Haber

Dopo aver debuttato a diciotto anni in Tutto è bene quel che finisce bene di Ammirata e aver preso parte a Misura per misura diretto da Missiroli (1968), Alessandro Haber entra nell’ambiente delle `cantine romane’ partecipando a Il diavolo bianco di Webster (1973) e La principessa Brambilla di Hoffmann (1974), entrambi diretti da Giancarlo Nanni. Contemporaneamente inizia una ricca e interessante carriera cinematografica, lavorando con molti dei nuovi registi italiani (M. Bellocchio, i Taviani, B. Bertolucci, C. Maselli, N. Moretti) ma continuando a frequentare il palcoscenico. Molti i titoli della seconda metà degli anni ’70, di cui vanno citati Rosa Luxemburg con la regia di L. Squarzina allo Stabile di Genova, Dialogo della Ginzburg diretto da L. Salveti e Michele Pezza, duca di Cassano… messo in scena da A. Trionfo. Nel 1982 è Calibano nella Tempesta diretta da C. Cecchi, per tornare poi a lavorare con Missiroli, che sa valorizzarne il notevole vigore in Orgia di Pasolini (1984) e in Tragedia popolare (1989). Dopo una significativa presenza nella stagione del Piccolo Teatro come interprete dell’ Intervista di N. Ginzburg (1990, regia di C. Battistoni), trova in Nanni Garella un regista capace di dar voce alla sua esuberanza, prima con Jack lo squartatore (1993), poi con il premiato Arlecchino servo di due padroni (1995) e, infine, con Woyzeck di Büchner (1996), spettacolo che ha fatto discutere molto per la presenza, accanto a H., di due danzatori in carrozzella della compagnia CandoCo. Attore dalla recitazione travolgente, di grande generosità in scena, ha parafrasato la propria biografia artistica e umana nel film La vera vita di Antonio H.

Burton

Fin dalle sue prime interpretazioni, come La signora non è da bruciare (The Lady’s Not For Burning) di Fry, Richard Burton dimostra l’abilità di un talento naturale associata una scrupolosa preparazione. Si distingue in particolare nei ruoli shakespeariani, di cui tra gli altri si ricorda l’ Enrico V nel 1951 per il festival annuale di Stratford-Upon-Avon e l’ Amleto nel 1953 all’Old Vic, prestazione attoriale con cui conquista un largo successo di pubblico e di critica e per il quale viene definito il migliore attore della sua generazione. Alla fine degli anni ’50, lascia definitivamente il palcoscenico per intraprendere la carriera cinematografica che gli porterà un successo ancora maggiore.

Marchese

Bob Marchese inizia alla Scuola cooperativa spettatori del Piemonte diretta da Franco Pastore, nei primi anni ’50. Dal 1956 fino al ’64 lavora allo Stabile di Torino. Passa poi al Piccolo Teatro di Milano, dove rimane fino al 1967 interpretando Il gioco dei potenti da Shakespeare con la regia di Strehler, La lanzichenecca di De Mattia per la regia di Puecher. Nel frattempo lavora con Dario Fo in due tournée, quelle del 1961 (Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri ) e del 1967 (La colpa è sempre del diavolo). Nel 1970 torna a Torino, entra nel Gruppo della Rocca dove cura anche la regia di Il re muore di Ionesco. Dal 1976 al 1980 è al Salone PierLombardo, co-protagonista dell’ Arialda di Testori e di La palla al piede di Feydeau. Nel 1980 ricomincia a lavorare con il Gruppo della Rocca e partecipa alle produzioni del Teatro Biondo di Palermo. Nel 1997 interpreta Le furberie di Scapino di Molière. È inoltre animatore di molte attività seminariali a Firenze, al festival internazionale dell’attore, all’Università di Siena e al Teatro Biondo.

Carloni

Pietro Carloni nacque in una modesta famiglia teatrale napoletana (nove tra fratelli e sorelle, tutti attori). Nel 1921, lavorando per la compagnia dialettale di Francesco Carlinci, dove era scritturato con il padre e la sorella, conobbe Titina De Filippo, che sposò l’anno dopo. Da quel momento i due divennero una coppia inseparabile, nella vita e sulla scena, affrontando spesso gravi ristrettezze economiche. Lavorarono insieme nell’avanspettacolo e nella rivista al Teatro nuovo di Napoli, nella sceneggiata napoletana con la compagnia di Cafiero Fumo e poi con la compagnia `Teatro umoristico’ dei tre fratelli De Filippo, di cui Pietro seguì tutte le tappe artistiche (negli anni ’50 si trasferirono da Napoli a Roma); pur di star vicino alla sua compagna accettò anche parti minori, sacrificando le sue aspirazioni artistiche. Con la malattia della moglie, Pietro iniziò una carriera autonoma con la compagnia di rivista di Macario e con Franca Valeri. Partecipò ad alcuni film di Totò e Peppino.

Philipe

Attore mito, prediletto da intere generazioni di spettatori, a vent’anni Gérard Philipe debutta al teatro di Nizza, prima tappa di una vocazione e di una carriera troppo breve. Da quel momento la vita del teatro diventa la sua vita: si trasferisce a Parigi dove studia al Conservatorio. Ma quasi subito si impone sulle scene della capitale interpretando con un successo clamoroso il ruolo dell’Angelo in Sodoma e Gomorra di Giraudoux accanto a Edwige Feullière (1943). Nello stesso anno debutta anche al cinema in Les Petites du quai aux fleures di Marc Allegret. Da questo momento Philipe si alternerà fra teatro e cinema. Nel 1944 con l’attore Michel Auclair partecipa alla liberazione di Parigi, prima testimonianza di un impegno politico che rimarrà costante. Malgrado abbia interpretato Caligola di Camus, è con il ruolo cinematografico del giovane studente ne Il diavolo in corpo di Autant Lara, accanto a Micheline Presle, che si impone definitivamente come figura-simbolo di un’intera generazione.

L’incontro chiave della sua carriera teatrale è quello con Jean Vilar, il regista animatore del Théâtre National Populaire di Chaillot. Con lui, infatti, Philipe sarà un indimenticabile Cid di Corneille e un memorabile Principe di Homburg di Kleist, e un sorprendente Lorenzaccio di De Musset. Bello, tenero, con una voce quasi disincarnata; antieroe, e nel contempo, insultante seduttore, Philipe sembra compendiare l’immagine di «mille anime riassunte in un solo corpo» come dice Albert Camus. L’unico insuccesso che conosce è quello in Till Eulenspiegel (1956) di cui è, allo stesso tempo, regista e interprete principale. Nel 1955, per la terza volta, è il protagonista di un film di René Clair, Grandi manovre: un successo internazionale, che ne conferma e accresce il fascino e la forza carismatica. Nel 1958, sempre al Teatro di Chaillot, interpreta i suoi ultimi ruoli I capricci di Marianna e Non si scherza con l’amore di De Musset e viene diretto da Buñuel nel suo ultimo film L’isola che scotta.

Il nove novembre, improvvisamente, viene ricoverato in clinica. Senza conoscere la gravità del suo male prende accordi con Peter Brook per un Amleto che purtroppo non è riuscito a fare. Leggendo Don Giovanni di Molière annota accanto al ruolo di Sganarello, poco profeticamente, «per me fra vent’anni». Pochi giorni dopo, il venticinque novembre, invece, muore di un cancro fulminante al fegato a soli trentasette anni. La sua tomba a Ramatuelle, nelle colline che sovrastano Saint Tropez, è meta ancora oggi di un ininterrotto pellegrinaggio.

Fanfulla

Luigi Fanfulla, figlio di Mercedes Mendlesi, detta `Diavolina’ sulle locande del varietà, considerato il più dotato della sua epoca. Eppure, curiosamente per scelta personale, rimase confinato in quel genere minore che ad altri comici era invece servito come palestra d’apprendimento e trampolino di lancio per la rivista vera e propria: da Totò a Rascel, da Fabrizi a Dapporto, da Tognazzi a Bramieri, da Taranto a Billi e Riva, tutti militarono per anni in avanspettacolo prima del salto in alto verso ribalte più prestigiose. Accanto a Fanfulla, vanno nominati altri talentuosi comici d’avanspettacolo rimasti tali: Fredo Pistoni, Vanni Romigioli, Mario Ferrero, Renato Maddalena, e una serie di fratelli: i Martana, i Bonos, i Maggio, i De Rege. Fanfulla, in un’intervista a Oreste del Buono del 1970, a proposito della sua carriera, ebbe a dire: «Io, che alla fine della guerra godevo di una popolarità immensa, mi sono visto superare da tanti in fama e guadagni. E allora qual è stato lo sbaglio? Per cominciare, credo che un qualche sbaglio ci sia stato nel nome. Lo conoscono tutti, d’accordo, ma forse è riduttivo. A Roma avevo zii, parenti vari in posti importanti. Mi occorreva uno pseudonimo. Restai incerto tra Fanfulla e Attila. E poi decisi per Fanfulla. Chissà, Attila avrebbe funzionato meglio. Va a sapere…». Nonostante il cognome non aveva nessun legame con i Visconti di Modrone lombardi, questo coincidenza, però suggerì uno scherzo all’autore di riviste Ruggero Maccari. Intervistato da un giovane e inesperto giornalista, rivelò che era in quel periodo intento alla stesura di un copione importante, commissionatogli nientemeno che da Visconti. Si trattava, ovviamente, di Fanfulla, ma il giornalista abboccò e attribuì al già famoso regista Luchino il proposito d’esordire in rivista.

Fanfulla comico d’una comicità surreale (come Rascel), che si presentava indossando giacche di colori impossibili, citava battute sapide prese a prestito dalle riviste d’umorismo “Marc’Aurelio” e “Bertoldo”, arricchiva i suoi spettacoli con ospiti a sorpresa: se attore di prosa, impegnato in un monologo; se cantante, nell’esecuzione di alcuni motivi di successo. Nel 1942, in compagnia ebbe Alberto Sordi nel ruolo di presentatore. E Sordi ricorda: «Ogni settimana un ospite. Una volta venne la Magnani, un’altra Fabrizi. Una sera presentai Federico Fellini e Giulietta Masina che, appena sposati, erano in viaggio di nozze. Li feci salire sul palcoscenico e invitai il pubblico a regalare loro, come dono di nozze, un bell’applauso. E gli spettatori si pelarono le mani a furia di batterle». Il settimanale di spettacolo “Otto” così giudicò Fanfulla: «Questa del cambiar vestito ad ogni quadro è una trovata che indubbiamente rende molto sul piano dello spettacolo: appena Fanfulla va fuori scena con il suo vestito celestrino, il pubblico resta lì ad aspettarlo al varco chiedendosi come riapparirà dopo; e dopo c’è il vestito rosa e poi quello verde smeraldo e quindi quello rosso fuoco, e arancione, e giallo, e indaco, e violetto. Una trovata spettacolare, come quella del passo addormentato, degli occhi socchiusi, del viso immobile, del lievissimo sorriso, della grattatina alla suola della scarpa, del sudore al gomito, dell’indice ribelle da ripiegare con mansuetudine. Mille trovate che fanno di Fanfulla un attore comico». Un attore consapevole del suo talento. Stava per fare compagnia con Wanda Osiris, e quindi stava per compiere il salto di categoria. Non accettò l’ordine di apparizione sul manifesto. Voleva: «Fanfulla presenta Wanda Osiris». Gli fu ribattuto: «Wanda Osiris presenta Fanfulla». Rifiutò. Al suo posto, venne chiamato Renato Rascel. Mai banale, neppure nei titoli degli spettacoli: Il romanzo di due orfanelle povere e due sergenti miserabili padroni delle ferriere: misteri di Parigi , un bigino di feuilleton firmato da Amendola e Mac (Ruggero Maccari), stagione 1946-47 al Valle di Roma. Nel cast, Mara Landi e il cantante Achille Togliani; scene di Onorato.

