Zampieri

L’esordio di Gino Zampieri è in Svizzera al Théâtre populaire romand. Nel 1965, con Armand Gatti, è al Theatre National Populaire. In seguito, frequenta la scuola del Piccolo Teatro di Milano (1966-67). Negli anni ’70 fonda la compagnia del Teatro dell’Archivolto di Genova che dirige per quattro anni. Con questa formazione ricordiamo: Woyzek (1979) di Büchner, Il processo della scrofa (1980), Divine parole di Valle Inclán. Diventa regista allo Stabile di Genova, dove insegna anche alla scuola (1980-82). Nel 1983 insieme a Gatti fonda a Tolosa l’Atelier de Creation Populaire. È regista allo Stabile di Roma, dove mette in scena Pericle principe di Tiro (1986) di Shakespeare e Qui comincia la sventura (1988) di S. Tofano. Dal 1988 è assistente di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro e cura la regia di due lavori di A. Tabucchi, Il signor Pirandello (1990) e Il diavolo non può salvare il mondo . Negli ultimi anni si è dedicato a numerose regie liriche presso teatri d’opera italiani, francesi e svizzeri: La traviata, L’italiana in Algeri (Opéra de Nantes), Ginevra, Il nevrastenico e I due timidi di Nino Rota, I due baroni di Rocca Azzurra di Cimarosa.

Cohan

I genitori Jerry e Helen Cohan, d’origine irlandese, sono artisti del vaudeville: George Michael Cohan nasce e vive sul palcoscenico, dove ben presto si esibisce insieme alla sorella Josephine. A nove anni recita in un `act’ tutto per sé e suona il violino in orchestra, quando occorre. Successivamente i suoi genitori formano con i due figli i Four Cohan, portando di teatro in teatro numeri fatti di sketch, parodie, scenette comiche e musicali. A sedici anni George comincia a scrivere canzoni e testi per le recite del quartetto familiare e per altre compagnie, e a ventitre scrive, compone, dirige e produce la sua prima commedia musicale, The Governor’s Son (1901) in cui recitano tutti i Cohan, ai quali si è aggiunta sua moglie. È la prima tappa di una serie di fatiche che riguardano tutti i campi del teatro e della musica: C. continuerà fino ai suoi ultimi anni a recitare, scrivere testi (anche per il teatro di prosa), comporre canzoni, ballare e cantare, nonché a produrre spettacoli. Di un’attività instancabile, non solo licenzia spettacoli memorabili, ma per il suo patriottismo diventa benemerito nella nazione: fra l’altro un suo inno ( Over There ) diventa popolarissimo tra i soldati americani impegnati nella prima guerra mondiale e George riceve per questo la medaglia d’oro del Congresso. Una sua canzone celebra George Washington, altre inneggiano ai padri della patria; e in maturità interpreterà lui stesso sulla scena, in una commedia, il presidente Roosevelt, ottenendo le congratulazioni di quest’ultimo.

I suoi spettacoli – piuttosto stravaganti e fantasiosi, basati spesso sulla scoperta del ‘modus vivendi’ americano da parte di stranieri, soprattutto rappresentanti del Vecchio Mondo – stanno fra la commedia musicale vera e propria e la rivista. Tra gli esiti principali sono: Running for Office (1903, ancora con tutti i Cohan, ripresa con nuove musiche e col nuovo titolo di Honeymooners nel 1907); Little Johnny Johns (1904), denominata `play with music’ e imperniata su un fantino – interpretato da George – ingiustamente accusato di aver vinto con frode il Gran Derby inglese: è la prima affermazione in grande stile nel campo del teatro musicale, vivificato da un’ondata di freschezza. Tra le canzoni spicca “The Yankee Doodle Boy”, tratto dal traditional “Yankee Doodle”, che ottiene un’enorme diffusione; Forty-Five Minutes from Broadway (1906), storia di piccoli provinciali ambientata a New Rochelle, boicottata dalle autorità di questa cittadina perché, a loro dire, ne mette in cattiva luce gli abitanti con eccessiva carica satirica (ma le canzoni “Mary’s a grand old name” e “So Long, Mary” hanno molto successo); George Washington Jr. (1906), ancora con tutti i Cohan, sulla giovinezza del grande presidente la canzone “You’re A Grand Old Flag”; Fifty Miles from Boston (1908), sempre sulla provincia americana; The Yankee Prince (1908), con tutti i Cohan, sui rapporti fra inglesi e americani; The American Idea (1908), che lancia una `American Ragtime’; e The Little Millionaire (1911), ultima apparizione in scena dei quattro Cohan. Dal 1914 al 1927 Cohan reciterà come protagonista delle sue commedie musicali. Fra queste Hello Broadway (1914), celebrazione del teatro musicale americano che comprende un amichevole omaggio al `collega’ Irving Berlin (numero “Those Irving Berlin Melodies”); The Voice of McConnell (1918), definito `musical drama’, basato su materiale folcloristico irlandese e interpretato da un tenore irlandese di fama, Chauncey Olcott; The Royal Vagabond (1919), commedia musicale d’avventure in costume (in collaborazione con Anselm Goetzl); Little Nellie Kelly (1922: canzoni “Little Nellie Kelly I Love You” e “You Remind Me of My Mother”); The Merry Malones (1927), ancora sul folclore irlandese; tra l’altro include la famosa ballata “Molly Malone. The Merry Malones” è l’ultimo lavoro musicale portato in scena dallo stesso Cohan; mentre Billie (1928), adattamento di una sua commedia, è il suo ultimo musical. In seguito Cohan recita nel teatro di prosa, cui si dedica anche come autore. Una trentina di film (del muto e del sonoro) sono tratti da suoi copioni.

A proposito di cinema, Cohan recita in alcuni film, e dalle sue commedie musicali sono tratti Little Johnny Jones (due volte: nel 1923 e nel 1929), George Washington Jr. (1923) e Little Nellie Kelly (1940). Lui vivo, il regista Michael Curtiz dedica alla sua persona il film Yankee Doodle Dandy ( Ribalta di gloria , 1942, con James Cagney, Oscar per questa interpretazione). C. appare (ancora interpretato da Cagney) anche in The Seven Little Foys (1955, regia di M. Shavelson); e su di lui nel 1968 M. Stewart e J. Pascal scrivono una commedia musicale, rappresentata a Broadway, intitolata George M. George M. Cohan è un fenomeno del teatro americano. Un biografo lo ha riassunto nella formula: «Duecento canzoni, quaranta musical interamente suoi, altri quaranta in collaborazione con altri, diecimila apparizioni sulla scena». Questo ‘figlio d’arte’ ha sempre avuto il senso dello spettacolo, sempre sorretto da una vitalità vulcanica, di puro stile yankee. Mescolando melodramma e comicità (spesso il non sense), è il primo a proporre negli Usa una commedia musicale di tipo genuinamente americano, riscattata dall’eredità operettistica europea.

Lavia

Gabriele Lavia esordisce nel 1963 e si segnala in spettacoli quali Edipo re di Sofocle (Teatro alla Scala, 1969) e Re Lear di Shakespeare, con la regia di Strehler (Piccolo Teatro di Milano, 1973). Il suo debutto come regista risale al 1975, con Otello di Shakespeare. Artista inquieto, particolarmente attento alla grande drammaturgia classica, L. affronta i testi (anche come interprete) in letture registiche dalle tinte sovente fosche, drammatiche e attente alle patologie dell’uomo contemporaneo. Si ricordano, tra i numerosi allestimenti, i suoi lavori su Strindberg (Il padre, 1976 e 1990; Il pellicano, 1980; Delitto e delitto, 1983; La signorina Julie, 1992-93) e sull’amato Shakespeare, cui dedica molta attenzione (Amleto, 1978, 1981 e 1984; Tito Andronico, 1982; Macbeth, 1987; Riccardo III , 1989; Otello, 1994); su Kleist (Anfitrione, 1979; Il principe di Homburg , 1982; Il duello, con un suo adattamento, 1993), Dostoevskij (Il sogno di un uomo ridicolo, 1981 e 1994), Cechov (Il gabbiano, 1979; Zio Vanja, 1990; Il giardino dei ciliegi, 1995; Platonov, 1997) e Schiller (I masnadieri, 1982; Don Carlos, 1983). Affascinato da scritture particolari ed efficaci, Lavia dirige anche Servo di scena, di Harwood (1980), Miele selvatico di M. Frayn (1985), Il diavolo e il buon Dio di J.-P. Sartre (1985), Oreste di V. Alfieri (1993), Il nipote di Rameau di D. Diderot (1976 e 1991), Bergman (Scene da un matrimonio, 1997). Codirettore del Teatro Eliseo di Roma dal 1980 al 1987, direttore del Teatro stabile di Torino dal 1997, Lavia è anche autore di regie cinematografiche, spesso interpretate dalla moglie Monica Guerritore (Il principe di Homburg, 1983; Scandalosa Gilda, 1984; Sensi ,1986; La lupa di G. Verga, 1995) e di regie liriche (Gluck, Verdi, Donizetti, Mascagni, Leoncavallo).

Pinter

Harold Pinter nasce e si forma nel quartiere di Hackney nel nord-est di Londra. Fallito il tentativo di inserirsi nelle file del RADA (Royal Academy of Dramatic Art), debutta nel teatro come attore di repertorio per la compagnia itinerante dell’irlandese A. McMaster, con lo pseudonimo di David Baron. Nel 1957 su richiesta di un amico attore, scrive il suo primo dramma, The Room, e l’anno successivo assiste all’infausta seppur curata messa in scena del suo secondo pezzo Il compleanno (The Birthday Party, 1959), uno dei suoi lavori migliori, eppure a suo tempo uno dei suoi più famosi insuccessi. In questi primi drammi e in quelli successivi (Il calapranzi, The Dumb Waiter, 1960; Il guardiano, The Caretaker, 1960; Un leggero malessere, A Slight Ache, 1961; Il ritorno a casa, The Homecoming, 1965), Pinter elabora il suo stile scarno ed essenziale, capace di portare sulla scena concreti stralci di conversazione quotidiana catturati in tutta la loro intensità ma anche nella loro vacuità e incoerenza. Gestisce con grande destrezza l’apparato didascalico, in particolare pause e silenzi, che carica di significato rendendoli più eloquenti della parola, il cui uso è volutamente inappropriato, limitato al piacere della sua pronuncia, mero gioco d’intrattenimento, o più spesso maschera per celare il sé di fronte all’altro. Il linguaggio acquista sempre più spazio nell’opera pinteriana, fino a rivestire il ruolo di strumento di `guerra’ per spiazzare e combattere l’altro che rappresenta l’esterno, l’intruso o la minaccia.

Definito con varie etichette (teatro dell’assurdo, teatro di minaccia, teatro della memoria), il suo teatro è progressivamente svuotato dell’azione e si incentra (fra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’70) su tematiche quali il tempo e la memoria, mentre il dialogo tende a scomparire, quasi annullato in battute monologanti. I suoi personaggi vagano mentalmente smarriti in uno spazio temporale dove passato e presente, persi i loro contorni, si confondono l’uno nell’altro ( Il seminterrato , The Basement, 1967; Paesaggio, Landscape, 1968; Silenzio , Silence, 1969). Nel corso degli anni ’70 ( Vecchi tempi , Old Times, 1971; Terra di nessuno , No Man’s Land, 1975; Tradimenti , Betrayal, 1978) l’interesse per il tempo e la memoria si fa più impellente e porta Pinter a recuperare il dialogo e a creare personaggi meno statici. Confrontando un passato comune essi impongono a turno la propria versione, rappresentando così la relatività del ricordo e il meccanismo fallace della memoria, inficiato da sogni, fantasie e immaginazione.

Nel 1980 Pinter rivede, corregge e mette in scena La serra (The Hothouse), dramma scritto nel 1958, e subito accantonato perché inadeguato. Dopo alcuni atti unici (Voci di famiglia, Family Voices, 1981; Victoria Station e Una specie di Alaska , A Kind of Alaska, 1982), la sua scrittura si fa più esplicita e le tematiche della minaccia, della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, già ampiamente indagate fin dai primi lavori, vengono ora trattate in modo diretto (Precisamente, Precisely, 1983; Il bicchiere della staffa, One for the Road, 1984; Il nuovo ordine del mondo, The New World Order, 1991; Il linguaggio della montagna, Mountain Language, 1988; Regime di festa, Party Time, 1991), segnando una fase dichiaratamente politica del suo teatro. Manifesta pubblicamente il suo impegno politico e sociale entrando a far parte di associazioni come PEN e Amnesty International; dà vita al gruppo di intellettuali ’20th June Group’, con i quali organizza incontri sul tema della censura e delle libertà civili. Nel 1993 interrompe la produzione impegnata con Chiaro di luna (Moonlight), riproponendo atmosfere e tematiche degli anni ’70. Il suo lavoro più recente è Ceneri alle ceneri (Ashes To Ashes, 1997), di cui ha curato la regia sia nella versione londinese (Lindsay Duncan e Stephen Rea), sia in quella italiana (Adriana Asti e Jerzy Stuhr). È autore anche di un romanzo, I nani , giovanile (1952), ma pubblicato solo nel 1990.

