Salisburgo,

L’idea originaria di fondare un festival a Salisburgo venne, nel 1917, a due illustri personaggi della cultura tedesca: Max Reinhardt e Bernhard Paumgartner, a quel tempo direttore del Mozarteum. Nel 1921 si interessano alla gestione della manifestazione altri due giganti della cultura austro-tedesca, cioè la formidabile coppia Richard Strauss-Hugo von Hofmannsthal, che – assieme a Reinhardt – hanno propositi molto diversi da quelli di Paumgartner. L’idea, come si evince dalla lettura dell’interessantissimo epistolario Strauss-Hofmannsthal, era di instaurare nella cittadina austriaca una manifestazione dedicata sostanzialmente al teatro e alla musica contemporanea. Nei primi progetti concreti si discute di mettere in scena, con la regia di Reinhardt, Jedermann (Ognuno, la leggenda della morte del ricco) di Hofmannsthal, anche se la realizzazione fonale di tale proposito delude molto i due illustri maestri; citiamo dalla lettera di Strauss a Hofmannsthal del 19 agosto 1921: «Caro amico! È andata come temevo: il signor Paumgartner e il Mozarteum sono i responsabili della Salisburgo `festiva’, e poi, come aggiunta, anche il signor Reinhardt ha allestito Jedermann nella piazza del Duomo. Di questa vergogna non ci sbarazzeremo più – agli occhi del pubblico -, l’idea del festival è screditata per l’eternità». Invece, contrariamente a quanto profetizzato da Strauss, Jedermann – rappresentato proprio nella piazza del Duomo – è uno degli appuntamenti tradizionali della kermesse estiva. Assieme a Paumgartner – che nel 1929 fondò pure l’Orchestra del Mozarteum, oggi ospite fissa della manifestazione – e a Strauss, un altro interprete di eccezionale statura sempre presente nelle prime edizioni (in qualità di direttore d’orchestra) fu Franz Schalk, allievo di Anton Bruckner, eccezionale interprete wagneriano e cofondatore della manifestazione.

Con l’andar degli anni, però, il Festival perdette l’impulso `avanguardista’ che tentarono di imprimergli Strauss e Hofmannsthal (in parte anche Reinhardt), diventando una sorta di santuario intoccabile della tradizione. Salisburgo, così, abbandonò la musica nuova per dedicarsi unicamente (o quasi) al grande repertorio, in particolare a quello mozartiano. Tutte le maggiori figure di direttori d’orchestra austro-tedeschi sono transitate da Salisburgo: da Wilhelm Furtwaengler a Karl Böhm, da Hans Rosbaud a Herbert von Karajan. Proprio quest’ultimo fondò, nel 1967, il festival di Pasqua, sontuosa anticipazione dell’edizione estiva, della quale alla fine lo stesso Karajan assunse – fino alla morte, avvenuta nel 1989 – la responsabilità artistica. Il successivo direttore artistico – attualmente in carica – Gerard Mortier impresse alla pigra vita festivaliera una scossa radicale, con conseguenze che non sono state – per il tradizionalissimo pubblico salisburghese – ancora oggi assorbite completamente: sostanziale apertura (o meglio `riapertura’, come abbiamo visto) alla musica contemporanea, allargamento del repertorio operistico verso autori meno noti, maggiore attenzione alla qualità delle messe in scena. Così, se da un lato il festival ha perduto una considerevole fetta del suo consueto pubblico, ne sta acquistando un’altra non meno rilevante, composta però da giovani.