La stagione successiva, sempre al Valle (F. si muoverà poco da Roma) va in scena La favola di tutti i tempi di Sullin, con satira politica «non sempre di buon gusto». Ma in scaletta c’è anche un incontro di boxe tra donne. Sempre a Roma, nella stagione 1948-49, tre assi in concorrenza: Fanfulla varietà , Rascel varietà e Bustelli varietà , il mago dai mille trucchi. In Tante piccole cose , Roma 1950-51, con Fanfullaci sono Edmea Lari, la ‘spalla’ Carlo Rizzo e il ballerino Harry Feist. In Follie di primavera di Amendola e Mac, Fanfulla sdrammatizza la discesa in serie B della squadra calcistica Roma, recitando Er fattaccio sportivo (1951-52). Dopo anni di intenso e proficuo lavoro al servizio dell’avanspettacolo, F. risente anch’egli della crisi che attraversa quel genere, sconfitto da strip-tease, cabaret e commedie musicali. Nel 1965, va in scena Che donne, ragazzi! ; nella stagione 1967-68, un `superavanspettacolo’ firmato da Dino Verde e intitolato Divertentissimo . Stile e talento di F. furono esaltati in due film di Federico Fellini. Ne I clown , 1970, ma soprattutto in Satyricon (1969), rilettura trasgressiva dell’opera di Petronio. Nella debosciata Roma imperiale, F. fu il comico Vernacchio, ricalcato sull’iconografia dei mosaici che esprimeva una desolata, ambigua e grassa comicità. Ottenne per tale incisiva interpretazione il Nastro d’argento. «Sboccato, ilare con tristezza e amaro con risvolti giocosi», chiosò l’autorevole Pietro Bianchi.

Guasti

Dopo la formazione presso la scuola di L. Rasi a Firenze, Amerigo Guasti esordì nel 1890, scritturato da G. Emanuel. Nel 1905-6, con Sichel, Ciarli, Bracci e Dina Galli, sua compagna anche nella vita, fondò la compagnia che doveva sciogliersi solo dopo la sua morte. Ebbe anche un’esperienza cinematografica con L’ammiraglia nel 1914. I suoi ruoli furono soprattutto brillanti, ma G. li interpretò con una sobrietà piuttosto rara negli attori dello stesso genere. Tra le sue rappresentazioni di maggior successo: Il piccolo caffè di T. Bernard, La pace in famiglia di G. Courteline, Il re e l’asino di Buridano di de Flers e Caillavert, Le campane di San Lucio di G. Forzano, La morte degli amanti di L. Chiarelli, Un letto di rose di G. Adami.

Catalano

Formatosi come mimo, negli anni Antonio Catalano ha sviluppato una personale sintesi tra gesto e parola, rivelandosi come uno dei più interessanti protagonisti del teatro di ricerca. Ha fondato e lavorato con Alfieri Società Teatrale (ex Teatro del Magopovero) lavorando in Pietre (1986), testo e regia di L. Nattino, Balena (1988) di L. Nattino, spettacolo di cui ha curato la regia, e più recentemente in Nella nebbia (1994) di D. Mamet e nel suo testo (scritto insieme a Nattino) Moby Dick (1995). Ha recitato nell’allestimento di De Berardinis de I giganti della montagna (1996) e, nella stagione 1997-98, insieme agli attori del Living Theatre, ha interpretato da protagonista il Chisciotte di Nattino. Da alcuni anni svolge un’attività seminariale di formazione dei giovani attori.

Reggiani

Serge Reggiani si afferma sul palcoscenico interpretando nel 1947 Terrasse du midi – di Clavel. Nel 1949 recita ne I giusti di Camus, ma la sua migliore interpretazione è quella ne I sequestrati di Altona di Sartre (1959, ripreso nel 1966). Tra i numerosi spettacoli cui ha preso parte: La macchina da scrivere di Cocteau (1941); Un uomo come gli altri di Salacrou; I tre moschettieri da Dumas; Silence! L’arbre remue encore di Billedoux (presentato al Festival d’Avignone nel 1967). Dagli anni ’60 è anche cantante (nel suo repertorio canzoni di Brel e di Vian).

Cinieri

Fin dagli inizi il percorso artistico di Cosimo Cinieri è segnato dalla ricerca e dalla sperimentazione teatrale: si prova così nelle forme più diverse di spettacolo, spaziando dal `teatro di strada’ ai `grandi palcoscenici’. Nel solo 1965 si susseguono spettacoli come Aspettando Godot, Finale di partita, Atto senza parole, Zip, Lip, Vap, di Scabia, La fantesca di Della Porta, Libere stanze di Lerici, tutti per la regia di Quartucci. Dal 1968 al ’72 realizza una serie di messe in scena di cui è anche autore; si ricordano titoli come Onan (1968), Domenico del mare (1968), Chez Mignot (1969), Alleluja Requiem (1970), San Sebastiano (1971, teatro di strada, in collaborazione con la coppia De Berardinis-Peragallo), Vietnam (1972).

Nel 1974 è sulle scene del Teatro Manzoni di Milano con Sade: libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina di Bene, con il quale lavora anche nell’ Otello (1979). Dal 1978 dirige, con Irma Palazzo, la Compagnia Cinieri-Palazzo, percorrendo tre strade parallele di ricerca: la teatralizzazione della poesia, la reinvenzione dei classici, la drammaturgia breve, con allestimenti come La Beat Generation. Show in versi (1978), Cosimo Cinieri è/o Macbeth di Shakespeare (1982-83) e un repertorio di trenta atti unici dei più vari autori (Pinter, Schnitzler, Strindberg, E. De Filippo, García Lorca, Ionesco, Feydeau, Pirandello, Cechov e altri), che vanno in scena dal 1985 al 1989. Nell’ultimo decennio poesia e musica sono le protagoniste assolute degli spettacoli di C., come appare già dai titoli: Canzoniere italiano. Poesia in concerto (1991), García Lorca in flamenco (1993), `Luoghi della memoria’ dei Sepolcri (1994), Giocar di versi. Café della voce (1996-97). Nell’ultima stagione interpreta La mandragola (regia di Missiroli) e Giovanna d’Arco. Donna armata di L. Fontana. Alla sua attività teatrale alterna partecipazioni in produzioni cinematografiche, televisive e radiofoniche; è voce recitante in opere musicali e si dedica, inoltre, a stage di recitazione e psicotecnica.

Tairov

Aleksandr Jakovlevic Tairov lavora prima come attore dal 1905 al ’13, anche sotto la direzione di Mejerchol’d (è il mendicante in Suor Beatrice di Maeterlinck e la maschera azzurra in La baracca dei saltimbanchi di Blok, entrambi del 1906), poi nel 1913 viene chiamato dal regista Marzanov al Teatro Libero, dove dirige la pantomima Il velo di Pierette di Schnitzler e il montaggio La blusa gialla. Nel 1914 con Alisa Koonen (che diventerà la maggior interprete delle sue regie e sua moglie) e un gruppo di giovani attori fonda il Teatro da Camera, inaugurato con Sakuntala del poeta indiano Kalidasa. Dopo alcuni spettacoli molto vicini al teatro `convenzionale’ mejercholdiano (Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, ripresa di Il velo di Pierette di Schnitzler), trova uno stile personalissimo con la tragedia lirica Tamiri il Citaredo di I. Annenskij, dove per la prima volta collabora con la scenografa cubista A. Ekster.

Negli anni prerivoluzionari il Teatro da Camera diventa una sorta di crogiuolo della pittura d’avanguardia: Larionov e la Goncarova firmano la scenografia di Il ventaglio di Goldoni (1915), Lentulov quella di Le allegre comari di Windsor (1916), la Ekster quella di Salomè di Wilde (1917), Jakulov quella di Lo scambio di Claudel. Con particolare attenzione T. segue la preparazione dei suoi attori, a cui chiede da un lato una gestualità ieratica per le tragedie, dall’altro una acrobatica, sciolta plasticità per le pantomime e le commedie musicali. Il repertorio del suo teatro, infatti, negli anni immediatamente post-rivoluzionari, segue essenzialmente due linee: l’arlecchinata (riviste, operette, capricci) e la tragedia, sia classica sia contemporanea. Esempi della prima linea: Re Arlecchino di R. Lothar (1917), Principessa Brambilla su temi di Hoffmann (1920), Giroflé-Girofla di Lecocq (1922), L’opera da tre soldi di Brecht-Weill (1930), spettacoli costruiti con un ritmo perfetto, pieni di vita, di eccentriche invenzioni, di trovate sgargianti.

Alla seconda linea appartengono la già citata Salomè di Wilde (1917), Adriana Lecouvreur di Scribe (1919), L’annuncio a Maria di Claudel (1920), Romeo e Giulietta di Shakespeare (1921), dove T. fa un uso elettrizzante della scena a piattaforme della Ekster, Fedra di Racine (1922), L’uragano di Ostrovskij (1924), Santa Giovanna di Shaw (1924), la trilogia di O’Neill (La scimmia villosa, Desiderio sotto gli olmi, Tutti i figli di Dio hanno le ali, 1929). Accusato d’indifferenza politica, costretto da pressioni da parte dei burocrati di partito, si rivolge tardi al repertorio sovietico, inizialmente senza trovare il tono giusto per le regie: Natal’ja Tarpova di S. Semenov (1929), La sonata patetica di N. Kulis, Soldati ignoti di N. Pervomajskij (1932). Finalmente con Una tragedia ottimistica di V. Visnevskij (1933, stupenda scena elicoidale di Ryndin) ottiene un incondizionato successo, trasmettendo un autentico pathos rivoluzionario all’intera compagnia.

Dopo il 1934, con il peggiorare delle condizioni politiche e il rafforzarsi dello stalinismo, la situazione di Tairov si fa sempre più difficile: dopo qualche spettacolo duramente attaccato dalla critica militante, è costretto a ripiegare su modesti testi propagandistici o su grigie riduzioni di classici (Madame Bovary da Flaubert, 1940). Dopo la guerra il suo teatro sopravvive con la messinscena di Il gabbiano di Cechov (1944) e di Il vecchio di Gor’kij (1946), prima di chiudersi un anno prima della morte del suo regista. Particolare interesse suscita ancora oggi Appunti di un regista (1921), dove T. esprime il suo credo sul teatro e sull’arte dell’attore: un testo che ha esercitato un notevole influsso sul pensiero teatrale delle avanguardie europee.