Annicelli

Di solida formazione tradizionale, dotato di uno stile e di una misura esemplari, Corrado Annicelli non riuscì mai a diventare un protagonista assoluto. E tuttavia arrivò, puntualissimo, all’appuntamento con alcuni degli spettacoli più emblematici del secondo dopoguerra napoletano dopo aver militato in compagnie primarie dalla Ferrari-Carini ( O di uno o di nessuno , 1930) alla Abba ( Come tu mi vuoi , 1953). Intanto, partecipò nel ’67 a quel Napoli: notte e giorno che, diretto da Patroni Griffi, può essere considerato, per parafrasare un’espressione corrente, come il `padre’ di tutti gli spettacoli su Viviani allestiti dopo la sua morte: A. v’interpretava il personaggio di Don Alfonso, l’accompagnatore e impresario del complessino di suonatori ambulanti de La musica dei ciechi . Fu poi un insinuante e ambiguo Giulio Genoino nell’altrettanto mitico Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese. E, infine, mette conto di ricordare il personaggio del maestro di musica, marito in scena di Pupella Maggio, al quale diede vita – per la regia di Francesco Rosi – nella commedia dello stesso Patroni Griffi In memoria di una signora amica . Nel suo curriculum anche il teatro leggero, con alcune gustose caratterizzazioni al fianco di Nino Taranto.

Barrault

Una vera e propria leggenda della scena francese vissuta all’insegna della missione, della vocazione al teatro. Costretto a fare più mestieri per sopravvivere, innamorato del teatro, Jean Louis Barrault elegge Charles Dullin a suo maestro e ha la fortuna di essere accettato da lui, dopo un provino, nel 1931, alla scuola dell’Atelier. Lì, mescolando intelligentemente teoria e pratica, si legherà di grande amicizia con un irregolare della scena come Antonin Artaud e con Etienne Decroux, che cerca di raggiungere l’espressività pura mettendo in primo piano il corpo. È proprio mentre recita in piccole parti all’Atelier e mentre frequenta con Artaud il `covo’ surrealista del Granier des Augustins che, partendo da un romanzo di Faulkner (Mentre morivo) mette in scena e interpreta il suo primo spettacolo Autour d’une mère dove creerà quel cavallo-centauro che affascinerà Artaud e che Jean Louis Barrault riprenderà, anche da vecchio, in molte serate d’onore. Dopo l’sperienza all’Atelier e la rivelazione della propria vocazione raccontata con accenti romanzeschi nella sua autobiografia, firma nel 1937 lo spettacolo Numanzia di Cervantes messo in scena con i proventi del primo dei molti film ai quali partecipa (Beaux jours di Marc Allegret dove conosce quella che sarà prima la sua compagna sulla scena e poi nella vita, Madeleine Renaud). Numanzia gli fa toccare con mano quelli che sono i suoi pregi e i suoi difetti. Superare questi ultimi significa, per Jean Louis Barrault, entrare «nel tempio del grande mestiere», la Comédie Française proprio negli anni in cui a dirigerla c’è Jaques Copeau, già maestro di Dullin.

Durante il periodo in cui lavora alla Comédie, dove recita fra l’altro nel Cid di Corneille (1940) e in Amleto (1942), senza dubbio l’incontro più importante per Jean Louis Barrault è quello con la drammaturgia di Paul Claudel di cui mette in scena Le soulier de satin (1943) testo considerato irrapresentabile, perché, come scriverà, «desideravo amare il Soulier come si ama una donna». Ma all’attore irregolare, curioso di tutto, la scena tradizionale della Comédie va stretta. Eccolo allora gestire in prima persona facendo compagnia con Madeleine Renaud, il Marigny, inaugurato nel 1946 con Amleto, dove propone un repertorio eclettico che mescola i classici come Shakespeare, Marivaux riscoperto nella sua ambiguità (Le sorprese dell’amore, 1950) e tolto agli stereotipi di maniera, Molière e Cechov, alla drammaturgia contemporanea di Camus, Anouilh e Giraudoux. Dal Marigny André Malraux ministro della Cultura lo chiama alla direzione dell’Odéon dove Jean Louis Barrault ha modo di dispiegare non solo le sue doti di attore eccezionale e di regista sensibile, ma anche quelle di organizzatore culturale (è sua l’idea di un Festival des Nations che permetterà agli spettatori francesi di vedere i maggiori spettacoli europei), particolarmente abile nel tessere rapporti con i teatri stranieri più qualificati. E dove apre le porte del teatro alle sperimentazioni dell’avanguardia, del teatro dell’assurdo con I paraventi di Genet che gli scatenerà contro la contestazione delle destre. Ma la cosiddetta `presa dell’Odéon’ da parte della contestazione giovanile al tempo del Maggio ’68 lo spinge ad abbandonare anche questo teatro. Eccolo allora senza fissa dimora prima in una palestra di catch fra Montmartre e Pigalle, dove mette in scena, fra l’altro, un monumentale, straordinario Rabelais , destinato a fare il giro di mezzo mondo e poi al Théâtre de Roind Point dove, perseguendo l’idea di un repertorio eclettico, una tragedia di Voltaire può stare accanto all’oscuro mondo notturno di Gerard de Nerval. Infine, pago di raccogliere di nuovo attorno a sé, come un guru o piuttosto come un maestro, i giovani che vogliono capire da lui il segreto di un teatro che vuole essere «contro questa vita di guerre, di violenze per fare prevalere nella vita e sulla scena, il piacere, la gioia, la tenerezza».

Satta Flores

Stefano Satta Flores debutta sulle ribalte universitarie e si diploma al Centro sperimentale di cinematografia di Roma (1960). Il suo primo ruolo cinematografico è nei I basilischi (1963) di L.Wertmuller, nella parte di un personaggio un po’ amaro di un desolato vitellone del Sud, che gli vale il consenso della critica. Ritorna al teatro e prende parte ad alcuni spettacoli importanti del Piccolo Teatro, fra il ’66 e il ’68: Enrico V di Shakespeare e Il fattaccio di giugno di Sbragia, Vita immaginaria dello spazzino Augusto G. di A. Gatti, con la regia di V.Puecher. Aderisce in pieno alle nuove proposte di teatro politico anche all’interno del Piccolo, che lascerà per far parte di una cooperativa teatrale I compagni di scena, con Cristiano Censi e Isabella Del Bianco, seguaci della politica del decentramento che portava alla ricerca di un pubblico diverso, quello delle associazioni affiliate all’Arci e delle Casa del Popolo. Degno di nota di questo periodo un allestimento fuori dei canoni brechtiani della Madre di Brecht da Go’kij. Torna al cinema in tra gli altri, C’eravamo tanto amati – e La terrazza . di Scola. Torna al teatro nel 1979-80 anche nelle vesti di autore con Dai, proviamo diretto da Gregoretti, Premio Flaiano 1980, Grandiosa svendita di fine stagione – radiografia della delusione di un gruppo di ex-sessantottini , Una donna normale , e Per il resto tutto bene , sui bilanci esistenziali della sua generazione, un po’ autobiografici. Personaggio dalla ricca personalità e dal notevole talento, anche brillante, non sempre è riuscito ad esprimerlo appieno forse per questa sua carriera dispersa in molti settori.

Abatantuono

Diego Abatantuono nasce come cabarettista al Derby di Milano dove si impone a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 con le sue irresistibili improvvisazioni e soprattutto nella Tappezzeria (assieme a Boldi, Porcaro, Faletti e altri), un originale spettacolo-contenitore scritto da E. Jannacci e B. Viola, poi portato anche in teatro.

Le sue due anime, quella pugliese delle origini e quella milanese della sua formazione, sono gli elementi fondamentali per la creazione dei suoi personaggi. Quello più popolare, il “terrunciello”, in cui convivono tradizionalismo e anticonformismo, ne decreterà il definitivo successo sia cinematografico (Fico d’India, I fichissimi e Eccezzziunale veramente; 1980, 1981 e 1982) che televisivo. Con una buona prova teatrale, che sottolinea invece i tratti più drammatici e sensibili, l’attore è un originale Sganarello nel Don Giovanni di Molière diretto da Mario Morini (1984). Ma è nel cinema che Abatantuono dà certamente il meglio di sé lavorando con registi come Luigi Comencini, Pupi Avati e Giuseppe Bertolucci.

La fama internazionale viene infine decretata dal sodalizio con Gabriele Salvatores con cui interpreta, tra gli altri, Mediterraneo , premio Oscar come miglior film straniero nel 1992.

Pradella

Nel 1966 Riccardo Pradella si diploma con la medaglia d’oro all’Accademia dei Filodrammatici di Milano sotto la guida di Esperia Sperani e nello stesso anno, dopo aver abbandonato gli studi di Chimica, esordisce nello spettacolo Se questo è un uomo di Primo Levi per la regia di G. De Bosio. In seguito interpreta Emone nell’ Antigone (1967) di Alfieri, allestita dal centro culturale Il Trebbo di Milano e nella stagione 1968-69 è scritturato dal Teatro S. Babila come assistente regista per F. Piccoli, E. Calindri e V. Cottafavi. Nel 1970 insieme a Paride Calonghi riapre il Teatro Filodrammatici di Milano, distrutto dai bombardamenti del 1943 e fonda una Compagnia Stabile di ex allievi dell’Accademia. Nell’ambito del Teatro dei Filodrammatici ha partecipato, come attore e in alcuni casi come regista, a quasi tutti gli spettacoli del gruppo. Segnaliamo in particolare: Bellavita (1976) di Pirandello, Il ladro in casa (1984) di Italo Svevo, La trilogia della villeggiatura (1988) di C. Goldoni per la regia di Silvano Piccardi, Con la penna d’oro (1991) di I. Svevo. Nel 1985 succede a Ernesto Calindri alla guida del Corso di Recitazione presso l’Accademia dei Filodrammatici. Accanto alle esperienze teatrali ha sempre alternato esperienze televisive e radiofoniche.

Pepe

Interprete dalle notevoli doti mimiche, Nico Pepe ha offerto nel corso della sua carriera ottime interpretazioni di personaggi comici. Debutta nel 1930 nella compagnia Lupi-Borboni-Pescatori. Lavora anche con Ruggeri, Gandusio, P. De Filippo, De Sica. Dal 1947 passò al Piccolo Teatro. Di talento versatile si è distinto anche nella recitazione di autori classici, Molière (L’avaro) e Gozzi (Re Cervo), sia di autori napoletani: P. De Filippo  (Don Felice Imparato), A. Curcio (I casi sono due). Da segnalare una sua memorabile interpretazione goldoniana, nel ruolo di di Pantalone in un’edizione dell’ Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, uno spettacolo in cui recita per vent’anni (viaggiava con un baule pieno di maschere di commedia dell’arte, tanto da meritarsi il titolo di `commesso viaggiatore del teatro’). Sempre con Strehler interpreta il direttore ne Sei personaggi in cerca d’autore (1952) al fianco di T. Buazzelli e L. Brignone. Nel 1961 è diretto da L. Squarzina in Ciascuno a suo modo di Pirandello presentato allo Stabile di Genova, e da Macedonio ne La commedia dell’arte , per lo Stabile Friuli Venezia Giulia. Ha diretto lo Stabile di Torino, l’Ateneo di Roma e lo Stabile di Palermo. Negli ultimi anni ha portato in giro con successo alcune lezioni-spettacolo (Pirandello visto da un attore e I secoli gloriosi della Commedia dell’Arte) con Ada Prato.

Bacci

Laureato in lettere a Pisa con una tesi sull’Odin Teatret di Eugenio Barba intitolata Teatro e alchimia , attore amatoriale nel gruppo Teatro Noi, Roberto Bacci fonda nel 1974 il Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, di cui è direttore. Sensibile a un teatro spirituale e antropologico, intimamente legato all’attività laboratoriale e al confronto con le drammaturgie del nord e dell’est europeo, debutta nella regia con Macbeth (1975). È tuttavia dall’inizio degli anni ’80 che l’attività registica di B. si fa sistematica. In un ventennio realizza e dirige una ventina di spettacoli fra cui Zeitnot (1984), tratto da Il settimo sigillo e Il volto di Ingmar Bergman; Laggiù soffia (1987), primo atto di una trilogia che comprende Era (1988) e In carne ed ossa (1990); Il cielo per terra (1993), definito un ‘circo dei numeri spirituali’. Nel 1995 comincia a lavorare con gli attori della ‘Terza Età’ di Pontedera. Nascono Nulla: molte stelle e Incendio ispirato al terzo atto di Zio Vanja di Cechov. Tra il 1978 e il 1987 B. dirige il festival di Santarcangelo; dal 1985 è direttore del festival Passaggio di Pontedera e, dal 1990, di Volterrateatro in collaborazione con Carte Blanche.