Se i grandi direttori non hanno mai latitato dalle sale salisburghesi, diverso è il discorso per i registi: oggi sono ospiti consueti a Salisburgo Bob Wilson, Peter Stein, Peter Sellars, Peter Mussbach, Herbert Wernicke, Luca Ronconi, Robert Lepage, Patrice Chéreau. Nonostante le fortissime contestazione, Mortier pare destinato a rimanere in sella anche per i prossimi anni, continuando nella sua opera di rinnovamento nel repertorio (sue sono le commissioni di opera ad autori quali Luciano Berio, Kaja Saariaho, Giacomo Manzoni, György Ligeti, ecc.) e nelle messe in scena. Della fortuna di Jedermann a Salisburgo (rappresentato in Italia da A. Moissi con W. Capodaglio nel 1934 e a Bergamo in piazza Vecchia da E. D’Alessandro nel 1952 con M. Benassi e P. Borboni) non c’è da dire se non che lo spettacolo, sul sagrato della piazza del Duomo si replica ancora inserendo attori tedeschi da Curd Jürgens a Karl Maria Brandauer e, qualche volta stranieri (è il caso di Maddalena Crippa inserita dalla regia di Peter Stein) con un successo che rispetta una tradizione ormai superata e logora: è diventato un appuntamento ormai irrinunciabile per quel pubblico che sfila alle 5 del pomeriggio in smoking e abito da sera e che assiste al dramma come si assiste alla sagra paesana.

Pure, per la prosa qualche spettacolo che ha lasciato il segno c’è stato, dall’ Arlecchino di Max Reinhardt (1925) a quello di Strehler (1973) che ha allestito nel grande spazio della Felsenreitschule in quello stesso anno la nuova edizione in lingua tedesca del Gioco dei potenti da Shakespeare in due giornate (oltre 100 interpreti, 9 ore di spettacolo) con i migliori attori di Berlino, Amburgo e Vienna a cominciare da Andrea Jonasson a Michael Heltau, da Maria Emo a Siegfried Lowitz a Rolf Boysen, Will Quadfrieg, Wolfgang Reichmann, Karl Paryla e Adolph Spalinger, replicato l’anno successivo. In quell’anno protagonista di Jedermann era C. Jürgens. Il festival di prevalenza musicale (celeberrimo per le varie edizioni delle opere di Mozart) registrerà nel 1974 il preparato insuccesso del Flauto magico firmato da Strehler e da Damiani (per le scene e i costumi). Intorno a Jedermann messe in scena di teatro classico, da Molière a Shakespeare a Pirandello: da ricordare almeno il Giulio Cesare di Stein e I giganti della montagna di Ronconi.

Squarzina

Considerato fra i maggiori esponenti del teatro di regia italiano, Luigi Squarzina nel 1945 si laurea in legge e nello stesso anno si diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma, dove aveva seguito il corso di regia. Il suo saggio di fine corso del secondo anno (1943), una riduzione di Uomini e topi di Steinbeck, è il primo spettacolo teatrale rappresentato nella Roma liberata. Fra i suoi compagni d’Accademia divenuti celebri ricordiamo, oltre a Vittorio Gassman – con il quale Squarzina firma il primo Amleto apparso in Italia in edizione integrale (1952) – anche Adolfo Celi e Luciano Salce. Squarzina fa sua la cifra dell’Accademia damichiana: offrire testi fondamentali della drammaturgia in versione integrale e seguire con cura ogni fase della messinscena: “Il teatro che ci apprestavamo a costruire presentava forme simili a quelle del teatro di oggi, ma allora era una modalità nuova e poco frequentata, spesso temuta dal mondo teatrale dell’epoca che intendeva mantenere le sue antiche abitudini. Avviammo anche un processo di svecchiamento del repertorio ormai degenerato da decenni di censura fascista. Introducemmo numerosi testi stranieri, francesi, inglesi, americani che permisero un allargamento dell’orizzonte culturale e stimolarono nuove e più libere concezioni teatrali dopo tanti anni di dittatura. In Italia la regia nasce, dunque, come emblema di libertà, di indipendenza, di superamento delle costrizioni del passato”.

La personalità di Squarzina è caratterizzata – come egli stesso dice di sé nella voce dell’ Enciclopedia dello spettacolo – dall’eclettismo e dalla versatilità: studi giuridici, attività registica, impegno drammaturgico e universitario, produzione teorica con celebri saggi e studi (per esempio Da Dioniso a Brecht ), direzione di importanti teatri stabili (Genova, Roma); un impegno vario e multiforme, che in lui trova un rigoroso e coerente equilibrio. Il primo periodo registico – dopo la collaborazione iniziale con Orazio Costa (Giorni senza fine di O’Neill, 1946, compagnia Borboni-Randone-Carnabucci-Cei) – è segnato da uno spiccato interesse per la drammaturgia americana, pressoché sconosciuta in Italia: Erano tutti miei figli di Miller (1947), Un cappello pieno di pioggia di Vincent Gazo (1956), Anna dei miracoli di Gibson (1960) in cui debutta una Ottavia Piccolo ancora bambina. Contemporaneamente affronta opere difficili e originali; pensiamo a Tieste di Seneca (1953), interpretato da Gassman, testo solitamente ritenuto irrappresentabile che Squarzina invece allestisce con grande successo.