Merola

Mario Merola è l’indiscusso e indiscutibile re della sceneggiata. Dopo aver lavorato nel porto di Napoli, comincia a esibirsi nelle feste di piazza e ai matrimoni, ben presto imponendosi come l’ultimo dei cantanti `di giacca’: ossia dei cantanti specializzati in brani a tinte forti, d’impianto drammatico, per la cui esecuzione è d’uopo adottare un abbigliamento adeguato. A partire, appunto, dalla giacca. Più tardi, nell’agosto dell’84, Merola festeggerà i venticinque anni di carriera nel segno del più grande fra gli autori di quel genere di canzoni, Libero Bovio. Gli dedicherà un intero spettacolo, adottando come titolo il primo verso, Felicissima sera , della famosa “Zappatore”, su cui si basa l’omonima sceneggiata che costituisce, da sempre, l’autentico cavallo di battaglia e una sorta di `marchio di fabbrica’ di Merola. E della sceneggiata, appunto, Merola fa addirittura un atto di fede e una missione, tentando di accreditarla anche presso pubblici acculturati. Così, per il Natale del ’78, porta al cinema-teatro Delle Palme, nell’elegantissima ed esclusiva via dei Mille, una versione aggiornata di Lacreme napulitane , ancora di Bovio, dandole il titolo in lingua L’emigrante . Del resto, non era stato lui ad aprire, nel ’76, il primo e unico Festival della sceneggiata, avendo al fianco – in uno spettacolo intitolato inequivocabilmente Mammà – colleghi del calibro di Mirna Doris e, specialmente, Nunzia Fumo, erede di quella Cafiero-Fumo che fu, appunto, la più celebre compagnia di sceneggiate?

Burns

Geroge Burns si unisce in coppia con Gracie Allen (1902-1964) fin dalla scena del vaudeville degli anni ’20, dove i due propongono sketch comici di vita coniugale in cui il marito vorrebbe fumare in santa pace il suo sigaro, limitare le conversazioni con la moglie alla salute del cognato e non dar fondo alla propria pazienza messa a dura prova dalla martellante sequela di sciocchezze propinate dalla voce cinguettante di lei. Variando di poco questo schema continuano a godere del successo popolare negli anni ’30 in trasmissioni radiofoniche, nel ventennio 1930-40 nelle produzioni cinematografiche Paramount e negli anni ’50 anche in televisione. Recitano insieme in una ventina di pellicole tra cui la serie dei The Big Broadcast of

Bucci

Flavio Bucci studia alla scuola di recitazione dello stabile piemontese. Nel 1968 si trasferisce a Roma dove Ruggero Jacobbi gli offre un ruolo in L’arcitreno di Silvano Ambrogi. Da quel momento inizia una serie di intense interpretazioni teatrali: Peer Gynt (1968), Amleto (1969), Tre scimmie in un bicchiere e Il principe (1970). La vera notorietà gli arriva con l’interpretazione di Ligabue nell’omonimo sceneggiato televisivo di Nocita, ma Bucci non abbandona il teatro. Nel ’78 interpreta Don Chisciotte, regia di Armando Pugliese. Nel 1984 è il protagonista nonché il regista, al festival di Spoleto, di una versione attualizzata di Il re muore di Ionesco. Nel ’90 torna al teatro classico con Empedocle di Hölderling, regia di Melo Freni e al suo amato Pirandello di cui interpreta a Taormina Cecè, La patente, e in tournée per diverse stagioni, Il fu Mattia Pascal. Nello stesso anno con la moglie Micaela Pignatelli interpreta L’uomo, la bestia e la virtù. Maschera di vocazione tragica, Bucci ha subìto negli anni la condanna di Ligabue televisivo, che l’ha legato indissolubilmente a un ruolo e a una grande interpretazione difficilmente ripetibile.

Vallone

Raf Vallone esordisce in teatro nel 1957 con Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller per la regia di Peter Brook, ma, all’epoca, è già nella rosa degli attori più affermati del cinema italiano (Riso amaro di De Sanctis, Il cammino della speranza di Germi, Thérèse Raquin di Carné). L’esperienza del dramma milleriano, che segna la sua maturazione artistica, lo spinge a dedicarsi quasi totalmente al teatro, non solo nella recitazione, ma anche nella regia e nella scrittura drammaturgica. Alla fine degli anni Sessanta è impegnato nuovamente nel dramma di Miller di cui cura anche la regia e poi la messa in scena de Il prezzo. Nel 1970 debutta come autore con Proibito? Da chi?, che però non viene accolto molto positivamente dalla critica. Nel corso degli anni Settanta si divide fra gli impegni teatrali (Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello con la compagnia di J. Bertheau nel 1973, Il costruttore Solness di Ibsen diretto da F. Piccoli nel 1975) e quelli televisivi; si dedica anche alla regia lirica nella quale ottiene un buon successo con Norma di Bellini nel 1974. Nel 1980 torna a dirigere e interpretare una nuova edizione di Uno sguardo dal ponte. Negli anni successivi è impegnato con due registi tedeschi: K. M. Grüber (Nostalgia di Franz Jung, 1984 e La medesima strada di Eraclito, Empedocle, Parmenide, Sofocle, 1988, al Piccolo Teatro di Milano) e P. Stein (Tito Andronico di Shakespeare allo Stabile di Genova, 1989). Nel 1991 dirige Frankie & Johnny di Terence Rattigan, l’anno seguente interpreta Il presidente di Rocco Familiari (testo a lui dedicato) per la regia di K. Zanusi. Nel 1993 è impegnato nella elaborazione e interpretazione di Tomaso Moro dall’apocrifo scespiriano che viene presentato all’Estate teatrale veronese con la regia di Ezio Maria Caserta.

Santuccio

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, Gianni Santuccio esordì con Donadio (1942) per poi formarsi al fianco di R. Ruggeri, L. Cimara, S. Ferrati, rivelando la conquistata pienezza dei mezzi espressivi durante il proficuo – anche se non sempre idilliaco – rapporto con il Piccolo Teatro di Strehler-Grassi, fin dall’inaugurale Albergo dei poveri di Gor’kij (1947). Alla fervida stagione milanese di via Rovello appartengono le sue interpretazioni di Le notti dell’ira di Salacrou, L’uragano di Ostrovskij, I giganti della montagna di Pirandello (con cui si sarebbe riconfrontato quarant’anni dopo). Con crescente autorità trascorse dal frequentatissimo Shakespeare (Riccardo II, Romeo e Giulietta, La bisbetica domata , Riccardo III, La dodicesima notte, Macbeth) all’amato Cechov (Il gabbiano), a Goethe e Ibsen, da Alfieri a Pirandello, da Betti a Sartre. Parimenti decisivo fu il suo sodalizio umano e artistico con L. Brignone, assieme alla quale entrò a far parte (con Benassi) della compagnia del Teatro Manzoni di Milano, interpretando, fra l’altro, I fratelli Karamazov di Copeau-Dostoevskij, Tartufo di Molière, L’allodola di Anouilh.

Formata la compagnia con la Brignone-Randone-Volonghi, prese parte a Come le foglie di Giacosa (regia di Visconti), a La parigina di Becque e a Casa di bambola di Ibsen. Attore di razza, capace di momenti sublimi alternati a impuntature capricciose, pervaso da una frenesia esistenziale bruciata senza risparmio, andò progressivamente affinando gli impeti giovanili, ostentati soprattutto nei classici greci (Elettra di Sofocle, Ippolito di Euripide, Tiresia nell’ Edipo re con Mauri-Moriconi) e nell’ Antigone di Alfieri, per passare con pari esiti da D’Annunzio a Claudel, da Rattigan a Greene, con un occhio di riguardo ancora per Shakespeare (Pene d’amor perdute, Antonio e Cleopatra, Il mercante di Venezia ). Prestò voce inconfondibile, volto intenso, gesto misurato a drammi di Betti, Madariaga, Kleist, ricomponendo il binomio con la Brignone per La parigina di Becque e Danza di morte di Strindberg.

Ritornò al Piccolo di Milano per Marat/Sade di P. Weiss e per l’indimenticabile riallestimento strehleriano del Giardino dei ciliegi di Cechov. Tra le sue ultime interpretazioni significative figurano quella del grande attore Sir Randolph in Servo di scena di Harwood, l’antologia pirandelliana proposta assieme a Foà, l’inquietante apparizione in Finale di partita di Beckett, la sconvolgente personificazione del mago Cotrone nei Giganti della montagna di Pirandello a Erice, poche settimane prima dell’estremo addio. Campione di genio e sregolatezza ‘alla Benassi’ (se non proprio alla Kean), assurse alla più alta poesia di palcoscenico possedendo le stesse virtù magiche che, come ultimo gesto, prestò a Cotrone. Molto meno significative le sue interpretazioni cinematografiche e televisive.

Petrolini

Figlio di un fabbro e nipote di un falegname, era stato destinato dalla famiglia alla pialla o al mantice. Invece, fin da ragazzo, Ettore Petrolini improvvisava per sé scenette e monologhi, sia lavorando nella bottega del nonno, sia per strada, seguendo un funerale con un’aria così afflitta che lo faceva apparire per un parente del morto, oppure trasformandosi in turista, con la giacca rivoltata, un libro utilizzato come baedeker e inventandosi una lingua astrusa. Anticipava così il carattere derisorio e empio di un’arte che non sarebbe esplosa subito, ma avrebbe avuto la sua incubazione nel café chantant e nelle più sgangherate compagnie di prosa romane. Scuola dura in quei locali pieni di fumo, sorvegliati dalla polizia e con un pubblico sguaiato ma esigentissimo, difficile da domare. Recitando e `guitteggiando’, Petrolini cominciava a uscire dalla convenzionalità della vecchia macchietta; cavava, soprattutto dal varietà minore napoletano, gli spunti per i primi numeri del suo repertorio: Canzone guappa, La caccavella, Fortunello e soprattutto Il bell’Arturo, parodia buffonesca del decadente dannunziano dal quale sarebbe nato Gastone.

A Roma l’attore imparò a domare il pubblico, a Milano conquistò la critica. Tuttavia la vera scoperta di Petrolini avvenne all’estero, nella tournée del 1907 in Uruguay, Argentina, Brasile. Tornato in Italia, era un idolo. Tutta la critica si occupava di lui, ma lui, pur solido nella sua posizione, non smetteva di lavorare al repertorio, approfondiva i numeri ( Fortunello , I salamini ). Allo scoppio della guerra (1915) si sentì maturo per lo spettacolo organico, basato su un copione. Costituì una compagnia che debuttò al Teatro Cines (l’attuale Eliseo) con la rivista Venite a sentire . Ma la rivista non gli bastava, né era congeniale al suo talento. Arrivarono i primi bozzetti (47, morto che parla ; Nerone ; Amori di notte ); i più acclamati autori del momento (A. Testoni, L. Chiarelli, R. Simoni) scrissero per lui; ma fu con le proprie commedie che P. mostrò di essere un grande attore: Gastone, Benedetto fra le donne e soprattutto Chicchignola, il suo capolavoro, nel quale si avverte l’influsso del Berretto a sonagli .