Artaud

Figlio di un piccolo armatore francese e di una donna originaria di Smirne, Antonin Artaud comincia già a cinque anni a manifestare i sintomi della sofferenza mentale che determinerà tutta la sua esistenza. La sindrome meningitica e un successivo pericolo di annegamento sfociano verso i diciannove anni in una crisi depressiva che inaugurerà i suoi ripetuti soggiorni presso case di cura. Studia intanto presso il Collège du Sacré-Cœur di Marsiglia, dove dà vita a una piccola rivista letteraria sulla quale pubblica le prime poesie. Viene riformato nel 1917 per sonnambulismo. Su consiglio dei medici, che non intendono ostacolare il suo interesse per il teatro, si trasferisce a Parigi nel 1920. Nella clinica di Villejuif diventa redattore della rivista “Demain”. In questi primi mesi parigini incontra Lugné-Poe, Firmin Gémier, Charles Dullin e grazie a loro comincia a recitare: interpreta numerosi ruoli nelle produzioni dell’Atelier di Dullin e poi in quelle dei Pitoëff; tra i suoi compagni ci sono Etienne Decroux e Jean-Louis Barrault. Nel 1925 invia alcune poesie a Jacques Rivière, direttore della “Nouvelle Revue Française”, che non le accetta, ma propone in cambio di pubblicare la corrispondenza intercorsa tra i due: è una prima e illuminante testimonianza sul pensiero e sui procedimenti creativi di Artaud Ai disaccordi con Dullin si aggiunge il distacco per ragioni politiche dal movimento surrealista di Breton, al quale ha aderito e per il quale ha pubblicato L’ombelico dei limbi e Il pesa-nervi (1925). Abel Gance lo vuole interprete del Napoléon cinematografico nel ruolo di Marat (1926; ma sarà anche il monaco Massieu nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, 1928). Nel 1926, con Robert Aron e Roger Vitrac fonda il Théâtre Alfred Jarry. L’iniziativa è destinata a una vita precaria e fallimentare: quattro produzioni tra il 1927 e il 1929, tra cui Le partage de midi di Claudel, Il sogno di Strindberg e Victor, o i bambini al potere di Vitrac. Critica e pubblico colgono e rifiutano solo gli aspetti più superficiali delle proposte, ma proprio l’insuccesso dell’iniziativa è misura della diversità e della capacità di ridefinizione che il pensiero teatrale di A. comincia da allora a esercitare sulla scena europea.

Nel luglio 1931 assiste all’Esposizione coloniale di Parigi (padiglione delle Indie olandesi) allo spettacolo dei danzatori provenienti dall’isola di Bali. È per lui la visione rivelatrice, che «rimette il teatro sul piano di una creazione autonoma e pura, sotto la prospettiva dell’allucinazione e della paura». La reazione entusiastica svela infatti l’idea di «un nuovo linguaggio fisico a base di segni e non più di parole»: un teatro non più psicologico e letterario, qual è quello «degradato» dell’Occidente, ma un’esperienza della metafisica e del sacro che trasforma gli attori in «geroglifici animati» e fa del regista «un maestro delle sacre cerimonie». La recensione che Artaud stende dopo quello spettacolo, assieme ai manifesti del Théâtre Alfred Jarry e ai successivi scritti (nei quali sempre più drastica e consapevole si fa la critica all’Occidente), andrà a comporre uno dei testi teorici decisivi della scena del Novecento: Il teatro e il suo doppio (pubblicato nel 1938). Il doppio del teatro è la vita stessa di cui la `presentazione’, non la `rappresentazione’, può far scoprire «il vero spettacolo». Con questa vita la cultura occidentale ha perso il contatto e solo un teatro inteso come `peste’, che dissolve e purifica, che libera «un fondo di crudeltà latente», può rifondarlo o estinguerlo definitivamente. Al teatro della crudeltà si intitolano i manifesti del 1932-33 che preparano la fondazione di una seconda iniziativa: il nuovo Théâtre de la Cruauté trova spazio nella sala parigina delle Foliès-Wagram. L’inaugurazione del 1935, con I Cenci (che lo stesso A. trae da Shelley e Stendhal), è ancora una volta un insuccesso: diciassette rappresentazioni, dopo le quali lo spettacolo è sospeso. Negli anni successivi Artaud fa perdere le proprie tracce e allenta i contatti con il mondo esterno. Si reca in Messico, quasi senza denaro, e nei villaggi indios compie l’esperienza del peyotl (di cui riferirà poi nel volume Al paese dei Tarahumaras , pubblicato nel 1945).

Lo coinvolgono sempre più intensamente le conoscenze esoteriche, l’astrologia, il linguaggio dei tarocchi. Durante un viaggio in Irlanda (1937) viene arrestato e recluso per vagabondaggio; è subito rimpatriato e internato. In numerose lettere chiede soccorso e denuncia i trattamenti durissimi a cui viene sottoposto. I familiari ottengono che sia trasferito a Rodez, in una zona della Francia non occupata dai tedeschi, nel cui ospedale psichiatrico si pratica l’arte-terapia, ma anche l’elettrochoc (gli costerà la frattura di due vertebre). Le lettere che scrive e i piccoli quaderni di scuola che comincia a riempire sono la testimonianza visionaria di una personalità attraversata dal respiro crudele e liberatorio della follia. Aiutato da uomini di teatro e amici, lascia Rodez (1946) e accetta di tenere una conferenza al Vieux-Colombier (che interrompe nel mutismo). Dalla visita a una mostra di Van Gogh trae inoltre lo spunto per Il suicida della società (1947). Consumato fisicamente da un tumore (che egli lenisce con oppio, laudano e cloro), prepara una trasmissione radiofonica nella quale orchestra parole, urla, rumori sulla base del testo Per finirla con il giudizio di Dio . Prevista per la sera del 2 febbraio 1948, la trasmissione è sospesa d’autorità, scatenando una clamorosa campagna di stampa; verrà diffusa tre settimane più tardi per un pubblico ristretto di invitati. Vi si ascolta l’ultima voce di Artaud Il 4 marzo è trovato morto, seduto ai piedi del letto. La dichiarazione del decesso viene resa al comune di Ivry da un operaio delle caldaie.

Puggelli

Diplomatosi nel 1958 all’Accademia dei Filodrammatici di Milano (studia sotto la guida di Esperia Sperani) Lamberto Puggelli si avvicina all’ambiente del Piccolo Teatro dove, nel 1960, interpreta `El Pinascia’ ne El nost Milan di Bertolazzi con la regia di G. Strehler. Nello stesso anno esordisce nella regia di prosa con A ciascuno la sua fame di Jean Mogin, spettacolo allestito al Teatro Pirandello di Roma. Nella stagione 1964-1965 viene nominato responsabile della programmazione del Festival dei Due Mondi di Spoleto e contemporaneamente comincia a collaborare con il mondo della lirica, curando la regia di Oedipus rex (1965) di I. Stravinskij a La Fenice di Venezia. L’intensa attività svolta in questo ambito lo porta a lavorare nei maggiori teatri lirici italiani, come appunto La Fenice, di cui nel 1967 diviene regista stabile, oltre che con la Scala di Milano, il Regio di Parma, l’Opera di Roma, il Regio di Torino e il Teatro S. Carlo di Napoli, compiendo numerose tournée all’estero (soprattutto con La Fenice).

Nel 1970 ritorna al Piccolo Teatro di Milano, dove diviene assistente alla regia di Strehler. In questa veste lavora in Santa Giovanna dei macelli di Brecht, Re Lear (1972) di Shakespeare, L’opera da tre soldi (1973) di Brecht e Il campiello (1975) di Goldoni. Inoltre, firma insieme a Strehler le regie di alcuni spettacoli tra i quali nel 1971 Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (1971) di Pallavicini e Vené e nel 1973 La condanna di Lucullo (1973) di Brecht. Lo stesso anno P. mette in scena Barbablù (1973) di Dursi, primo spettacolo firmato da solo per la struttura milanese.

Parallelamente all’attività svolta al Piccolo, diviene direttore al Nuovo San Babila di Milano (1975) e cura la regia di alcuni allestimenti al Teatro Uomo (stagione 1976-77). Altre sue regie: La madre dal romanzo di Gor’kij (1978); Le furberie di Scapino di Molière (1984), Igne Migne dal romanzo di A. Campanelli (1987), Pilade di Pasolini (1989), Il libro di Ipazia di Luzi (1995) Tra le sue regie liriche ricordiamo: Turandot (1966) di Puccini, Il trovatore (1969) di Verdi, Norma (1972) di Bellini, I masnadieri (1974) di Verdi, Il barbiere di Siviglia (1979) di Rossini, La forza del destino (1982) e Otello (1990) di Verdi, La favorite (1991) di Donizetti, La sonnambula (1994) di Bellini e Fedora (1996) di Giordano. Va ricordato inoltre lo studio condotto dal regista su Pirandello, iniziato nel 1970 con lo spettacolo Le maschere nude , e proseguito poi, con Così è se vi pare nel 1975, La nuova colonia nel 1992 e Questa sera si recita a soggetto , l’anno dopo.

Bentivoglio

Dopo aver studiato nel 1976-77 alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, Fabrizio Bentivoglio esordisce nel ’78 con due spettacoli, Timone d’Atene , regia di Carlo Rivolta e La tempesta , regia di Strehler al Piccolo Teatro di Milano, che lo rivelano immediatamente come uno dei più duttili e dotati attori della nuova generazione. Nel 1979 recita al Teatro Quirino di Roma ne I parenti terribili di J. Cocteau, diretto da Franco Enriquez e l’anno dopo è sempre nella capitale, all’Eliseo, in Prima del silenzio con la regia di G. Patroni Griffi. Seguono L’avaro (1981), regia di M. Scaccia, e, ancora sotto la direzione di Patroni Griffi, Gli amanti dei miei amanti sono miei amanti (1982), Metti una sera a cena (1983) e D’amore si muore (1985), tutti testi del regista. La sua ultima fatica teatrale è Italia Germania 4 a 3 (1987) di Umberto Marino, regia di S. Rubini, lavoro che Bentivoglio interpreterà anche sul grande schermo nel 1989 con la regia di A. Barzini. Al cinema ha lavorato in più di venti pellicole, esordendo nel 1980 in La storia vera della Signora dalle camelie di M. Bolognini. Da ricordare anche Marrakesh Express (1988) e Turné (1989) di G. Salvatores assieme al quale fu co-sceneggiatore del secondo; Un’anima divisa in due di S. Soldini, Le affinità elettive (1995) dei fratelli Taviani. Ultimamente ha lavorato con il regista greco T. Anghelopulos in L’eternità è un giorno (1998).

Virgilio

Diplomato all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ nel 1966, Luciano Virgilio esordisce nello stesso anno con L. Ronconi nello spettacolo I lunatici di T. Middleton. Lavora poi con F. Enriquez (Il mercante di Venezia, La vedova scaltra, Rosencrantz e Guildestern sono morti, 1967). Tra il 1972 e il 1978 è al Piccolo Teatro di Strehler. Con il regista recita in Re Lear (1972) e nella celebre edizione del La Tempesta (1978). Attore di forte temperamento drammatico, esprime al meglio le sue doti con L. Ronconi. Virgilio torna infatti a lavorare col grande regista, continuativamente, dal 1987 al 1996. Un decennio d’oro, che lo vede partecipe di capolavori come Le tre sorelle (1989), L’uomo difficile (1991), La pazza di Chaillot (1991). Indimenticabili i kolossal come Gli ultimi giorni dell’umanità (1990) al Lingotto, dove recita nel ruolo dell’Ottimista, e l’intensa partecipazione all’ Affare Makropulos (1993). Recita ancora in Re Lear, con Ronconi, nel ruolo di Gloucester (1995), mentre nella stagione 1996-98 interpreta un Pirandello di Massimo Castri, La ragione degli altri.

Malosti

Walter Malosti ha convogliato il suo progetto artistico nel Teatro di Dioniso. Da qualche anno la struttura artistico-organizzativa lavora in autonomia, con un gruppo stabile di collaboratori. Malosti ha diretto, tra gli altri, Le lacrime amare di Petra Von Kant di Fassbidner (1988), Le Baccanti di Euripide (1990), La trasfigurazione di Benno il ciccione di Innaurato (premio Ubu 1992 per l’interpretazione di Antonino Iuorio), Il mio giudice di Maria Pia Daniele (scelto per rappresentare l’Italia alla Bonner Biennale 1994); un trittico di spettacoli di autori tedeschi contemporanei: nel 1994 Susn di Achternbusch e Né carne né pesce di Kroetz, nel 1995 Il tempo e la stanza di Botho Strauss; nel 1994 cambia completamente dimensione allestendo Tristi amori di Giacosa; del 1996 sono: Cuori: un poster dei Cosmos da Lanford Wilson e Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare con una compagnia di sette attori di differenti nazionalità. Nel 1997 ha lavorato a un progetto di messa in scena di Amleto che ha prodotto, tra l’altro, uno studio Ophelia (Hamlet/frammenti) , e realizzato per il Centro Teatrale Bresciano Ballo in maschera di Lermontov. Nel 1998 ha diretto Storia di Doro di Donatella Musso e ha collaborato con il Teatro di Roma lavorando su Alex M di Maggioni e Tomati per il corso di perfezionamento per giovani attori professionisti. Come attore, tra il 1990 e il 1997 ha lavorato in diversi spettacoli di Luca Ronconi. Ha inoltre partecipato a spettacoli di Tiezzi, Barberio Corsetti, Stolz, Vacis e R. Ferrero. Ha ricevuto una menzione speciale al Fringe Arts Festival 1992 di Melbourne come miglior performer interpretando Ella di Achternbusch in inglese.

Russo

Personaggio originale e creativo della scena italiana, l’attività teatrale di Tato Russo si distingue soprattutto per alcune particolarissime messe in scena di testi come: La tempesta (1991), Sogno di una notte di mezza estate (1993) di Shakespeare – per il quale nel 1995 vince il Premio della critica teatrale – L’opera da tre soldi (1988, poi ripresa nel 1995) di Brecht, Napoli hotel Excelsior (1988), Palummella zompa e vola (stagione 1989-90), spettacoli di cui è anche principale interprete. È inoltre autore di scritture prime per la scena, tra le quali si ricordano Week end, Mi faccio una cooperativa, La tazza d’argento, La parolaccia, L’uovo di carnevale, Ballata di un capitano del popolo, La commedia della fame, Cappuccetto blu, Una partita a poker, Cient’e una notte dint’a una notte (1992), Masaniello (stagione 1996-97), Viva Diego (stagione 1997-98). R. è inoltre direttore artistico del Teatro Bellini di Napoli. Nella stagione estiva 1998 partecipa al festival shakespeariano di Verona con lo spettacolo Amleto.