Gli anni ’50 segnano anche il passaggio alla scrittura drammaturgica: Tre quarti di luna, interpretato da Gassman e da un giovanissimo Luca Ronconi (1953), La sua parte di storia (1955), Romagnola (1957). Sono testi che mettono già in luce le intenzioni di Squarzina drammaturgo: promuovere l’impegno sociale e di denuncia, indagando la verità del rapporto tra l’uomo e la Storia. Il picco dell’attività registica di Squarzina è senz’altro rappresentato dalla lunga permanenza allo Stabile di Genova, una collaborazione nata da un avvicinamento graduale: come regista esterno allestisce Misura per misura di Shakespeare (1957) e Uomo e superuomo di Shaw (1961), spettacoli memorabili che portano S. a dirigere lo Stabile accanto a Ivo Chiesa dal 1962 al ’76. In questo lungo lasso di tempo, grazie anche alla soppressione della censura, S. compie scelte di repertorio prima impraticabili, come Il diavolo e il buon dio di Sartre (1962), allestimento che suscita reazioni e scandali. La struttura stabile consente di operare in libertà e disponibilità di mezzi, permettendo inoltre a Squarzina di avvalersi di uno strepitoso team di attori quali Alberto Lionello, Omero Antonutti, Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Lina Volonghi.

Nell’ambito dello Stabile di Genova Squarzina ha modo di approfondire la ricerca su Goldoni (“Avevo una gran paura di mettere in scena Goldoni, nonostante avessi già allestito I due gemelli veneziani (1963) che venne accolto molto favorevolmente dal pubblico, anche per merito di Lionello, e che fece il giro del mondo: ma per me era uno spettacolo poco impegnativo a livello di significato. Esitai, dunque, moltissimo quando venne dalla Biennale di Venezia la proposta di fare Una delle ultime sere di carnovale . Dopo averci pensato per mesi, accettai e da questo spettacolo, non prima, nacquero il mio amore sfrenato per Goldoni e il desiderio e la necessità di continuare con I rusteghi , La casa nova , Il ventaglio : spero di non abbandonare la ricerca su Goldoni perché non voglio estrarre il dito dalla piaga”), che proseguirà anche una volta lasciata Genova. Tale ricerca culmina con l’allestimento di Una delle ultime sere di carnovale (1968), che S. traduce in una suggestiva riflessione sul ruolo dell’intellettuale. S. inizia, inoltre, un lungo scavo nella drammaturgia pirandelliana ( Non si sa come , 1966; Questa sera si recita a soggetto , 1972; Il fu Mattia Pascal, 1974) e rivela un’attenzione vivissima verso la drammaturgia italiana moderna di Betti, Praga, Rosso di San Secondo, Banti.

Sempre negli anni genovesi si data un primo accostamento a Brecht – non scevro di una certa polemica verso Strehler, in quegli anni considerato il detentore dell’ortodossia brechtiana – con allestimenti di grande spessore: Madre Coraggio (1970) interpretato da Lina Volonghi, Il cerchio di gesso del Caucaso (1974). Infine, il rilancio in grande stile della tragedia classica con Le baccanti di Euripide (1968) che, realizzato alle soglie della contestazione, coglie l’eccezionalità del momento storico: il coro è, infatti, costituito da un gruppo di hippies e Dioniso incarna le nuove e perturbanti istanze del cambiamento. Nel 1975 S. diviene ordinario di Istituzioni di regia al Dams di Bologna, per passare in seguito alla romana Sapienza. Nel 1976 lascia lo Stabile di Genova per quello di Roma; qui lavora, in particolare, sulla drammaturgia elisabettiana (Volpone di Jonson e Timone d’Atene di Shakespeare) e su Brecht (Terrore e miseria del Terzo Reich). Dal 1983 sceglie la libera professione, continuando tuttavia a coltivare i propri interessi drammaturgici: Pirandello (Il berretto a sonagli; L’uomo, la bestia e la virtù; Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La vita che ti diedi), Goldoni (La locandiera e Il ventaglio), Shakespeare (Il mercante di Venezia), la drammaturgia classica (Oreste di Euripide, I sette contro Tebe di Eschilo).

