De Filippo

Luigi De Filippo costituisce un po’ la quintessenza della tradizione attoriale napoletana, e già, s’intende, a partire dal versante familiare: i genitori – il grande Peppino De Filippo e Adele Carloni, anch’ella attrice e figlia di attori – si erano conosciuti sul palcoscenico, recitando nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, fratello naturale dei tre De Filippo; e, come se non bastasse, uno dei quattro fratelli di Adele, Pietro, fu il marito di Titina De Filippo. De F. debutta in teatro al Quirino di Roma nel 1951, ovviamente nella compagnia del padre; e, da quel momento, Peppino gli affida ruoli via via più importanti. Divenuto condirettore della compagnia e principale collaboratore artistico del padre, è al suo fianco in tutte le applauditissime tournée all’estero, distinguendosi – da interprete ormai maturo e connotato da una singolare cifra espressiva, che mescola umorismo e amarezza – su palcoscenici prestigiosi, in Europa e Sudamerica. Nel 1978 lascia la compagnia del padre e imbocca una propria, autonoma strada, anche in veste di regista. Non meno significativa è l’attività di De F. come autore. Particolare successo hanno avuto le sue commedie Fatti nostri, Storia strana su di una terrazza romana, Come e perché crollò il Colosseo, La commedia del re buffone e del buffone re, e la più recente La fortuna di nascere a Napoli . Tema costante di questi copioni – a testimonianza di una scelta ideologica che discende essa stessa `per li rami’ – sono la famiglia e le sue contraddizioni, l’una e le altre assunte come specchio e paradigma della società contemporanea. Di particolare interesse anche la riscrittura in chiave metaforica di Il malato immaginario di Molière: l’azione risulta spostata a Napoli nel 1799, sicché – proclamata la Repubblica Partenopea, dopo che Ferdinando di Borbone e la regina Maria Carolina sono fuggiti in Sicilia – Argante diventa, quasi automaticamente, il classico conservatore piccolo-borghese indotto a barricarsi in casa dall’illusione di poter evitare, per l’appunto attraverso l’isolamento, il `contagio’ dei tempi nuovi e, soprattutto, dei nuovi diritti che essi hanno portato alle classi subalterne.

Ceronetti

Il Teatro dei Sensibili viene creato da Giudo Ceronetti insieme a Erica Tedeschi ad Albano, nelle vicinanze di Roma, nel 1970: la decisione di aprire una sala dove si allestiscono spettacoli di marionette – definite ideofore – parte dall’idea di cogliere «il tragico celato nella marionetta, emblema della libertà negata all’uomo da chi ne tiene i fili». Il primo spettacolo allestito, diretto e interpretato dallo stesso Ceronetti è la Iena di San Giorgio , storia di Barnaba, «paranoico criminale che non riesce a farsi prendere sul serio»; la tragedia è stata messa in scena successivamente allo Stabile di Torino. Nel 1976 C. scrive Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell’ultimo Faust , che viene portato in scena a Spoleto nel 1979 con la regia dello stesso autore. Ad esso fa seguito Furori e poesia della rivoluzione francese , rappresentato a Roma nel 1983 (con Adriano Dallea come collaboratore alla regia), in cui si pongono sotto accusa la brutalità e la stupidità della Rivoluzione. Del 1988 è invece Mystic Luna Park e del 1991 Viaggia, viaggia Rimbaud . Nell’estate 1996 il festival di Asti porta in scena lo spettacolo di `poesia teatralizzante’ Per un pugno di yogurt (regia dell’autore). Nel corso dello stesso anno viene proposta, sempre ad Asti, la messinscena di Deliri disarmati , con la regia di Lorenzo Salveti.

Bragaglia

Insieme al fratello Anton Giulio, Carlo Ludovico Bragaglia fondò, nel 1918, la Casa d’arte Bragaglia e, nel 1922, il Teatro degli Indipendenti, dove prestò la sua opera fino al 1930. Nello stesso anno cominciò a collaborare con la Cines, casa per la quale girò alcuni documentari. Nel 1933 esordì come regista cinematografico dirigendo il lungometraggio O la borsa o la vita. Fu autore di una lunga e fortunata serie di film comici. Da ricordare Animali pazzi (1939), Totò le Mokò (1949), Totò cerca moglie (1950), 47 morto che parla (1951). Di tutt’altro genere, e denso di slanci lirici, fu invece La fossa degli angeli (1937), film che Bragaglia ambientò nelle cave di marmo di Carrara.

Wekwerth

Dopo alcuni allestimenti con un gruppo amatoriale (I fucili di madre Carrar di Brecht) Manfred Wekwerth è chiamato a lavorare al Berliner Ensemble. Allievo, poi assistente e collaboratore di Brecht, con lui firma nel 1954 la sua prima regia (Il cerchio di gesso del Caucaso); assieme a Peter Palitzsch dirige Il furfantello dell’ovest di Synge (1956) e La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (1959). Dal 1960 al ’69 è primo regista del Berliner Ensemble; realizza numerosi allestimenti in collaborazione con registi quali Joachim Tenschert e Benno Besson (I giorni della Comune , 1962; Coriolano, 1964; Santa Giovanna dei macelli, 1968). Sue messe in scena, come quella del Riccardo III di Shakespeare o de L’anima buona di Sezuan di Brecht, vengono presentate anche all’estero (Zurigo, Vienna). Chiamato a dirigere (1975) l’Institut für Schauspielregie di Berlino, nel 1977 è nominato intendente del Berliner Ensemble, succedendo a Ruth Berghaus; tra i suoi allestimenti più significativi, Vita di Galilei (1978) e la Turandot di Brecht (1981). Dopo la riunificazione, sotto la pressione del senato di Berlino, è costretto a presentare le dimissioni, malgrado le proteste di molti registi anche occidentali (Peter Zadek tra gli altri); la sua ultima regia al Berliner Ensemble è Schweyk nella seconda guerra mondiale di Brecht.

Sanchis Sinisterra

Formatosi nell’ambito del teatro universitario e del teatro indipendente durante il periodo franchista, dopo la fine della dittatura, nel 1977, José Sanchis Sinisterra fonda e dirige a Barcellona il gruppo sperimentale Teatro fronterizo (Teatro di frontiera), col quale si propone di indagare i limiti della teatralità e dei processi percettivi dello spettatore. Critico e teorico del teatro, S. è autore di drammi strutturalmente complessi, pur nella ricerca di una estrema riduzione della spettacolarità, caratterizzati da un’accentuata tendenza all’intertestualità, evidente ad esempio nella Trilogia americana (1992), tre testi ispirati alla Conquista. Raggiunge il successo di pubblico con ¡Ay, Carmela!, sottotitolata Elegia di una guerra civile in due atti e un epilogo, memoria della guerra civile spagnola, evocata da due soli personaggi, attori di varietà . Andata in scena in Spagna nel 1987 con Veronica Forqué come protagonista, ne fu tratta nel 1990 una versione cinematografica, diretta da Carlos Saura e interpretata da Carmen Maura. Nel 1991 ne fu messo in scena a Firenze un adattamento italiano a cura del regista Angelo Savelli.

Arias

Non ancora ventenne lascia il suo paese in cerca di fortuna teatrale. A Parigi realizza il suo primo spettacolo, Dracula (1966), e fonda il Groupe Tse (1968). Recupera così quanto ha lasciato oltreoceano: l’ingenuità chiassosa della rivista, l’energia e la spettacolarità del music-hall. Pubblico e critica francesi scoprono allora l’originalità del suo teatro: erudizione, sofisticazione, seduzione sono le componenti di Histoire du Théâtre , Comédie policière , Goddess , in cui si afferma uno degli attori con cui lavorerà più spesso, Facundo Bo. Nel 1970 con Eva Peron di Copi, Alfredo Rodriguez Arias conquista un pubblico di ammiratori che lo seguiranno in 24 Heures , in Luxe e nelle Pene d’amore di una gatta inglese , da Henry James, commedia musicale del 1976 rappresentata trecento volte al Théâtre de Montparnasse (ma anche a Spoleto). Sperimenta quindi una drammaturgia a largo raggio (da Goldoni ai contemporanei), il più delle volte riletta attraverso i moduli della rivista: scene parlate, danzate, cantate, che ruotano attorno a una vedette e a un comico, sempre in equilibrio fra richiamo sessuale, fantasia, magia. «Un maquillage ben fatto – dichiara a quell’epoca – vale come dieci pagine di Shakespeare». Dal 1985 al 1990 è direttore del Centro Drammatico di Aubervilliers, dove allestisce Shakespeare, Marivaux, Maeterlinck, senza però dimenticare i fragori del teatro boulevardier e le pièce dell’amato connazionale Copi (Cachafaz , Loretta Strong). Mortadela , memoria di un’infanzia italo-argentina abbagliata dalle luci del music-hall, riceve nel 1992 il premio Molière come miglior spettacolo musicale. Nel 1993, ottenuto l’incarico di realizzare una nuova rivista per la riapertura delle Foliès-Bérgère, prepara Fous de Foliès . In Italia mette in scena il goldoniano Ventaglio. Nini , del 1995, con Marilù Marini, è un omaggio alla caratterista argentina Nini Marshall, e lo consacra finalmente anche presso il pubblico del suo Paese, che egli ricompensa inventando e interpretando un Faust argentino (1995). In ciò lo aiuta l’esperienza accumulata anche nell’operetta (una Vedova allegra a Spoleto e allo Châtelet di Parigi), nel teatro musicale (decine di allestimenti, tra cui I racconti di Hoffmann di Jacques Offenbach alla Scala nel 1995), nel cinema (il suo primo lungometraggio, Fuegos , era già del 1986) e nella fiction televisiva (Bella Vista , da Colette, è del 1991).

Lavaudant

Il sodalizio di una vita con lo scenografo e costumista Jean-Pierre Vergier risale al primo successo di Georges Lavaudant al Théâtre du Rio di Grenoble con il Lorenzaccio di De Musset (1973). Lo spettacolo sarà ripreso due anni dopo dalla compagnia del Théâtre Partisan, che Lavaudant aveva fondato, sempre a Grenoble, cinque anni prima. Dal 1976 al 1986, con Gabriel Monnet, Lavaudant dirige il Centre dramatique national des Alpes (Cdna); poi, con Roger Planchon, è responsabile del Théâtre national populaire di Villeurbanne (Tnp); nel 1996 sostituisce Lluís Pasqual alla direzione del Théâtre de l’Odéon. In un’intervista a “Le Monde” nel 1976 Lavaudant afferma: «L’arte non è più rivoluzionaria. C’è sempre il piacere di riprodurre le belle cose già fatte, con in più l’umorismo e la coscienza storica». I primi allestimenti di Lavaudant saranno infatti costituiti da collage di testi, da stratificazioni di frammenti o da monologhi dilatati. Frutto di questa concezione `situazionista’ del teatro è, per esempio, l’allestimento di Palazzo mentale di Pierre Bourgade (1976, ripreso nel 1986). Successivamente, l’interesse per la costruzione testuale lascia spazio alla centralità della recitazione, che Lavaudant vuole istintiva, ‘infra-razionale’. In questa chiave vengono messi in scena i classici, Brecht (Baal), Pirandello (I giganti della montagna), Shakespeare (Riccardo III), Genet, Racine, Büchner; ma anche testi dello stesso Lavaudant (Les Tueurs, L’ItalieLes cannibales, Veracruz, Les Iris, Terra Incognita, La dernière nuit, la serie Lumières – in collaborazione con J.-C. Bailly e M. Deutsch -, Amour, politique et cha-cha-cha, Six fois deux, Bienvenue, Triptyque) e opere di numerosi contemporanei, in particolare Jean-Christophe Bailly (Les Céphéides, 1983; Le Régent 1987; Pandora 1992; Reflets 1997), Le Clézio (Pawana, 199, Odéon) e Denis Roche. Nel 1995, a Strasburgo (Opéra du Rhin), Lavaudant ha curato la regia di Prova d’orchestra , da Fellini, su libretto e musica di Giorgio Battistelli.

Benois

Alexandr Nikolaevic Benois si formò negli ambienti artistici e letterari di Pietroburgo. Si dedicò dapprima alla pittura e diede un importante contributo nella critica d’arte. Nel 1898 fondò con Bakst e Diaghilev la rivista d’arte “Il mondo dell’arte” (Mir Iskusstva) e l’omonima associazione promotrice di note esposizioni di pittori che si dedicavano anche alla scenografia, alla grafica, alla decorazione. Debuttò come scenografo nel 1900, all’Hermitage, con il balletto di Taneev La vendetta di Amore. Si impose come profondo conoscitore e interprete delle epoche storiche al teatro imperiale Marijinskij con Il crepuscolo degli dei di Wagner, nel 1903. Nel Pavillon d’Armide di Cerepnin, nel 1907, fu anche autore del libretto, ispirato a un romanzo di Théophile Gautier, Omphale, e diede prova di stile e immaginazione nei fantasiosi costumi dalle fogge settecentesche ispirati ai disegni di Louis-René Bouquet, riformatore del balletto francese del XIII secolo. Lavorò ai Balletti Russi di Diaghilev per Boris Godunov di Musorgskij, nel 1908, e per Le rossignol di Stravinskij, nel 1914. La sua creazione più amata, e forse la più celebre, fu Petruška di Stravinskij, nel 1911. Nelle scene, nei costumi e nei dettagli di scena, ma anche nel libretto di cui fu autore originale, guardò alle antiche miniature slave e riprese i motivi del folclore russo. Attratto dal teatro drammatico, nel 1908, a Pietroburgo, collaborò al teatro di Vera Komissarzevskaja per Primater , da un lavoro di Grillparzer. Dal 1912 al 1915 lavorò a Mosca, come scenografo e regista al teatro di Stanislavskij e Nemirovic- Dancenko. Mise in scena con successo Molière con Il malato immaginario e Il matrimonio per forza, nel 1913. L’anno seguente si dedicò a Goldoni con La locandiera, e diede una delle sue più belle interpretazioni con le Piccole tragedie di Puškin, nel 1915. Nel 1917 venne nominato direttore dell’Hermitage, conservando tale carica fino al 1928. Dal 1919 fu scenografo e regista al Teatro drammatico Bol’šoj, fondato nel 1918. Tra le principali opere di quel periodo Lo zarevic Aleksej di Merežkovskij (1920), Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni (1921), Il medico per forza e Le preziose ridicole di Molière (1921). L’ultimo spettacolo prima dell’addio alla Russia fu Le nozze di Figaro di Beaumarchais, nel 1926. Stabilitosi a Parigi, continuò a lavorare nel teatro. Dal 1947 al 1957 collaborò al Teatro alla Scala. Tra i suoi lavori più noti, le scene per Lucia di Lammermoor (1947), Eugenio Onegin (1954), i balletti Giselle e Les sylphides (1950).