Cecchi

Diplomatosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica ‘S. D’Amico’, Carlo Cecchi ha lavorato come attore nella compagnia di Eduardo De Filippo. Il teatro napoletano e il metodo del Living Theatre, determinanti per la sua formazione, rimangono sempre vivi nel suo modo di dirigere gli attori. Nel 1971 ha fondato il Granteatro (in ironica polemica con il ben più grande e prestigioso Piccolo Teatro), una cooperativa impegnata in circuiti alternativi, con cui ha messo in scena e interpretato Le statue movibili (Campagnano di Roma 1971) e ‘A morte dint ‘o lietto ‘e don Felice (Chieti 1974) di A. Petito; Il bagno (Roma 1971) e La cimice (Scandiano 1975) di Majakovskij; Tamburi nella notte di Brecht (Torino 1972); Woyzeck di Büchner (Torino, quartiere Lingotto 1973); Il borghese gentiluomo di Molière (Firenze 1976); L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello (Guastalla 1976; ripreso nel 1980 e ’81), dove ha privilegiato, anziché il meccanismo intellettuale, la struttura teatrale, risolta in chiave di balletto mascherato. Grazie a questi lavori, che realizzano una difficile sintesi tra le forme della tradizione popolare italiana e le proposte dell’avanguardia europea,  Carlo Cecchi si è imposto come una delle più forti e originali personalità del nuovo teatro italiano, reincarnando in modo moderno la figura del capocomico: non però primattore e mattatore, ma guida e coscienza degli attori con cui lavora.

Dal 1977, prima con il Teatro regionale toscano, poi con il Teatro Niccolini di Firenze, ha realizzato e interpretato ogni anno nuovi allestimenti. Di Molière, nelle traduzioni di Cesare Garboli, Don Giovanni (1978); Anfitrione (1980), secondo la formula dello spettacolo d’epoca; Il misantropo (1986) che, senza bisogno di alcuna spettacolarizzazione, ma attraverso la valorizzazione del testo e il recupero della sua forza drammatica, è uno spettacolo-manifesto dell’idea animatrice delle scelte registiche – nonché politico-civili – di  Carlo Cecchi: la denuncia e lo smascheramento dell’ipocrisia attraverso la figura di Alceste; Georges Dandin (1989), con Patrizia Zappa Mulas e Elia Schilton. E ancora: La mandragola di Macchiavelli (Firenze, forte Belvedere 1979), Ivanov di Cechov (festival di Spoleto 1982), Lu curaggiu de nu pumpiere napulitano di Scarpetta (1985). Ha diretto e interpretato anche Shakespeare: La tempesta (1984) con Paolo Rossi e Alessandro Haber, un allestimento antillusionistico che mette in evidenza la costruzione del testo e i numerosi rimandi e corrispondenze, quali l’ossessione del colpo di stato e il tentato regicidio come leitmotiv del dramma; Amleto (1989), dove è notevole la valorizzazione della scena con l’apparizione dello spettro, alla fine del terzo atto: momento chiave della tragedia, che spezza in un certo senso l’autonomia di Amleto abbandonandolo, strumento passivo, alla forza degli eventi.

Di Pinter, Il compleanno (1980) con Paolo Graziosi e Toni Bertorelli, Il ritorno a casa (1981), L’amante (1986) e La serra (1997): dell’autore inglese  Carlo Cecchi traduce in scena l’acre ironia, la mescolanza di comico e tragico, le azioni minime e quotidiane, i silenzi, tesi a comunicare la violenza feroce che si cela sotto le apparenze di una quiete infingarda. Di Thomas Bernhard, Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me (1990) con Gianfelice Imparato; Ritter, Dene, Voss (1992) con Marina Confalone e Anna Bonaiuto; Drammoletti (1992): nei tre drammi C. riesce a restituire la partitura quasi musicale dei testi, giocando tutto sul ritmo e sulle cadenze sonore, facendo propria la disperazione e la forza d’invettiva dell’autore austriaco, senza perderne mai la carica sarcastica. Tra il 1993 e il ’95 ha messo in scena e interpretato La locandiera di Goldoni (1993), Leonce e Lena di Büchner (1993), Nunzio di S. Scimone (Taormina 1994), Finale di partita di Beckett (1995) con Valerio Binasco, in cui prevalgono i toni comico-grotteschi su quelli tragici. Dal 1996 ha lavorato su Shakespeare, di cui ha proposto Amleto (1996; versione di C. Garboli, già utilizzata sette anni prima), Sogno di una notte di mezza estate (1997; versione di Patrizia Cavalli) e Misura per misura (1998; versione Garboli), in un teatro fatiscente e scoperchiato nel centro di Palermo (il Garibaldi), che è parte integrante degli allestimenti, e con un gruppo di attori in maggioranza napoletani, tra cui Iaia Forte, Roberto Di Francesco, Valerio Binasco, Arturo Cirillo, Viola Graziosi. Gli spettacoli iniziano nel pomeriggio alla luce naturale per concludersi al sopraggiungere della notte, illuminati da fiaccole: una messinscena così particolare ne renderà quasi impossibile la rappresentazione in altri luoghi canonici.

Un repertorio così vasto e diverso testimonia di uno spirito inquieto e curioso, che rifugge da ogni chiusura. Da Shakespeare alla farsa dialettale, da Molière al romanticismo pre-espressionista di Büchner, da Cechov a Pirandello, dalle tragedie-parodie di Majakovskij al primo Brecht, fino ai massimi autori contemporanei Beckett e Pinter, l’intero patrimonio teatrale è oggetto della vorace sperimentazione di  Carlo Cecchi. Anche nella scelta degli attori, al gruppo collaudato  Carlo Cecchi preferisce il rischio di un continuo avvicendamento, con il lancio di numerosi attori debuttanti. Tra i collaboratori principali per le scene e i costumi vanno ricordati Sergio Tramonti (1973-76, e ancora 1982-87) e Titina Maselli (dal 1989). Attore-regista di ampia e raffinata cultura, ma immune da vizi intellettualistici,  Carlo Cecchi s’è sempre proposto non già di stupire e scandalizzare, dell’originalità a ogni costo, ma di comunicare, di stabilire un rapporto conoscitivo più che emotivo tra testo, attori e pubblico. Un rapporto non fissato una volta per sempre, ma che si sviluppa nel corso delle rappresentazioni:  Carlo Cecchi rifiuta la concezione rigida e un po’ sacrale che molti registi hanno del loro lavoro, ma ubbidisce alla legge fondamentale del teatro, come organismo e valore vivo e quindi labile, mutevole, provvisorio. La sua acuta intelligenza e consapevolezza producono uno stile di recitazione distaccato, defilato, tormentato, talvolta ironico, straniato (memore di Eduardo e di Brecht), che non sa nascondere la nostalgia di un teatro che già fu coscienza critica della società.

Jessner

Leopold Jessner debutta come attore nel 1897 a Cottbus, poi recita a Breslavia e a Berlino. Lavora con C. Heine (dal quale, come dice egli stesso, impara cosa sia la regia) e L. Dumont a Hannover e Dresda, e qui inizia a occuparsi anche di regia. Dal 1904 al ’15, al Thalia Theater di Amburgo, mette in scena soprattutto opere di contemporanei come Ibsen, Hauptmann, Wedekind, Cechov, Maeterlinck. Nel 1910 cura la regia di La morte di Danton di Büchner e, nel 1914, di Ufficiali di Fritz von Unruh. Inoltre, dal 1914 al 1915, con un programma molto simile, dirige le `Volksschauspiele’ (Scene popolari) fondate dai sindacati. Dal 1915 al ’19 è direttore del Neues Schauspielhaus di Königsberg dove, oltre ai contemporanei, mette in scena anche i classici (Re Lear, Don Carlos, Guglielmo Tell, Faust), applicando i principi `espressionisti’ – così definiti dallo stesso autore – elaborati nelle regie di opere di Wedekind ad Amburgo (Lo spirito della terra nel 1906, Risveglio di primavera nel 1907, Re Nicolò nel 1911, La marchesa di Keith nel 1914): la semplificazione simbolica e antinaturalistica della scena, l’accelerazione dinamica, la concentrazione ideale. Comunque Leopold Jessner, spirito idealista e socialista, nel 1913 dichiara che «il regista deve restare nel mondo e comprendere politicamente il suo tempo». Dal 1919 al ’30 è intendente del Teatro nazionale di Berlino e vi cura numerose regie: nelle prime gli spazi sono ancora spogli e la lingua è serrata e sublimata, come in Guglielmo Tell, La Marchesa di Keith e Riccardo III (protagonista Fritz Kortner). Più tardi il suo stile si avvicina al realismo, dalla messa in scena del Wallenstein di Schiller (1924) a quella de I tessitori di Hauptmann (1928); il suo Edipo re (1929) viene elogiato da Brecht. Nel 1930, in seguito ai duri attacchi della destra, dà le dimissioni da intendente. Emigrato nel 1933 all’avvento del nazismo, lavora a Rotterdam (1934), a Tel Aviv (1936) e nel 1939 si stabilisce a Los Angeles.

Musco

Dopo aver provato diversi mestieri, che svolse comunque sempre accompagnato dalla passione per lo spettacolo, a quindici anni Angelo Musco debuttò come canzonettista in un teatrino di marionette siciliano, dove si formò, rimanendo fino alla morte del capocomico Santoro. Più tardi fu ingaggiato come `buffo’ in una compagnia di operette e vaudeville, che girava per la Sicilia. All’inizio del secolo lasciò l’isola, scritturato da Grasso. La sua affermazione cominciò nel 1902, quando al Teatro Argentina di Roma prese parte a Malia di Capuana e a I Mafiusi di Rizzotto. Fu in quell’occasione che Musco incontrò Martoglio, che proprio per lui scriverà San Giovanni decollatu e L’aria del continente . Nel 1914 diventò capocomico e interpretò Il paraninfo di Capuana, apportando al testo fondamentali modifiche e ottenendo così un grande successo. L’anno dopo i destini di M. si incrociarono con quelli di Pirandello, del quale, nel corso degli anni, fu applaudito interprete di Lumie di Sicilia , Il berretto a sonagli , Pensaci, Giacomino! , La patente e Liolà . Con questi testi Musco mise in evidenza quelle che erano le sue grandi doti, una sintesi tra la comicità debordante e la capacità di rendere la psicologia dei personaggi. I suoi ricordi di vita sul palcoscenico sono raccolti in un volume, che egli stesso dettò a E. Serretta, intitolato Cerca che trovi. .., pubblicato nel 1930. In campo cinematografico lavorò dopo l’avvento del sonoro. Fu protagonista di film di modesta levatura, che ebbero però il merito di fissare sulla pellicola la sua straordinaria capacità istrionica, trasferendo sullo schermo le figure a cui aveva dato vita nei suoi più grandi successi teatrali.

Nuti

Proveniente dal teatro universitario di Genova, Piero Nuti collabora con Radio Torino, dando vita al primo nucleo di quello che diventerà il Teatro stabile della città. Fondatore del Teatro della Svizzera italiana, lavora successivamente con A. Brissoni, P. Sharoff, G. Salvini, D. Fo (dal 1959, con Gli arcangeli non giocano a flipper , al 1966, con Il diavolo ), F. Enriquez ( La dame de Chez Maxim’s , 19??; Ippolito e Le Fenicie , 1962; Rosencrantz e Guildernstern sono morti , 1967). Nel 1967 N. incontra M. Scaparro e, con A. Innocenti e altri, fonda il Teatro Popolare di Roma; dal 1979 ne assume la direzione, continuando comunque la sua attività di interprete raffinato e ironico: da Corruzione a Palazzo di Giustizia di U. Betti (1983, regia di O. Costa) e Ifigenia in Aulide di Euripide (1990, regia di M. Perlini) a Oreste (regia di G. Testori) e Agamennone (regia di A. Innocenti), fino al più recente Il bell’indifferente di J. Cocteau (1998, regia di R. Reim, 1998).