Pirandello e Petrolini: è curioso che l’uno non abbia mai scritto per l’altro, e che l’altro non lo abbia mai interpretato. Furono i due più importanti artisti fra le due guerre, entrambi specchio di una `sgradevolezza’ e di una `crisi’ che non sempre venivano ben tollerate. P. fece un adattamento di Lumie di Sicilia, a cui cambiò il titolo (Agro di limone) e le caratteristiche del personaggio, facendolo arrivare non dalla Sicilia, ma dell’Abruzzo. Ma furono gli unici contatti. L’ultima fase della carriera fu segnata dalle trionfali tournée a Londra e a Parigi. Alla Comédie Francaise portò uno dei suoi capolavori interpretativi, Il medico per forza di Molière: pur violentando il testo, conquistò il pubblico. Da tempo Petrolini aveva trasformato la violenza, la derisione e l’assurdità in stile. Con la sua andatura dinoccolata, il naso che spioveva a becco sulla bocca, la voce in falsetto, era diventato il `disconsacratore’ (A. Cecchi), i futuristi lo avevano aggregato al teatro `meccanico e motorico’ e P. Pancrazi era diventato l’esegeta della sua `scemenza’ («ha avuto il coraggio di essere idiota»). P. era minato dal male. L’angina pectoris gli consumava le forze. Dopo avere `salaminizzato’ l’Italia, ci lasciò alcuni documenti filmati della sua arte, fra cui Nerone (1930) con i numeri più celebri del suo repertorio. Preziosi i due volumi della sua autobiografia: Modestia a parte e Un po’ per celia e un po’ per non morire.

Mastroianni

Marcello Mastroianni inizia giovanissimo con comparsate in film negli anni ’40. Più tardi, iscritto alla facoltà di economia e commercio, calca le scene con i gruppi del Centro universitario. Luchino Visconti lo nota subito per la sua «entusiastica inesperienza» e gli affida i primi ruoli di rilievo, già in Rosalinda o come vi piace (1948) e in Troilo e Cressida di Shakespeare e Oreste di Alfieri (1949); seguono poi ruoli importanti in Un tram che si chiama desiderio (1949) di Williams, Morte di un commesso viaggiatore (1951) di Miller, La locandiera (1952) di Goldoni, Le tre sorelle (1952) e Zio Vanja (1956) di Cechov. Nel frattempo il cinema a cui dedicherà gran parte della sua attività e le sue più belle interpretazioni, anche in ruoli comici, gli darà risonanza internazionale sia come simpatia, capacità e varietà interpretativa sia come simbolo italiano di sex-appeal. E M. saprà portare con molto garbo e ironia il peso e il ruolo di questa sua `leggenda di attore’, Fellini farà di Marcello il suo interprete ideale (La dolce vita, 1960; 8 e mezzo, 1963; La città delle donne, 1979; Ginger e Fred, 1986), una sorta di alter-ego cui affidare figurativamente proiezione autobiografica e idealizzazione fantastica.

Mastroianni torna in teatro nel 1966 nel personaggio di Rodolfo Valentino, Ciao Rudy, la commedia musicale di Garinei e Giovannini; e nel 1984 in un duetto indimenticabile con Natasha Parry per la regia di Peter Brook in Cin Cin al Teatro di Montparnasse a Parigi. Grandissima è la sua interpretazione, nel 1987, in Partitura incompiuta per pianola meccanica, quando viene diretto dal regista russo Nikita Michalchov che già aveva diretto il film omonimo (1976), sempre ispirato al Platonov cecoviano; ma è nel palcoscenico che recupera la lezione giovanile di Visconti filtrandola con il suo innato umorismo. Umorismo che, maturato e venato di consapevolezza esistenziale, trasferirà con toni sottili e melanconici nell’ultima sua interpretazione, quella dell’anziano pensionato che chiude con la vita in Le ultime lune di Furio Bordon, recitato dal 1994 fino a pochi mesi prima di morire.

Cervi

Attraverso il padre, critico teatrale, Gino Cervi entrò fin da bambino a contatto con il mondo delle scene. Dopo un breve intermezzo da filodrammatico, esordì a ventitré anni come attor giovane ne La vergine folle di H. Bataille a fianco di Alda Borelli. L’anno successivo si trasferì al Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello e iniziò un tirocinio che si concluse nel 1935 quando, oltre a interpretare il suo primo film (Aldebaran di A. Blasetti), diventò primattore nella compagnia Tofano-Maltagliati. Fu il momento in cui, affrontando personaggi quali Memmo del pirandelliano Ma non è una cosa seria o Paolo di La maschera e il volto di Chiarelli, si dimostrò più che mai attento a quanto di più stimolante offrisse il repertorio contemporaneo; e questo muovendosi nella direzione di una recitazione asciutta, stringata, moderna, nell’ambito di una scena italiana ancora incline a subire fascini mattatoriali. Fu proprio questa scelta espressiva che più avanti gli permise di affrontare, con esiti non trascurabili, alcuni grandi testi shakespeariani, fra i quali un Otello lontano dalla tradizione di commossa drammaticità, nonché Le allegre comari di Windsor , dove diede al personaggio di Falstaff la sua calda comunicativa; il tutto con quella saporita dizione d’impronta emiliana e quella larghezza di gesto che furono sue prerogative.

Gli anni dell’immediato dopoguerra, quando si era già ampiamente affermato anche al cinema (basti pensare al successo di Quattro passi fra le nuvole , regia di Blasetti, 1942), lo videro proseguire su una strada pronta a cogliere i fermenti, le indicazioni del `nuovo’ teatro; fra i lavori di cui fu protagonista, I parenti terribili di Cocteau (regia di Visconti), La guerra di Troia non si farà di Giraudoux (regia di Salvini), Brava gente di Shaw. Nel 1953 apparve in Cyrano di Rostand, rimasto forse il suo risultato più compiuto: proprio i suoi toni pacati, uniti a una sapiente tecnica, riuscirono a spogliare il personaggio di quell’aureola di retorica in cui la tradizione lo aveva fissato, restituendolo in maniera più viva e autenticamente sofferta. Toni pacati che riaffioreranno ne Il cardinal Lambertini di Testoni, che portò anche al cinema e in Tv. Nel frattempo era arrivato anche il grande successo popolare con Don Camillo (1952), film tratto dal romanzo di Guareschi in cui, in coppia con Fernandel, interpretava il personaggio di Peppone, la cui bonarietà ringhiante gli calzava a pennello. Più tardi, a partire dal 1968, cominciò per la televisione la lunga serie del Commissario Maigret di Simenon (41 puntate), affiancato da Andreina Pagnani. Era un Maigret di socchiuso umorismo, piuttosto in pantofole e con un eccesso di pipa, al quale C. non faceva altro che portare il suo alto mestiere, quella carica di simpatia che spontaneamente emanava; la stessa che sempre era riuscito a creare intorno ai suoi personaggi, in maniera tale che gli riusciva difficile, anche se non impossibile, assumere ruoli di cattivo.

Quartucci

Figlio d’arte, Carlo Quartucci giunge a Roma alla fine degli anni ’50 per studiare architettura, pittura, cinema, ma i suoi interessi si volgono presto al linguaggio teatrale e al suo rinnovamento. Nel 1959 esordisce come regista, scenografo, attore in Aspettando Godot di Beckett; seguono gli allestimenti di C’era folla al castello di J. Tardieu (1960), Le sedie di Ionesco (1961), Finale di partita di Beckett (1963). Quartucci rifiuta subito l’impostazione naturalistica e sperimenta audacemente le possibilità sceniche di un uso astratto e formalizzato della parola come “comunicazione ritmica e fonetica”; considera la scenografia “architettura scenica del gesto” che interagisce con l’attore, il testo come spazio di lavoro. Arricchisce quindi la sua ricerca sulla lingua della scena con altri mezzi espressivi (cinema, video, nastro magnetico, radio, fotografia): così in Cartoteca di T. Rózewicz (1965) con studenti e gente di strada, nel collage La mucca parla a Pasquale (1966) con gli operai dell’Italsider di Genova, e in Zip Lap Lip Vap Crep Scap Plip Trip Scrap & La Grande Mam alle prese con la società contemporanea da un testo di G. Scabia (Biennale di Venezia 1965) con dieci maschere e i suoi attori (tra gli altri L. de Berardinis, R. Sudano, C. Remondi).

Zip, primo tentativo di scrittura scenica a più mani, provoca il primo scontro tra artisti della sperimentazione e sostenitori della tradizione in Italia e segna il tentativo di collaborazione tra sperimentazione (Teatro studio di Quartucci) e teatro pubblico (lo Stabile di Genova diretto da Squarzina). Dopo il dispositivo scenico per stadi e piazze Majakovskij e compagni alla rivoluzione d’Ottobre (1967), I testimoni di Rózewicz (1968), il teatro in campo magnetico (l’opera radiofonica Pantagruele , 1969) ed elettronico ( Don Chisciotte per la televisione, 1970), e Il lavoro teatrale di R. Lerici (Biennale di Venezia 1969), nel 1972 ha inizio l’esperienza di `Camion’. Il termine indica nome del gruppo, mezzo di trasporto, luogo della performance, esigenza di lavoro collettivo e di rendere il pubblico partner attivo. Un decennio di eventi, che vedono l’importante contributo dell’attrice e coautrice Carla Tatò, e trovano testimonianza nei film per la tv Borgatacamion , Robinson Crusoe e Nora Helmer .

Del 1980 è Opera, trilogia teatrale e cinematografica. Nel 1981 Quartucci raduna a Genazzano (Roma) diversi artisti visivi, musicisti, scrittori, cineasti, e dà vita con C. Tatò, J. Kounellis, G. Paolini, R. Lerici, G. Celant, R. Fuchs al progetto artistico `La zattera di Babele’; obiettivo è una nuova lingua della scena attraverso l’interagire delle arti. Nascono così le creazioni, portate in tournée europee, Comédie italienne (1981), Didone e Funerale (1982). A Berlino nel 1984 sviluppa il progetto su Kleist e la sua Pentesilea con Canzone per Pentesilea (musiche di Giovanna Marini; già allestito a Bologna nel 1983), Rosenfest Fragment XXX e Nach Themiscyra (Vienna 1986).

Dal 1986 il progetto ‘Zattera di Babele’ si trasferisce a Erice in Sicilia, dove nasce il festival `Le giornate delle arti’, laboratorio permanente sui diversi linguaggi artistici. Nascono per le regie di Quartucci La favola del figlio cambiato (1987) e I giganti della montagna (1989) di Pirandello; Primo amore , `sinfonia scenica’ da atti unici di Beckett (1989); Il giardino di Samarcanda (presso il restaurato teatro Gebel Hamed, 1990); Tamerlano il Grande di Marlowe (Berlino 1991); Antigone di Sofocle, nell’adattamento di Brecht (Segesta 1991); Macbeth di Shakespeare (1992; seguito da Il cerchio d’oro dei Macbeth , `studio per un teatro scenico video-elettronico’, 1993); Ager sanguinis (1995) e Medea (1989 e ’98) di A. Pes. Nel 1998 nascono i progetti Il cerchio d’oro del potere e La favola dell’usignolo , che coinvolgeranno Quartucci e gli artisti di `La zattera di Babele’ fino al 2001.