Carpentieri

Renato Carpentieri studia architettura a Napoli, dove dal 1965 al 1974 svolge attività di organizzazione e promozione culturale, teatrale e cinematografica (con il gruppo Nuova Cultura e di ricerca sull’espressione artistica popolare. Si occupa di teatro dal 1975, anno in cui è socio fondatore, insieme con R. Ferrante, M. Lanzetta, L. Serao, O. Costa del Teatro dei Mutamenti di Napoli, di cui fa parte fino al 1980. Qui debutta come attore nel 1976 in Serata futurista , regia R. Ferrante, al quale segue nel 1977 BerlinDada , regia A. Neiwiller. Nello stesso anna firma le regie di Maestri cercando: Elio Vittorini da Vittorini e Lieto fine da Brecht (compagnia Ipocriti). Seguono gli allestimenti e le drammaturgie di Il nipote di Rameau da Diderot (1978), Kabarett di K. Valentin (1979), Le petit abbé napolitain, ovvero Storie di Ferdinando Galiani (Biennale Venezia 1981), Negli spazi oltre la luna – stramberie di Gustavo Modena (di R. Carpentieri e C. Meldolesi, 1983) e Teatrino Scientifico , Resurrezione da Zhuang Zi e Lu Hsün (1989), nel 1990 di La nave nel deserto (di R. Carpentieri e G. Longone) e L’acquisto dell’ottone da Brecht. Dal 1995 è direttore artistico dello storico gruppo di ricerca napoletano Libera Scena Ensemble. Regista promotore di un teatro `popolare-filosofico’ attento a conenuti alti (Diderot ad esempio) ma fruibile da un pubblico vasto ed eterogeneo, dà vita con il gruppo a numerosi progetti laboratoriali, rappresentati nelle strade e mercati di Napoli come sulle falde del Vesuvio. Come Il giardino del teatro e lo spettacolo-evento La nascita del teatro (1996-97) in cui cinquanta attori raccontano, quasi sempre in napoletano, la nascita `divina’ del teatro secondo un antico testo indù. Allestisce inoltre Sale di Museo (di R. Carpentieri, L. Serao, O. Costa, E. Salomone, G. Longone, rappresentato in gallerie d’arte, 1996-98), Jacques e il suo padrone di M. Kundera (1996), Medea di C. Wolf. Attore poliedrico, di sempre intensa espressività, C. ha recitato tra l’altro per R. Bacci in Zeitnot (1984) e La grande sera (1985), per G. Salvatores in Comedians (1986), in Morte accidentale di un anarchico di e con D. Fo (1987), in Riccardo II di Shakespeare con la regia di M. Martone (1993), Histoire du soldat (regia di M. Martone, G. Barberio Corsetti, G. Dall’Aglio); è Polonio per C. Cecchi in Amleto di Shakespeare (1998). Numerose le partecipazioni e i successi cinematografici: Porte aperte (1990, Premio Sacher come migliore attore non protagonista) e Ladro di bambini di G. Amelio, Puerto Escondido di G. Salvatores , Fiorile di P. e V. Taviani, Ottantametriquadri di I. Agosta, Caro diario di N. Moretti, Il giudice ragazzino di A. di Robilant, Nemici d’infanzia di L. Magni, Il verificatore di S. Incerti, La casa bruciata di M. Spano.

Connelly

A Marc Connelly si devono soprattutto due testi, Il povero a cavallo (Beggar on Horseback, 1924, con G.S. Kaufman) e Verdi pascoli (Green Pastures, 1930). Il primo, valendosi di tecniche mutuate dal teatro espressionista ma voltate in commedia, mostrava un artista alle prese con il mondo commercializzato che tentava di assorbirlo; il secondo raccontava nei termini del folclore religioso nero le vicende del Vecchio Testamento, con un anziano pastore di colore nella parte di Dio (e di colore erano anche, per la prima volta in una commedia di Broadway, tutti gli interpreti, che contribuirono al grande e inatteso successo: 640 repliche e il premio Pulitzer).

Bertolucci

Fratello del regista Bernardo, Giuseppe Bertolucci per il teatro scrive con Roberto Benigni il monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia di cui cura anche la regia nel 1975: lo spettacolo rappresenta il trampolino di lancio di Benigni che ne è l’interprete. Nel 1983 è regista di un altro suo monologo Raccionepeccui portato sulla scena da M. Confalone. Cura le regie di Il pratone del Casilino tratto da Petrolio di Pasolini (1994) e O patria mia di cui collabora anche al testo (con S. Guzzanti, D. Riondino, A. Catania, P. Bessegato; 1994). Si occupa della regia e dell’adattamento televisivi di Il pratone del Casilino (1995, da Petrolio di Pasolini); Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1997, regia di L. Ronconi); Ferdinando (1998, di A. Ruccello). Nel 1991 realizza il video teatrale Il congedo del viaggiatore cerimonioso dal corpus poetico di G. Caproni con gli allievi della Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’. Delle sue regie cinematografiche si ricordano Berlinguer ti voglio bene in cui Bertolucci riprende lo spettacolo teatrale interpretato da Benigni (1977), Segreti segreti (1984), Tuttobenigni (1986), I cammelli (1988).

Zeffirelli

Dopo aver studiato architettura, Franco Zeffirelli fu precoce animatore di teatro nella città natale. Tra gli anni ’40 e ’50 fu assistente di importanti registi quali M. Antonioni, V. De Sica, R. Rossellini e L. Visconti; quest’ultimo lo volle, tra il ’46 e il ’53, anche scenografo dei suoi storici allestimenti, a cominciare da quello di Un tram che si chiama desiderio di T. Williams e poi di Cechov e Shakespeare. Spaziando in vari campi (teatro, cinema, opera lirica, televisione), l’attività di Zeffirelli si è esplicitata con perenne successo in ognuno di questi settori, anche se la critica non ha sempre riservato elogi nei suoi confronti, parlando sovente di vuoto formalismo a proposito di certe messinscene. Rilievi di cui Zeffirelli non ha mai troppo tenuto conto, dichiarando spesso la sua scarsa considerazione per la critica e l’establishment culturale italiano. La sua fama, del resto, si impose in particolare all’estero, e specie in America.

Cifra di Zeffirelli è indubbiamente la spettacolarità, già presente fin dai suoi primi allestimenti shakespeariani in Gran Bretagna (Othello, 1961, Stratford on Avon; Romeo and Juliet, 1961; Hamlet, 1963; spettacoli tutti che avrebbe più tardi portato anche sullo schermo), improntati a un sicuro dominio del movimento scenico e assai curati nell’aspetto esteriore (scene, costumi, luci). Questo senso della spettacolarità determinerà in genere le sue scelte, anche quando gli toccherà di affrontare un testo moderno. Zeffirelli, ancorché con risultati diseguali, ha sempre mirato alla presa sul pubblico con un infallibile senso di showman. È stato il caso di Chi ha paura di Virginia Woolf? di E. Albee (1953), di Dopo la caduta di A. Miller (1964) e di La Lupa di Verga (1965, protagonista A. Magnani); e, ancora, di Lorenzaccio di A. De Musset, proposto in maniera molto fastosa ma con un gusto anche `pompier’ a Parigi (Comédie – Française, 1978). Ma sarà pure il caso di quando, dopo anni di assenza dalle ribalte, proporrà (1982) Maria Stuarda di Schiller con due regine della scena italiana quali V. Cortese e R. Falk, e così quando in tempi più vicini si avvicinerà in maniera piuttosto deludente a Pirandello con Sei personaggi in cerca d’autore (1991, protagonista E. M. Salerno).

A differenza di altri registi del nostro tempo, Zeffirelli ha sempre pensato, progettato e realizzato su vasta scala e sempre nell’ambito del grande spettacolo: ciò lo ha portato ad avvicinarsi frequentemente al melodramma, soprattutto italiano. A cominciare dalla Traviata di Verdi, varie volte messa in scena anche se l’edizione rimasta più famosa (con la vicenda rivissuta in flash-back) fu quella con la Callas all’Opera di Dallas nella stagione 1957-58. Fu proprio questo suo amore per la lirica che lo ha portato a lavorare presso i massimi teatri europei e americani, dal Metropolitan di New York (Don Giovanni) alla Staatsoper di Vienna (Carmen) e naturalmente alla Scala di Milano, dove è rimasta celebre una sua messinscena della Bohème più volte ripresa, nonché il dittico composto da Cavalleria rusticana e Pagliacci (1981) e Turandot (1983). Alla Scala è avvenuto anche il suo unico incontro con il mondo del balletto: il discusso Lago dei cigni (1984) con protagonista Carla Fracci.

Scaccia

Mario Scaccia fece parte delle più importanti compagnie prima e dopo la seconda guerra mondiale, da quella di A.G. Bragaglia con V. Gassman alla Gioi-Cimara. Nel 1961, con Mauri, Moriconi ed Enriquez costituì la Compagnia dei Quattro. Seguirono poi, come `battitore libero’, grandi e difficili personaggi del teatro classico (tra i quali vanno annoverati il Fra’ Timoteo della Mandragola di Machiavelli e il Negromante dell’Ariosto) e del teatro moderno. Di Shakespeare interpretò Shylock in Il mercante di Venezia , Misura per misura (1966 e 1976), Coriolano (1969) e Sogno di una notte di mezza estate (1982); di Beckett, Aspettando Godot ; di Ionesco, Le sedie, Delirio a due, La lezione, ma affrontò anche O’Neill, Stoppard e, diretto da L. Ronconi, Il candelaio di G. Bruno.

Gli anni ’90 lo vedono protagonista in Ecco Nerone di C. Terron (dramma scritto appositamente per lui) e in Ubu re di Jarry diretto da A. Pugliese. Dopo Galantuomo per transazione di G. Giraud (già affrontato nel 1949 e nel 1982) e Magic di Chesterton (di cui è anche regista), si cala nel duplice ruolo di Tiresia-Creonte in Edipo Re di Sofocle (regia di M. M. Giorgetti) e affronta Rock Aulularia per l’estate al Vittoriale di Gardone. Il 1996 segna il `debutto’ al Festival di Spoleto, dopo cinquant’anni di carriera, con Romolo il grande di Dürrenmatt. Nella stagione 1997-98 interpreta Inquisizione di D. Fabbri (con la regia del figlio Nanni) in cui viene lodata l’intelligenza recitativa dell’attore, la sua «penetrante e scarna bravura».

Lecoq

Giovanissimo Jacques Lecoq si interessa di atletica e nuoto, tanto da diventare a vent’anni istruttore di educazione fisica. Quello stesso interesse lo porterà a studiare fisioterapia per la rieducazione delle persone paralizzate. A Grenoble nel 1945 entra nella Compagnie des Comédiens diretta da Jean Dasté, cominciando a lavorare sull’uso della maschera e l’improvvisazione collettiva, un genere di gestualità lasciata all’interpretazione dello stato emotivo dell’attore. Considerando l’esperienza acquisita con lo sport, sarà lui a occuparsi della preparazione fisica degli attori, in questo modo formulando un primo prontuario di ricerca sul mimo e la possibile relazione col teatro. Il mimo dunque è interpretato come una tecnica di preparazione all’attore. Recuperando ciò che l’antropologo Jousse chiamava mimismo del gesto, Lecoq riconosce nel gesto e nella parola un livello di fusione necessaria, quel `gesto di fondo’ che indica una condizione naturale dell’uomo, e quindi dell’attore. Negli anni (dal 1945 al ’47) trascorsi a Grenoble, Lecoq partecipa all’allestimento di L’exode, di Sept couleurs e di uno spettacolo tratto da un dramma nô che Jean Dasté rielaborò da un libero adattamento di Suzanne Bing, Ce que murmure Sumida , per cui il giovane regista curerà la parte coreografica. L’anno successivo Lecoq, tornato a Parigi, diventa insegnante di `espressione corporea’ alla scuola Education par le jeu dramatique, che annovera tra i fondatori anche Barrault. Arriva infine in Italia nel 1950, a Padova, dove prepara le coreografie dello spettacolo Le lombarde di G. Testori con la regia di De Bosio; ma il periodo trascorso nella città veneta si ricorda anche per il primo debutto di una sua ideazione pantomimica dal titolo Porto di mare. Sempre a Padova seguiranno una serie di collaborazioni per le quali Lecoq sperimenterà alcune figure sceniche ispirate alla pantomima e al mimo dal carattere `burlesque’. L’interesse per la costruzione di micro-partiture fisiche dell’attore porta L. al Piccolo Teatro di Milano soltanto un anno dopo l’incontro con De Bosio. Qui lavora alle coreografie di due regie di Strehler, Elettra di Sofocle e L’amante militare di Goldoni. Altri appuntamenti importanti con la scena italiana sono Allez hop!, una regia di Lecoq per Luciano Berio (Venezia 1959), e la cura di movimenti scenici di alcune opere classiche al teatro greco di Siracusa, dal 1961 al ’66, anno in cui abbandona il teatro per dedicarsi all’insegnamento (nel 1977 nasce il Laboratoire d’etude du mouvement della sua scuola).

Boso

Vissuto a lungo a Parigi (dove ha contribuito al Centro internazionale d’arte drammatica), dal 1965 Carlo Boso si è dedicato quasi esclusivamente alla Commedia dell’Arte. Ha tenuto corsi di studio in Spagna, Inghilterra e Scozia, Francia, Germania, Canada. Nel 1983 anima la Biennale con uno straordinario spettacolo di undici maschere che recitano tre canovacci. Lavora quindi con gli attori del Laboratorio Teatro Settimo, nei pressi di Torino.

Però

Diplomato all’Istituto d’arte drammatica di Trieste nel 1974 e laureato in lettere moderne all’Università degli studi di Trieste nel 1975, Franco Però ha lavorato come attore e aiuto-regista con A. Trionfo, F. Enriquez, G. Wilson e G. Lavia (del quale è stato assistente dal 1980 al 1983). Tra le sue principali regie di prosa: American Buffalo di D. Mamet (1984), Vero West di S. Shepard (1984-85), Piccoli equivoci di C. Bigagli (1986), Singoli di E. Siciliano e Purché tutto resti in famiglia di A. Ayckbourn (1989), I serpenti della pioggia di P.O. Enquist (1989-90), Spirito allegro di N. Coward e Un saluto, un addio di A. Fugard (1990), Senza voce tra le voci racchiuse con me, collage di testi beckettiani (1990-91, affrontati anche nel 1995, Da un’opera abbandonata e nel 1947, Niente è più buffo dell’immortalità ), Partage de midi di P. Claudel (1991-92), Chi ha paura di Virginia Woolf? di E. Albee (1992), La madre confidente (1995) e La disputa di Marivaux (1997), Winckelmann , di cui è anche l’autore e L’agnello del povero di S. Zweig (1997), Lo straniero di A. Camus riduzione di J. Azenkott (1999). Ha curato anche la regia di opere liriche (La Bohème di Puccini, 1989-90; Il corsaro di Verdi, 1998), mises en espace e letture.

Salmon

Thierry Salmon approda al teatro giovanissimo col gruppo Ymagier Singulier, rivelando straordinarie intuizioni formali di un lavoro scenico che ricerca come proprio luogo di creazione grandi spazi all’aperto o particolari architetture industriali in disuso. Modalità che assume un carattere estetico debitore anche della sua indole di artista nomade, portato a confrontarsi con il Teatro fuori dagli ambiti istituzionali. Sono aree urbane, non-luoghi della contemporaneità, all’interno dei quali muove le azioni di attori che possono diventare figure simboliche, quando non diventano puro traslato del testo, alle prese con ritmi e cadenze corali complesse che di quello spazio assumono le sonorità naturali: «Lavorare in uno spazio aperto significa per me usarne anche i rumori che fanno parte di quello spazio, un teatro sonoro più che di linguaggio».

E già dai primi spettacoli («In Fastes/Foules volevamo cambiare il punto di vista del pubblico») si delinea una costruzione della visione per lo spettatore a più piani, che in questo modo sembra entrare in collisione col movimento degli attori e quello degli elementi scenografici; una scenografia destrutturata, ambientale (i lavatoi e il rumore in Fastes/Foules, 1983; la sabbia e il coro nelle Troiane, 1988; le panche e la partitura coreografica in L’assalto al cielo, 1997), che successivamente andrà concentrandosi sulla dinamica di relazione tra l’attore, il testo e lo spazio che da questa dinamica viene occupato: “Parto sempre dal testo, cercando di trovare un filo. Non parto cercando di fare a priori un certo tipo di lavoro sullo spazio o sulla musica o sulla luce ecc.”.