Pur a contatto con differenti realtà teatrali, Squarzina mantiene la propria cifra stilistica, orientata al realismo e attraversata da tensioni storiche, sociologiche e psicoanalitiche. L’attività drammaturgica di Squarzina ha sempre affiancato l’impegno registico, ponendosi in diretta relazione con il proprio tempo, analizzandone le conflittualità, le crisi, i miti, le tensioni profonde, con uno stile che può mutare anche drasticamente da una pièce all’altra, per garantire una autentica aderenza alla realtà da narrare e per valutare criticamente gli strumenti espressivi prodotti dalla propria epoca. Il suo primo lavoro, L’esposizione universale (1948), che segue le vicissitudini di un gruppo di senzatetto, propone una narrazione corale, un affresco di storia contemporanea senza facili concessioni al patetismo. Il più celebre Tre quarti di luna (1952) discute la posizione dell’intellettuale nella società attraverso la vicenda di due studenti che indagano sul misterioso suicidio di un loro compagno. Il linguaggio dell’opera evita una funzione meramente illustrativa del reale, mescolando sapientemente squarci lirici a serrati dibattiti di idee. La sua parte di storia (1955) e Romagnola (1957) drammatizzano, invece, il mondo popolare e contadino. Il primo narra un fatto di cronaca nello scenario di uno sperduto paesino sardo; il secondo – definito dall’autore una `kermesse’ – illustra la partecipazione collettiva alla ricostruzione dopo il fascismo, attraverso la vicenda personale di Michele e Cecilia. L’opera, ritmata come una grande ballata popolare, è strutturata in dieci giornate e trenta quadri, rifiutando così la scansione convenzionale degli atti, in favore di una successione di quadri di sapore brechtiano.

A partire dagli anni ’60 emerge una duplice tendenza nella drammaturgia squarziniana e nella sua indagine critica sulla nostra identità storica e morale. Da un lato il dramma d’invenzione che, pur non estraneo al realismo, può attingere, anche in forma parodica, alle istanze dell’avanguardia (Emmetì , 1963), oppure giocare con le forme del grottesco per una satira di costume sociale (I cinque sensi, 1987), o anche miscelare a sorpresa l’elemento metafisico e il tono brillante di una commedia di costume (Siamo momentaneamente assenti, 1992). Dall’altro lato, il dramma-documento che risponde a finalità didattiche e affonda direttamente nella storia mediante la scrupolosa ricostruzione di eventi realmente accaduti (Cinque giorni al porto, 1969 e Rosa Luxemburg, 1974, scritti con Vico Faggi; 8 settembre, 1971, scritto con De Bernart e Zangrandi).

regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

scenografia

La scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. È legata all’evoluzione del teatro e influenzata dalle correnti artistiche e dal costume. La scenografia del Novecento si avvale di mezzi tecnologici moderni (piattaforme mobili, tiri meccanici, piani inclinati, piani girevoli). All’inizio del secolo si svilupparono movimenti contrapposti al decorativismo di fine Ottocento di scenografi francesi e italiani (G. Sécan, A. Sanquirico, C. Ferrario, A. Rovescalli).

Tali movimenti furono il realismo del teatro di Stanislavskij e il naturalismo di Rosin, scenografo di Antoine e del suo Théâtre Libre. Ma nell’ambito del teatro e della scenografia moderna la prima vera rivoluzione si ha partendo dalle indicazioni e dalle ricerche dello scenografo svizzero Adolphe Appia (evoluzione della scena orizzontale con piani praticabili e la plasticità scenica esaltata dalla luce, non più dipinta illusionisticamente) e del teorico inglese Gordon Craig che al naturalismo sostituisce in scena masse di luce e di ombra, forme plastiche su vari piani, esaltando la tridimensionalità e la verticalità scenica, il colore, il ritmo. In questi primi decenni del secolo significativi sono gli interventi scenografici di pittori-decoratori in teatro: con Diaghilev e i Balletti Russi lavorarono artisti come L. Bakst, Benois, Goncarova, Larionov, de Chirico, Picasso, Matisse, Dalì, ecc. In Italia il vero rinnovamento si ha con l’avvento del futurismo e della tecnologia in palcoscenico.