Massimini

Sandro Massimini è stato un personaggio dello spettacolo `pronto a tutto’, soprattutto a una gran baraonda di idee, nel periodo del boom, compreso il momento clou della moda show di cui l’attore fu il primo ideatore-promotore. Nato a Milano, ma lombardo veneto per la madre veneziana, fu un attore-ragazzo per bene e raffinato. Figlio e nipote affettuoso, nonostante venticinque traslochi di casa e città, ha avuto una carriera divisa in tre tempi, trionfando alla fine nell’operetta, di cui ha svecchiato la struttura e con cui ha festeggiato le nozze d’argento in un allestimento del Paese dei campanelli , record d’incasso. I cromosomi del nipote d’arte gli vengono dal bisavolo, l’attore di chiara fama Ernesto Rossi. «Il teatro è stato il mio colpo di fulmine, debuttai a diciassette anni con Esperia Sperani e Pupella Maggio, per incoscienza di Maner Lualdi che me lo propose» raccontava nelle interviste, tornando agli inizi, quando, complice la rivoluzione del ’68, il cabaret fece un salto di qualità e quantità, specie a Milano. Il giovane Massimini ebbe la prima scrittura da Elvio Calderoni, re dell’operetta di allora (in cartellone Madama di Tebe e La danza delle libellule ), ma si trattò di un episodio casuale. Il suo mondo era quello del Derby Club, di Vaime, Cobelli, Bajini, Franceschi, Nebbia e gravitava intorno al teatro bomboniera Gerolamo, i cui spettacoli erano scritti dal meglio dell’intellighenzia dell’epoca, Flajano, Mauri, Bompiani, Carpi, Eco. Un bellissimo mondo teatral letterario, dove Massimini debuttò nel 1964-65 con Tanto di cappello , regia di Filippo Crivelli, con la giovanissima Mariangela Melato, testo in cui Eco faceva appunto l’elogio della sua barba a spolvero. Massimini si afferma con Più crudele di Venere di Vaime, indi scrive e interpreta, sdoppiandosi en travesti , uno sketch di successo radical chic, l’epistolario tra due scrittori `off’, Domenico Campana e Sibilla Aleramo; poi, nel secondo tempo, c’era Carmelo Bene che recitava Majakovskij. Tra le altre novità porta il teatro sotto il tendone del circo Medini, imitando il Gassman dell’ Adelchi , ma vi recita Il salto morale . Quattro mesi di esauriti, cui si aggiunge l’anno dopo, con altri testi di Marchesi, Terzoli e Vaime, Il doppio salto morale . Intanto, il secondo tempo, va dal ’65 al ’75: deluso dal teatro, gira mezzo mondo, Tokyo, Parigi, Roma, New York, allestendo le sfilate di moda come dei veri e propri show, pieni di luci, coreografie, trovate da rivista; quando lascia la partita è solo per saturazione dell’ambiente. Con lui nacque la moda show, in anticipo su stilisti e top model. Il terzo atto della carriera inizia quando, nel ’70, Vito Molinari e Fulvio Gilleri lo scritturarono proprio nel Paese dei campanelli e proprio nel regno incantato del genere, il mitteleuropeo festival di Trieste. Massimini conquistò i primi successi facendo La Gaffe nel testo di Lombardo e Ranzato e Sigismondo in Al cavallino bianco di Benatzky-Stolz.

Massimini decise di riabilitare l’operetta, di farne un genere da `modernariato’ rispettando ogni professionalità, soprattutto vocale. Passò così sedici anni a Trieste e otto in compagnia da capocomico, garantendo le sue qualità di attore gentile, discreto, di sicuro effetto. Partì dalla Principessa della Czarda , poi allestì molti titoli classici ma anche scoperte, cercando di far uscire quel teatro dal museo generazionale delle buone cose di pessimo gusto come la cipria e il rosolio. Nel ripassare i testi eliminò le zone morte, le battute superate e quel po’ di volgarità coatta, avvicinandosi al musical. Diventa così il nuovo `re’ dell’operetta, cui un pubblico fedele e non giovanissimo (ma c’è un ricambio anche di gusti e di età) perdona le basi registrate, quando l’orchestra dal vivo comincia a costare troppo. Negli ultimi anni allestì anche due musical in grande stile, My Fair Lady (1992-93) e la riduzione del film di Edwards Victor Victoria (1993-94), ma l’ultimo spettacolo che lo vede in scena, mentre una grave malattia minava il suo entusiasmo, è ancora e sempre Il paese dei campanelli , recitato con un po’ di karaoke in platea, impegnata nel refrain collettivo “Luna tu”. Negli anni di capocomicato, Massimini alterna il repertorio di Abraham (Vittoria e il suo ussaro, Il fiore di Hawaii, Ball al Savoy), Kálmán (La duchessa di Chicago), Lehár (La vedova allegra , da sempre un best seller); ma affronta anche testi meno consueti e italiani, come quelli di Pietri Acqua cheta e La donna perduta , ben coadiuvato da cast in cui si distinse la bella voce di soprano di Daniela Mazzuccato, che fu a lungo sua partner.

Santella

Mario Santella esordisce giovanissimo come attore, assieme alla sorella Maria Luisa. Con lei anima il Gruppo Teatro Vorlensungen (di cui fa parte anche Renato Carpentieri) e quindi fonda la compagnia Teatro Alfred Jarry, che contribuisce alla diffusione del teatro sperimentale in Italia. Dalla metà degli anni ’60 partecipa attivamente ai fermenti del panorama teatrale napoletano con: I due carnefici (1966); Ciò che conta non è interpretare il mondo, ma trasformarlo (1968); Prova per una messainscena dell’Amleto (1969); Majakovskij-Uomo (1972); Verga: storie di uomini e lupi (1978); La Medea di Portamedina (1980). A S. si devono gli allestimenti di pièce dell’avanguardia francese – La cantatrice calva e Le sedie di Ionesco (1983); Le serve di Genet (1983); Giorni felici (1984), Atti senza parole e L’ultimo nastro di Krapp (1989, anche interprete), Aspettando Godot (1989, anche interprete e scenografo) di Beckett – e di testi del teatro partenopeo – Il romanzo di un farmacista di Edoardo Scarpetta (1986); Ragazze sole con qualche esperienza (1986) e Don Fausto di Antonio Petito (1987) -, oltre a confrontarsi con classici come: La dodicesima notte di Shakespeare (1989), Frammenti di un sogno interrotto da Euripide (1990), Candido di Voltaire (1990); spettacoli di cui cura la versione scenica e la regia, oltre ad esserne interprete.

Cavalieri

Tra i migliori attori goldoniani del secolo. Dopo aver esordito diciannovenne nella compagnia Zoncada-Masi-Capodaglio, Gino Cavalieri passò quasi subito alla scena dialettale; lavorò per oltre un decennio con G. Giachetti, in varie formazioni, e nel 1931 all’Odeon di Milano formò la sua prima compagnia, presto scioltasi. Dopo aver recitato con T. Pavlova in parti comiche decise di ritornare in Veneto, che da quel momento abbandonò solo raramente; a Venezia creò una sua compagnia, alla quale si aggiunsero E. Baldanello (1939) e, nel dopoguerra, il fratello Gianni. La sua pittoresca vena di attor comico ebbe modo di brillare in spettacoli quali Le baruffe chiozzotte messe in scena da Simoni (1935), La putta onorata per la regia di Strehler (1950) e Il Saltuzza del Calmo allestito, ancora nel ’50, da Baseggio; altre memorabili interpretazioni furono quella de La casa nova (regia di Lodovici), di L’avaro (ancora con Baseggio) e il Carlo Gozzi di Simoni con la regia di E. Sabbatini, sempre nei primi anni ’50. C. portò le sue grandi doti di attor comico nel cinema (in particolare, Nina, non far la stupida , 1937) e si cimentò anche nella scrittura di lavori teatrali (Un giorno di sole , commedia messa in scena, a Padova e a Milano, da Baseggio nella stagione 1951-52).

Giuffré

Nel panorama del teatro italiano Aldo Giuffé si segnala come uno dei rari attori ‘venuti dalla gavetta’: ciò che gli ha consentito di formarsi una vastissima gamma di mezzi espressivi, sia nel genere comico sia in quello drammatico, e di sviluppare una versatilità capace di svariare dalla farsa alla tragedia shakespeariana e al dramma moderno. Debutta nel 1947 con Eduardo De Filippo e rimane con lui sino al ’52, quando, in seguito a una scelta meditata e tutt’altro che facile per un attore di estrazione dialettale, lo lascia per affrontare, sia pure in piccole parti, nientemeno che Cechov, Turgenev e Goldoni; e, per giunta, in compagnie come quelle di Andreina Pagnani, Luchino Visconti, Renzo Ricci e Anna Magnani. Di pari passo, cresce via via l’importanza dei ruoli. Nella stagione 1957-58, allo Stabile di Palermo, è Verri in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello e l’anno dopo viene scritturato dal Piccolo Teatro di Milano. La grande popolarità arriva nel 1972, allorché, insieme con il fratello Carlo, fonda una propria compagnia, che nel 1983 vince il premio Positano per aver ottenuto il più alto incasso al botteghino fra tutte le compagnie di prosa italiane. Fra i testi portati al successo da Aldo e Carlo Giuffé, Francesca da Rimini di Petito, A che servono questi quattrini? e I casi sono due di Curcio e, soprattutto, La fortuna con l’Effe maiuscola di Eduardo De Filippo e ancora Curcio, in cui Aldo disegna del personaggio di Erricuccio, un minorato mentale, un ritratto assolutamente indimenticabile.

Nuti

Francesco Nuti esordì nel cabaret con la compagnia dei Giancattivi, insieme ad A. Benvenuti ed A. Cenci, per passare poi all’attività di regista e attore cinematografico, sfruttando le sue doti comiche dalla venatura sferzante, tipica della comicità toscana ( Ad ovest di paperino di Benvenuti, 1982, Io, Chiara e lo Scuro , 1982, Madonna che silenzio c’è stasera , 1982 e Son contento , 1983, per la regia di M. Ponzi, di cui Nuti è anche sceneggiatore). Tra i suoi film Casablanca, Casablanca e Tutta colpa del paradiso del 1985, Stregati del 1986, Caruso Pascovski (di padre polacco) del 1988, Willy Signori e vengo da lontano del 1989, Donne con le gonne del 1991, OcchioPinocchio del 1994.