Il lavoro sull’attore è quindi definito dalle situazioni interne che il testo propone. Anche il suo modo di abitare un determinato spazio – uno spazio sempre più vitale, esistenziale, quella dimensione fisica che si serve dello spazio per costruire intense drammaturgie gestuali – nasce dal confronto diretto con la materia, spesso con lunghi laboratori sul posto, che restituisce all’attore una memoria della propria condizione, una memoria interiore oltreché esterna. Ogni segno, ogni oggetto non è confinato alla creazione del personaggio, ma porta con sé la memoria fisica di una serie di esperienze dell’attore, una memoria che si fa scrittura scenica (in questa disamina dell’inconscio lo spettacolo A. da Agatha, 1986, interpretato dalle sorelle Pasello, costruiva un camminamento geometrico al quale si contrapponeva un sistematico spostamento di pannelli, occupando per intero la platea del teatro oltre al palcoscenico; mentre in La signorina Else, 1987, una parete di altoparlanti chiudeva sul proscenio il teatro facendo muovere gli attori nella platea con gli spettatori). Si individuano allora nuove possibilità per i personaggi, situazioni che determinano anche la qualità della loro relazione: stati emotivi, dati comportamentali, linee drammaturgiche dalle quali far scaturire l’azione che si trasformerà in gesto, parola o postura fisica.

Di Salmon saranno compagni di strada la scenografa Patricia Saive, l’illuminotecnico Enrico Bagnoli e il drammaturgo Renata Molinari; più un gruppo di attori tra i quali Renata Palminiello e Maria Grazia Mandruzzato. Una prassi, nel suo metodo di lavoro, è divenuta appunto quella dello spettacolo che compendia tempi lunghi di sedimentazione, passando magari per fasi laboratoriali o studi preparatori dello stesso, trovando in Italia rapporti produttivi che lo porteranno a collaborare con diversi centri teatrali, soprattutto con Emilia Romagna Teatro e Pontedera. Nel 1988 Pier Vittorio Tondelli siglava così il debutto alle Orestiadi di Gibellina delle Troiane di Euripide, che si avvalse delle scene dell’artista Nunzio e dei cori in greco antico ricreati da Giovanna Marini: “È uno degli spettacoli migliori degli ultimi anni, forse addirittura del decennio”. Prodotto da Teatri Uniti, il festival di Avignone, il comune di Milano e dalle Orestiadi, lo spettacolo segnava un’epoca. Seguiranno dal 1991 al ’93 gli studi del progetto Dostoevskij che porteranno allo spettacolo Des passions, tratto da I demoni, con tappe preparatorie in Russia e poi in Italia. Nel 1995 sarà la volta di Faustae Tabulae, incursione nel mondo della musica contemporanea ispirata da Paul Auster e Philip K. Dick, fino ad arrivare nel 1997 alla Pentesilea di Kleist con i progetti Thémiscyre 1 e 2 e L’assalto al cielo , affondo nel mito delle amazzoni che ha debuttato ai Cantieri alla Zisa di Palermo.

Jacobbi

Giovanissimo collaboratore di riviste d’avanguardia, legate in particolare all’ermetismo (“Campo di Marte”, “Corrente”, “Letteratura”, “Circoli”), Ruggero Jacobbi divide la sua vita tra Italia e Brasile (dove vive dal 1946 al 1960 svolgendo attività di regista e studioso). Intellettuale eclettico e appassionato, debutta nella regia teatrale nel 1940 allestendo, tra l’altro, Minnie la candida di M. Bontempelli, con l’esordiente Anna Proclemer. Attivo non solo nella critica letteraria e teatrale, ma anche in televisione e nel cinema, è autore di numerosissime opere, antologie poetiche e letterarie, traduzioni, articoli: sul teatro si segnalano A espressão dramàtica (1956), O espectador apaixonado (1960), Teatro in Brasile (1961), Teatro da ieri a domani (1972), Ibsen (1972), Guida per lo spettatore di teatro (1973), Le rondini di Spoleto (1977) e l’edizione in tre volumi delle opere teatrali di Rosso di San Secondo. Collaboratore del Piccolo Teatro di Milano, dirige “Ridotto” e scrive su “Rivista italiana di drammaturgia”, “l’Avanti” e “Sipario”; è autore di O outro lado do rio (1959), Il porto degli addii (1965), Il cobra alle caviglie (1969), Edipo senza sfinge (1973). La sua intensa attività di docente (cattedra di Letteratura brasiliana all’università di Roma) lo porta alla direzione della Scuola d’arte drammatica del Piccolo di Milano e, negli anni ’70, dell’Accademia d’arte drammatica di Roma.

Prince

Harold Prince è il geniale e intuitivo innovatore della scena del musical di Broadway a partire dalla metà degli anni ’50, il più degno erede al titolo di `re di Broadway’ dopo George Abbott. Mira fin da giovane al controllo totale delle varie fasi dello spettacolo, dall’ideazione alla produzione fino alla regia (talora solo produttore). Conosce i primi successi con Damn Yankees (1955), ma è il trionfo di West Side Story (1957) a dargli la consacrazione definitiva. La parabola ascendente continua con Fiorello! (1959) e She Loves Me (1963), – presentato anche in edizione londinese, prima del successo clamoroso della stagione 1964-1965 – Il violinista sul tetto (tremiladuecentoquarantadue repliche solo a Broadway prima della versione inglese e dei numerosi revival).

Nel 1965, sulla scia del buon esito di Baker Street, concede fiducia ai giovani autori John Kander e Fred Ebb e all’esordiente Liza Minnelli per il musical Flora, the Red Menace : solo ottantacinque repliche, ma costituiscono l’occasione per riunire lo stesso team nel progetto da realizzare per la stagione seguente, un musical ispirato alle pagine di Addio a Berlino di Isherwood. Nasce Cabaret (1966), altro spettacolo targato Prince destinato alla leggenda. Degli stessi Kander & Ebb firma come regista anche Zorba (1968), spettacolo musicale più vicino al film di Cacoyannis che al romanzo di N. Kazantzakis. Nel 1970, con Company , si crea il sodalizio Harold P.-Stephen Sondheim da cui nascono i momenti più alti del decennio a Broadway: Follies (1971), Little Night Music (1973), Pacific Overtures (1976). Straordinari successi ottiene anche con il nuovo allestimento del Candide di Bernstein (1974) e con On the Twentieth Century (1978). È conosciuto anche sulla scena teatrale londinese per la coproduzione di spettacoli importanti come West Side Story (1959) e Dolci vizi al foro (1964). È vincitore di innumerevoli Tony Award sia in veste di produttore che di regista.

Sequi

Sandro Sequi si laurea in lettere all’università di Roma nel 1956 e nello stesso anno entra all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’ (corso di regia), diplomandosi nel 1959 con lo spettacolo-saggio Il giuoco delle parti di Pirandello. Già durante l’università svolge attività di critico, collaborando alla realizzazione dell’ Enciclopedia dello spettacolo e assumendo la rubrica di danza nel quotidiano romano “Il Tempo”. Dal 1960 al 1962 è assistente di F. Enriquez alla direzione artistica del Teatro stabile di Napoli, dove debutta come regista di prosa con la novità di Aldo Nicolaj Il soldato Piccicò (protagonista Gian Maria Volontè); allestisce anche una serie di atti unici italiani (di Guaita, Flaiano e Wilcock) al Festival di Spoleto. Inizia la sua attività nel campo della regia lirica, che lo porterà nei maggiori teatri europei (Covent Garden, Opéra, Scala) e americani (Metropolitan di New York).

Nella prosa, nel 1969 dirige l’attività del Teatro Flaiano (allora Teatro Arlecchino) per il Teatro Stabile di Roma, mettendo in scena due novità assolute: Faust ’67 di Landolfi e Soluzione finale di Augias. Nel 1970 forma una compagnia con la Brignone e Santuccio per una riuscita edizione de Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (con Proietti, Adriana Asti e Sergio Fantoni) e di un’ importante Danza di morte di Strindberg con le scene di E. Colombotto Rosso; in tv dirige, nel corso degli anni ’70, una ventina di commedie. Nel 1980 fonda a Roma la Cooperativa Teatromusica, per la quale presenta, nei suoi tre anni di vita, tre spettacoli basati sull’idea di un teatro di alto valore poetico: Stella di Goethe, Britannico di Racine e Olimpiade di Metastasio.

Lavora in seguito quasi sempre in strutture pubbliche, come Veneto Teatro (I pettegolezzi delle donne di Goldoni, 1982; Elettra di Hofmannsthal e Il campiello di Goldoni, 1983; I pitocchi fortunati di Gozzi, 1984; La sorpresa dell’amore di Marivaux, 1989), il Teatro stabile di Catania (Bellini di Isgrò, 1986; La vita che ti diedi di Pirandello, 1987; Rapacità di Gor’kij, 1988; Stelle del firmamento di Puig, 1989), il Teatro di Roma (La bella selvaggia di Goldoni, 1987). Poche le collaborazioni con compagnie private: Molto rumore per nulla di Shakespeare con la Moriconi e Micol, Il malinteso di Camus (1985) e A porte chiuse da Sartre e Mishima (1987) con la compagnia Valli-Malfatti. Dal 1989 al 1996 è direttore artistico del Centro teatrale bresciano; il primo progetto di lavoro da lui avviato, dedicato alla cultura russa, inizia con I villeggianti di Gor’kij (1989-90) e si conclude nella stagione 1990-91 con Hotel des âmes di Enrico Groppali e Anfissa di Andreev.

Con la stagione 1991-92 inizia il progetto dedicato al teatro francese, nell’ambito del quale mette in scena Britannico e Berenice di Racine (in un’unica serata) e Vittime del dovere di Ionesco. Nella stagione 1992-93 allestisce una novità assoluta per l’Italia, Non c’è domani di Julien Green, e successivamente (1993-94) A mosca cieca di Groppali. Dalla stagione successiva iniziano i `Percorsi di teatro anglosassone‘: Sequi propone la prima rappresentazione in Italia di La sposa di campagna di Wycherley e, nella stagione 1995-96, Ali di Kopit e Macbeth di Shakespeare. Fra i maggiori successi in campo lirico, l’ Ifigenia in Tauride di Gluck con le scene e i costumi di G. Manzù (Firenze 1981) e il Rigoletto di Verdi (Vienna 1983), entrambi diretti da Riccardo Muti, e la prima mondiale del Saint François d’Assise di Messiaen (Parigi 1983). L’ultimo suo lavoro, prima dell’incidente automobilistico in cui ha perso la vita, è stato Il barbiere di Siviglia di Rossini, che ha debuttato all’Opera del Cairo nel marzo 1998.

Brie

César Brie inizia a fare teatro a diciassette anni, studiando al Centro Dramatico di Buenos Aires. La timidezza che lo caratterizza negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza definisce paradossalmente la progressiva tensione verso la scena: «Desideravo le donne ma non ero in grado di rivolgere loro la parola. Ho creduto che il teatro potesse aiutarmi a esprimermi, a essere meno goffo, a usare il mio corpo senza trascinarlo inutilmente da un lato all’altro con un quaderno di poesie sotto il braccio. Ho iniziato a fare teatro per poter parlare con le donne. […] ma il teatro mi ha preso, intrappolato, non sono più riuscito a lasciarlo». L’originaria motivazione schiude dunque altre strade, aprendo nuovi orizzonti: attraverso il prisma del teatro César Brie interroga il presente, esplorando se stesso. Nel 1972 partecipa alla fondazione della Comuna Baires, in cui la ricerca espressiva si intreccia all’impegno civile, e con gli attori del gruppo è presto costretto a trasferirsi in Italia a causa delle persecuzioni operate dal regime fascista in ascesa nel Paese. L’esperienza dell’esilio segnerà in maniera radicale il suo percorso artistico.

Nel 1975 lascia definitivamente la Comuna Baires e insieme a P. Nalli, D. Albertin e D. Manfredini fonda il Collettivo teatrale Tupac Amaru presso il centro sociale Isola di Milano. Fino al 1979 con questo gruppo è protagonista di spettacoli agit-prop a sfondo sociale, legati alle lotte di quartiere e finalizzati alla realizzazione di «isole di cultura liberate» (fra gli altri: A rincorrere il sole , Milano 1978, testo, regia e interpretazione di B.; Ehi , Milano 1979, di e con B. e D. Manfredini; Il gran turco giocatore di scacchi , Bologna 1980, creazione collettiva). Parallelamente approfondisce la ricerca espressiva, e definisce le linee di un teatro caratterizzato dall’essenzialità della scena e dalla centralità dell’attore, poeta che interroga il tempo attraverso il corpo e la voce. Nel 1980 l’incontro con Iben Nagel Rasmussen, apre il periodo danese della sua ricerca e porta alla fondazione del gruppo Farfa, al quale partecipano Pepe Robledo, Maria Consagra, Daniela Piccari e Dolly Albertin, determinando la possibilità di un confronto diretto con l’esperienza dell’Odin Teatret e di Eugenio Barba. L’esperienza registica e drammaturgica si innesta progressivamente sul lavoro dell’attore amplificandolo. Nascono spettacoli importanti come Matrimonio con Dio (Holstebro, Danimarca 1982, regia di E. Barba), Il paese di Nod (Holstebro 1986, con I. N. Rasmussen, e C. B., testo e regia di B.), Talabot (Holstebro 1988, con gli attori dell’Odin Teatret, regia di Barba), Il mare in tasca (Pontedera 1989, testo, regia e interpretazione di César Brie), e allo stesso tempo si approfondisce la necessità di un ritorno alle origini, alla propria terra e soprattutto alla propria lingua. È Il paese di Nod a segnare il punto di svolta e a radicare nell’attore la necessità di un ritorno a casa: tema cardine l’esilio: l’esilio di chi è stato costretto a fuggire dalla propria terra a causa della dittatura militare, ma allo stesso tempo l’intima lacerazione di chi è rimasto ed è stato costretto in silenzio a subirne gli orrori. Lo spettacolo, portato in tournée in diversi paesi dell’America Latina, traccia le linee del futuro percorso.

Nel 1990, separatosi da Iben, e lasciato l’Odin,César Brie trascorre un altro anno in Italia insieme a Naira Gonzales, e con lei realizza Romeo e Giulietta (Este 1991), l’idea, tuttavia, è quella di concludere l’esperienza europea e di raccogliere i fondi necessari per il nuovo progetto in America Latina. Nell’agosto del 1991, insieme a Naira e a Giampaolo Nalli, fonda in Bolivia il Teatro de Los Andes. Sede della comunità artistica Yotala, un piccolo paese nei pressi di Sucre. Il gruppo degli attori acquisisce fisionomia attorno al progetto di Colòn (Yotala 1992), spettacolo di una comicità graffiante, incipit di un percorso destinato a privilegiare la sincerità e l’onestà delle emozioni insite nella pluralità di voci che animano il quotidiano. È così che all’epico Colòn fanno seguito, fra gli altri, l’intima e drammatica atmosfera di Solo gli ingenui muoiono d’amore (Yotala 1993), il dissacrante e grottesco Ubu in Bolivia , da A. Jarry (Yotala 1994), e la straordinaria poesia de I sandali del tempo (Las Abarcas del tiempo, Yotala 1995). Dal 1995 parallelamente all’attività teatrale, B. pubblica “Lo scemo del villaggio” (El tonto del Pueblo), rivista di arti sceniche che sposa memoria e ricerca, oggi distribuita in tutti i paesi latino-americani, oltre che in Spagna, Francia e Italia.

Robbins

Dopo gli studi normali, Jerome Robbins si iscrisse alla facoltà di chimica dell’Università di New York. Attratto dal teatro, scelse subito la danza, dapprincipio il balletto e con i suoi derivati (Antony Tudor, Eugene Loring), danza spagnola e orientale, danza moderna infine, con la sorella Sonia, anche recitazione con Elia Kazan, violino e pianoforte, attore nello Yiddish Art Theatre, conforme alle sue origini israelite (1937); in seguito ottenne le prime scritture come danzatore sino al 1941 quando creò le sue prime coreografie. Un retroterra culturale ed artistico così denso gli servì per dare vita al suo eclettico programma teatrale. Questa preparazione gli permise molto presto le entrature nei più importanti complessi coreutici americani. Nel 1940 divenne membro del Ballet Theatre ove rimase sino al 1944 interprete delle coreografie di L. Massine, M. Fokine, D. Lichine, A. Tudor; nel 1949 entrava nella compagnia del New York City Ballet, fondato l’anno prima da Balanchine del quale divenne direttore artistico associato. L’anno 1944 vide la sua prima coreografia importante: quel Fancy Free che doveva fare un lungo cammino e che s’impose subito per l’aria scapiglita e divertente (musica di Bernstein).

