classici del repertorio ottocentesco; tra questi uno scintillante Schiaccianoci (1954), tuttora cavallo di battaglia natalizio del NYCB. Ma del resto nel suo ampio repertorio spiccano autentici e insostituibili capolavori antinarrativi o solo sottilmente evocativi come Serenade (musica di Cajkovskij, 1935), Concerto Barocco (musica di Bach, 1941), La Valse (musica di Ravel, 1951), Liebeslieder Walzer (musica di Brahms, 1960), Jewels (musica di Fauré, Stravinskij e Cajkovskij) e soprattutto Theme and Variations (musica di Cajkovskij, 1947) e The Four Temperaments (musica di Hindemith, 1946): tutti balletti per lo più ‘nudi’, immersi in uno spazio virtuale e nel décor che preferiva: la luce. Dentro la luce fece rinascere anche il suo Apollon Musagète in forma di balletto concertante (1979), depurando la coreografia di ogni scoria teatrale (scene e costumi grecizzanti) a riprova che questo caposaldo neoclassico non si sarebbe mai davvero fermato nel tempo. A Balanchine si richiamano artisti del teatro come Robert Wilson e coreografi contemporanei come William Forsythe, mentre il termine `balanchiniano’ che sta a ricordare l’influenza da lui esercitata su tutto il balletto del secolo, indica una pratica coreografica neoclassica basata sull’esplorazione delle potenzialità espressive del movimento, nella sola esaltazione delle sue linee più adamantine e pure, in costante dialogo con le strutture musicali.