Ferrari

Paolo Ferrari debutta con la compagnia del Piccolo Teatro di Milano in Il corvo di C. Gozzi, per la regia di Strehler al IX Festival internazionale del Teatro alla Fenice di Venezia (1948) e nel ’49 è al Festival belga di Knokke-Le-Zoute nei Giganti della montagna (uno dei fantocci) e nel Corvo. Resta al Piccolo per la stagione 1949-50 (La famiglia Antropus di T. Wilder, Questa sera si recita a soggetto di Pirandello e Riccardo III di Shakespeare). Passa poi alla Gioi-Cimara-Bagni (1951, Sogno ad occhi aperti di Elmer Rice). Nel ’54 è con Alberto Bonucci in Senza rete , al Manzoni di Milano, con loro in uno spettacolo derivato da un’amplificazione del Teatro dei Gobbi (di cui Bonucci è stato un fondatore) ci sono Paolo Panelli, Marina Bonfigli, Anna Menichetti, Monica Vitti, Francesco Mulè, scene e costumi di Piero Zuffi e nel ’57 è nel Ballo dei ladri di J. Anouihl al Sant’Erasmo, diretto da G. De Bosio. Molta televisione poi il primo successo di rilievo in Anima nera di Patroni Griffi con la Compagnia dei Giovani, regia di De Lullo (1961). Sempre negli anni Sessanta è nella compagnia dei Quattro, diretto da F. Enriquez (Antonio in Il mercamte di Venezia e Guildestern in Rosencranz e Guildestern sono morti di T. Stoppard). In coppia con Ileana Ghione interpreta un discusso Rosmersholm di Ibsen, regista Mina Mezzadri. Votatosi al repertorio leggero, per alcuni anni è in ditta con Valeria Valeri con la quale stringe un sodalizio affiatatissimo  (Fiore di cactus di P. Barillet e J. P. Gredy,1981; Vuoti a rendere di M. Costanzo,1986; Sinceramente bugiardi e Senti chi parla , 1989 entrambi con la regia di G. Lombardo Radice). La tv gli offre in questi ultimi anni grande popolarità in fiction di tutto riposo.

Dapporto

Figlio del grande Carlo, Massimo Dapporto ha partecipato ad alcune commedie brillanti alla maniera di suo padre come Pardon Monsieur Molière (1983) di Terzoli e Vaime dal Borghese gentiluomo con G. Bramieri (regia di Garinei), passando a ruoli decisamente drammatici, a lui più consoni, in alcune fiction televisive come Storia d’amore e d’amicizia (1982), Io e il duce (1985) di A. Negrin, Boss (1986) di S. Blasi. Nel 1986 torna al teatro in Quadrifoglio di M. Costanzo e A. Silvestri e nel 1988 recita in Mercanti di bugie di D. Mamet sotto la direzione di L. Barbareschi e Nina di Roussin con Nancy Brilli, dove s’impone per i suoi irresistibili tempi comici. La vera popolarità arriva con l’interpretazione del dottor Paolo Magri nella serie Amico mio che, trasmessa nella stagione 1993-94, ha avuto una continuazione nella stagione 1997-98. Tra le sue partecipazioni cinematografiche ricordiamo Tre colonne in cronaca di C. Vanzina (1990), L’alba di F. Maselli a fianco di N. Kinski (1991) e Celluloide di Lizzani (1995), pellicola incentrata sulla travagliata lavorazione di Roma città aperta , in cui interpreta il vulcanico produttore Peppino Amato.

Mezzera

Nel 1970 Franco Mezzera è al Piccolo Teatro di Milano dove recita in Santa Giovanna dei macelli di Brecht; seguono La vita è sogno di Calderón; nel 1982 L’anima buona di Sezuan di Brecht, con la regia di Strehler e ancora al Piccolo Il precettore di Jakob M. R. Lenz, per la regia di E. D’Amato. Nel 1986 è allo Stabile di Bolzano in Provaci ancora Sam di W. Allen, regia di A. Salines. Nello stesso anno approda nella compagnia diretta da Ronconi con cui lavora in La serva amorosa di Goldoni (1986) e in Tre sorelle di Cechov (1989). Altri lavori a cui ha partecipato: La passione di Cleopatra di Ahmad Shawqi con la regia di Chérif (1989), La sposa di Messina di F. Schiller (1990), presentato alle Orestiadi di Gibellina. Nel ’91 torna con Ronconi, facendo parte del nutrito cast della Pazza di Chaillot di J. Girardoux. Più recentemente ha lavorato in La moglie saggia di Goldoni, regia di G. Patroni Griffi (1994).

Reinach

Il successo di Enrico Reinach arriva nel biennio 1875-76, nella compagnia di L. Pezzana, dove recitava come `primo amoroso’, ruolo che per le sue caratteristiche fisiche e di voce gli riusciva congeniale, tanto che si arrivò a definirlo `l’eterno primattor giovane’. Come primattore dal 1877 lavorò nelle compagnie Belotti-Bon, Pasta, Nazionale, Marini e Giagnoni, fino a che nella stagione 1895-96, mentre era in ditta con Talli, venne scritturato da E. Duse per interpretare Armando nella Signora dalle camelie , durante una lunga tournée all’estero. Nel frattempo, nel 1890, aveva sposato Edvige Guglielmetti (Torino 1873 – ivi 1918) con cui ebbe un duraturo sodalizio artistico e umano. Infatti, dopo essere tornato in Italia e aver lavorato per un breve periodo (18981900) con E. Gramatica, nel 1901 fonda una compagnia con V. Pieri, promuovendo sua moglie come primattrice. Questo fu il periodo migliore per i R. che si distinsero nell’interpretazione del teatro romantico-borghese di fine Ottocento. Nel 1909 i R. furono scritturati dalla Stabile Romana, diretta da E. Paladini e dopo poco Enrico si ritirò dalle scene, intraprendendo la professione di insegnante all’Accademia dei Filodrammatici di Milano. Una delle rare partecipazioni di Edvige R. lontana dal marito fu nel 1904 in Salomé di O. Wilde, con la regia di M. Fumagalli.

Guzzanti

Corrado Guzzanti debutta come autore con le trasmissioni televisive Non stop e Proffimamente, entrambe del 1986, scrivendo i testi per la sorella Sabina (con lei e David Riondino debutta in Il fidanzato di bronzo, 1989-90). Come attore il suo debutto in televisione risale al 1989 con Scusate l’interruzione . Dal 1990 è autore e attore di tre edizioni di Avanzi , nel 1993-94 lo rivediamo in Tunnel ; è grazie a queste trasmissioni che giunge a una grande popolarità, lo ricordiamo in questi anni nelle vesti di Rocco Smitherson, Lorenzo, Emilio Fede, Gianfranco Funari. Nel 1995-96 è attore e co-autore (insieme a S. Dandini e S. Guzzanti) del Pippo Chennedy Show. Seguono i successi teatrali: nel 1996 Millenovecentonovantadieci e, l’anno successivo (con i nuovi personaggi del Pippo Chennedy Show), La seconda che hai detto , al suo fianco la `spalla’ M. Marzocca.

Castiglioni

Nel 1973 Silvio Castiglioni è tra i fondatori sia del Centro di Ricerca per il Teatro di Milano, nel cui ambito matura le prime esperienze formative, sia del Teatro di Ventura, uno fra i gruppi più significativi nell’ambito del ‘Terzo Teatro’, con il quale ha realizzato in dieci anni numerosi spettacoli: Il detto del Gatto Lupesco (1977), La tragedia dell’arte (1978). Dal 1987 al 1990 ha realizzato con il regista cileno Raul Ruiz Lo schiavo del demonio, I maghi, Edipo iperboreo, La scoperta dell’America. Di particolare rilievo lo sviluppo del suo lavoro sulla maschera di Arlecchino, che si distacca dagli stereotipi correnti, e la sua ricerca drammaturgica, che culmina nel rigore espressivo e nelle visioni intime dei due monologhi a più voci Corpi estranei (1995), assolo dedicato a Heinrich von Kleist, e Remengòn ; segue Voci dalla guerra (1997), ispirato a un racconto di Nuto Revelli. In collaborazione con François Khan ha scritto e interpretato Il sogno e la vita. Una fantasia sul signor Hoffmann (1998). Dal 1998 è direttore artistico del festival di Santarcangelo dei Teatri.

Lupi

Proveniente dall’esperienza filodrammatica, nel 1941 Roldano Lupi lavorò con R. Ruggeri, poi con la compagnia Za Bum, privilegiando, infine, la partecipazione a spettacoli isolati, tra cui Medea di Euripide nel 1949, i Persiani di Eschilo nel 1950, Turandot di Gozzi nel 1952, tutti diretti da Salvini. Nel 1942 esordì come attore cinematografico con Sissignora diretto da F.M. Poggioli il quale gli assegnò la parte di protagonista in Gelosia del 1943, tratto dal Marchese di Roccaverdina di L. Capuana, che inaugurò una serie di sue partecipazioni a produzioni a sfondo storico.

Piccardi

Alvaro Piccardi debutta in teatro a soli 13 anni con la compagnia di Ernesto Calindri e continua a lavorare in grandi compagnie, mentre anche la tv lo scopre (L’isola del tesoro) e ne fa il protagonista di numerosi sceneggiati di successo. Dal 1969 al 1980 diventa socio del Gruppo della Rocca e partecipa a numerosi spettacoli con la regia di Roberto Guicciardini ed Egisto Marcucci. Nel 1979 debutta nella regia con Il concerto di Renzo Rosso. Nel 1981 firma l’ Otello di Shakespeare con Vittorio Gassman. Nel 1987 l’esordio nella regia lirica per il Teatro Sperimentale di Spoleto con Mahagonny di Brecht-Weill e Il telefono di Giancarlo Menotti. Nel 1994 dirige La bella verità al Comunale di Firenze, nel 1996 Il barbiere di Siviglia a Todi. È anche docente di molte attività didattiche. Nel 1998 diventa direttore della Scuola di teatro classico `Giusto Monaco’ dell’Inda (Istituto nazionale del dramma antico).

Cannavale

Vincenzo Cannavale si può definire il ‘principe dei caratteristi’ italiani. Nel corso di una lunga carriera, iniziata nei varietà di Napoli, ha raggiunto un successo e una notorietà considerevoli, tenendo conto del fatto che non ha mai avuto ruoli da protagonista. Ha lavorato prevalentemente al cinema e in televisione, ma si possono ricordare anche partecipazioni a spettacoli teatrali come Fortunato…! di Armando Curcio ed E. De Filippo con la compagnia di Aldo Giuffré (1985), La festa di Montevergine (1989) e Miseria e nobiltà (1994) di Eduardo Scarpetta. Tra i suoi film ricordiamo Casta e pura di S. Samperi (1981), Le vie del Signore sono finite di Massimo Troisi (1987), Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988), che gli è valsa la vittoria del Nastro d’argento come miglior attore non protagonista, e La casa del sorriso di Marco Ferreri (1991).

Tommei

Abbandonati gli studi universitari a Pavia, nel 1932 Fausto Tommei esordisce a teatro nella compagnia Sainati per passare subito dopo al Salone Margherita di Roma nel gruppo Baracca e Burattini. Nel 1937 comincia a lavorare alla radio sfruttando, sia come attore (ideò molti sketch e macchiette di successo) sia come presentatore, la grande duttilità della sua voce. In seguito, torna a teatro nel Poeta fanatico di Goldoni, presentato al festival di Venezia del 1941, con la regia di O. Costa. Durante la guerra lavora con Gandusio e la Galli e, terminato il conflitto, si dedica in gran parte alla rivista, partecipando a numerosissimi spettacoli: E dess se femm? Sifoolom (1945), L’uomo di Imelda (1949) e Quattro passi in galleria (1953). Dalla stagione 1954-55, grazie soprattutto al successo ottenuto in Siamo tutti milanesi di A. Fraccaroli (1952), torna alla prosa, recitando da protagonista in L’amico di tutti di Bertolazzi (1955), al Teatro Sant’Erasmo di Milano e Georges Dandin di Molière (1957) al teatro di Villa Olmo di Como. In seguito, assume la direzione artistica del Teatro delle Maschere di Milano (1957-58), dove allestisce e interpreta una quarantina di testi di autori italiani quali Montanelli, Bacchelli e Beonio Brocchieri.