Robbins impose subito la sua estetica. Ogni ballerino doveva essere parimenti dotato nella tecnica classico-accademica come in quella moderna nelle più disparate tendenze «per dimostrare agli europei la varietà delle tecniche, degli stili e dagli accostamenti teatrali che costituiscono il particolare sviluppo della danza in America». Esito addirittura folgorante a queste premesse è stata la costituzione di una particolarissima, straordinaria compagnia di balletto detta Ballets: Usa, organizzata a New York ma presentata in Italia (nel 1958) dietro precisa richiesta di G.C. Menotti che l’invitò al Festival di Spoleto di quell’anno. Le stagioni, quasi miracolose, furono soltanto due: 1958-59 e 1961 ma quali emozioni, stupori, meraviglie sorpresero il pubblico convenuto alla manifestazione spoletina. La critica notò subito la forza, l’originalità del coreografo, la bontà delle scelte nei danzatori, l’efficacia delle tematiche contemporanee.

Robbins presentò nel 1958 un balletto creato nel 1945, Interplay , gioco di ragazzi e di figure lanciate nello spazio, freschissimo e delizioso; poi New York Export: Opus Jazz, studio di rapporti ritimici e umani (come sempre in Robbins), una ripresa dell’ Afternoon of a Faun rivissuto con spirito nuovo, moderno, sulla traccia del poema di Nijinskij-Mallarmé-Debussy e ancora The Concert (musica di Chopin, il musicista cui Robbins ricorse a più riprese nel suo splendido cammino fatto di tensioni, umori, fermenti; siparietto di Saul Steinberg e l’aggiunta di un tocco umoristico piacevolissimo). Nel 1959 Robbins presentò, sempre a Spoleto, Moves , danzato nel silenzio assoluto, forme classiche e balletto jazz fusi insieme con grande fantasia. Nel 1961 la novità Events poneva l’accento, amaro e dolente, sulle nostre realtà contingenti ed era anche, oltre che affresco potente di una società dilaniata, una mirabile prova di espressione coreografica.

Tutte queste qualità ed altre tese alla creazione di uno spettacolo totale (ciò soprattutto nella commedia musicale) anche riscontrabili in altri lavori dei quali sono da ricordare The Age of Anxiety (musica di Bernstein, 1950), The Cage (Stravinskij, 1951), The Pied Piper (Copland, 1951), Fanfare (Britten, 1953), Les Noces (Stravinskij, 1965), Dances at a Gathering (Chopin, 1969), In the Night (Chopin, 1971), The Golberg Variations (Bach, 1971), Watermill (Teiji Ito, 1972), le coreografie su musiche di Stravinskij (1972) e di Ravel (1975), lo spettacolo per Spoleto 1973: Celebration: The Art of the Pas de deux ; senza trascurare alcuni dei suoi musical di maggior successo: The King am I (1951), Peter Pan (1954), il capolavoro assoluto West Side Story (musica di Bernstein, versione teatrale 1957; cinematografica 1962), Funny Girl (1964), Fiddler on the Roof (1964). Fra i premi, i riconoscimenti, è da considerare l’invito rivolto a R. dal presidente Kennedy l’11 aprile 1962 quando i Ballets: Usa si esibirono alla Casa Bianca, eccezionale avvenimento, riverente omaggio ad un genio della scena coreutica mondiale.

Quintavalla

Dopo una laurea in filosofia, nel 1976 Letizia Quintavalla è tra i fondatori del Teatro delle Briciole di Parma di cui mantiene la direzione artistica fino al 1994. Il suo percorso artistico si snoda all’interno del teatro di ricerca e del teatro-ragazzi. Per i suoi lavori attinge alla tradizione popolare, a quella del racconto orale, alla fiaba e ai classici, riletti attraverso un linguaggio espressivo che ha nella scrittura scenica il suo principale riferimento integrata dalla ricerca musicale e della struttura dello spazio scenico. Indicativi all’interno delle sue produzioni: Nemo (1979), Dieci piccoli indiani di A. Christie,(1983). Seguono originali riletture di classici: Pinocchio (1992), Un bacio, un bacio, un altro bacio (1993), tratto dall’Otello di Shakespeare, Con la bambola in tasca (1994) da una fiaba di Afanasiev. Molto importante per gli esiti artistici il progetto con Tonino Guerra che si è sviluppato attraverso Racconto orientale (1989) e La casa dei giardini interni (1995). Sul fronte della sperimentazione i titoli più significativi sono: Polifemo (1991) e Pierino e il lupo (1995) e, nel 1997, Romanzo d’infanzia , il primo spettacolo di teatrodanza per ragazzi realizzato con il coreografo Michele Abbondanza. Nelle ultime stagioni ha instaurato una proficua collaborazione con la compagnia del Teatro dell’Arca che ha diretto in Rosencranz e Guildestern (da T. Stoppard, 1996), interessante mescolanza di cinema e teatro, e nel Decalogo 1 dall’omonimo film di Kieslowski (Mittelfest, 1998).

Fersen

Vissuto in Italia sin dall’infanzia, dopo gli studi filosofici (tra le pubblicazioni L’universo come gioco, 1936) Alessandro Fersen è costretto a emigrare a Parigi dalle leggi razziali fasciste. Qui si avvicina alla prosa, stimolato dal gruppo parigino del Cartel. Esordì in teatro con il fondamentale Lea Lebowitz (1947), di cui scrisse anche il testo seguendo una leggenda chassidica, con la Compagnia del Teatro ebraico: lo spettacolo, di antico folclore yiddish, univa rigorosamente parola, canto e danza. Con la costante collaborazione di Lele Luzzati per scene e costumi, F. ha diretto numerosi spettacoli puntando sempre alla unità delle arti sceniche. Si ricordano tra gli altri: Le allegre comari di Windsor di Shakespeare (1949); Il malato immaginario e L’avaro di Molière (1953); Così è (se vi pare) del 1955 e Come prima, meglio di prima di Pirandello (1957); Il figliol prodigo e Venere prigioniera di G.F. Malipiero (1957); Le diavolerie (Spoleto 1967); Golem (su suo testo, 1968); Fuente Ovejuna di Lope de Vega (1975). Dedicatosi con particolare passione all’attività didattica e saggistica, ha fondato a Roma (1950) uno studio, collegato al teatrino de ‘I nottambuli’, che ebbe breve esistenza. Nel 1957 aprì una scuola per attori basata sulle teorie e sul metodo di Stanislavskij, cui Fersen ha dedicato numerosi studi e pubblicazioni (L’ultimo Stanislavskij , Il metodo Stanislavskij) e che dagli anni ’60 supererà, interessandosi all’antropologia e alla tecnica del monodramma, raccogliendo le sue idee nel saggio Il teatro, dopo (1980).

Berghaus

Dopo la maturità Ruth Berghaus studia regia e pedagogia della danza sotto la guida di Gret Palucca. Nel 1950 inizia la sua attività teatrale con la coreografia dell’allestimento di R. Mohaupta Die Bremer Stadtmusikanten . Nel 1951 è scritturata dal Theater der Freundschaft di Berlino e l’anno successivo è al Deutches Theater. Per il suo sviluppo artistico risulta decisivo l’incontro con l’opera, alla Deutsche Staatsoper, e con il teatro di Brecht. Dal 1958 al 1963 lavora a diverse coreografie insieme al marito, il musicista Paul Dessau. Nel 1964 conquista l’ambiente teatrale berlinese grazie alla scena della battaglia del Coriolano, spettacolo allestito per il Berliner Ensemble, diventando famosa anche all’estero. Nel 1967 diventa regista al Berliner Ensemble, nel 1971 ne diventa la direttrice artistica. Come regista nel ’71 cura la prima assoluta del dramma giovanile di Brecht Nella giungla delle città (Im Dickicht der St&aulm;dte) la prima versione del dramma La madre (Die Mutter, 1974) e la prima assoluta di Zement di Heiner Müller nel 1973. Nel 1977 viene scritturata come regista alla Deutsche Staatsoper dove allestisce Einstein (1974), Il signor Puntila (Puntila, 1976), Leonce e Lena (Leonce und Lena, 1979) e Lanzelot (1989). Questi lavori della Berghaus portarono all’ampliamento dei mezzi, all’interazione fra pubblico e palcoscenico e alle trasposizione dei principi del teatro epico nel teatro d’opera. Per le sue regie viene coniato il termine `metafora scenica’ legato al principio brechtiano della separazione e dell’autonomia degli elementi della rappresentazione. Con gli anni seguono nuovi successi: da Parsifal (1982) al Ring (1985-87) di Wagner per l’Opera di Francoforte, al Don Giovanni (1984). Negli ultimi venti anni B., se si prescinde dagli allestimenti berlinesi presso il Theater im Palast ( Heines letzte Liebe, 1977; Stella, 1980) è stata attiva soprattutto come regista d’opera. In questo periodo ha contribuito in modo sostanziale all’evoluzione della sua arte. Va menzionato a questo proposito il grande esempio che rappresenta l’allestimento del suo Wozzeck (1984) presso l’ Opéra di Parigi. Tratti caratteristici delle sue soluzioni sceniche sono la forte qualità narrativa e l’elaborazione delle contraddizioni dovute alla ricchezza dei rapporti che ha saputo instaurare fra tutti i grandi artisti che ha diretto e le arti che danno vita e rinnovano la magia del teatro.

Sansone

Gaetano Sansone esordisce giovanissimo nella narrativa con lo pseudonimo di Rosso di San Gae. Negli anni ’70 e ’80, si interessa al teatro sperimentale, sia come regista che come attore. Scrive: nel 1974 La famosa presa del potere dei cristiani; nel 1975 Lo sfizio, nel 1977 Tutta notte spettro e morte. Nel 1980 cura la regia, per conto della Biennale di Venezia, di Aspettando che l’inferno inizi a funzionare, dai racconti di Manganelli; lo spettacolo sarà ripreso al castello Sforzesco di Milano, prodotto dal Salone Pier Lombardo. Nel 1980 va in scena Bosco di notte con la regia di Andrée Ruth Shammah, a cui segue, La locanda di Norma Maccanna. Altri suoi titoli sono Valigie bagnate (1990) e Il secondo viaggio della Golden mind (1993). Il teatro di Sansone si caratterizza per la creazione di atmosfere surreali, paradossali e anche metafisiche. Ha formato una scuola teatrale che opera a Milano sotto il nome di ‘Noleggio cammelli’.

Prampolini

Nella poetica del teatro futurista, avviata da Marinetti con la messinscena di Roi Bombance nel 1909 (anno in cui pubblicò Poupées électriques ) e con il Manifesto del teatro di varietà del 1913, ha inizio l’attività di Enrico Prampolini scenografo, con due bozzetti di costume motorumorista per `coreografie futuriste’: un bozzetto di scena e un costume `fono-dinamici’ del 1914. Nel 1915 P. pubblicò il manifesto Scenografia e coreografia futurista , dove affermò il valore della scena dinamico-cromatica, più incline all’esaltazione pantomimica che alla parola, in un dinamismo scenico che guardava all’allora giovane cinema (nel 1916 infatti collaborò con A.G. Bragaglia a Perfido incanto e Thaïs e pubblicò il Manifesto della cinematografia futurista ). Risalgono al 1917 i bozzetti per la sua prima scenografia teatrale, La vita dell’uomo di Andree. Considerando la marionetta lo strumento più idoneo alla propria concezione teorica, ne concretizzò i risultati espressivi nel dramma simbolico per marionette Matoum et Tévibar di A. Birot (1919). Seguì un’intensa attività di scenografo, scenotecnico e costumista al `Teatro del colore’ di Achille Ricciardi, dove sviluppò la propria ricerca di una scenografia risolta attraverso ritmi espressivi di luce-colore, verso una totale astrazione che lo portò a sostituire l’attore con fasci di luce in movimento, come il personaggio della Morte ne L’intrusa di Maeterlinck.

Ricordiamo inoltre L’après-midi d’un faune da Mallarmé, poema danzato con un declamato di voce fuori campo in luogo della musica, e Le bateau ivre , ispirato al poema di Rimbaud (1920). Nel 1921-1922 disegnò le scenografie e i costumi per il Teatro Sintetico Futurista, che mise in scena Antineutralità e Vengono di Marinetti, Parallelepipedi di P. Buzzi, Giallo+rosso+verde e Il pranzo di Sempronio di Settimelli, rappresentati al Teatro Svandovo di Praga, dove P. ebbe modo di sperimentare il palcoscenico girevole per la simultaneità dell’azione. Nel manifesto Atmosfera scenica futurista del 1924, mosso dall’esigenza di un rigoroso astrattismo, affermò la necessità di una scenografia elettrodinamica di «elementi plastici luminosi in movimento nel cavo teatrale», per inscenare quel “rito meccanico” che aveva assunto le tinte dell’appassionata utopia: «il teatro poliespressivo futurista sarà una centrale ultrapotente di forze astratte in gioco». Su questa linea P. portò le proprie visionarie e provocatorie proposte di messinscena nei teatri di Vienna, Praga, Parigi, New York. Progettò il modello del `Teatro Magnetico’, edificio dedicato alla scena astratta futurista che proseguiva le tesi di Gordon Craig e di altri innovatori della scenografia: esposto a Parigi nel 1925, gli valse il Grand Prix Mondiale pour le Théâtre.

Nel 1927 diede vita al Teatro della Pantomima Futurista, dove ideò suggestive soluzioni scenodinamiche tra cui si ricordano Tre momenti (1927), con la musica di F. Casavola e il `rumorarmonio’ di L. Russolo, dove P. fu anche coreografo, Coctail di Marinetti, musicato da S. Mix (1927), e L’ora del fantoccio con musica di A. Casella (1928). Fu anche autore della pantomima Il mercante di cuori (musica di Casavola), dove utilizzò in scena proiezioni cinematografiche in nome di una ancor più viva adesione all’estetica della macchina. Si affermò in seguito come scenografo nei più noti teatri italiani, lavorando a opere liriche e balletti, intrecciando rapporti estetici con l’astrattismo, il costruttivismo, il cubismo, il neoplasticismo. Ricordiamo tre lavori di Casavola ( Il castello nel bosco , 1931; Salammbô , 1948; Bolle di sapone , 1953), la `prima’ de I capricci di Callot di G.F. Malipiero (Roma, Teatro dell’Opera 1942) e La sonnambula di Bellini per il Maggio musicale fiorentino (1942).

Schirinzi

Tino Schirinzi è stato uno dei maggiori interpreti del teatro italiano, attore e regista anticonformista non per moda, ma per temperamento e indole. Legato sentimentalmente a Daisy Lumini, assieme alla quale ha tragicamente posto fine alla sua esistenza, durante la sua carriera ha collaborato con il meglio del teatro italiano, creando un felice sodalizio artistico con Piera Degli Esposti (Arden di Feversham e La pazza di Chaillot), partecipando al debutto italiano del giovanissimo Chéreau, lavorando assiduamente allo Stabile di Torino e al Piccolo di Milano. Memorabili le sue operazioni dissacranti (pre e post Sessantotto) sul teatro elisabettiano, su Goldoni e D’Annunzio, fino a essere cacciato dal Vittoriale, insieme a registi come Aldo Trionfo e Giancarlo Cobelli.