Benti

Di ascendenze nobili, alto e naturalmente elegante e raffinato, Galeazzo Benti divenne sulla scena (e spesso sullo schermo) il ‘gagà’ per antonomasia. Una figura, quella del giovanotto snob e nullafacente, con erre moscia e movenze sincopate, dotato di strabiliante fantasia e perciò destinato inevitabilmente alla derisione, che già spopolava sui giornali umoristici con rubriche su misura: «Il gagà che aveva detto agli amici…». Seguiva una battuta dalla doppia lettura: una, aulica, lasciata intendere da un gagà e l’altra, plebea, illustrata dalla vignetta. Nella stagione 1943-44, B. recitò in Ritorna Za Bum di Marcello Marchesi, accanto ad Alberto Sordi, anch’egli agli esordi, e a Carlo Campanini, Carlo Ninchi, Roldano Lupi. Il successo si ripeté nella stagione successiva con Sai che ti dico? dello stesso autore, con Sordi che presenta il personaggio di Mario Pio, il petulante boy-scout da oratorio. Soubrette Vivi Gioi, caratteristi di peso Ave Ninchi e Luigi Pavese. Nel 1944-45 fu in Pasquino di Vittorio Metz e alla rivista, dedicata all’irriverente personaggio romano (le `pasquinate’ erano poesie polemiche contro le autorità), parteciparono Sergio Tofano, Enrico Viarisio, Aroldo Tieri. Nella stessa stagione, fu in Imputato alziamoci! di Michele Galdieri, accanto a Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci, con Lucy D’Albert soubrette. Affronta la satira con Soffia, so’… di Garinei e Giovannini; nel cast, Anna Magnani, Sordi, Carlo Ninchi, Marisa Merlini. Lo spettacolo, nel 1945, venne eccezionalmente rappresentato a Roma e a Milano: all’epoca le tournée erano settentrionali oppure centro-meridionali, per ovvie ragioni belliche. Benti sarà ancora accanto alla Magnani in Sono le dieci e tutto va bene nella stagione successiva. Venne poi definito dalla critica «divertentissimo» in La piazza di Galdieri con Carlo Dapporto (stagione 1952-53). Tramontata la rivista ed esauritosi il filone dei filmetti comico-musicali (ne interpretò una sessantina, di cui sette con Totò), Benti nel 1955 si trasferì in Venezuela, allestendovi una compagnia di produzione televisiva (programmi e spot). Venne richiamato in Italia nel 1979 da Ettore Scola per il film La terrazza. Da allora tornò a recitare in teatro: con Massimo Ranieri in Varietà di Maurizio Scaparro; con Enrico Montesano in Cercasi tenore di Ludwig-Fiastri, regia di Pietro Garinei, stagione 1989. Dopo il suo rientro in patria, ha interpretato una quindicina di film e serial tv, meritandosi anche una nomination al David di Donatello per il film Io e mia sorella di Carlo Verdone. Di rilievo il ruolo del mentore nel remake del film Il conte Max con Christian De Sica: nel ruolo di un nobile decaduto che insegna le buone maniere a un giovanotto aspirante conte.

Micheluzzi

Figlio d’arte, Carlo Micheluzzi iniziò la sua carriera nel 1903 recitando nella compagnia veneta Zago-Borisi. Nel corso del tempo formò diverse compagnie di cui fecero parte nomi importanti come G. Giachetti, C. Baseggio e G. Cavalieri. Nel 1923 sposò l’attrice Margherita Seglin. Interpretò con successo testi di Goldoni e Gallina e nell’ambito del teatro dialettale fu uno dei pochi a muoversi con disinvoltura tra ruoli sia comici che drammatici, stimolando diversi autori a scrivere opere in veneto o a tradurre in dialetto quelle in lingua italiana.

Iuorio

Caratteristico esponente della tradizione scenica napoletana, Antonino Iuorio dopo la sperimentazione delle azioni performative del teatro di strada con il gruppo Chille De La Balanza (protagonista nelle manifestazioni del carnevale veneziano 1984-85), cresce artisticamente collaborando con registi quali L. Ronconi (Oberon di Weber, 1989; Besucher di Botho Strauss, 1989; Gli ultimi giorni dell’umanità, 1991), M. Martone (Woyzeck di Büchner, 1989; Rasoi di E. Moscato) e soprattutto W. Malosti (La trasfigurazione di Benno il Ciccione di A. Innaurato, premio speciale Ubu 1992 per la ‘singolare’ interpretazione; Carne, 1992 e Ballo in maschera, 1997). Fondatore del Gruppo di sperimentazione Fuori Campo, vi ha lavorato in qualità di attore, regista e autore. Fra i suoi testi di cui ha curato anche la regia: Accelerazione, Effusioni sull’omesso, Galena Bianca e Symbionty III. Al teatro affianca un’intensa attività televisiva (La ciociara di D. Risi e Scomparsi di C. Bonivento) e soprattutto cinematografica. Per il grande schermo interpreta fra gli altri Nel continente nero di M. Risi (1992), Morte di un matematico napoletano di M. Martone (1992), Per amore, solo per amore di G. Veronesi (1993), Ivo il tardivo di Benvenuti (1995), Ilona arriva con la pioggia di S. Cabrera (1996) e Bambola di Bigas Luna (1996).

Chiari

Walter Chiari fu il talento più rivoluzionario del teatro di rivista italiano. Veronese di nascita, ma milanese di adozione (storici il suo flirt con la commessa del ‘Galli’ Lucia Bosè e la sua amicizia con la famiglia Rota, impresari ed esercenti di cinema e teatri), fu battezzato in palcoscenico durante una serata di dilettanti e amici, così per allegria, agli inizi dei ’40 all’Olimpia di Milano. Da allora le grandi soubrette dell’epoca se lo contesero: fu vittoriosa Marisa Maresca che lo scritturò subito e gli offrì poi il nome in ditta, le sue prime luci al neon tra le nebbie del dopoguerra, prima in E il cielo si coprì di stelle accanto a Gandusio, nel 1945, indi in Fantasia di vedettes e nel sontuoso Se vi bacia Lola nel 1946, di Bracchi e Dansi. Il giovane Walter, campione lombardo dei pesi piuma, faceva il ragazzone che si lasciava sedurre dalla soubrette, e con lei ripeté l’exploit in Simpatia di Marchesi (1947, lo stesso anno in cui apparve anche in Rosso di sera ). Seguì una trilogia di gran successi di rivista (Marchesi, Amendola e Maccari per i testi, Gisa Geert la coreografa), segno che la coppia era, anche fisicamente, indovinata. Si tratta di Allegro (1948-49), Burlesco (1949-50, con un filo conduttore che conduce all’inferno con i sette peccati capitali) e Gildo (1950-51, parodia del mitico titolo hollywoodiano con Rita Hayworth), dove Walter imita i film americani (celebre la scena bellica del sommergibile), accanto al giovane Franco Parenti; ma in quest’ultimo show, successo personale per la promessa comica `made in Milano’, la Maresca è stata sostituita da Miriam Glori.

Accanto alla sua storica ‘spalla’ Carlo Campanini, cui fu legato da un saldo rapporto di amicizia, Walter iniziò negli anni ’50 la scalata al teatro di rivista, rivoluzionando gli schemi e anche i contenuti, con una generosità e un entusiasmo che lo resero beniamino controcorrente. Un comico in grado di chiacchierare per ore dalla passerella col pubblico: e non provvisto di una classica maschera, ma capace di suscitare ilarità senza smorfie e vestito in borghese; capace di una dialettica intelligenza, poi sempre più colta, dalla belva di Chicago al bullo di Gallarate, il burino di campagna e lo scimmione, senza soluzione di continuità, mentre la sua vita privata si arricchiva di colpi di scena e di amori celebri e tormentati come quello con Ava Gadner. Rimangono celebri alcuni suoi sketch, resi popolari poi anche dalla tv, come l’imitazione classica dei fratelli De Rege, con Campanini, o quella scenetta, prodigio del surreale dialettico, che era il ‘Sarchiapone’, ambientata in treno come lo sketch di Totò e prodiga di osservazioni non banali sulla psicopatologia della vita quotidiana. Walter rimane ancorato ai vecchi schemi della rivista ancora con tre titoli, con cui però cerca già strade nuove e inizia la sua trasformazione in entertainer: Sogno di un Walter di Silva e Terzoli, nella stagione 1951-52, con Campanini e Dorian Gray sullo sfondo del Naviglio e il comico che continua con le parodie degli stereotipi del cinema; Tutto fa Broadway di Marchesi e Metz (1952-53) con Lucy D’Albert, lusso e comicità, riferimenti agli Usa e i De Rege già in scena con spasso; Oh quante belle figlie madama Dorè di Walter e Terzoli, nella stagione 1955-56, sempre col fido Campanini, Bice Valori e Colette Marchand. Ma sono da citare due spettacoli che risentono dell’influsso del cabaret intelligente dei Gobbi e di Parenti, Fo e Durano: nella stagione 1953-54 C. recita Controcorrente , ovvero una conversazione satirica e quasi monologante sul quotidiano, senza ballerine né scenografie, ma con un cast da talent scout : Modugno e le sue prime canzoni in dialetto siciliano, la Valori, la Bonfigli, Galeazzo Benti. L’anno seguente è la volta di un’altra rivista da camera, I saltimbanchi di Silva e Terzoli, in cui si afferma che siamo un po’ tutti saltimbanchi e Chiari si trova a suo agio tra le prime canzoni di Laura Betti e la regia di Zeffirelli.

Quando inizia la stagione del musical, l’attore è pronto per il salto, anche se resta fortemente attaccato al suo stile per sempre giovanilistico: con Delia Scala, i suoceri Lola Braccini e Odoardo Spadaro, è nel 1956 il marito italiano di una mogliettina scrittrice audace di best seller (vedi Françoise Sagan) in Buonanotte Bettina di Garinei, Giovannini e Kramer (canzoni: “È tutta colpa della primavera”, “Com’è bello dormir soli”). Riprenderà lo spettacolo best seller con la compagna Alida Chelli, Navarrini e la Wandissima nei `camei’ dei suoceri, nella stagione 1963-64. Ma nel frattempo aveva anche recitato la parte del timidone che offre le sue idee a un pubblicitario in Io e la margherita (1958-59) e poi, sempre con Garinei e Giovannini, la favola musical-capitalistica di Un mandarino per Teo (1960-61), accanto alla Mondaini, Bonucci, Ave Ninchi. È la storia di una comparsa che riceve per magia la ricca eredità di un cinese, accompagnata da un complesso di colpa per omicidio: un tran tran piccolo borghese stravolto da un proverbio. Nella stagione 1966-67 un ultimo grande best seller, prodotto da Garinei e Giovannini: La strana coppia di Neil Simon con Rascel, con cui rifarà poi ditta per recitare niente meno che Finale di partita di Beckett. Negli ultimi anni, prima di imboccare la via della prosa anche con teatri stabili, Walter frequentò gli show di arte varia, fu perfino presentatore di spettacoli di dubbio gusto dopo un periodo sfortunato. Con il cinema ebbe un rapporto di odio e amore, gli capitò qualche buona occasione in finale di carriera con Del Monte e Mazzucco, ma gli sfuggì il premio ambito della Mostra di Venezia. C. interpretò però dalla fine degli anni ’40 a metà degli anni ’50 innumerevoli film comici o romantici di successo, in coppia con le belle attrici di allora o con altri comici in vena di parodia, come gli piaceva da sempre (I magnifici tre con Tognazzi e Vianello). Ma non ebbe mai la grande occasione nella commedia all’italiana, per cui alla fine si ricordano di lui un grande film di L. Visconti come Bellissima, con la Magnani, dove fa il cinematografaro senza scrupoli, La capannina, Falstaff di Welles, il Giovedì di Risi, La rimpatriata di Damiani, oltre a trasmissioni, tra cui Canzonissim, di successo popolare tv.

Bosic

Dopo aver studiato teatro a Praga Andrea Bosic si trasferisce a Roma e si diploma all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’. Debutta nel 1945 al Teatro Eliseo di Roma accanto ad Anna Magnani. In seguito fa parte delle compagnie di Memo Benassi, Tatjana Pavlova e della Pagnani-Cervi. Lavora al Piccolo Teatro di Milano (1949-51), con il regista Guido Salvini e per sei anni con Vittorio Gassman al Teatro Popolare Italiano. Quando questo viene sciolto, ritorna in compagnie di giro, poi agli Stabili di Torino e Genova. Definito attore classico per eccellenza, ha lavorato spesso al Teatro Greco di Siracusa. Ha recitato inoltre per la radio, la televisione e il cinema.

Pieraccioni

Leonardo Pieraccioni esordisce giovanissimo sul piccolo schermo accanto a Fiorello in “Deejay Televison”, ma ha già dalla sua una precoce esperienza cabarettistica: debutta nel 1985 con Camomilla e viene diretto due anni dopo da G. Ariani in Molto poco spesso . Poi, il teatro vero e proprio: Leonardo Pieraccioni Show (1990), Novantadue verso l’Europa (1992), Villaggio Vacanze Pieraccioni (1992), Pesci e Frigoriferi (1994) e Fratelli d’Italia (1995) con C. Conti e G. Panariello. Dotato di una mimica estrosa e naturale, attraverso l’uso sapiente di un vernacolo mai eccessivo ha saputo imporsi soprattutto al cinema dove, in coppia con lo sceneggiatore G. Veronesi, ha sfornato alcuni tra i più grandi successi commerciali della commedia italiana popolare di questo secolo (Il ciclone nel 1996, Fuochi d’artificio l’anno successivo), livellando verso il basso il gusto della risata generazionale e riuscendo tuttavia a scansare gran parte della volgarità sottesa al genere.

Lepage

Il padre tassista e la madre casalinga sono testimoni precoci della vocazione teatrale di Robert Lepage. Entrato a diciassette anni al Conservatoire d’Art Dramatique e conquistata subito la patente di ragazzo prodigio, sceglie di approfondire il proprio talento in Europa e studia a Parigi con Alain Knapp. Nel Québec ritorna all’inizio degli anni ’80, riconquistando notorietà con il lavoro per la Ligue National d’Improvisation, pronto ad affiancarsi a Jacques Lessard nella direzione del Théâtre Repère. Il suo primo spettacolo, En attendant si ispira a un disegno giapponese, ma da regista aspira anche all’esercizio sui classici ( Coriolano , 1983). Circulations (1984) avvia la serie dei premi e dei riconoscimenti, che culmina in questa prima fase con il `solo’ Vinci (1985): autore, produttore, impresario e protagonista dello spettacolo, Robert Lepage comincia qui a manifestare doti di magnetico narratore e assemblatore di linguaggi. La sua interpretazione stimola l’interesse di Denys Arcand che lo vuole attore nel film Jésus de Montréal. Mentre la tournée di Vinci gli prepara una notorietà internazionale, più consapevole si fa in lui la matrice québecoise, utilizzata però come trampolino per interessi cosmopoliti e aperture su paesaggi transnazionali. È dal gioco nomade fra i continenti che comincia a nascere nel 1985 La trilogia dei dragoni, kolossal sull’emigrazione asiatica in Canada e saga generazionale recitata in tre lingue per una durata di sei ore (Parigi e Milano nel 1989 godranno della versione integrale). Polygraph (1987) e Tectonic plates (1988-90) rilanciano una passione per l’intreccio, magari sentimentale e investigativo insieme, mentre la scena dispiega un’inventiva di spazi e di strumenti, ricca di soluzioni assolutamente inedite, attente, ma non schiave, della tecnologia.