Guinness

Sir Alec Guinness debutta nel 1934 e nel ’36 si unisce alla compagnia dell’Old Vic interpretando diversi ruoli classici per poi cogliere l’attenzione della critica nel ruolo di Aguecheek nella Dodicesima notte , e ottenere pieno riconoscimento del suo talento nella moderna messa in scena dell’ Amleto (1938) di Tyrone Guthrie. Finita la guerra torna all’Old Vic dove interpreta un’ampia varietà di personaggi, classici e moderni, e intraprende l’attività registica. Attore eclettico e molto richiesto si distingue in particolare nei ruoli shakespeariani (Riccardo II, Amleto, Re Lear), ma dimostra uguale maestria nella gestione di caratterizzazioni moderne in Cocktail party di Eliot, in Il re muore di Ionesco, in Ross di Rattigan per la regia di Glen Byam Shaw, mentre nel ’53 rifiuta, come già Richardson e Gielgud, di recitare in Aspettando Godot dell’allora sconosciuto Beckett. Nel 1966 insieme al regista Gaskill contribuisce alla messa in scena di una versione sperimentale del Macbeth, e nel ’73 interpreta Dr. Wickersteed in Habeas Corpus di Alan Bennett.

Zanoletti

Dopo aver frequentato l’Accademia dei Filodrammatici di Milano, Antonio Zanoletti esordisce al Piccolo Teatro nel Nost Milan (1980) di Bertolazzi, regia di Strehler, e comincia a collaborare con la Piccola Compagnia del Teatrino della Villa Reale di Monza con cui prende parte ad allestimenti di opere di García Lorca, Brecht, Ionesco. Nel 1983 è al Teatro Carcano di Milano in Uomini e topi di Steinbeck con la regia di L. Barbareschi e due anni dopo è il protagonista del Conte di Carmagnola di Manzoni, diretto da G. Carutti, spettacolo prodotto dalla Scala.

In seguito, lavora con il Teatro regionale toscano in Clizia di Machiavelli (1986) e torna al Piccolo di Milano in Grande e piccolo di B. Strauss con la regia di C. Battistoni (1987). L’anno dopo recita in Partage de Midi di Claudel a cui seguono: Cocktail party di T.S. Eliot (1989), Sul lago dorato di E. Thompson, regia di L. Squarzina (1993), Madre Coraggio di Brecht a fianco di P. Degli Esposti (1994). Sempre nel ’94 prende parte all’allestimento di L. Ronconi di Venezia salva di S. Weil che negli anni successivi lo chiama al Teatro di Roma per Re Lear , Il pasticciaccio di via Merulana , Davila Roa e Medea . Recentemente (stagione 1997-98), è stato Buckingham nel Riccardo III , con F. Branciaroli per la regia di A. Calenda. Z. Da alcuni anni partecipa agli allestimenti di testi legati al sacro (tra gli altri, Diario di un curato di campagna e Annunzio a Maria ) e ad alcuni allestimenti sui poeti del Novecento (Rebora, Turoldo, Luzi) curati dal regista F. Battistini.

Terzieff

Laurent Terzieff esordisce nel 1953 in Tous contre tous di Adamov, sotto la guida di Serreau. Interpreta testi di Ibsen, Brecht, García Lorca, Ionesco, Claudel ( Tête d’or con la regia di Barrault, 1968), Arden. Nel 1963 realizza il suo primo spettacolo da regista, Il pensiero di Andreev; è lui a portare in Francia i testi di Schisgal – Le tigre e Le dactylos (1963, ripresi nel 1996), Fragments (1978) – e di Albee. Tra gli spettacoli di cui è stato regista e interprete ricordiamo: Pic du bosse (1979) e L’ambassade (1982) di Mrozek, Guerison americaine di Saunders (1985), Ce que voit Fox di Saunders (1988, per cui ha ricevuto il Molière per la regia), Enrico IV di Pirandello (1989), Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot (1995), Il berretto a sonagli di Pirandello (1997).

Ranieri

Ex posteggiatore e strillone, Massimo Ranieri viene scoperto e lanciato fra i big della canzone italiana a soli quindici anni. Dal 1966 ha inciso oltre venti lp e ha partecipato alle più importanti manifestazioni canore e televisive, da Canzonissima a Scala Reale, dal festival della canzone italiana di Sanremo al Cantagiro. Nel 1975, debutta come attore teatrale a Spoleto in Napoli, chi resta e chi parte , due atti unici di Raffaele Viviani, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Entra nella Nuova Compagnia dei Giovani diretta da Giorgio De Lullo e Romolo Valli. Nel 1978 interpreta Il malato immaginario di Molière e, nel 1979, La dodicesima notte di Shakespeare con la regia De Lullo; nel 1980, L’anima buona di Sezuan di Brecht, regia di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro; dal 1983, con Maurizio Scaparro: Barnum, Varietà, Pulcinella, Liolà, Teatro Excelsior; nel 1987, Rinaldo in campo, revival di Garinei e Giovannini, nel ruolo che nel 1961 fu di Domenico Modugno; nel 1994, di nuovo al Piccolo Teatro con L’isola degli schiavi di Marivaux, regia di Strehler (interpretazione interrotta a causa di una frattura procuratosi all prima a Torino); nel 1998, Hollywood, ritratto di un divo, musical `drammatico’ sulla vita del divo cinematografico John Gilbert, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi

In un repertorio così vasto e articolato, si è sempre ritagliato dei ruoli allegramente scanzonati, da adulto `scugnizzo’ di spericolata generosità interpretativa, non disdegnando, oggi, prove più impegnative e di maggiore consistenza drammaturgica, come in Hollywood, ritratto di un divo , dove si addentra con credibilità fra le pieghe della nostalgia. Parallelamente alla sua prestigiosa carriera musicale e teatrale, ha affrontato anche non molte ma significative prove cinematografiche e televisive, distinguendosi fin dal debutto, nel 1969, con Metello di Mauro Bolognini, al fianco di Ottavia Piccolo, che gli meritò un David di Donatello come migliore attore giovane; e poi, nel 1970, con il film tv La sciantosa, intensa storia d’amore materno sul fronte di Caporetto, uno dei più bei film dedicati alla prima guerra mondiale, con Anna Magnani; nel ’72, Bubù, ancora con Ottavia Piccolo, regia di Bolognini; nel ’74, La cugina di Aldo Lado, con Stefania Casini; e film televisivi, come la serie Nell’ombra del Vesuvio con Carlo Giuffrè; Lo scialo con Eleonora Giorgi, fino alla recente fiction tv Il ricatto nei panni del comissario Fedeli.

Brandauer

Klaus Maria Brandauer compie i suoi studi al conservatorio di Stoccarda e nel 1962, a Tubinga, debutta nel ruolo di Claudio in Misura per misura . In seguito lavora al Landestheater di Salisburgo, allo Schauspielhaus di Düsseldorf e dal 1972 entra a far parte della compagnia del Burgtheater di Vienna dove interpreta i ruoli di protagonista nel Tartufo di Molière (1981) e nell’ Amleto di Shakespeare (1985). Attore dotato di sensibilità e di temperamento brillante e versatile, è quindi protagonista di Jedermann di Hofmannsthal, nell’ambito dei Festspielen a Salisburgo e, nel 1991, ricopre il ruolo di George nella messa in scena di Chi ha paura di Virginia Woolf? di E. Albee, con la regia di Hans Neuenfels. In seguito cura regie, oltre che a Vienna e a Salisburgo, anche a Roma e a Firenze. Negli ultimi anni ha ottenuto fama internazionale come attore cinematografico e televisivo.

Jannuzzo

Gianfranco Jannuzzo ha esordito in prosa recitando accanto a R. Falk in Applause, a Turi Ferro in Tito Andronico di Shakespeare, con la regia di G. Lavia, a V. Moriconi in La venexiana con la regia di M. Scaparro. Proviene dal Laboratorio di esercitazioni sceniche di Gigi Proietti (gli sarà poi accanto in tv in Come mi piace ), e in quell’ambito nasce (1979-82) un suo `one man show’ in cui riesce a esibire uno straordinario virtuosismo, dando vita a una serie di personaggi che si esprimono in cento dialetti. Lo spettacolo, dal titolo Bagna e asciuga , viene presentato al festival del teatro comico del carnevale di Viareggio e quindi al Teatro dell’Orologio di Roma, là dove venne visto e apprezzato da P. Garinei, che ne favorì un allestimento più accurato di scena prima al Sistina di Roma e poi, sotto la sigla con le manine intrecciate ‘Garinei & Giovannini’, in tutta Italia. Titolo: C’è un uomo in mezzo al mare, dove si narrano le disavventure di un assessore alla cultura di un paesino di Calabria, incaricato da alcuni filosofi del ‘pensiero debole’ di organizzare un convegno internazionale sui nuovi linguaggi dell’uomo, da tenersi su una nave che farà la circumnavigazione della Sicilia. La nave affonda, l’unico superstite è l’assessore, finito su un’ignota isoletta, ed è lì che, solo e disperato, rievoca tutti i partecipanti al convegno. Occasione facile per mettere in mostra le qualità davvero notevoli di un interprete in grado di dar vita a molti e diversissimi personaggi, in un carosello di tipi e macchiette assolutamente irresistibile.

Dopo quell’exploit, Jannuzzo entra stabilmente nella `scuderia’ di Garinei & Giovannini e fa coppia – tre spettacoli e mille repliche in sei stagioni – con Gino Bramieri. Gli attori lo fanno sempre di Terzoli e Vaime: due attori, padre e figlio, provano uno spettacolo e una possibile convivenza, confrontandosi e scontrandosi in un ambiente, quello dello spettacolo, che può sembrare impervio e infido, ma sempre affascinante. E cosa fanno, sempre, gli attori? Si baciano, tutte le volte che si incontrano, anche sei volte al giorno. Segue Foto di gruppo con gatto di Fiastri-Vaime, con Marisa Merlini nel cast. Anche stavolta, incontri e scontri tra due generazioni e due temperamenti, tra l’anziano, introverso, malinconico, perdente nato Amerigo (Bramieri) e il giovane, dinamico, fantasioso Salvatore, che si installa in casa di Amerigo, stravolgendogli la vita. Poi, Se un bel giorno all’improvviso (stagione 1993-94) di Fiastri-Vaime, con un miliardo in cerca di padrone. Nella stagione 1997-98 J. ha ripreso e rivisitato il suo spettacolo d’esordio, C’è un uomo in mezzo al mare , bissandone il grande successo.

Riva

Mario Riva debuttò sulle scene nel luglio del ’43 al Teatro Nuovo di Milano come sostituto di un presentatore, ma già l’anno successivo entrò a far parte della compagnia Totò-Magnani nella rivista di Galdieri Che ti sei messo in testa? . Conosciuto l’attore comico Riccardo Billi, con cui costituirà per dieci anni un’affiatata coppia d’intrattenimento brillante, si cimentò nell’avanspettacolo, nel 1945 a Monza con Natale di fame, nel 1948 a Roma nella rivista I sette colli di Polacci e nel ’49 per lo stesso autore in Cento città, con D. Dei, Mara Landi e L. Poselli.Nel 1948 ci fu per Riva l’ultima piccola parentesi senza Billi in Col Naso lungo e le gambe corte di Garinei e Giovannini, prima di una serie di grandi successi della coppia nell’avanspettacolo che culminarono con l’affermazione prima radiofonica e poi teatrale della rivista La Bisarca , ancora di Garinei e Giovannini.