Ma di mezzo ci si mise la malattia, che alla fine degli anni ’70 lo colpì duramente e contro la quale lottò tenacemente per riuscire a recuperare la sua prestanza scenica e il suo straordinario timbro di voce. Ci riuscì, forse non del tutto, ma continuò a lavorare portando in scena nuovi e vigorosi personaggi come l’Ercole morente delle Trachinie (1983) per la regia di M. Castri e Stadelmann, il vecchio servo di Goethe, nell’omonimo spettacolo tratto dalla scrittura di Claudio Magris che, felice di questa esperienza, per Schirinzi aveva scritto un nuovo testo. Insieme a Piera Degli Esposti ricordiamo Caccia al lupo di Verga con La morsa di Pirandello, spettacoli di cui fu anche regista; e ancora L’illusion comique di Corneille (1979, al Piccolo Teatro con la regia di W. Pagliaro), Delitto e castigo per la regia di J. Ljubimov (1984) e nel 1986 allo Stabile di Bolzano, insieme al regista M. Bernardi, Qualcuno volò sul nido del cuculo e soprattutto il teatrante dell’amato T. Bernhard, spettacolo che gli permise per una volta di lavorare insieme alla sua compagna. Sempre nel 1986 partecipa all’ Antigone di Sofocle al Teatro greco di Siracusa; ancora a Bolzano, nel 1987, recita e cura la regia di La favola del figlio cambiato di Pirandello, del quale all’Ater recita Il berretto a sonagli con la regia di M. Castri (1989). Il suo ultimo ruolo è stato quello del servitore Zachar in Oblomov di I. Goncarov, nell’adattamento di Furio Bordon (Trieste 1992).

Jellicoe

Ann Jellicoe debutta nel 1958 con Lo sport della mia pazza madre (The Sport of My Mad Mother), un testo basato sul mito che impiega forme ritualistiche per raggiungere in modo diretto il pubblico: attraverso il ritmo, la musica e persino il rumore. Il titolo rimanda alla dea Kali, figura simbolo della creazione di una nuova vita attraverso la morte e la distruzione, che qui viene modernamente proposta nei panni di una ragazza incinta capo di una banda di adolescenti, con capelli rosso sangue e un viso bianco come la morte. L’intera azione scenica ruota attorno alla violenza di strada, che trasforma le attività quotidiane in schemi stilizzati di suoni e movimenti. Il suo teatro si esprime attraverso un linguaggio estremamente fantasioso, piuttosto affine a una logica musicale che a quella della parola scritta, e del tutto ignaro della lezione e delle convenzioni naturalistiche. J. abbandona presto il teatro professionistico e commerciale, inadatto ai suoi scopi, e si rivolge (come già Peter Cheeseman con The Jolly Potters , 1964) ad attività sperimentali all’interno di scuole e centri sociali, che in seguito porteranno alla diffusione della forma del Community Theatre: i componenti stessi della comunità sono chiamati a rappresentare il loro teatro. Nel 1985, fedele a questa scelta, cura la regia di Entertaining Strangers di D. Edgar, per i cittadini di Dorchester. Tra gli altri suoi testi vanno ricordati: il successo del 1961 The Knack , commedia a sfondo sociale che ha avuto anche una riduzione cinematografica; Shelley , sulla vita del poeta; La nuova generazione (The Rising Generation, 1967), scritta su commissione della Girl Guides’ Association e poi rifiutata.

Vincent

Con J. Jourdheuil e la compagnia del Théâtre de l’Espérance, tra il 1968 e il ’69, Jean-Pierre Vincent mette in scena classici: Brecht (La notte dei piccoli borghesi e Tamburi e trombette), Marivaux, Goldoni, Labiche e lancia nuovi autori come S. Rezvani (Le Camp du drap d’or , Festival d’Avignone 1971; Capitaine Schelle , Capitaine Eçço , Théâtre National Populaire, Parigi, 1971), e J. C. Grumberg (En r’venant d’l’expo , Théâtre Ouvert, Festival di Avignone, 1973). In un clima culturale fortemente connotato dalle ideologie V. vuole restituire allo spettatore il piacere del teatro e l’intelligenza del sorriso, così come Chéreau, Sobel e Vitez, andando alla ricerca di un nuovo `spirito classico’. Al Théâtre National de Strasbourg, che dirige tra il 1975 e il 1983, sono in cartellone Germinal (adattamento dal romanzo di Zola, 1975), il Misantropo (1977), Un livre à vue e Palais de la Guérison di S. O’Casey (1978), Vichy-Fictions: violences à Vichy (1980), Le Palais de justice (1981), Dernières nouvelles de la peste di B. Chartreux (1983). Di quest’ultimo autore, così come di De Musset, Sofocle e Büchner, Vincenti mette in scena altre opere al Théâtre des Amandiers di Nanterre, del quale accetta la direzione in sostituzione di P. Chéreau, dopo un travagliato triennio alla Comédie-Française (1983-1986). Vi torna dieci anni dopo, allestendo Léo Burckart (1996), un’opera poco conosciuta di G. de Nerval.

Scabia

Preceduto dal testo poetico scritto per La fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964) e da altri, raccolti in Servo & Padrone (1965), l’esordio come autore teatrale di Giuliano Scabia con Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea alla Biennale di Venezia (1967) rappresenta uno degli episodi che inaugurano la controversa stagione dell’avanguardia teatrale italiana (Scabia ha fatto anche parte del Gruppo 63 e a lavorato in coppia con Quartucci). Nella sua formulazione ‘acentrica’, aperta alla partecipazione collettiva, Zip anticipa i temi politici e antistituzionali del Sessantotto teatrale e prepara la serie dei testi `aperti’ che Scabia va componendo ( All’improvviso, 1967; Visita alla prova de l’isola Purpurea di Michail Bulgakov, 1968; Scontri generali, 1969-71), mentre amplia il proprio intervento attraverso le formule militanti e sperimentali dell’`animazione’ (laboratori nei quartieri operai di Torino, interventi in una scuola della campagna emiliana, ‘azioni’ teatrali con ragazzi in dodici centri dell’Abruzzo).

Nasce nel corso di quest’ultima esperienza, con Forse un drago nascerà (1972), l’immagine di un ‘teatro vagante’ che caratterizzerà per molto tempo la poetica di Scabia, sia come stimolo profondo sia come pratica di lavoro: un teatro pellegrino che si muove su percorsi estranei alle direttrici di maggioranza, modellato secondo l’antica consuetudine dei trovatori e intessuto di momenti rappresentativi e narrativi, che lo stesso autore si incaricherà di realizzare nelle sue ‘camminate’ (vere e proprie passeggiate a piedi, anche di più chilometri, trasformate, a seconda delle esigenze e del contesto, in apparizioni, evocazioni, visite, visioni, lettere). Questo lavoro acquista notorietà e risonanza, anche internazionale, lungo tutto l’arco degli anni ’70, quando Scabia è ideatore e anima di esperienze come Marco Cavallo (con i ricoverati e gli operatori dell’ospedale psichiatrico di Trieste, diretto allora da Franco Basaglia, 1972-73), Il gorilla quadrumàno (con gli studenti del Dams bolognese, presso cui è docente di drammaturgia, stimolati alla ricerca di un ‘teatro di stalla’ sulle montagne dell’Appennino emiliano, 1974-75), Il Diavolo e il suo angelo (con l’invenzione, nella Venezia del Carnevale, di una `nuova Commedia dell’Arte’, 1979).

Durante gli anni ’80, Scabia intensifica l’attività di teatrante-viandante e dà forma di ciclo alla sua scrittura. Riassorbendo Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno (1971) e Fantastica visione (1973), il ciclo del `Teatro vagante‘ comincia a comporsi nei suoi diciannove testi, tra i quali Lettera a Dorothea (1980), Commedia del poeta d’oro con bestie (1982-87), Ma io insistetti per stare volando ancora un poco (seconda lettera a Dorothea, 1983), Lettere a un lupo (1983) , Cinghiali al limite del bosco (1983), Tragedia di Roncisvalle con bestie (1985), Gli spaventapasseri sposi (1985), Apparizione di un teatro vagante sopra le selve (1986-87). Vanno così scoprendosi, dentro una scrittura che l’autore stesso definisce ‘amorosa’, le costanti del suo immaginario narrativo: radici che affondano in un paesaggio italiano di boschi e di cieli, ma soprattutto nelle aie contadine della pianura padana, dalla cui tradizione orale, innestata al piacere della poesia e dell’affabulazione, si sviluppa nel corso degli anni ’90 la stagione letteraria di Scabia, segnata dai romanzi In capo al mondo (1990) , Nane Oca (1992) e dal libro di poesia e disegni Il poeta albero (1995), oltre che dal riallestimento di testi teatrali precedenti a cui si aggiungono, nel 1997, Gloria del teatro immaginario e Visioni di Gesù con Afrodite.

 

 

 

Verdone

Figlio di M. Verdone, celebre storico del cinema, nel 1969 gira uno dei suoi primi cortometraggi Poesia Solare , influenzato dalla cultura sessantottina e psichedelica del tempo. Nel ’72 Carlo Verdone si iscrive al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e due anni dopo si diploma in regia. Nello stesso periodo inizia l’esperienza di burattinaio presso la scuola di M. Signorelli e quella di attore con il Gruppo Teatro Arte diretto dal fratello Luca, episodi importanti per lo sviluppo delle sue capacità istrioniche di attore-trasformista-comico. Nel 1974 il suo primo incarico di aiuto-regia in Quel movimento che mi piace tanto , commedia erotica di F. Rossetti, con R. Montagnani. Come attore, la svolta avviene con lo spettacolo teatrale Tali e quali al Teatro Alberichino di Roma dove interpreta dodici personaggi, gli stessi che rivedremo nella serie televisiva “Non stop”; (1979), in onda su Raiuno, firmata da Enzo Trapani; e sempre gli stessi personaggi, anche se rivisti e corretti, saranno protagonisti dei suoi primi film (Un sacco bello, Bianco rosso e verdone, Borotalco). Il cinema è stato infatti (e il ricorrente schema a episodi che Verdone utilizza lo indica), il palcoscenico di questi personaggi nati in forma teatrale-cabarettistica: Leo, Ruggero, padre Alfio, il Professore, Anselmo, Enzo, personaggi-macchietta, clichè in cui si possono riconoscere delle nevrosi della società italiana e che ricorrono in tutti i suoi film. In seguito la filmografia di Verdone si fa sempre più ricca (la media è di un film all’anno) fino all’ultimo Sono pazzo di Iris Blond, del 1996.

Lodovici

Carlo Lodovici fu uno dei principali esponenti del teatro veneto, che dimostrò di preferire a quello in italiano. Debuttò come attore nella compagnia di C. Baseggio, dove restò dal 1927 al 1936, frequentando soprattutto il repertorio goldoniano. Successivamente recitò con la compagnia del Teatro di Venezia e con S. Tofano. Nel dopoguerra esordì nella regia e riscosse notevoli consensi con gli spettacoli diretti per il festival di Venezia. Come autore vanno ricordate le sue commedie E Giuditta aprì gli occhi! (1949) e Gente alla finestra (1952).

Squarzina

Considerato fra i maggiori esponenti del teatro di regia italiano, Luigi Squarzina nel 1945 si laurea in legge e nello stesso anno si diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, dove aveva seguito il corso di regia. Il suo saggio di fine corso del secondo anno (1943), una riduzione di Uomini e topi di Steinbeck, è il primo spettacolo teatrale rappresentato nella Roma liberata. Fra i suoi compagni d’Accademia divenuti celebri ricordiamo, oltre a Vittorio Gassman – con il quale Squarzina firma il primo Amleto apparso in Italia in edizione integrale (1952) – anche Adolfo Celi e Luciano Salce. Squarzina fa sua la cifra dell’Accademia damichiana: offrire testi fondamentali della drammaturgia in versione integrale e seguire con cura ogni fase della messinscena: “Il teatro che ci apprestavamo a costruire presentava forme simili a quelle del teatro di oggi, ma allora era una modalità nuova e poco frequentata, spesso temuta dal mondo teatrale dell’epoca che intendeva mantenere le sue antiche abitudini. Avviammo anche un processo di svecchiamento del repertorio ormai degenerato da decenni di censura fascista. Introducemmo numerosi testi stranieri, francesi, inglesi, americani che permisero un allargamento dell’orizzonte culturale e stimolarono nuove e più libere concezioni teatrali dopo tanti anni di dittatura. In Italia la regia nasce, dunque, come emblema di libertà, di indipendenza, di superamento delle costrizioni del passato”.

La personalità di Squarzina è caratterizzata – come egli stesso dice di sé nella voce dell’ Enciclopedia dello spettacolo – dall’eclettismo e dalla versatilità: studi giuridici, attività registica, impegno drammaturgico e universitario, produzione teorica con celebri saggi e studi (per esempio Da Dioniso a Brecht ), direzione di importanti teatri stabili (Genova, Roma); un impegno vario e multiforme, che in lui trova un rigoroso e coerente equilibrio. Il primo periodo registico – dopo la collaborazione iniziale con Orazio Costa (Giorni senza fine di O’Neill, 1946, compagnia Borboni-Randone-Carnabucci-Cei) – è segnato da uno spiccato interesse per la drammaturgia americana, pressoché sconosciuta in Italia: Erano tutti miei figli di Miller (1947), Un cappello pieno di pioggia di Vincent Gazo (1956), Anna dei miracoli di Gibson (1960) in cui debutta una Ottavia Piccolo ancora bambina. Contemporaneamente affronta opere difficili e originali; pensiamo a Tieste di Seneca (1953), interpretato da Gassman, testo solitamente ritenuto irrappresentabile che Squarzina invece allestisce con grande successo.

Gli anni ’50 segnano anche il passaggio alla scrittura drammaturgica: Tre quarti di luna, interpretato da Gassman e da un giovanissimo Luca Ronconi (1953), La sua parte di storia (1955), Romagnola (1957). Sono testi che mettono già in luce le intenzioni di Squarzina drammaturgo: promuovere l’impegno sociale e di denuncia, indagando la verità del rapporto tra l’uomo e la Storia. Il picco dell’attività registica di Squarzina è senz’altro rappresentato dalla lunga permanenza allo Stabile di Genova, una collaborazione nata da un avvicinamento graduale: come regista esterno allestisce Misura per misura di Shakespeare (1957) e Uomo e superuomo di Shaw (1961), spettacoli memorabili che portano S. a dirigere lo Stabile accanto a Ivo Chiesa dal 1962 al ’76. In questo lungo lasso di tempo, grazie anche alla soppressione della censura, S. compie scelte di repertorio prima impraticabili, come Il diavolo e il buon dio di Sartre (1962), allestimento che suscita reazioni e scandali. La struttura stabile consente di operare in libertà e disponibilità di mezzi, permettendo inoltre a Squarzina di avvalersi di uno strepitoso team di attori quali Alberto Lionello, Omero Antonutti, Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Lina Volonghi.

Nell’ambito dello Stabile di Genova Squarzina ha modo di approfondire la ricerca su Goldoni (“Avevo una gran paura di mettere in scena Goldoni, nonostante avessi già allestito I due gemelli veneziani (1963) che venne accolto molto favorevolmente dal pubblico, anche per merito di Lionello, e che fece il giro del mondo: ma per me era uno spettacolo poco impegnativo a livello di significato. Esitai, dunque, moltissimo quando venne dalla Biennale di Venezia la proposta di fare Una delle ultime sere di carnovale . Dopo averci pensato per mesi, accettai e da questo spettacolo, non prima, nacquero il mio amore sfrenato per Goldoni e il desiderio e la necessità di continuare con I rusteghi , La casa nova , Il ventaglio : spero di non abbandonare la ricerca su Goldoni perché non voglio estrarre il dito dalla piaga”), che proseguirà anche una volta lasciata Genova. Tale ricerca culmina con l’allestimento di Una delle ultime sere di carnovale (1968), che S. traduce in una suggestiva riflessione sul ruolo dell’intellettuale. S. inizia, inoltre, un lungo scavo nella drammaturgia pirandelliana ( Non si sa come , 1966; Questa sera si recita a soggetto , 1972; Il fu Mattia Pascal, 1974) e rivela un’attenzione vivissima verso la drammaturgia italiana moderna di Betti, Praga, Rosso di San Secondo, Banti.