All’imponenza di queste produzioni Lepage sa anche alternare lavori più ridotti, dove recupera una personale sensibilità d’interprete: le pene d’amore di Jean Cocteau e Miles Davis, ma anche le proprie, sono narrate Gli aghi e l’oppio (1991), un `solo’ a lunga tenitura che accompagna, a metà degli anni ’90, la fondazione di Ex Machina (1994), la sua compagnia, che ha sede in una vecchia caserma dei pompieri a cavallo a Montréal. Ha avuto modo intanto di allestire opere musicali (Il castello di Barbablù, Erwartung) e di preparare il Secret World Tour del musicista Peter Gabriel. Occasione per un altro kolossal sono I sette bracci del fiume Ota (1995), spettacolo che riallaccia fili presenti in precedenti lavori commemorando il 50º anniversario della bomba di Hiroshima in un’organizzazione complessa di nessi narrativi e visivi, cortocircuito continuo di storie e di geografie. Nel filone dei “solo” si iscrive invece la esercitazione sul personaggio di Amleto presentata in Elsinore (1995). Mentre già prende corpo il nuovo lavoro sull’architettura di Frank Lloyd Wright, Les geometries des miracles (1998), il suo film Il confessionale viene proiettato a Cannes (1995) e dai materiali dello spettacolo su Hiroshima nasce la sceneggiatura di un altro film, No.

Stori

Formatosi come burattinaio con Otello Sarzi nel 1976, Bruno Stori è tra i fondatori del Teatro delle Briciole con cui collabora ancora stabilmente; attore per la Compagnia del Collettivo, oggi Stabile di Parma, è anche fondatore del Teatro Lenz Rifrazioni sempre di Parma (1985). Attore di grande e forte sensibilità, ha scritto e spesso diretto alcuni degli spettacoli più belli del teatro-ragazzi italiano soprattutto per le Briciole: Nemo (1979), Il topo e suo figlio (1982), Il grande racconto (1990), Un bacio ancor… un bacio ancor… un altro bacio (1992), Con la bambola in tasca (1994), ma anche per altri gruppi Romanzo d’infanzia (1997) per la compagnia Abbondanza Bertoni, Gioco al massacro (1997) per il Teatro Città Murata di Como.

Citti

Scoperto da Pasolini, che in Accattone (1961) gli fa interpretare il personaggio di un ragazzo di vita e che lo dirigerà successivamente in Mamma Roma (1962), Edipo re (1967), Porcile (1969), Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle mille e una notte (1974). Sotto la regia del fratello Sergio, Franco Citti lavora nei film Ostia (1971), Storie scellerate (1973), Casotto (1977), Il minestrone (1981), I magi randagi (1997). Diretto anche da B. Bertolucci in La luna (1979), F.F. Coppola nel Padrino (1972) e Padrino parte terza (1990), F. Maselli (Il segreto), E. Petri (Todo modo), C. tratteggia con grande bravura personaggi istintivi, di desolata amarezza. In teatro lavora tra gli altri con M. Martone (voce recitante in Oedipus Rex di Stravinskij, 1988), C. Quartucci ( I giganti della montagna , 1989), M. Missiroli ( La locandiera , 1991) e G. Barberio Corsetti ( La nascita della tragedia , 1996). Con Cartoni animati (1998), presentato e premiato a Taormina Arte ’98, firma la sua prima regia cinematografica con la supervisione del fratello Sergio. Favola ambientata nell’estrema periferia romana attraversata da un campionario di varia e diseredata umanità, il film ritrova ambienti e personaggi cari all’universo poetico dei fratelli Citti.

Bessegato

Paolo Bessegato frequenta la scuola del Piccolo Teatro di Milano. Dopo il diploma (1974) e dopo una breve esperienza di assistente alla regia di Giorgio Strehler e Dario Fo inizia l’attività di attore nel ’75 con la compagnia di Virginio Gazzolo. Alla fine degli anni ’70 è uno degli animatori del Teatro Uomo di Milano, un luogo di sperimentazione artistica e di impegno civile. Nel ’79, la sua prima opera come autore, Manuale di disoccupazione viene presentata al Club Brera, un piccolo spazio che, a Milano, è stato per qualche anno un centro di attività ricerca. La sua prima interpretazione importante è Tartufo (1981) con la regia di Mina Mezzadri al Centro Teatrale Bresciano. Qui stabilisce, dal 1985, una intensa collaborazione con il regista Nanni Garella per cui interpreterà Ricorda con rabbia di Osborne, Agamennone di Alfieri e, fuori dal Ctb, Ista laus e Didone abbandonata. Tra le altre interpretazioni, Alcesti nel 1992 con la regia di Walter Pagliaro; Adelchi nel ’93 con la regia di Mina Mezzadri; La morte civile nel ’94 diretta da Giuseppe Bertolucci, Ecuba ancora nel 1994 diretta da Massimo Castri, e nel 1996 Arlecchino servitore di due padroni con la regia di Nanni Garella accanto a A. Haber. Come regista e interprete firma alcuni recital poetici: Uccellino meschino di Giancarlo Majorino nel ’78; Gli sguardi, i fatti e senhal di Andrea Zanzotto nel 1980; Fuochi incrociati di Antonio Porta nel 1984; Villon di Roberto Mussapi nel 1990 e Bibbiù di Achille Platto nel 1996, solo come regista. Al teatro alterna l’attività di attore in tv, nella musica e nel cinema.

Mejerchol’d

Terminata la scuola teatrale diretta da V. Nemirovic-Dancenko, Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d viene da lui chiamato a far parte della compagnia del Teatro d’Arte appena fondato con K. Stanislavskij, dove rimane dal 1898 al 1902, interpretando fra gli altri alcuni personaggi cechoviani (Treplev nella prima edizione del Gabbiano e Tuzenbach in quella di Tre sorelle), Vasilij Suiskij (Lo zar Fedor Ioannovic ) e Ivan il Terribile (La morte di Ivan il Terribile) entrambi di Tolstoj, Malvoglio ne La dodicesima notte e il principe d’Aragona ne Il mercante di Venezia . Lascia il Teatro d’Arte per fondare una propria compagnia dove per la prima volta si cimenta nel ruolo di regista: per tre anni lavora in provincia, con un repertorio che riprende molti titoli già affrontati sotto la direzione di Stanilavskij e Nemirovic (Cechov, Gor’kij). Nel 1905 Stanislavskij lo richiama: vuole fondare uno Studio per avviare una libera sperimentazione nel campo della regia e della recitazione al di fuori dei modelli realistici consolidati all’interno del Teatro d’Arte. Il repertorio orientato in senso simbolista (Hauptmann, Maeterlinck), il sistema di recitazione e l’impostazione registica estremamente stilizzati lasciano perplesso Stanislavskij che decide di chiudere l’esperimento prima di affrontare il pubblico. Nel 1906 Mejerchol’d viene chiamato a Pietroburgo da Vera Komissarzevskaja: la grande attrice gli affida la sua compagnia.

Le scelte di repertorio proseguono nella stessa linea dello Studio: Hedda Gabler di Ibsen, Suor Beatrice di Maeterlinck, La vita dell’uomo di Léonid Andreev e La baracca dei saltimbanchi di Aleksandr Blok, spettacolo, quest’ultimo, che diventa manifesto del teatro ‘convenzionale’ per la perfetta stilizzazione di recitazione, scene, costumi e soluzioni sceniche. L’intesa con la primattrice si rompe presto: la Komissaerzvskaja accusa il regista di privilegiare le nuove ricerche a scapito del proprio talento. Dal 1908 al 1917 Mejerchol’d lavora stabilmente nei due teatri imperiali di Pietroburgo: allestisce, con messinscene fastose e accuratissime, spesso in collaborazione col grande scenografo A. Golovin, all’Aleksandrinskij grandi classici russi e europei (Don Giovanni di Molière, L’uragano di Ostrovskij, Un ballo in maschera di Lermontov), al Marijinskij opere liriche (Tristano e Isotta di Wagner, Orfeo e Euridice di Gluck, Elettra di Strauss). Non abbandona comunque la ricerca: a partire dal 1914 fonda una rivista di studi teatrali (“L’amore delle tre melarance”) e un proprio Studio (chiamato `di via Borodinskaja’ dal nome della via dove ha sede) dove sperimenta con giovani allievi nuove forme di gestualità, rifacendosi alla tradizione di improvvisazione della commedia dell’arte e alla stilizzazione del teatro orientale; per le esercitazioni utilizza canovacci di comici italiani, scene da grandi tragedie shakespeariane, testi di autori simbolisti ( La sconosciuta di A. Blok). È tra i primi ad aderire con entusiasmo alla Rivoluzione del 1917: abbandona i teatri imperiali e lavora nella sezione teatrale del Commissariato per l’Istruzione prima a Pietrogrado poi a Mosca, dove nel 1921 fonda un proprio teatro chiamandolo Teatr RSFSR I. Primi spettacoli: Albe di Verhaeren (1921), con una radicale rielaborazione del testo in senso rivoluzionario e scene cubiste di Dmitriev, e una riedizione di Mistero-Buffo di Majakovskij (già messo in scena nel primo anniversario della Rivoluzione a Pietrogrado).

Mejerchol’d assume negli anni immediatamente postrivoluzionari un ruolo di guida in ogni forma di sperimentazione: accoglie nel suo teatro e stimola alla scrittura i giovani drammaturghi, di cui poi mette in scena con entusiasmo i lavori, contribuendo così coraggiosamente alla formazione di un fino allora inesistente repertorio sovietico (Fajko con Il lago Ljul’ , 1922; Sel’vinskij con Komandarm 2 , 1929; Visnevskij con L’ultimo decisivo , 1931; Olesa con L’elenco delle benemerenze, 1931; German con Introduzione , 1933; oltre ai due ultimi lavori del già celebre Majakovskij, La cimice, 1929 e Il bagno , 1930); continua le sue ricerche nel campo della formazione dell’attore, lanciando una nuova formula, la ‘biomeccanica‘, dove accanto al tradizionale allenamento ginnico-espressivo tenta l’utilizzazione dei `gesti di lavoro’, rielaborazione della teoria tayloriana (sperimenta la formula in alcuni spettacoli, poi, trovandola troppo schematica, la limita al training); infine affronta, con riletture rivoluzionarie, i grandi classici del teatro russo ed europeo ottocentesco, riuscendo a metterne in luce con sconcertante audacia l’attualità, troppo spesso soffocata da messinscene tradizionali (La morte di Tarelkin di Suchovo-Kobylin, 1922; Un posto lucrativo e La foresta di Ostrovskij, rispettivamente 1923 e 1924; soprattutto Il revisore di Gogol’, 1926 e Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, 1928, due spettacoli storici a cui ancor oggi si ricorre per l’intelligenza delle eversive soluzioni interpretative; poi La dama delle camelie di Dumas, 1934; 33 svenimenti da atti unici di Cechov, 1935). A partire dalla metà degli anni ’30 la posizione di Mejerchol’d si fa sempre più difficile, a causa degli attacchi continui della critica ufficiale, che lo accusa di `formalismo’ ossia di tendenze contrarie al realismo socialista, corrente ormai ritenuta ufficiale in tutte le arti. Molti suoi spettacoli in preparazione vengono vietati, i lavori già iniziati dell’edificio teatrale da lui progettato vengono sospesi, la stampa lo denigra in ogni senso: nel 1939 viene arrestato con l’accusa di attività antisovietiche e, dopo mesi di interrogatori e torture, fucilato. Solo all’inizio degli anni ’60 si ricomincia a parlare di lui in Unione Sovietica: la tardiva riabilitazione permette di pubblicare i ricchi materiali preparatori per le regie (appunti, stenogrammi di prove) e i suoi non copiosi scritti teorici.

Speziani

Diplomato alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano, Massimiliano Speziani debutta nel 1988 in Antonio e Cleopatra, diretto da Giancarlo Cobelli. Nel 1990 è nel gruppo ronconiano degli Ultimi giorni dell’umanità e segue Massimo Castri nel Progetto Euripide (Elettra, Oreste). Castri lo sceglie anche per il ruolo di Clarino in La vita è sogno. Per questa interpretazione Speziani riceve il premio Coppola-Prati. Ancora con Castri è Arlecchino nel Gioco dell’amore e del caso di Marivaux (1993). La divertita maschera comica dei precedenti personaggi lascia il posto a un lavoro di più aggressiva caratterizzazione, quando assieme ad Alfonso Santagata si impegna nelle riletture shakespeariane di King Lear (con Leo de Berardinis), Terra sventrata, Polveri. Un premio Ubu va alla sua particolare interpretazione in Petito Strenge (1996), dove è accanto a Giuseppe Battiston, col quale scrive e interpreta anche Entrambi.

