Squarzina

Considerato fra i maggiori esponenti del teatro di regia italiano, Luigi Squarzina nel 1945 si laurea in legge e nello stesso anno si diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, dove aveva seguito il corso di regia. Il suo saggio di fine corso del secondo anno (1943), una riduzione di Uomini e topi di Steinbeck, è il primo spettacolo teatrale rappresentato nella Roma liberata. Fra i suoi compagni d’Accademia divenuti celebri ricordiamo, oltre a Vittorio Gassman – con il quale Squarzina firma il primo Amleto apparso in Italia in edizione integrale (1952) – anche Adolfo Celi e Luciano Salce. Squarzina fa sua la cifra dell’Accademia damichiana: offrire testi fondamentali della drammaturgia in versione integrale e seguire con cura ogni fase della messinscena: “Il teatro che ci apprestavamo a costruire presentava forme simili a quelle del teatro di oggi, ma allora era una modalità nuova e poco frequentata, spesso temuta dal mondo teatrale dell’epoca che intendeva mantenere le sue antiche abitudini. Avviammo anche un processo di svecchiamento del repertorio ormai degenerato da decenni di censura fascista. Introducemmo numerosi testi stranieri, francesi, inglesi, americani che permisero un allargamento dell’orizzonte culturale e stimolarono nuove e più libere concezioni teatrali dopo tanti anni di dittatura. In Italia la regia nasce, dunque, come emblema di libertà, di indipendenza, di superamento delle costrizioni del passato”.

La personalità di Squarzina è caratterizzata – come egli stesso dice di sé nella voce dell’ Enciclopedia dello spettacolo – dall’eclettismo e dalla versatilità: studi giuridici, attività registica, impegno drammaturgico e universitario, produzione teorica con celebri saggi e studi (per esempio Da Dioniso a Brecht ), direzione di importanti teatri stabili (Genova, Roma); un impegno vario e multiforme, che in lui trova un rigoroso e coerente equilibrio. Il primo periodo registico – dopo la collaborazione iniziale con Orazio Costa (Giorni senza fine di O’Neill, 1946, compagnia Borboni-Randone-Carnabucci-Cei) – è segnato da uno spiccato interesse per la drammaturgia americana, pressoché sconosciuta in Italia: Erano tutti miei figli di Miller (1947), Un cappello pieno di pioggia di Vincent Gazo (1956), Anna dei miracoli di Gibson (1960) in cui debutta una Ottavia Piccolo ancora bambina. Contemporaneamente affronta opere difficili e originali; pensiamo a Tieste di Seneca (1953), interpretato da Gassman, testo solitamente ritenuto irrappresentabile che Squarzina invece allestisce con grande successo.

Gli anni ’50 segnano anche il passaggio alla scrittura drammaturgica: Tre quarti di luna, interpretato da Gassman e da un giovanissimo Luca Ronconi (1953), La sua parte di storia (1955), Romagnola (1957). Sono testi che mettono già in luce le intenzioni di Squarzina drammaturgo: promuovere l’impegno sociale e di denuncia, indagando la verità del rapporto tra l’uomo e la Storia. Il picco dell’attività registica di Squarzina è senz’altro rappresentato dalla lunga permanenza allo Stabile di Genova, una collaborazione nata da un avvicinamento graduale: come regista esterno allestisce Misura per misura di Shakespeare (1957) e Uomo e superuomo di Shaw (1961), spettacoli memorabili che portano S. a dirigere lo Stabile accanto a Ivo Chiesa dal 1962 al ’76. In questo lungo lasso di tempo, grazie anche alla soppressione della censura, S. compie scelte di repertorio prima impraticabili, come Il diavolo e il buon dio di Sartre (1962), allestimento che suscita reazioni e scandali. La struttura stabile consente di operare in libertà e disponibilità di mezzi, permettendo inoltre a Squarzina di avvalersi di uno strepitoso team di attori quali Alberto Lionello, Omero Antonutti, Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Lina Volonghi.

Nell’ambito dello Stabile di Genova Squarzina ha modo di approfondire la ricerca su Goldoni (“Avevo una gran paura di mettere in scena Goldoni, nonostante avessi già allestito I due gemelli veneziani (1963) che venne accolto molto favorevolmente dal pubblico, anche per merito di Lionello, e che fece il giro del mondo: ma per me era uno spettacolo poco impegnativo a livello di significato. Esitai, dunque, moltissimo quando venne dalla Biennale di Venezia la proposta di fare Una delle ultime sere di carnovale . Dopo averci pensato per mesi, accettai e da questo spettacolo, non prima, nacquero il mio amore sfrenato per Goldoni e il desiderio e la necessità di continuare con I rusteghi , La casa nova , Il ventaglio : spero di non abbandonare la ricerca su Goldoni perché non voglio estrarre il dito dalla piaga”), che proseguirà anche una volta lasciata Genova. Tale ricerca culmina con l’allestimento di Una delle ultime sere di carnovale (1968), che S. traduce in una suggestiva riflessione sul ruolo dell’intellettuale. S. inizia, inoltre, un lungo scavo nella drammaturgia pirandelliana ( Non si sa come , 1966; Questa sera si recita a soggetto , 1972; Il fu Mattia Pascal, 1974) e rivela un’attenzione vivissima verso la drammaturgia italiana moderna di Betti, Praga, Rosso di San Secondo, Banti.