Sempre negli anni genovesi si data un primo accostamento a Brecht – non scevro di una certa polemica verso Strehler, in quegli anni considerato il detentore dell’ortodossia brechtiana – con allestimenti di grande spessore: Madre Coraggio (1970) interpretato da Lina Volonghi, Il cerchio di gesso del Caucaso (1974). Infine, il rilancio in grande stile della tragedia classica con Le baccanti di Euripide (1968) che, realizzato alle soglie della contestazione, coglie l’eccezionalità del momento storico: il coro è, infatti, costituito da un gruppo di hippies e Dioniso incarna le nuove e perturbanti istanze del cambiamento. Nel 1975 S. diviene ordinario di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, per passare in seguito alla romana Sapienza. Nel 1976 lascia lo Stabile di Genova per quello di Roma; qui lavora, in particolare, sulla drammaturgia elisabettiana (Volpone di Jonson e Timone d’Atene di Shakespeare) e su Brecht (Terrore e miseria del Terzo Reich). Dal 1983 sceglie la libera professione, continuando tuttavia a coltivare i propri interessi drammaturgici: Pirandello (Il berretto a sonagli; L’uomo, la bestia e la virtù; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La vita che ti diedi), Goldoni (La locandiera e Il ventaglio), Shakespeare (Il mercante di Venezia), la drammaturgia classica (Oreste di Euripide, I sette contro Tebe di Eschilo).

Pur a contatto con differenti realtà teatrali, Squarzina mantiene la propria cifra stilistica, orientata al realismo e attraversata da tensioni storiche, sociologiche e psicoanalitiche. L’attività drammaturgica di Squarzina ha sempre affiancato l’impegno registico, ponendosi in diretta relazione con il proprio tempo, analizzandone le conflittualità, le crisi, i miti, le tensioni profonde, con uno stile che può mutare anche drasticamente da una pièce all’altra, per garantire una autentica aderenza alla realtà da narrare e per valutare criticamente gli strumenti espressivi prodotti dalla propria epoca. Il suo primo lavoro, L’esposizione universale (1948), che segue le vicissitudini di un gruppo di senzatetto, propone una narrazione corale, un affresco di storia contemporanea senza facili concessioni al patetismo. Il più celebre Tre quarti di luna (1952) discute la posizione dell’intellettuale nella società attraverso la vicenda di due studenti che indagano sul misterioso suicidio di un loro compagno. Il linguaggio dell’opera evita una funzione meramente illustrativa del reale, mescolando sapientemente squarci lirici a serrati dibattiti di idee. La sua parte di storia (1955) e Romagnola (1957) drammatizzano, invece, il mondo popolare e contadino. Il primo narra un fatto di cronaca nello scenario di uno sperduto paesino sardo; il secondo – definito dall’autore una `kermesse’ – illustra la partecipazione collettiva alla ricostruzione dopo il fascismo, attraverso la vicenda personale di Michele e Cecilia. L’opera, ritmata come una grande ballata popolare, è strutturata in dieci giornate e trenta quadri, rifiutando così la scansione convenzionale degli atti, in favore di una successione di quadri di sapore brechtiano.

A partire dagli anni ’60 emerge una duplice tendenza nella drammaturgia squarziniana e nella sua indagine critica sulla nostra identità storica e morale. Da un lato il dramma d’invenzione che, pur non estraneo al realismo, può attingere, anche in forma parodica, alle istanze dell’avanguardia (Emmetì , 1963), oppure giocare con le forme del grottesco per una satira di costume sociale (I cinque sensi, 1987), o anche miscelare a sorpresa l’elemento metafisico e il tono brillante di una commedia di costume (Siamo momentaneamente assenti, 1992). Dall’altro lato, il dramma-documento che risponde a finalità didattiche e affonda direttamente nella storia mediante la scrupolosa ricostruzione di eventi realmente accaduti (Cinque giorni al porto, 1969 e Rosa Luxemburg, 1974, scritti con Vico Faggi; 8 settembre, 1971, scritto con De Bernart e Zangrandi).

Salvatores

Gabriele Salvatores si trasferisce giovanissimo con la famiglia a Milano, dove studia giurisprudenza all’università; si diploma alla scuola del Piccolo Teatro. Nel 1972 fonda insieme a Elio De Capitani, Ferdinando Bruni e alcuni reduci della Comune di Dario Fo il Teatro dell’Elfo, per cui curerà come regista e autore più di venti spettacoli. L’esordio nella regia risale al 1971 (l’adattamento di 1789 di A. Mnouchkine), quando ancora la compagnia provava al centro sociale Leoncavallo e girava l’Italia su un furgone. Seguono Zumbi (1972), Woyzeck di Büchner (1973), Bertoldo a corte (1973), Pinocchio bazar (1975), Pulcinella nel paese delle meraviglie (1975), Le mille e una notte (1977), testo collettivo liberamente tratto dalla raccolta di novelle orientali, e Satyricon, da Petronio (1979).

L’Elfo si caratterizza subito per l’abolizione del diaframma tra palcoscenico e platea e per la mescolanza dei generi (cinema, danza, musica), oltre che per la scrittura collettiva dei testi, spesso incentrata sull’improvvisazione. Verso la metà degli anni ’70 l’Elfo ha già un pubblico di fedelissimi, e nel 1976 trova una sede stabile nella sala di via Ciro Menotti. Del 1979 è Dracula il vampiro , spettacolo basato sul romanzo di Bram Stoker, e del 1980 Il gioco degli dei , scritto insieme a F. Bruni ispirandosi all’ Odissea , opera che i due contaminano e trasformano attraverso vari romanzi e fumetti di fantascienza. Il musical Sogno di una notte d’estate (1981), che nel 1983 sarà la sua prima pellicola, è un ricchissimo insieme di canto, recitazione, ballo, che sconvolge qualsiasi schema in nome della più assoluta libertà.

Altro spettacolo musicale è Elzapoppin (1983), remake di un musical del 1938 portato sullo schermo da H.C. Potter, in cui Salvatores, in linea con la regola di contaminazione linguistica propria della compagnia, aggiunge ai lati del palcoscenico uno schermo che non solo ritrae gli attori in alcuni momenti della performance, ma su cui appaiono dei personaggi con i quali gli attori sul palco scambiano battute estemporanee. Ricordiamo ancora, fra i titoli per l’Elfo, Sognando una sirena con i tacchi a spillo (1984) e Amanti (1985), scritto insieme a Bruni, De Capitani e Ida Marinelli. Nel 1986 mette in scena Comedians di Trevor Griffiths, interpretato da Paolo Rossi, e l’anno dopo Eldorado, scritto con Gino e Michele: spettacoli di grande successo, che lo lanciano verso una fortunata carriera cinematografica (premio Oscar nel 1992 per Mediterraneo ). Ancora a teatro, è autore nel 1989 (insieme a Gigio Alberti, Claudio Bisio e Antonio Catania) di Café Procope. Al cinema ha realizzato in oltre: Kamikazen – Ultima notte a Milano (1987), Marrakech Express (1989), Turné (1990), Puerto Escondido (1992), Sud (1993) e Nirvana (1996).

Festa

Sceneggiatore per il cinema e per la televisione, giornalista, Campanile Pasquale Festa nelle sue varie attività ha ritratto le crisi dell’odierna gioventù, proletaria e piccolo borghese. Ha partecipato a quattro film di serio impegno, quali Rocco e i suoi fratelli (Visconti, 1960), La viaccia (Bolognini, 1961). Le quattro giornate di Napoli (Loi, 1962) e Il Gattopardo (Visconti, 1963). Al teatro ha dato, in collaborazione con M. Franciosa la fortunata commedia musicale Rugantino (1962-1965), dove la maschera romanesca è inquadrata in una cornice vivacemente plebea e la componente retorica è abilmente intrecciata al tessuto tragicomico del racconto. L’unico suo testo in prosa è Anche se vi voglio un gran bene (1970) sulle scelte di una moglie che abbandona il marito per imparare a essere se stessa, preceduto da Venti Zecchini d’oro scritto in collaborazione con Luigi Magni e diretto da F. Zeffirelli con P. Borboni, R. Rascel e M. G. Buccella.

Stein

Specializzato negli studi di germanistica e storia dell’arte con una base filologica essenziale al suo approccio ai classici, Peter Stein deve al grande Fritz Körtner, regista e attore, l’insegnamento che farà di lui il punto di riferimento del teatro tedesco nella seconda metà del secolo, demiurgo e sperimentatore di grandi progetti e nuovi spazi, specie nell’esplosione inventiva degli anni ’70. Ma la sua personalità è anche legata a un’ idea di gruppo, identificato con la Schaubühne berlinese di cui è fondatore nel 1970, per quasi un decennio direttore e comunque socio di un complesso autogestito, composto nel suo nucleo storico da compagni e allievi degli inizi, quali Bruno Ganz, Edith Clever, Jutta Lampe, Michael König, elevati negli anni da questa esperienza recitativa coi loro più giovani colleghi ai vertici della scena europea.

Il germe della compagnia è già al fianco di Stein a Monaco, dove il regista trentenne debutta al Werkraumtheater con il provocatorio Saved di Edward Bond e l’anno dopo, nel fatidico Sessantotto, presenta il Brecht giovanile di Nella giungla delle città e il polemico Discorso sul Vietnam di Peter Weiss, concluso da una colletta a favore dei Vietcong. L’ensemble si matura e arricchisce grazie a nuovi incontri nel trittico per lo Schauspielhaus di Zurigo ( Early Morning ancora di Bond, Il bel chicchirichì di O’Casey e I lunatici elisabettiani), e a Brema, nel confronto col romanticismo tedesco dello schilleriano Intrigo e amore e del Torquato Tasso di Goethe; uno spettacolo-capolavoro quest’ultimo, che fa scandalo facendo del protagonista `un clown dell’emozione’ che scavalca le epoche nella sua contestazione d’artista al potere. Non a caso verrà ripreso nel repertorio della Schaubühne, denominata `am Halleschen Ufer’ dal luogo della sua prima sistemazione `povera’ e periferica e, a partire dal 1980, progettato `am Lehniner Platz’ dopo il traferimento in un ex cinema progettato da Mendelssohn negli anni ’20 e ristrutturato da Karl-Ernst Herrmann, scenografo `storico’ di Stein, con tre sale modulari e unificabili.

La prima Schaubühne s’inaugura con un Brecht eretico: La madre in versione più psicologica che educativa con la bravissima Therese Giehse in funzione anti-Weigel, a direzione collettiva come il successivo Interrogatorio all’Avana di Enzensberger. A liquidare i conti con il poeta di Augusta provvederanno indirettamente nello stesso periodo due ulteriori messinscene politiche: in onore dello scomodo Tairov un classico sovietico come La tragedia ottimista di Visnevskij e alla caccia dei sensi di colpa tedeschi Pionieri a Ingolstadt della Fleisser, che di Brecht fu una discussa `compagna di strada’. Ma La madre, col suo abbraccio della scena al pubblico avvolto da tre lati, apre anche un discorso sullo spazio destinato ad assumere maggior respiro nei classici assieme alla ricerca di un’identità, punto chiave di un Peer Gynt integrale in due serate, con sei attori a interpretare gli otto Peer (torna più volte il solo Ganz) su un’isola planetaria in mezzo agli spettatori, dietro ai quali si levano paesaggi ricavati da stampe d’epoca. Con Il principe di Homburg , affidato al fascino di un onirismo visionario che ispirerà Rohmer, è in gioco invece l’io tedesco conteso tra istinto e ragion di stato, insieme all’ambiguità di Kleist da sottrarre a un’ipoteca nazista. Teatralmente il discorso trova il suo sviluppo nello studio e nelle contraddizioni del naturalismo e non a caso nell’ampiezza del suo percorso Stein può arrivare a leggere politicamente un vaudeville tipo Cagnotte dando a Labiche uno spessore molieriano.

L’escursione preventiva sui luoghi dell’autore diventa d’obbligo per un approfondimento stanislavskiano, come lo spettacolo propedeutico sul tema, per esempio sui greci. Così in un enorme padiglione da fiera, nel 1974, Esercizi per attori  (Antikenproject 1) è un’ipotesi fortemente emozionale e coinvolgente sulla nascita della tragedia, seguita a sere alterne dalle Baccanti allestite da Grüber e sei anni dopo dalle nove ore dell’ Orestea , che farà il giro del mondo e rivivrà nel l993 in un’edizione russa con la Compagnia dell’Armata Rossa. È il vero culmine creativo del regista che arriva ad abolire la scena, sostituita dal muro del Palazzo, situando in mezzo agli spettatori seduti per terra su bassi gradini il cantilenante coro da cui escono via via i personaggi ripercorrendo la storia dell’uomo e del teatro. Dura addirittura due sere la grande mostra-museo di Shakespeare Memory, premessa al Bardo che figlia in uno studio cinematografico una monumentale edizione narrativa di Come vi piace, dove l’attraversamento di un lungo cunicolo fitto d’immagini separa la prima parte, con l’antefatto cittadino in clima neoclassico e stilizzato da vedere in piedi, dalla foresta dell’evasione dove tutto è falsamente vero: passeranno dodici anni, con l’intermezzo di Otello e Falstaff nelle edizioni liriche verdiane montate veristicamente per la compagnia di Cardiff, perché si arrivi a una nuovo testo shakespeariano, il controverso Tito Andronico, diretto dal regista poliglotta in italiano per il Teatro di Genova. Nell’intervallo c’era anche stato Der Park, macroscopico adattamento dal Sogno di una notte d’estate di Botho Strauss, a lungo `dramaturg’ del regista e da lui stesso lanciato come autore con La trilogia del rivedersi , sull’eterno tema dell’arte e dell’impegno, letta come appassionata biografia della Schaubühne e il dispersivo Grande e piccolo visto come occasione interpretativa per la Clever e scenografica per Herrmann.

Più interessato al solito ai classici per i più ampi margini d’autonomia ricreativa da questi consentiti, Stein mette alla prova della finzione anche il teatro-verità di Kroetz ( Né carne né pesce ) e del più riuscito Nemico di classe dell’inglese Nicol Williams in una ricostruzione berlinesizzata di una scuola. Ma il tentativo risulta più arduo alla prima mondiale postuma di Roberto Zucco (1990), perché riesce difficile trasferire al Tiergarten l’allegorismo di cui Koltès riveste un’azione peraltro rubata alla realtà. Ma a parte certe avventure già citate, oltre al nuovo omaggio a Tairov col kolossal di un transatlantico a ridosso del pubblico nello Scimmione peloso di O’Neill e la parentesi francese (un’effettistica e potente edizione di Les Nègres per cui Genet, colpito dalle prove aveva addirittura scritto un nuovo finale e la Fedra raciniana), gli anni ’80 avevano avuto per Stein il loro baricentro in Cechov, già studiato, con tanto di viaggio in Russia, al tempo dei Villeggianti di Gor’kij (l974), ancora una storia di borghesi con l’hobby dell’arte, ritagliata su misura per la troupe, con gli attori sempre presenti negli spazi riservati ai loro personaggi a improvvisarsi una vita di controscene.