Di Prampolini è il primo Manifesto della scenografia futurista (1915) in cui si enunciano le conquiste della luce, della dinamica e del movimento che compongono la scenografia futurista, ed è proprio lui a dare alla scenografia italiana un’apertura internazionale. Di Balla sono gli esperimenti di luce per Feu d’artifice balletto astratto proposto da Djagilev, mentre Depero continua le sue ricerche plastico-figurative con macchine-marionette e realizzando sempre con Diaghilev Le chant du rossignol . Interessanti le esperienze sulla luce-colore di A. Ricciardi per il Teatro del colore (1920), sviluppate dal regista-scenografo A. G. Bragaglia (inventore della scena multipla al Teatro degli Indipendenti). Contemporaneamente in Europa correnti artistiche come l’espressionismo in Germania (O. Kokoschka), il surrealismo in Francia e il costruttivismo in Unione Sovietica (con Mejerchol’d, il Teatro d’Arte di Mosca e gli scenografi L. Pòpova, A. Exster, A. Tairov) ribaltarono tutti le vecchie concezioni teatrali.

Lo scenografo da decoratore diviene costruttore scenografico e la scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. dinamica motore dello spettacolo. Nel primo dopoguerra la scenografia italiana con N. Benois, Colasanti, Oppo, Sensani, abolisce il fondale dipinto per spezzati dipinti e praticabili e un realismo neopittorico. Con un neorealismo plastico usato da artisti quali V. Marchi, D. Cambellotti, P. Marussig, sviluppano le esperienze plastico-astratte-cromatiche del futurismo-cubismo (Kaneclin, Baldessarri, Prampolini, Ratto, Coltellacci).

In Italia come in Europa e in America lo sviluppo della scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. moderna è legata al mezzo tecnico, influenzata dalle varie tendenze di linguaggio o dal bisogno di trovare trucchi e soluzioni nuove, per un continuo rinnovamento. La scena mobile, abbinata a effetti di luce, o scena multipla, con angoli visuali scorciati, plastica e tridimensionale o con l’applicazione di materiali inediti, dimostra quanto importante sia sottolineare la collaborazione tra regista e scenografo. Una figura fondamentale per lo sviluppo della scenografia italiana è il regista L. Visconti che, con la sua personalità, ha influenzato scenografi e costumisti, nella scelta dello spazio e nella ricerca di sintesi, e di riproposta storico-filologica. Per lui hanno lavorato M. Chiari, G. Polidori, F. Zeffirelli, P. Zuffi, L. De Nobili, P. Tosi, V. Colasanti, M. De Matteiscenografia

Al Maggio musicale fiorentino negli anni ’50 viene aperta una stagione di pittori-scenografi come Casorati, Sironi, Fiume, Cagli, Maccari, Savinio, le cui scene sono importanti soprattutto per il valore cromatico. Con il teatro politico di Piscator e l’avvento del teatro epico di Brecht e degli scenografi Theo Otto, K. Nener, e del francese R. Allio, collaboratore di R. Planchon, la scenografia ritrova un giusto equilibrio tra elementi allusivi e l’esatta ricostruzione storica. Sempre con un teatro fatto di metafore sceniche (macchine per proiezioni, uso di luci, scena cinetica) J. Svoboda continua le sue ricerche al Teatro Lanterna Magika di Praga (1948). Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano (1947) ha tra i suoi collaboratori G. Ratto per le scene, E. Colciaghi per i costumi, che risentono dell’influsso internazionale della scena epica (fondali con grandi scritte, scene costruttiviste). La collaborazione di Strelher con L. Damiani darà vita a produzioni storiche (Il ratto dal serraglio, 1965; Il giardino dei ciliegi , 1974; La tempesta , 1978).