Loche

Dal 1991 al ’94 Pierfrancesco Loche partecipa ad Avanzi e in seguito a Tunnel (1994) trasmissioni televisive nate dall’esperienza della Tv delle ragazze , in cui seppe guadagnarsi una discreta popolarità, interpretando un giornalista falso e truffaldino. Nel 1992 partecipa a Non chiamarmi Omar, film di Sergio Staino e al film-tv In fuga per la vita, che vedeva come protagonista Gianni Morandi. In seguito lavora ne Gli scoppiati (1996) di Marco Bertini e Valter Lupo (anche regista) insieme a Francesca Reggiani e Armando De Razza, al Teatro Parioli di Roma. Nel 1997 è ancora in televisione nel serial televisivo Linda e il brigadiere , protagonisti Nino Manfredi e Claudia Koll e come autore e interprete della sit-comedy Disokkupati.

Storti

Dal 1985, anno di nascita dello storico Comedians di Gabriele Salvatores per il Teatro dell’Elfo, la carriera di Alberto Storti si divide tra teatro e tv. In teatro, oltre ad alcuni lavori drammatici, partecipa con Paolo Rossi a Le visioni di Mortimer e L’opera da due lire. In tv è nel cast di Su la testa! con Paolo Rossi (1992), in cui interpreta un improbabile orchestrale pugliese, e Cielito lindo con Claudio Bisio (1993), dove Storti è il nordico-leghista Alfio Muschio, il nero bergamasco che ama Bossi e conquista le piazze italiane all’urlo di «Drogati, comunisti!». Dopo il tour con i musicomici ‘C’è quel che c’è’, l’artista conferma la sua popolarità con il suo passaggio a Mai dire gol (1995-96) dove affianca al `leghista di colore’, suo cavallo di battaglia, un altro personaggio, il Conte Uguccione, un nobile fiorentino playboy dal linguaggio decisamente triviale, rielaborazione di un personaggio nato nello spettacolo Café Procope diretto da Salvatores, e la azzeccata parodia di uno scrittore pulp. Nel 1997-98 è tra i protagonisti di Scatafascio.

Ridenti

Lucio Ridenti iniziò la carriera come `generico’, insieme a Memo Benassi, nella compagnia diretta da Ermete Novelli; dopo una breve esperienza con la compagnia della Bondi, si fece notare come `brillante’ nella compagnia Ferrero-Palmarini-Celli-Pieri, ruolo che interpretò anche nella compagnia Galli-Guasti-Bracci (1916-19). Iniziò una breve carriera cinematografica: Il figlio o l’atroce accusa, Senza pietà (1920). Nel 1924 fu prim’attore comico con Alda Borelli e nel 1925 nella compagnia di T. Pavlova. Una menomazione all’udito gli impedì di continuare la carriera teatrale, così dal 1925 si impegnò nel giornalismo, dapprima come redattore alla “Gazzetta del popolo” di Torino, quindi come vicecritico drammatico. Nel 1925 fondò la rivista “Il dramma”, che diresse fino al giugno 1968, dove ospitò moltissime commedie italiane e straniere, facendo diventare la rivista anche luogo di discussioni critiche, oltre che di recensioni. A lui si deve la pubblicazione, in cinque volumi, delle Cronache drammatiche di Renato Simoni, nonché alcuni libri di teatro: Palcoscenico (1923), La vita gaia di Dina Galli (1928). Scrisse come commediografo Il malinconico , che andò in scena nel 1924 con protagonista Alda Borelli; insieme a Falconi, scrisse Cento donne nude (1927). Fu anche riduttore di romanzi di Tolstoj, Resurrezione (1925), e di Dostoevskij, Delitto e castigo (1927).

Garrani

Ivo Garrani esordì nella compagnia di C. Tamberlani a Roma nel 1943, ma due anni dopo lavorava già con Morelli-Stoppa. Ebbe una breve parentesi nel 1948-49 con Diana Torrieri, nello stesso anno fu con la compagnia Pagnani-Cervi dove recitò la parte di Raimondo ne La regina e gli insorti di U. Betti. La galleria di personaggi di opere classiche (Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill), contemporanei e brillanti (La pulce nell’orecchio di G. Feydeau, 1951-52 con G. Tedeschi) che Garrani interpreterà con uno stile recitativo scarno e incisivo si arricchirà con Cristiano in Amici per la pelle di P. Barillet a fianco di E. Merlini. Importante anche l’interpretazione di nel Giulio Cesare di Shakespeare con la regia di Strehler al Piccolo Teatro nel 1954. L’anno successivo fece parte della compagnia del Nuovo Teatro (protagonista in Sacro esperimento di F. Hochw&aulm;lder). Degna di nota è anche la sua attività televisiva iniziata in ruoli di caratterista come, tra i tanti, Rodriguez ne L’alfiere (1956), il grande Silver John ne L’isola del tesoro (1959) e Porfirj Pètrovic in Delitto e castigo di Majano (1963). A contribuire notevolmente alla sua popolarità fu, negli anni ’60, la parte del padre di Giannino Stoppani nel Giornalino di Gian Burrasca di L. Wertmüller. La televisione gli offre anche nel ’70 interpretazioni interessanti come il protagonista dell’originale: Scandalo della Banca Romana. L’ultimo suo lavoro è del 1993 ne L’ispettore anticrimine. Di un certo spessore anche la sua attività cinematografica (Ragazze da marito, 1952; Il processo di Verona, 1963; L’amante di Gramigna, 1969).

Vetrano

Enzo Vetrano inizia il suo lavoro di attore con Michele Perreira a Palermo. Nel 1974 è protagonista del Marat/Sade di Weiss e del Woyzeck di Büchner con la regia di Beppe Randazzo, con il quale fonda il teatro Daggide a Palermo. Con il Daggide realizza, tra gli altri, uno spettacolo di grande successo, Ubu re di Jarry, in cui interpreta la parte di Ubu. All’interno di questa esperienza di teatro di gruppo dà il via alla sua ricerca che si orienta verso il teatro d’attore, l’improvvisazione e l’idea della drammaturgia collettiva, privilegiando la scrittura scenica.

Dal 1976 lavora insieme con Stefano Randisi, dapprima in The Connection di J. Gelber (regia di Leo de Berardinis) per la cooperativa Nuova Scena di Bologna di cui diventa socio, e all’interno della quale nel 1983 forma una propria compagnia. Prosegue il suo sodalizio con Randisi, con il quale realizza molti progetti teatrali; tra i tanti la trilogia dedicata alla Sicilia, loro terra d’origine: Principe di Palagonia , Mata Hari a Palermo (premio Palermo per il Teatro 1988), L’isola dei beati (1988). È diretto da Randisi con Nestor Garay in Giardino d’autunno di D. Raznovich. Continua in parallelo a recitare con De Berardinis in L’impero della ghisa (1991), I giganti della montagna di Pirandello (premio Ubu 1993 come spettacolo dell’anno), Lear opera e Totò principe di Danimarca . Con Randisi dirige e interpreta Diablogues (1994) e Beethoven nel campo di barbabietole (1996) di R. Dubillard. È attore e coregista dello spettacolo Mondo di carta , dalle novelle di Pirandello.

Comello

Toni Comello è noto soprattutto per aver fondato `Il Trebbo’ (1956), un gruppo di ricerca teatrale attivo nella sperimentazione del linguaggio, con risvolti socio-politici; tra i titoli di maggior rilievo Serva Italia, Era la Resistenza, Con atto e con parole, tutti dedicati a un ben preciso discorso sociale. Comello può considerarsi l’emblematico rappresentante di un teatro fondato sulla memoria storica, ma al tempo stesso decisamente puntato sull’attualità.

Musazzi

Ispiratore, autore, primo attore e prima donna della compagnia di Legnanesi, storico gruppo dialettale lombardo che, lavorando di giorno e recitando di sera, fu per vent’anni in testa agli incassi e agli indici di gradimento teatrali, Felice Musazzi nacque da una famiglia di origine modesta, papà tranviere e mamma operaia. Impiegato alla Franco Tosi, azienda metalmeccanica, iniziò a esibirsi nella metà degli anni ’30, ma poi scoppiò la guerra, il giovane soldato Musazzi va al fronte e restò prigioniero per due anni in Russia. Ritornò nel 1946, riprese il suo lavoro e in fabbrica e all’oratorio di Legnanello organizzò con entusiasmo i primi show del suo gruppo en travesti , perché erano negate, per l’ecclesiastica morale d’epoca, le presenze femminili. Abituato quindi a calarsi nei poveri panni post contadini della povera donna di buon senso lombardo, ecco a voi la mitica Teresa, Musazzi crea un vero prototipo della commedia d’arte, arricchendolo con la sua sana vena populista che la rende un emblema del `quarto stato’ teatrale.

I Legnanesi sono la povera gente (e i poveri cristi-dilettanti della passerella) contro gli snobismi intellettuali degli altri teatranti e i soprusi del denaro. Nasce così la compagnia dialettale dei Legnanesi, madrina Paola Borboni, cui Musazzi offrì, per quarant’anni, una serie di testi-pretesti dapprima rivistaioli e poi più coordinati nella scrittura, in cui però emerge una facile satira della società dei costumi, vista dai cortili della provincia, inquadrando, non sempre casualmente, la fatica e la miseria della povera gente. Portava in scena i sobborghi industriali, le case di ringhiera, i cortili pieni di urla, di storie e di baruffe `pop’. Teresa, figura diventata leggendaria, era spiritosa e conservava doni teatrali unici, nati alla scuola delle recite parrocchiali: si scontrava con la reazionaria e padronale Chetta, chiacchierava con le vicine, si esibiva in clamorosi errori di grammatica e in divertenti giochi di parole. Ma il suo `tormento’ teatrale era la figlia Mabilia, spudorata zitella di campagna vittima delle mode e contraria al sano buon senso di un’altra generazione. Musazzi, nel corso di una trentina di spettacoli, raffinò il personaggio e i testi, affidandosi sempre meno all’improvvisazione, fissando irresistibili tempi comici con la complicità di un pubblico che stravedeva per lui, tra cui Giorgio Strehler che lo considerava la migliore attrice italiana e gli propose una parte in un suo allestimento goldoniano. La storia dei Legnanesi è riassunta nella storia personale di Musazzi, con i suoi antichi trucchi e le sue clamorose gaffe, mescolando il dato sociologico reale con il piacere della finzione assoluta (il travestimento). Non gli mancarono, oltre ai clamorosi consensi delle platee domenicali, anche i riconoscimenti ufficiali della critica che poco per volta lo scoprì per intero.

Ferravilla

Figlio naturale d’un nobile, Filippo Villani, e di una raffinata cantante, Maria Luisa Ferrari (ma le origini non sono certe), straordinario ed originale inventore di caratteri, Edoardo Ferravilla è considerato uno dei più limpidi spiriti schiettamente meneghini, anima genuina d’una Milano che non esiste più. Tipi, macchiette e caricature non furono soltanto un grossolano pretesto di risata, ma durevoli maschere di un teatro che trascendeva la stessa milanesità, pur essendone simbolo ed amorosa testimonianza. Alcune figure caratteristiche, create ed interpretate da Ferravilla per ‘scene familiari’, ‘scherzi comici in un atto’, ‘farse in un atto’, pièce e pochade tipo Belle Epoque, fanno ormai parte della storia del teatro, anche se, al di fuori delle sue originali interpretazioni, molte macchiette rimangono svuotate di significato: Gervasin e Parapetti (Barchett de Boffalora), Pedrin Bustelli (Nodar e Perucchee), Sindegh Finocchi (La statoa del sur Incioda), Tecoppa (I duu ors ), Massinelli (La class de asen, Massinelli in vacanza), el sur Panera (El duel del sur Panera , Martin e Zibetta), Maester Pastizza (L’opera del maester Pastizza), el sur Camola (Bagolamento-fotoscultura), el sur Pirotta (L’amis del papà), Don Polibi (I tribuleri del sur Spella), Gigione e il Conte di Luna (Minestron), Pistagna (El sposalizi del sur Pistagna), Bertold (El sindegh Bertold). Dopo Ferravilla è rimasto un modo di recitare, tipico del teatro comico milanese, fatto di allusioni, silenzi, sapienti e scontrose sottolineature.

Messeri

Interprete sia comico che drammatico Marco Messeri si misura con impegno e talento in diversi linguaggi espressivi: come regista e attore teatrale e cinematografico. Dopo studi di pittura all’Accademia delle belle arti di Firenze e al Piccolo Teatro di Milano, debutta con la regia di Paolo Poli in Brasile di D. Wilcock, con cui lavora anche in Rosmunda dell’Alfieri. Partecipa a Vita di Galilei di Strehler con Tino Buazzelli. E prosegue con Clizia di Macchiavelli con la regia di U.Chiti. A renderlo noto è il film di Carlo Mazzacurati, Notte italiana (1987) nel quale è Otello, il protagonista (vince il Globo d’oro come migliore attore dell’anno). Con Mazzacurati recita anche ne Il Prete bello (1989), Vesna va veloce (1996) e Il toro nella parte di Tantini. Lavora con Nanni Moretti in La messa è finita (1985) nella parte di Saverio e in Palombella rossa (1989). È con Troisi in Ricomincio da tre (1980), e Le vie del Signore sono finite (1987, con cui vince il Ciak d’oro come miglior attore non protagonista) e Pensavo fosse amore e invece era un calesse . È diretto da E. Scola nel Viaggio di Capitan Fracassa . Con il film Con gli occhi chiusi (1994) di F. Archibugi si aggiudica il Nastro d’argento come migliore attore. Lavora anche con altri giovani registi italiani: in Camerieri (1995) di Pompucci, Un inverno freddo freddo , di Cimpanelli (1996). È stato regista e interprete di molti spettacoli tra i quali: Maledetti toscani, ovvero il magnifico e il barbiere , La famiglia dell’antiquario di Goldoni. Nel 1998 recita con la regia di Mazzacurati nella pièce Conversazione senza testimone di Sofja Prokofeva. Ha partecipato alla trasmissione tv Avanzi .