Dieci anni dopo, Tre sorelle sono un magistrale concertato di gesti, suoni, luci, ritmi che inseguono nel tempo la propria verità in una scena che ricalca il modello stanislavskiano per allungarsi a inghiottire un’altra sala della nuova Schaubühne nell’atto finale del duello, in una campagna che s’inventa una verità perdendosi nell’infinito. Ma la seconda edizione, che trionfa tra l’altro in tournée a Mosca, calandosi anche con qualche cambio d’interprete in una quotidianità meno sontuosamente perfetta tra tic banali velati dalla memoria, sembra addirittura rigenerare quel risultato. Anche Il giardino dei ciliegi conosce due versioni, coricando di un più introspettivo tormento a Salisburgo l’immagine quasi contemporanea di un’umanità turisticamente in corsa verso la fine vista a Berlino, con il mirabile intervallo nel 1994 dello Zio Vanja italiano `alla russa’ con Herlitzka, Pozzi, Girone, Crippa, Giovampietro: una complessa collezione di segni per snidare l’insondabile presenza della comicità nella tragedia che rappresenta il nocciolo inafferrabile dell’opera di Cechov.

Intanto, lasciata la Schaubühne, infoltite le regie liriche da Debussy a Schönberg a Berg, Stein assume per sei anni la direzione della sezione prosa di Salisburgo, dove si propone di ricalcare il modello Reinhardt con una serie di grandi spettacoli unici affidati anche ad altri registi importanti e giovani, riunendo a livello d’interpreti il meglio del teatro pantedesco. Il sogno di un estivo Walhalla teatrale si realizza alla Felsenreitschule col suo Giulio Cesare, memorabile saggio sulla retorica politica e sulla manipolazione delle masse, svolto a luce naturale con travolgente maestria tecnica, primo degli Shakespeare romani programmati che vedranno anche un suo stanco Antonio e Cleopatra, prima del ripiegamento verso un duplice e più esteriore omaggio alla scena austriaca con le messinscene di due classici nazionali, Il re delle Alpi e il misantropo di Ferdinand Raimund e il meno frequentato Libussa di Grillparzer, preludio a un allestimento nel tradizionale Theater viennese der Josefstadt nel giugno ’98, dell’ultima complicata novità dell’amico Botho Strauss (Die Aulmhnlichen, i somiglianti), trasformata in felice occasione registica, ricca di autocitazioni. Ma la sua mente è già tesa al Faust integrale in sette giornate che da tempo lo travaglia, destinato a realizzare all’Expo 2000 di Hannover, 20 anni dopo l’Orestea, l’opera della sua vita.

Maiello

Raffaele Maiello è stato assistente-regista per dieci anni al Piccolo Teatro di Milano, poi ha curato autonomamente quattro regie: Patatine di contorno di Wesker (1966), Unterdenlinden di Roversi (1967), Marat-Sade di Weiss (1967-68), Visita alla prova de L’isola purpurea di Bulgakov-Scabia (1968-69). Dopo questa lunga e proficua esperienza teatrale decide di dedicarsi alla regia televisiva, specializzandosi come documentarista. Negli anni ’60 e ’70 gira film documentari per la televisione in tutte le zone del mondo politicamente e socialmente più calde, sempre dimostrando una perspicua capacità di coniugare l’esattezza del reportage con la cura stilistica: sarà così per il Vietnam, l’Africa, il Cile e il Pakistan. Torna al teatro nel 1975 con il Brecht di Un uomo è un uomo , non smentendo la sua vocazione per la cultura impegnata. Nel decennio successivo si occupa di nuovo di televisione.

Battistini

Fabio Battistini si diploma in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1965 con una tesi sul teatro di Pirandello. Dopo una lunga esperienza al fianco di Strehler per il quale firma nel 1973 i costumi per Il gioco dei potenti al festival di Salisburgo (la trilogia dell’ Enrico VI , in due giornate, con A. Jonasson e M. Heltau). Lavora con L’Informativa ’65 (Giulio II di Baijni, regia M. Binazzi) e La Contemporanea (Aspettando Godot di Beckett, regia M.M. Giorgetti) a Milano e la Compagnia del Sangenesio, a Roma (La nuova isola di A. Balducci, premio Riccione ’73 e Loro di E. Manet, prima mondiale). Passa alla regia con L’innesto di Pirandello per la compagnia del Teatro Filodrammatici di Milano (1978). Intensa risulta poi l’attività di ricerca al Teatrino della Villa Reale di Monza su testi di Pirandello, Brecht, Lorca, Ghelderode, Ionesco, Machiavelli, Molière e Goldoni. Fra gli altri spettacoli si ricordano Tre civette sul comò (1982) di De Baggis con Paola Borboni, Atti del processo a suor Virginia Maria, monaca di Monza (1986), Donna de Paradiso di Jacopone da Todi (Lugano, 1991), Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot con F. Graziosi (Lugano, 1993), Dialoghi delle Carmelitane (1995) di G. Bernanos, Lugano, Vesperali ’95 , con F. Nuti, Koeelet , I Lettera ai Corinzi (traduzione di G. Testori), Rebora e Turoldo (1996). Da alcuni anni porta avanti con rigore un’idea di teatro religioso rileggendo gli autori del Novecento. Nell’agosto del 1998 allestisce la prima assoluta di Pietra oscura , la prima opera teatrale di M. Luzi, scritta nel 1947. Dal 1988 mette inscena diversi spettacoli da Claudel a Cesbron all’Eremo di Santa Caterina del Sasso; inoltre è collaboratore della Radio Svizzera italiana per la quale ha curato numerosi drammi radiofonici.

Piccoli

Dopo qualche anno di giornalismo, nel dopoguerra Fantasio Piccoli fonda il Carrozzone (compagnia costituita da dieci giovani attori), una delle prime esperienze di decentramento teatrale. Il gruppo comprendeva, fra gli altri, R. Valli, V. Fortunato e A. Asti, il regista A. Trionfo, gli scenografi L. Luzzati e G. Padovani. Il repertorio presentato è vario: nel 1947 vengono allestiti Il curioso accidente di C. Goldoni e Come le foglie di G. Giacosa; nel 1948 Istoria di Jesù Nazareno raccolta di laudi umbre e La dodicesima notte di Shakespeare, nel 1949 Miles gloriosus di Plauto e Un capriccio di A. de Musset; nel 1950 Liliom di Molnár. Nel 1950 il gruppo costituì il primo nucleo del Teatro Stabile di Bolzano che P. dirige per sedici anni, allestendo una settantina di spettacoli circa, fra cui opere di Shakespeare, Euripide, Molière, Anouihl, Pirandello, Goldoni, Claudel, ma anche esponenti della drammaturgia italiana contemporanea quali Terron, Bompiani, Biagi. Nel 1966 lascia la direzione dello Stabile pur continuando a svolgervi la funzione di consulente artistico, e l’anno seguente insieme a E. Calindri assume la guida del Teatro San Babila di Milano. L’attività produttiva del teatro prosegue fino alla prima metà degli anni ’70 con numerosi allestimenti, tra i quali: La Gioconda di D’Annunzio (1967) e Pensaci, Giacomino! di Pirandello (1970), ma a causa delle ingenti difficoltà economiche, alla fine degli anni ’70 lascia la direzione. Tornò così nuovamente al giornalismo, occupandosi della rubrica di critica teatrale sul settimanale “Oggi”. È stato insignito del Premio Una vita per il teatro a testimonianza di un’esistenza dedita allo sviluppo e alla diffusione della cultura.

Barba

Eugenio Barba è una delle figure fondamentali del teatro contemporaneo, regista, autore, ma soprattutto teorico di una pratica teatrale che mette l’attore direttamente in relazione con la propria ricerca interiore. Uno dei punti nodali per una tale vocazione che sembra avere radici spirituali, è la costante pratica di esercizi corporei alla quale sottoporre la volontà dell’attore, una disciplina che esige l’assoluta consapevolezza del suo comportamento scenico, quella lucidità, come la definisce Eugenio Barba, che rivela la dimensione di sovversione e la portata etica di questa esperienza. Eugenio Barba si avventura giovanissimo verso il Nord Europa interrompendo quella che doveva diventare una carriera militare, e a Oslo si divide tra l’apprendistato di un’officina e gli studi serali per diventare saldatore; nel 1956 e l’anno successivo si imbarca come marinaio su navi norvegesi dirette in Oriente. Tornato in Norvegia si iscrive all’università nel corso di laurea in Storia delle religioni, ma è il viaggio ad Opole, in Polonia, a mutare il carattere di un mestiere, quello del teatro, fino a quel momento vissuto come un’aspirazione rivoluzionaria di stampo brechtiana. Qui incontra per la prima volta Jerzy Grotowski, di qualche anno più anziano di lui e da poco fuoriuscito dalla politica attiva.

Con Grotowski dal 1961 al ’64 seguirà le fasi di lavoro del Teatr-Laboratorium di Opole nelle vesti di testimone (non parteciperà mai alle attività fisiche del laboratorio) e di accorto cronista di un evento che lo segna profondamente, come documenta il testo Alla ricerca del teatro perduto del 1965. L’idea di un laboratorio come di un luogo appartato di creazione artistica e di formazione svincolato dai processi economico-burocratici dello spettacolo, diviene allora una prospettiva di vita, radicalizzata da motivazioni di indipendenza e dalla necessità di creare «nuove relazioni tra gli attori e con il pubblico». Nel 1964 a Oslo, Barba fonda l’Odin Teatret nella totale mancanza di mezzi e di finanziamenti, riunendo sotto la sua guida un gruppo di ragazzi e ragazze attori non professionisti che cominciano ad allenarsi per molte ore al giorno, quello che poi diventa il rigido training di un’autodisciplina che fa dell’attore una sorta di iniziando monacale, al quale si chiede la disponibilità al sacrifico per dedicarsi alla propria crescita individuale. Scrive a ventotto anni: «Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono». Al nucleo norvegese originario con Marie Laukvik e Torgeir Wethal (gli spettacoli sono Ornitofilene e Kaspariana ) si aggiungono attori straordinari provenienti da altre nazioni, tra i quali Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri, César Brie e Julia Varley. Rispondendo all’invito della municipalità di Holstebro nel 1966, e in particolare al suo sindaco Kaj K. Nielsen, l’Odin trasferisce la propria attività in Danimarca, dove gli viene riconosciuto lo statuto di teatro cittadino, permettendogli comunque di mantenere quel carattere di autoformazione chiusa per lunghi periodi ai contatti con l’esterno. L’attività non si limita ovviamente alla preparazione degli spettacoli ( Ferai è del ’69), ma inventaria una serie di iniziative legate alla pedagogia, al lavoro nelle scuole e alla produzione di film, come quello girato nel ’72 da Torgeir Wethal per la Rai Servizi Sperimentali e dedicato agli allenamenti fisici dell’Odin Teatret. L’apprendistato del laboratorio forma una capacità fisica attraverso la tecnica, ma in effetti si pone lo scopo di trasmettere una maggiore consapevolezza etica dell’agire umano: il passaggio dal laboratorio al teatro-scuola è contrassegnato dalla fondazione nel 1979 delle sessioni pubbliche dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), dove studiosi e uomini di teatro si confrontano sulla pratica e la pedagogia inerenti alla performance e alla sua trasmissibilità come esperienza. Nel lavoro «è naturale che tecnica ed estetica siano le conseguenze di un’attitudine etica determinata», e l’equilibrio tra energia interna e azione del corpo, in una dialettica di opposte reazioni, che non tiene conto solo del ritmo o della perfezione di un dato esercizio, ma riguarda lo stato di affinità tra gli attori in scena, e tra questi e il pubblico (con Min fars hus del ’72, Barba pone definitivamente il suo teatro oltre il confine della rappresentazione).

È degli anni in cui l’Odin intraprende i suoi viaggi nel Sud d’Italia e in America Latina, la riflessione di B. intorno ai processi creativi dell’azione teatrale aperti ai `baratti’ con le altre culture non finalizzati ad un sistema di produzione, cioè l’idea è quella di un teatro che possa essere considerato `oggetto’ da scambiare, da condividere come esperienza. Siamo nel 1974, l’Odin prende forma e si riconosce in quanto gruppo, trascorre alcuni mesi all’estero in quelle `regioni senza teatro’ cercando di cambiare il proprio percorso in uno «strumento di trasformazione di sé e degli altri», alterando in definitiva il rapporto asfittico tra lo spettatore e lo spettacolo verso uno scambio reciproco di interessi e aspettative. Tra i numerosi scritti di Eugenio Barba, uno in particolare dà voce a quelle realtà teatrali sommerse e marginali che ricercano nel lavoro un’autonomia dalla tradizione e dalle sperimentazioni avanguardistiche: è il Terzo Teatro (pubblicato per la prima volta nel 1976 a Parigi in occasione dell’International Thèâtre Information dell’Unesco), ovvero un «ponte – sempre minacciato – fra l’affermazione dei propri bisogni personali e l’esigenza di contagiare con essi la realtà che li circonda». Anche negli ultimi anni il teatro di B. mantiene intatta la sua dimensione di laboratorio di ricerca teatrale (Talabot del 1988, Itsi-Bitsi del ’91 e Kaosmos del ’93), un luogo dei valori per eccellenza, un `santuario’ o `spazio sacro’ in cui l’agire scenico manifesta sempre con più evidenza il rifiuto dei paradossi della società. Trent’anni di vita contrassegnati da circa venti spettacoli che non appartengono ad uno specifico geografico e dove si mescolano lingue e nazionalità diverse.

Rossi Gastaldi

Patrick Rossi Gastaldi esordisce come attore per passare alla regia all’inizio degli anni ’90, allestendo spettacoli di autori contemporanei: Terapia di gruppo di C. Durang – traduzione di G. Lombardo Radice – di cui è anche interprete (Todi, 1992); L’atelier di Grumberg, traduzione di G. Lombardo Radice (Todi,1993); I pappagalli di T. Tally – adattamento di G. Lombardo Radice – (1995), con Valerio Mastrandrea; Oberon di U. Chiti (Benevento, 1995), di cui è anche interprete accanto a Pupella Maggio; Il pianeta proibito (Shakespeare & rock’n’roll) di Bob Carlton (Todi, 1995); Bodies di J. Saunders (Roma, 1996); Non ti conosco più di A. De Benedetti (Trieste, 1996); I peggiori anni della nostra vita di E. Vaime (1996), con Gianfranco D’Angelo; Separazione di T. Kempinski (Roma, 1997), con Margherita Buy.

Mattoli

Avvocato a Milano, Mario Mattoli si avvicinò alla società Suvini e Zerboni, della quale, dopo aver abbandonato la professione forense, divenne segretario. Si occupò dapprima dell’organizzazione degli spettacoli di varietà e, successivamente, della loro messa in scena. Nel 1928, insieme a L. Ramo, divenne capocomico, raccogliendo alcune compagnie sotto il nome di Spettacoli Za Bum, una sigla che divenne assai celebre in pochi anni. Esordì nella regia cinematografica nel 1934 con Tempo massimo . Cominciò così una prolifica carriera di regista e sceneggiatore, che lo portò a realizzare un notevole numero di film, soprattutto comici, che riscossero i favori del pubblico nonostante un non sempre elevato valore artistico. A portare al successo i suoi film furono soprattutto E. Macario (Imputato alzatevi!, 1939, Lo vedi come sei?, 1939, Non me lo dire!, 1940, Il pirata sono io!, 1940) e Totò (Miseria e nobiltà, 1954, Signori si nasce, 1960). Sotto la sigla ‘I film che parlano al vostro cuore’, Mattoli realizzò negli anni ’40 una serie di pellicole ispirate al cinema francese.

Le Moli

Alla fine degli anni ’70 Walter Le Moli è la mente pensante e organizzativa della Compagnia del Collettivo, di cui ha promosso la crescita facendola divenire, con il teatro di Parma, il primo «organismo con finalità pubblica e responsabilità privata» del panorama italiano. Dal 1990 è direttore artistico del Teatro stabile di Parma, dal 1996 è presidente del Comitato di coordinamento delle attività teatrali di prosa dell’Agis nazionale, componente del Consiglio nazionale dello spettacolo e consigliere della Biennale di Venezia in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri. Oltre al suo ruolo istituzionale, ha curato numerose regie per la compagnia del Collettivo-Teatro Due: da L’assicurazione di Weiss (1985) a Lulu di Wedekind (1987), da Tartufo (1988) a Il gabbiano (1989), da Max Gericke di Karge (1990-91, di cui ha curato anche la traduzione) a I sequestrati di Altona di Sartre (1992 e 1994), fino a Güst di Achternbusch (1995) e Giovanna d’Arco (allo Stabile di Torino, 1998).