Damiani suggerisce nelle sue ambientazioni spazi astratti e le citazioni storico-pittoriche allusive, lasciano spazio all’immaginazione senza prevaricare la parola. La ricerca di Damiani sviluppa la scena tridimensinalmente e la sintesi drammatica spaziale; Damiani collaborerà anche con altri registi tra cui V. Puecher, L. Ronconi, L. Squarzina, L. Pasqual. Intensa è la collaborazione di E. Frigerio con Strelher, la sua scenografia è fatta di un realismo in cui viene esaltata la forma architettonica tridimensionale, sottolineata dall’uso della luce che fa da cornice all’azione. Frigerio e la moglie F. Squarciapino (costumista) realizzano produzioni importanti (Le nozze di Figaro 1981, Don Giovanni 1987). Sempre al Piccolo con G. Strelher collaborano P. Bregni e L. Spinatelli che caratterizza la sua attività professionale anche nell’ambito del balletto ( Orlando 1997).

Negli scenografi che hanno lavorato al Piccolo Teatro vi è un costante riferimento iconografico tratto dalla pittura. Questo dualismo regista scenografo si ritroverà in Squarzina e Polidori, De Bosio, Scandella e Guglieminetti, De Lullo e Pizzi, Fersen e Luzzati. L’attività di Luzzati è fondamentale nel panorama della scenografia italiana attraverso il suo forte e personale modo di fare scenografia, caratterizzato dall’illustrazione fantastica e dal concepire lo spazio teatrale come un gioco. Ad artisti famosi spesso viene dato l’incarico nei teatri italiani di progettare la scena, basti pensare a M. Ceroli, T. Scialoja, F. Clerici, o alle sorprendenti strutture di A. Pomodoro per Semiramide 1982. Negli anni ’60 comincia il lavoro di L. Ronconi con cui collabora, P. L. Pizzi per la messinscena dell’ Orlando furioso a cui seguiranno le scene di altri famosi spettacoli. Pizzi sul finire degli anni ’70 inizierà a firmare regia, scene e costumi di tutti i suoi spettacoli caratterizzando il suo lavoro con opere barocche in cui architettura, decorazione e colore trovano il giusto equilibrio. Ronconi nel Laboratorio teatrale di Prato (1976-79) sviluppa un’inconsueta idea di allestimento scenico in stretto contatto con il pubblico risolta dall’architetto-scenografo G. Aulenti: ricerca e collaborazione destinata a continuare anche nel teatro lirico.

Con la scenografa M. Palli, Ronconi continua l’analisi sullo spazio e sulle forme architettoniche usate come macchine sceniche, fondamentali all’azione drammaturgica, diventando la scenografia filo conduttore dello spettacolo, determinante è il contributo visivo dei costumi di V. Marzot. Particolare è la ricerca formale di E. Job per le opere di Strindberg in cui la scena e l’oggetto, diventano essenza del testo drammaturgico. Nel corso della sua carriera proficua è l’intesa professionale con Ronconi e M. Missiroli. Le scenografia di M. Balò che instaura un costante lavoro con M. Castri e G. Cobelli sono fatte di forme circolari, moduli ripetuti di porte e finestre, strutture avvolgenti e imponenti sullo spazio del palcoscenico.

Mentre Bob Wilson propone spettacoli in cui immagine visiva, luce, colore movimento e suono-parola ci portano verso l’astrazione pura allusiva del quadro tridimensionale quasi metafisico. Il panorama della scenografia italiana è in continua evoluzione a partire dal realismo rivisitato e rielaborato di M. Pagano, P. Grossi, W. Orlandi, C. Diappi o agli scenografi che si legano in stretto sodalizio con gruppi teatrali e registi tra i quali, Carosi, Fercioni, Gregori, Agostinucci. Numerosi gli scenografi che si avvalgono nelle loro messinscene della tecnologia (luci, laser, macchine di proiezione, audiovisivi, scene mobili, plastiche), della ricerca di forme e di spazi alternativi e di materiali all’avanguardia pur non allontanandosi dal carattere decorativo astratto-spaziale tipico della scena italiana, riprendendo scorci prospettici, piani praticabili inclinati a simulare la psicologia del testo, e a suggerire la metafora drammaturgica. Scene ricche di atmosfere suggestive e di tradizioni.