Sempre negli anni genovesi si data un primo accostamento a Brecht – non scevro di una certa polemica verso Strehler, in quegli anni considerato il detentore dell’ortodossia brechtiana – con allestimenti di grande spessore: Madre Coraggio (1970) interpretato da Lina Volonghi, Il cerchio di gesso del Caucaso (1974). Infine, il rilancio in grande stile della tragedia classica con Le baccanti di Euripide (1968) che, realizzato alle soglie della contestazione, coglie l’eccezionalità del momento storico: il coro è, infatti, costituito da un gruppo di hippies e Dioniso incarna le nuove e perturbanti istanze del cambiamento. Nel 1975 S. diviene ordinario di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, per passare in seguito alla romana Sapienza. Nel 1976 lascia lo Stabile di Genova per quello di Roma; qui lavora, in particolare, sulla drammaturgia elisabettiana (Volpone di Jonson e Timone d’Atene di Shakespeare) e su Brecht (Terrore e miseria del Terzo Reich). Dal 1983 sceglie la libera professione, continuando tuttavia a coltivare i propri interessi drammaturgici: Pirandello (Il berretto a sonagli; L’uomo, la bestia e la virtù; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La vita che ti diedi), Goldoni (La locandiera e Il ventaglio), Shakespeare (Il mercante di Venezia), la drammaturgia classica (Oreste di Euripide, I sette contro Tebe di Eschilo).

Pur a contatto con differenti realtà teatrali, Squarzina mantiene la propria cifra stilistica, orientata al realismo e attraversata da tensioni storiche, sociologiche e psicoanalitiche. L’attività drammaturgica di Squarzina ha sempre affiancato l’impegno registico, ponendosi in diretta relazione con il proprio tempo, analizzandone le conflittualità, le crisi, i miti, le tensioni profonde, con uno stile che può mutare anche drasticamente da una pièce all’altra, per garantire una autentica aderenza alla realtà da narrare e per valutare criticamente gli strumenti espressivi prodotti dalla propria epoca. Il suo primo lavoro, L’esposizione universale (1948), che segue le vicissitudini di un gruppo di senzatetto, propone una narrazione corale, un affresco di storia contemporanea senza facili concessioni al patetismo. Il più celebre Tre quarti di luna (1952) discute la posizione dell’intellettuale nella società attraverso la vicenda di due studenti che indagano sul misterioso suicidio di un loro compagno. Il linguaggio dell’opera evita una funzione meramente illustrativa del reale, mescolando sapientemente squarci lirici a serrati dibattiti di idee. La sua parte di storia (1955) e Romagnola (1957) drammatizzano, invece, il mondo popolare e contadino. Il primo narra un fatto di cronaca nello scenario di uno sperduto paesino sardo; il secondo – definito dall’autore una `kermesse’ – illustra la partecipazione collettiva alla ricostruzione dopo il fascismo, attraverso la vicenda personale di Michele e Cecilia. L’opera, ritmata come una grande ballata popolare, è strutturata in dieci giornate e trenta quadri, rifiutando così la scansione convenzionale degli atti, in favore di una successione di quadri di sapore brechtiano.

A partire dagli anni ’60 emerge una duplice tendenza nella drammaturgia squarziniana e nella sua indagine critica sulla nostra identità storica e morale. Da un lato il dramma d’invenzione che, pur non estraneo al realismo, può attingere, anche in forma parodica, alle istanze dell’avanguardia (Emmetì , 1963), oppure giocare con le forme del grottesco per una satira di costume sociale (I cinque sensi, 1987), o anche miscelare a sorpresa l’elemento metafisico e il tono brillante di una commedia di costume (Siamo momentaneamente assenti, 1992). Dall’altro lato, il dramma-documento che risponde a finalità didattiche e affonda direttamente nella storia mediante la scrupolosa ricostruzione di eventi realmente accaduti (Cinque giorni al porto, 1969 e Rosa Luxemburg, 1974, scritti con Vico Faggi; 8 settembre, 1971, scritto con De Bernart e Zangrandi).