Carriglio

Docente per alcuni anni all’università di Palermo, appassionato studioso d’arte drammatica, Pietro Carriglio ha fondato e diretto il teatro Biondo Stabile di Palermo, dopo aver fatto parte della direzione del teatro Massimo. Per tre anni è stato il direttore artistico del Teatro stabile di Roma, prima dell’arrivo di Luca Ronconi; dal 1998 è ritornato a dirigere lo Stabile di Palermo. Tra le sue regie più apprezzate, Il mercante di Venezia , La tempesta e Racconto d’inverno di Shakespeare, La vita è sogno di Calderón, Finale di partita di Beckett. Per il teatro d’opera ha allestito Il castello del principe Barbablù di Bartók e Die glückliche Hand di Schönberg. Molto scalpore hanno suscitato le sue scenografie modulari. Insieme a Giorgio Strehler ha avviato presso Laterza la pubblicazione di una collana di ‘Teatro italiano’.

Burian

Dopo gli studi musicali presso il conservatorio di Praga, nel 1928-29 Emil František Burian fece parte del gruppo Devetsil e del Teatro Liberato. Esordì nella regia con le `riviste di vagabondi’ (trampské revue) per il teatrino Dada na Slupi. Regista e drammaturgo per i principali teatri praghesi, nel 1934 fonda un proprio teatro a Praga, il Divadlo 34, in cui vennero realizzati testi dei principali autori dell’avanguardia poetica ceca e adattamenti dei classici della drammaturgia europea. Nel 1941 Emil František Burian venne deportato dai nazisti e il teatro chiuso, per riaprire nel 1945. Scopritore dell’antico teatro popolare ceco, attento studioso del linguaggio teatrale secondo i canoni del `poetismo’, Burian fu uno dei registi più importanti dell’avanguardia ceca. Fra gli elementi fondamentali della sua poetica sono l’articolazione della partitura verbale con modalità musicali (regia come orchestrazione) e l’uso lirico delle luci, con cui veniva costruito lo spazio della scena e dell’azione (particolarmente significativa in questo senso la regia di Romeo e Giulietta, nell’adattamento Il sogno di un prigioniero, 1946, in cui la luce creava le scene come inquadrature delimitate da dissolvenze).

Trionfo

Dopo gli studi di ingegneria (durante i quali era già impegnato come musicista e pittore) Aldo Trionfo si dedicò al teatro partecipando come mimo e attore a due spettacoli di A. Fersen: La Regina di Saba (1945) e Lea Lebowitz (1946). Nel 1947 cominciò come attore, scenografo e aiuto regista il suo sodalizio (che durò fino alla fine della stagione 1952-53) con il Carrozzone di F. Piccoli, recitando soprattutto parti di caratterista in testi classici ( Un curioso accidente , 1947; La dodicesima notte di Shakespeare, 1948; Medea di Euripide, 1951; Le furberie di Scapino di Molière, 1951; Zio Vania di Cechov, 1952), in lavori di repertorio di Molnár e Giacosa e in novità come I soldati conquistatori di Joppolo (1949).

Per alcuni anni si diede al cinema collaborando alla sceneggiatura di La signora senza camelie di Antonioni (1953) e come aiuto regista di De Santis in Un marito per Anna Zaccheo (1953) e di Visconti in Senso (1954), e fu direttore artistico della Casa cinematografica Esedra. Nel 1957, a Genova, fonda la Borsa di Arlecchino, caffè-teatro in cui venivano proposti per la prima volta al pubblico italiano testi della rinascente avanguardia europea, da Ionesco (La lezione, 1957; La cantatrice calva, 1958; Jacques ou La soumission, 1958; Vittime del dovere, 1958; La ragazza da marito, 1960) a Tardieu (Solo loro lo sanno, Il linguaggio delle famiglie, Un gesto per un altro e Il signor Dieci, 1960), da Obaldia (Un coniglio molto caldo, 1958) a Beckett (Finale di partita, 1959), da Adamov (Les retrouvailles, 1958) a Genet (Alta sorveglianza, 1960), nonché ‘riviste’ poetiche e musicali dello stesso Trionfo.

Le sue prime regie professionali sono del 1963 per lo Stabile di Trieste con Storia di Vasco di Schéhadé e Tamburi nella notte di Brecht con la Stabile di Bologna. Seguono Dialoghi con Leucò da Pavese e Vinzenz o L’amica degli uomini importanti di Musil nel 1964; la novità Andiamo a guardare Sonia di Silvestri e Verucci e il Prometeo incatenato di Eschilo nel 1965. Dal 1972 al 1976 diresse lo Stabile di Torino, dove consolidò il sodalizio con lo scenografo e costumista Emanuele Luzzati. Nella scelta dei testi e degli autori ha mostrato particolare interesse per il teatro inglese del Cinque-Seicento, per lo Shakespeare di Tito Andronico e di Re Giovanni e l’anonimo Arden di Feversham fino a scandagliare il grottesco in Faust-Marlowe-Burlesque (1976) con Carmelo Bene e Franco Branciaroli.

Memorabili restano le regie di Peer Gynt (1972) e Il piccolo Eyolf di Ibsen (1968), Elettra (1974) e Edipo a Colono di Sofocle, Le baccanti di Euripide, Puntila e il servo Matti di Brecht (1970), Carnevale romano di Hubay (1981), I corvi di Becque (1980), la trilogia dannunziana La città morta , Francesca da Rimini e La nave (1988), fino alla collaborazione con il Teatro della Tosse di Genova dell’ultima Però peccato, era una gran puttana di J. Ford (1989). Dal 1980 al 1986 ha diretto l’Accademia d’arte drammatica `Silvio D’Amico’.

Ejzenstejn

Maestro indiscusso della storia del cinema, Sergej Michailovic Ejzenstejn si è formato in teatro nell’ambito delle avanguardie russe di inizio secolo e della temperie culturale scaturita dalla rivoluzione d’Ottobre, traendone molti spunti e suggerimenti che metterà in pratica nella sua carriera registica. Poco più che ventenne frequenta la scuola di Mejerchol’d e contemporaneamente frequenta il gruppo Feks (Fabbrica dell’attore eccentrico) di Pietrogrado. Nel 1922 è direttore dell’atelier degli allenamenti del Proletkult di Mosca (oltre alla recitazione si insegnava anche pratica sportiva), dove lavora anche come scenografo e costumista. Suoi lavori come scenografo sono: Il messicano (1921), riduzione di un racconto di J. London in cui collabora alla regia insieme a Valerij Smysliajev, Macbeth (1921), regia di V. Tichonovic e Nad Obryvom (1922) di V. Pletnev, con la regia di M. Altman. Nel 1922 lavora per nove mesi alle scenografie per lo spettacolo di Mejerchol’d Casa Cuorinfranto di G.B. Shaw, che però non andò mai in scena.

La sua prima regia teatrale è Anche il più saggio sbaglia (1923), riduzione dell’omonima commedia di Ostrovskij, presentata al Teatro del Proletkult. Lo spettacolo comprende numeri da circo come acrobazie e funambolismi, che richiedevano agli attori un’ottima preparazione atletica, e l’accompagnamento di una `orchestra di rumori’. All’interno della rappresentazione veniva proiettato il suo breve film Il diario di Glumov , che dava al tutto l’impressione di un insieme barocco e frastagliato. Nello stesso anno allestisce, sempre per il Proletkult, Mosca ascolti? , un `agit-guignol’ di Sergej Tret’jakov. Ritorna al teatro nel 1940, quando già ha alle spalle gran parte dei suoi capolavori cinematografici come La corazzata Potëmkim (1925), Ottobre (1927), Aleksandr Nevskij (1938), curando la regia di Die Walküre di Wagner, messa in scena al Bol’šoj di Mosca. All’attività artistica E. ha sempre affiancato quella di saggista e insegnante; è proprio grazie alla trascrizione di parte delle sue lezioni, completate da contributi originali del grande regista, che nasce la sua ponderosa opera di teoria cinematografica).

Barberio Corsetti

Rappresentante di punta del teatro di ricerca in Italia, Giorgio Barberio Corsetti ha fondato nel 1976 la compagnia La Gaia Scienza, dal titolo dell’omonimo saggio di regia con il quale si è diplomato nel 1975 presso l’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’. Dopo una serie di spettacoli originali e di successo, l’ultimo è Cuori strappati (1984), l’artista romano scioglie la compagnia e forma un nuovo gruppo che porta il suo nome. Alla Biennale di Venezia del 1984 la Compagnia teatrale di Giorgio Barberio Corsetti presenta Il ladro di anime e nel 1986 mette in scena Diario segreto contraffatto . Nel 1985 Giorgio Barberio Corsetti inizia la fase sperimentale del video nella drammaturgia teatrale e, in collaborazione con lo Studio Azzurro di Milano, realizza Prologo a Diario segreto contraffatto (1985), prima parte di una trilogia sperimentale che si completa successivamente con Correva come un lungo segno bianco (1986) e con La camera astratta (1987, premio Ubu per il video-teatro). Il 1988 vede la compagnia impegnata in un progetto elaborato dallo stesso Giorgio Barberio Corsetti, che porta alla messa in scena di una trilogia di racconti brevi che punta su una forte astrazione e cerca di esprimere le tensioni della scrittura e dell’universo poetico di Kafka: Descrizione di una battaglia (1988), Di notte (1988), Durante la costruzione della muraglia cinese (1989). Nel 1990 con Il legno dei violini , di cui è autore e regista, Giorgio Barberio Corsetti vince il premio Idi per la regia e il premio della critica come miglior spettacolo. Dopo la trilogia sui racconti brevi, l’artista romano rivolge nuovamente il suo interesse all’autore praghese realizzando una riscrittura di America (dall’omonimo romanzo incompiuto del 1912), spettacolo itinerante di forte carica narrativa e di grande attenzione ai personaggi. Il protagonista, Karl, percorre (insieme agli spettatori, ignari di questa performance improvvisata che li vede co-protagonisti) un itinerario attraverso i luoghi della città, alla ricerca della sua identità nel mondo. Con Americ, viaggio metaforico alla ricerca del sé, Giorgio Barberio Corsetti realizza un inedito rapporto con la parola proponendola a volte come testo primo, altre come commento stesso all’azione, che riporta alla tensione letteraria della scrittura kafkiana. Nel 1993 l’autore inizia un suo percorso personale intorno al Faust di Goethe di cui ne è primo risultato Mefistofele, studi, schizzi e disegni per un Faust privato (1995), che si conclude con la messa in scena di un Faust (1995), sottratto agli schemi tradizionali e rivisitato in termini originalissimi, nel quale il video conquista il ruolo scenografico grazie a monitor su carrelli che scorrono lungo l’intero spazio scenico e proiettano l’immagine di personaggi che dialogano con la loro effigie vera.

Interprete, autore e regista dello spettacolo, Giorgio Barberio Corsetti mette anche l’accento sulle musiche che spaziano dall’opera alla rivista, al cabaret, per attualizzare l’ambiguità di un personaggio sospeso tra magia e quotidianità. La nascita della tragedia-un notturno (1996), spettacolo pensato in forma di viaggio attraverso il tragico nella città, che vede la partecipazione di Franco Citti nel ruolo del `padre cieco’, è una bellissima performance nel cuore cattivo della metropoli che ridefinisce il senso del teatro; una sorta di pellegrinaggio necessario dentro la tragedia del vivere contemporaneo che coinvolge gli spettatori nei luoghi della città e si conclude all’interno del teatro, lo spazio dell’Acquario, luogo dell’eterna rappresentazione dell’esistenza. Lo spettacolo segna la conclusione del primo `Progetto acquario teatro laboratorio’, l’attività di spettacolo affidata a Giorgio Barberio Corsetti dal Comune di Roma. Fra l’immaginario urbano di oggi e l’universo poetico di antiche storie calate nella magia dei testi vedici indiani, prende forma Notte (1998): l’universo di riferimento è composto dalla memoria delle origini, memoria di antichi testi sacri e racconti mitologici. I personaggi, metafora dell’umanità (un poeta, un giocatore, una ragazza, tre vecchie donne, delle madri, un padre, un giudice, un giovane uomo), si incontrano come ombre nella notte metropolitana e ritrovano una scintilla, una piccola illuminazione che li mette in contatto con la parte più intima di se stessi, in relazione con quella zona segreta laddove gli esseri si toccano profondamente e le loro vicende (che prendono il linguaggio antico dei Veda, i testi sapienziali indiani) assumono connotazione universale, incrocio tra passato e presente. Nel 1997 per la prima volta Giorgio Barberio Corsetti lavora su un testo di Pirandello firmando la prima messa in scena assoluta in Portogallo di I giganti della montagna al Teatro Nacional di San João di Oporto, mentre per l’Expo di Lisbona progetta una macchina scenica che, insieme a quella realizzata da altri artisti e altri gruppi catalani (come la `Fura dels Baus’), partecipa a Peregrinacão , l’evento itinerante dedicato dall’esposizione universale al viaggio e al pellegrinaggio nell’ultimo scorcio del secolo. Il processo da Kafka, l’ultimo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti in Italia, ha debuttato a Palermo in occasione del Festival sul Novecento nell’ottobre del 1998.

Arbasino

Autore di racconti (L’anonimo lombardo , 1959), di romanzi (SuperEliogabalo, 1969; La bella di Lodi , 1972; Specchio delle mie brame , 1974), di saggi (Certi romanzi , 1964; Sessanta posizioni , 1971), di reportage (Trans-Pacific Express , 1981; Mekong , 1994), di polemica civile e politica (In questo stato , 1978; Un paese senza , 1980), nella sua opera più importante, Fratelli d’Italia, una sorta di viaggio iniziatico di giovani intellettuali un po’ snob e un po’ emblemi dell’Italia degli anni ’60 – più volte riscritta e ampliata, 1963/1976/1993 – Alberto Arbasino ha disegnato una mappa delle istanze culturali di quell’epoca e ha affrescato una società con tocchi di satira acre e irridente, alternando parti narrative ad altre dialogiche e saggistiche, dove tra l’altro molto si discorre di argomenti teatrali. E Alberto Arbasino si è sempre occupato di teatro, anche se non come drammaturgo, ma come regista e critico.

Come regista, ha messo in scena al Cairo una Traviata di Verdi (1965) ed una Carmen di Bizet al Comunale di Bologna (1967) con le scene di Vittorio Gregotti, i costumi di Giosetta Fioroni e la consulenza di Roland Barthes, di uno sperimentalismo troppo antelitteram per essere apprezzato, con Micaela in succinto impermeabilino bianco e Don José in veste di Uomo mascherato. Nello stesso anno, a Roma, ha diretto la commedia di J. Osborne Prova inammissibile con T. Carraro. Con M. Missiroli ha composto agli inizi degli anni ’60 un musical sui generis, Amate sponde , con `partitura di rumori’ di E. Morricone. Ma è soprattutto come critico e attento frequentatore degli eventi di teatro più importanti del mondo intero che A., da oltre quarant’anni – sulle pagine di quotidiani e settimanali e con grande divertimento di chi riesce a seguire i mirabolanti corto-circuiti di agnizioni e riferimenti – racconta gli spettacoli teatrali e lirici che più lo hanno sollecitato; pagine poi raccolte in volumi fittissimi o che lo saranno in futuro (Grazie per le magnifiche rose , 1965; La maleducazione teatrale , 1966), venendo così a costituire veri e propri repertori critici in cui tutte le principali avventure della drammaturgia contemporanea risulteranno documentate.