Scarpati

Giulio Scarpati inizia con la Cooperativa Gruppo Teatro G dal 1977 al 1980. Lavora poi con A. Trionfo ne Il candelaio di Giordano Bruno (1981). Segue una breve trasferta milanese, in cui interpreta al Piccolo Teatro Il trionfo dell’amore di Marivaux, con la regia di Antoine Vitez (1985) e Le donne de casa soa di Goldoni al Pier Lombardo con la compagnia Franco Parenti, regia di G. De Bosio (1986). Attor giovane di bella presenza e di bell’impegno, si afferma come attore privilegiato della drammaturgia contemporanea. Si segnala infatti nel 1988 in Orfani, regia di Ennio Coltorti, realizzato per la Contemporanea ’83 di Sergio Fantoni, interpretazione che gli vale il Biglietto d’oro a Taormina. Nel 1991 si aggiudica anche il premio Thiene come interprete di Prima del silenzio di G. Patroni Griffi, regia di A. Terlizzi. Tra le altre sue interpretazioni ricordiamo Gocce d’acqua di P.F. Poggi, regia di N. Venturini, che viene premiato ad Astiteatro come miglior spettacolo. Nel 1994 è nel cast scelto da M. Castri per l’ Ifigenia in Tauride di Euripide, realizzata per lo Stabile dell’Umbria. Nel 1996 è con M. Scaparro nel Lorenzaccio di De Musset. Nel 1998 interpreta L’idiota da Dostoevskij.

Wilson

La formazione di Georges Wilson è segnata dall’incontro con grandi maestri: nel 1945 è allievo di Pierre Renoir; nel 1947-48 è nella compagnia Grenier-Hussenot; nel 1952 collabora con Jean Vilar all’allestimento di Ubu re di Jarry (Théâtre National Populaire). Nel 1963 subentra a Vilar nella direzione del TNP, che lascerà nel 1972: Brecht (Il signor Puntila e il suo servo Matti ), Corneille, Shakespeare sono gli autori degli allestimenti di maggior successo. In seguito collabora con diverse sale (in particolare L’Oeuvre) e nel 1986 si lancia nel cinema con Léopold le bien-aimé , da una pièce di Jean Sarment; tra i suoi maggiori successi, Sarah ou le cri de la langouste (1982), Eurydice di Anouilh, con il debutto in teatro di Sophie Marceau, Enrico IV di Pirandello (1995).

Catania

Dopo il diploma alla scuola del Piccolo Teatro Antonio Catania inizia a recitare al Teatro dell’Elfo con G. Salvatores, C. Bisio, P. Rossi (fino al 1987), interpretando per lo più ruoli di carattere, soprattutto comici e grotteschi; fra i tanti, Pinocchio Bazaar. È diretto da Salvatores in Sogno di una notte d’estate (1981), Comedians di T. Griffiths (1985), Café Procope (1989); recita anche in Nemico di classe di N. Williams, diretto da E. De Capitani (1983). Fra le altre sue interpretazioni, Il processo (da Kafka) con F. Parenti e La commedia da due lire con P. Rossi. Affianca all’intensa attività teatrale quella cinematografica; conosciuto soprattutto come attore di Salvatores (Kamikazen, Mediterraneo, Puerto Escondido, Sud, Nirvana), ha lavorato con altri registi italiani dell’ultima generazione (Il carniere di M. Zaccaro, Barca a vela contromano di S. Reali).

Redgrave

Proveniente da una famiglia di antica tradizione teatrale – che lui stesso contribuisce a tramandare con i tre figli, tutti attori, Vanessa, Corin e Lynn – Sir Michael Redgrave debutta nel 1934 tra le fila della compagnia teatrale riunita intorno al Liverpool Playhouse, all’interno della quale incontra e sposa l’attrice R. Kempson. Due anni più tardi si trasferiscono insieme all’Old Vic dove Redgrave interpreta Orlando in Come vi piace, Laerte in Amleto, e Horner nel dramma di Wycherley La moglie di campagna. Nel 1937 viene scritturato da J. Gieguld al Queen’s Theatre dove si cimenta per la prima volta e con grande successo nell’interpretazione di un dramma contemporaneo, Riunione di famiglia di T.S. Eliot, mostrando le sue alte doti artistiche fuori dall’ambito shakespeariano e classico. Attore dalla particolare bella presenza e dotato di voce soave, dà lustro ai festival stagionali di Stratford-upon-Avon insieme a talenti contemporanei come Gieguld, Scofield, Olivier, V. Leigh, e R. Burton. In particolare mostra le sue qualità artistiche recitando insieme alla Aschroft in Antonio e Cleopatra sotto la guida di Glen Byam Shaw; nei panni di Riccardo II e Hotspur nel 1951 diretto da Anthony Quayle, e tra le fila della Royal Shakespeare Company di Peter Hall, agli albori, porta l’Amleto nella prima tournée in Urss.

Nel 1959 recita in un suo adattamento del testo di H. James Il carteggio Aspern. Il suo interesse per il teatro e la professione attoriale lo conducono in studi e approfondimenti che negli anni ’50 concretizza nei due volumi The Actor’s Ways (1955, rivisto nel 1979) e Mask or Face (1958). All’inizio degli anni ’60 entra a far parte della compagnia di Olivier partecipando nel 1962 al primo Chichester Festival con una storica interpretazione dello Zio Vanja che inaugura anche la prima stagione di repertorio del National Theatre nella sede dell’Old Vic. Dopo l’interpretazione di Il costruttore Solness di Ibsen accanto a J. Plowright, è costretto a lasciare la compagnia per motivi di salute. Torna brevemente sulla scena nel 1972 per interpretare il ruolo di un vecchio e silenzioso accademico in Chiusura di partita (Close of Play) di S. Gray.

Poiret

Jean Poiret ha formato una celebre coppia comica con Michel Serrault; assieme hanno recitato in La cage aux folles (1972), scritta dallo stesso P., ottenendo uno straordinario successo di pubblico. Lo spettacolo, rimasto in cartellone per sette anni consecutivi al Palais-Royal, ha dato vita nel 1978 anche a una versione cinematografica, Il vizietto , interpretata da Serrault e Ugo Tognazzi, nel ruolo che a teatro aveva impersonato lo stesso P., mentre nel 1991 è stata rappresentata dalla Compagnia della Rancia. Come autore ha firmato: Douce amère (1970); L’impromptu de Marigny (1974); Féfé de Broadway (1977); Joyeuses Pâques (1980); Les clients (1987); C’est encore mieux l’aprèsmidi (1987, adattamento dal testo di R. Cooney). È stato interprete di tutte le sue commedie, e ha recitato inoltre in: Fleur du cactus di Barillet e Gredy; Le canard à l’orange di W. Douglas Home e M. Gilbert Sauvajon; Le vison voyageur .

Mantesi

Diplomato all’Accademia d’arte drammatica, recita con R. Ruggeri e fin dal ’49 Gianni Mantesi viene diretto da Strehler in alcuni fra i più celebri spettacoli delle prime stagioni del Piccolo Teatro di Milano ( Le notti dell’ira di Salacrou, I giacobini di Zardi, La morte di Danton di Büchner, accanto a T. Carraro, fino al Il campiello di Goldoni). Degna di nota, nel 1985, la sua interpretazione nel ruolo di un Priamo in doppiopetto ne La guerra di Troia non si farà di Giraudoux, di cui è stato anche regista.

Neiwiller

Presenza artistica forte ma discreta, e di rara intensità, Antonio Neiwiller attraversa tre decenni di ricerca teatrale italiana. Nella sua formazione studi filosofici, insegnamento, preparazione tecnica e pittura: arte che Neiwiller equipara al teatro, e nella quale privilegia l’opera di Paul Klee. Dapprima scenografo e scenotecnico, firma la prima regia nel 1974, Ti rubarono a noi come una spiga (da P. Eluard, S. Quasimodo, R. Scotellaro, E. Vittorini), alla quale seguono Don Fausto di A. Petito (1975), Quanto costa il ferro? di Brecht (1976), BerlinDada (1977), Anemic Cinema (1979). Intento a combinare nella complessità dell’arte teatrale i diversi linguaggi artistici (pittura, musica, danza), la sua sottile fantasia con il rigore della ricerca, in seguito all’incontro con spettacoli di Grotowski e Kantor ( La classe morta ) Neiwiller abbandona i testi e si indirizza verso un teatro del silenzio e della memoria, antidoto alla `barbarie’ edonistica e consumistica degli anni ’80. Alla guida del gruppo napoletano Teatro dei Mutamenti (con il quale nel 1978 ha già realizzato una seconda edizione di Don Fausto ), attraverso un lungo lavoro laboratoriale e lo stretto rapporto artistico con gli attori, dà vita a Titanic the End (1983), Darkness (1984), Fantasmi del mattino (1985-86), Storia naturale infinita (1987). Neiwiller, che già nel 1977 aveva preso parte a Maestri cercando: Elio Vittorini (regia di R. Carpentieri), ha intanto cominciato, con eccezionale talento, a recitare. Lavora nelle produzioni del gruppo Falso Movimento: protagonista nel 1985 di Il desiderio preso per la coda da Picasso, prende parte a Coltelli nel cuore da Brecht (1985) e Ritorno ad Alphaville da J.-L. Godard (1986, regie di M. Martone), irrompendo come una «rivelazione di verità e umanità nel disegno formale del gruppo». Nel 1987 partecipa a Napoli alla nascita di Teatri Uniti, in cui confluiscono Falso Movimento, Neiwiller e il regista-attore Toni Servillo. Nel 1987-88, con L. Putignani, S. Cantalupo, A. Cossia, realizza per Teatri Uniti due sessioni di laboratorio ( Questioni di frontiera ), presentate ai festival di Santarcangelo e Montalcino, dove incontra il musicista Steve Lacy.

Nell’allestimento La natura non indifferente (1989), ispirato all’artista tedesco Joseph Beuys e al legame tra arte, energia primordiale, creazioni della civiltà, lo Steve Lacy Trio è sul palco. Segue Una sola moltitudine (1990), un’opera-installazione `visionaria’ (Neiwiller è anche tra gli interpreti) dedicata allo scrittore portoghese Fernando Pessoa e all’emarginazione dell’artista. Nello stesso periodo lavora con L. de Berardinis, recitando in Ha da passà `a nuttata (1989) e Totò, principe di Danimarca (1990). Elabora quindi La trilogia della vita inquieta , ispirata a Pasolini, Majakovskij, Tarkovskij: in Dritto all’inferno (festival di Volterra 1991) le parole di Pasolini sono frantumate in un linguaggio inventato, nato direttamente dal corpo dell’attore. Nello stesso anno a Erice, ospite di `La zattera di Babele’, realizza Salvare dall’oblio , performance su testi di M. Beckmann, K. Valentin, R. Viviani, e dà una memorabile prova cinematografica come Don Simplicio in Morte di un matematico napoletano di Martone. Canaglie , secondo capitolo della trilogia, dopo l’anteprima napoletana (maggio 1992) è interrotto per la malattia che colpisce l’artista. Neiwiller riprende a recitare nel 1993: è Cotrone in I giganti della montagna di Pirandello per la regia di Leo de Berardinis, e quindi il sindaco di Salina nel film Caro diario di Nanni Moretti. L’altro sguardo , presentato al festival di Volterra 1993, è il suo ultimo lavoro di autore-attore, in scena con L. Putignani e il pittore G. Savino: lo spettacolo, con il bellissimo testo `Per un teatro clandestino – dedicato a T. Kantor’, costituisce il suo testamento poetico; ne dà testimonianza filmata il mediometraggio di R. Ragazzi Antonio Neiwiller. Il monologo de `L’altro sguardo’ , presentato al festival di Venezia 1996.

Mezzogiorno

L’esordio di Vittorio Mezzogiorno è televisivo, nel 1964, in uno sceneggiato per ragazzi, cui fanno seguito, nel 1967, una partecipazione al teleromanzo La Fiera delle vanità e, nel 1975, una parte secondaria nel riuscito sceneggiato L’amaro caso della baronessa di Carini . Come protagonista interpreta Una spia di regime (1976) e Martin Eden (1979), in cui impersonava Cheeseface. La grande popolarità fu raggiunta, agli inizi degli anni ’90, con l’interpretazione del commissario Licata negli sceneggiati de La Piovra 5 e 6. Ma l’esperienza più prestigiosa fu la partecipazione al monumentale Mahabharata di P. Brook, insieme a un cast internazionale di attori provenienti da ben sedici nazioni diverse. Dal festival di Avignone, nel 1985, questo spettacolo ha girato il mondo (Parigi, New York, Glasgow, Prato ecc.); e nel 1989 ne furono tratte sia una riduzione cinematografica che una televisiva, della durata di sei ore, che rimangono come miglior testamento della bellissima interpretazione. Nel 1986 è ancora in teatro con uno spettacolo di Mario Martone, Ritorno ad Alphaville ispirato al film di Jean Luc Godard. Ancora insieme a Martone recita nel Woyzeck di Büchner (1989). Della sua attività cinematografica, si ricordano: Tre fratelli di Francesco Rosi (1981), La caduta degli angeli ribelli di Marco Tullio Giordana (1981) e La condanna di Marco Bellocchio (1994).