Nel 1951 il binomio Billi-Riva si era ormai imposto alla platea nazionale e consolidava la propria fama e il mestiere interpretando una lunga serie di film commerciali e riscuotendo consensi sui palcoscenici con Alta Tensione di Marchesi e Metz (musiche di Kramer), e l’anno successivo con I fanatici , degli stessi autori. Seguirono nel 1953 Caccia al tesoro di Garinei, Giovannini, Frattini e Calcagno; Siamo tutti dottori di Age, Scarpelli e Verde con musiche di Trovajoli (1954); La granduchessa e i camerieri di Garinei e Giovannini, con Wanda Osiris (1955). È questo l’anno in cui le strade di Riva e Billi si dividono alla biforcazione televisiva, e mentre Billi decide, dopo la loro prima breve esperienza sul piccolo schermo con “Un, due, tre”, di tornare ad essere attore solo per il teatro e il cinema, Riva abbraccia in pieno la carriera di presentatore e il 7 dicembre 1957 conduce la prima puntata del gioco a premi Il musichiere , trasmissione storica della televisone italiana, che lo rende immediatamente familiare e famigliare di milioni di telespettatori.

Quegli stessi spettatori che solo tre anni più tardi lo piansero quando morì in seguito ad una banale caduta nella buca di un palcoscenico. Riva fu artista popolare nelle due accezioni positive del termine: era schietto, semplice e simpatico tanto da accattivarsi con facilità il favore dell’italiano medio degli anni ’50, e tanto ironico, cordiale e divertente da diventare in poco tempo il beniamino di un’intera nazione che cominciava a sentirsi accomunata nello svago di quei programmi che alleggeriranno anni detti di boom , ma fatti ancora di tangibile povertà.

Laughton

Nel 1926 Charles Laughton debutta in L’ispettore generale di Gogol’, a cui seguono i ruoli di H. Poirot in Alibi, Harry nella tragicommedia La tazza d’argento di O’Casey e il primo successo personale in Mr Prohack. Nel 1931 debutta a New York in Pagamento rinviato (Payment Deferred). Dal 1933 al ’34 lavora all’interno dell’Old Vic, ricoprendo ruoli di primo piano in sette produzioni, tra cui Il giardino dei ciliegi , Misura per misura, La tempesta e Macbeth. Nel 1936 appare alla Comédie-Française come primo attore inglese. Da questo momento in poi lascia il teatro inglese per intraprendere la carriera cinematografica a Hollywood. Tornerà comunque al teatro, anche se solo sporadicamente: prende parte al Galileo di Brecht nel 1947; porta in tournée nel ’50, con grande successo, Uomo e superuomo di Shaw e l’anno seguente, nelle vesti di attore e regista, si dedica a un altro testo di Shaw, Don Giovanni all’inferno . Nel 1959, per festeggiare il centenario della stagione di Stratford-upon-Avon, torna in Inghilterra nel ruolo di re Lear e in quello di Bottom in Sogno di una notte di mezza estate con la regia di Peter Hall.

Tortora

Prima di diventare un funzionario della Rai (1952), un popolarissimo conduttore e una sfortunata vittima dell’ingiustizia, Vincenzo Tortora aveva preso parte agli spettacoli della rivista goliardica Baistrocchi della sua città. Fin da ragazzo era garbato, ma di spirito, e nella scanzonata compagnia (dove avevano mosso i primi passi ragazzotti di belle speranze e di grande futuro coome Paolo Villaggio) si esibiva anche `en travestì’.

Garinei

L’esordio di Enzo Garinei avviene in rivistine di carnevale per studenti al Teatro Valle di Roma, come primattore in uno spettacolo scritto dal fratello Pietro (del famoso fratello autore-regista avrebbe fatto poi l’imitazione in una scena del Delia Scala show , rivista montata nel 1960 da Garinei&Giovannini per rimediare al rinvio di Rinaldo in campo per infortunio di Domenico Modugno). Dalla Bisarca con Billi e Riva, nel 1950, al Lenzuolo per sognare a fianco di Sylva Koscina (1977), passando attraverso Grand baldoria, Gran Baraonda, Tobia la candida spia (con Rascel), La padrona di raggio di luna (con Andreina Pagnani), La manfrina, Lo sai che non ti sento quando scorre l’acqua, Alleluja brava gente con Johnny Dorelli, qui nel sapido ritratto di Folchetto, tombarolo monco (“M’hanno tagliato un branchio, pe’ punizione, perocché dice che arrobbavo”). Poi Cielo mio marito di Costanzo e Marchesi, con Ombretta Colli, Bramieri e Marisa Merlini, Assurdamente vostri , commedia di Ayckbourne con Sandra Mondaini. In Accendiamo la lampada di Pietro Garinei e Iaia Fiastri era Ussein Ullà, accanto a Dorelli e G. Guida, in una favola da mille e una notte. Attore elegante e preciso, dalla comicità sottile e garbata, è stato diretto da registi quali Visconti e Ronconi (in I lunatici ), F. Enriquez e S. Bolchi. Nel 1961, il trio di successo (E.G., Sandra Mondaini e Carletto Sposito) reduce dal Delia Scala show in teatro, presenta Canzonissima in tv. Ha partecipato a numerosi film, spesso accanto a Totò. Gli è stata attribuita nel 1961 la Maschera d’argento per il teatro di rivista.

Castellitto

Diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica ‘S. D’Amico’ nel 1978, Sergio Castellitto ha debuttato in teatro nello stesso anno con Misura per misura di Shakespeare; è stato diretto da A. Calenda (Aspettando Godot, La madre ), M. Perlini (Il mercante di Venezia), A. Trionfo (Il candelaio), O. Krejca (Tre sorelle, La signorina Giulia), W. Pagliaro (Infelicità senza desideri ), F. Però (Piccoli equivoci ), E. Coltorti ( A piedi nudi nel parco ). Dal 1982 ha intrapreso la carriera cinematografica, interpretando più film all’anno con registi come Vanzina, Archibugi, Tornatore. Nella stagione 1997-98 ha diretto la moglie M. Mazzantini (autrice del testo) in Manola.

Bartoli

Marcello Bartoli inizia l’attività professionista nel 1967, lavorando con il Teatro Metastasio, con il Teatro di Roma e con il Piccolo Teatro di Milano, per il quale, con Ferruccio Soleri, partecipa a vari spettacoli sulla Commedia dell’Arte interpretando le maschere di Pantalone, Brighella e Zanni. È uno dei fondatori, nel 1970, del Gruppo della Rocca, con il quale lavora per tredici anni, prendendo parte, con la regia di Roberto Guicciardini, a Candido di Voltaire, Le farse di Brecht, Clizia di Machiavelli e Perelà di Palazzeschi; e con la regia di E. Marcucci, a Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, 23 svenimenti di Cechov, Rinoceronte di Ionesco e a Il mandato e Il suicida di Erdman. Dopo l’esperienza con il Gruppo della Rocca lavora all’Ater dove è protagonista nel Vampiro di San Pietroburgo di S. Kobilin (1983), sempre per la regia di E. Marcucci. Interpreta in vari spettacoli il ruolo di Ruzante con G. De Bosio e firma anche diverse regie teatrali, tra cui L’azzurro non si misura con la mente (1980) tratto dai drammi lirici di Blok, in cui la cifra simbolica presente in Blok viene attenuata da un allestimento evocativo e fortemente poetico, e Mosche volanti di Siro Ferrone (1993), di cui è anche unico interprete. Insegna poi recitazione e uso delle maschere moderne della Commedia dell’Arte in varie scuole e fonda nel 1995, con E. Marcucci e D. Cantarelli, la compagnia I Fratellini, con cui mette in scena, l’anno successivo, Le sedie di Ionesco.

Scotti

Tino Scotti recitava in milanese. Si sottolinea che recitava in milanese per indicare la differenza che correva tra lui e gli altri attori che, pur nati a Milano, non sono stati mai, o solamente in saltuarie occasioni, attori dialettali, in quanto, morto Ferravilla, che era stato maestro della Galli, il teatro dialettale milanese era andato inevitabilmente declinando nella piatta imitazione dei tipi ferravilliani o tra le musichette del vaudeville rivistaiolo. L’attore fu scoperto dal talent-scout del cinema italiano Mario Mattoli che, nel 1940, lo volle accanto a Macario nel quarto film girato con il comico piemontese Non me lo dire. Era diventato attore poco alla volta. Prima le trovate del caricaturista, le battute ispirate da giornali umoristici come il “Marc’Aurelio”, poi la maniera di porgerle, studiata per necessità. Aveva onorato tutto l’itinerario del teatro minore di rivista prima della guerra, ai tempi delle compagnie di Rip e Bel Ami, del padre di Marisa Maresca, di Gondrano Tucci, Dedé Di Landa e della compagnia di Erszl Paal.

Prima di avere l’agognata scrittura cinematografica e la gloria, aveva calcato un’infinità di palcoscenici, ma il vero successo l’aveva raggiunto solo nel 1950 con il primo film tutto per sé È arrivato il Cavaliere di Metz, Marchesi, Steno e Monicelli, tratto dalla rivista Ghe pensi mi! E proprio questo personaggio, il Cavaliere, con l’altro, quello del Bauscia, fu la caratterizzazione più riuscita di un attore che non affinò mai a fondo le proprie doti naturali alternandosi tra le due facce perennemente agitate della stessa maschera: da una parte il lestofante, il truffaldino, lo spaccone vigliacco e millantatore, dall’altra l’industriale ciarliero, due poco di buono squassati da una recitazione epilettica.

Il grande successo, legato soprattutto alle interpretazioni cinematografiche, durò poco, meno di un decennio, ma nel contempo l’attività di Scotti si arricchì di alcune valide esperienze nel teatro di prosa affermandosi, a partire dal 1960, con esperienze shakespeariane: Pene d’amor perdute per la regia di Enriquez, Sogno di una notte di mezza estate (1963); quindi Le baruffe chiozzotte di Goldoni (1964) con Strehler e Donna amata dolcissima (1969) di Arpino, allo Stabile di Torino. Da ricordare poi nel 1970 una parte nel film di Bertolucci La strategia del ragno e, sul finire della carriera, nel 1977 il varietà televisivo “Bambole non c’è una lira”. S. fu attore dalla loquela frenetica, dal baffetto inquieto e dall’energia irrefrenabile degli occhi perennemente in movimento, e quindi, in sintesi, fu, secondo i suoi amati giochi verbali, come il titolo di una sua famosa rivista del 1953, Agitatissimo , e, ancora, come recitava in un proverbiale carosello andato in onda dal 1958 al ’74, soprattutto in questo caso, «Basta la parola».

Mastelloni

Il debutto di Leopoldo Mastelloni è stato televisivo, nel 1977, nel varietà Bambole non c’è una lira , in cui interpretava la parte di un cantante di avanspettacolo. L’attività televisiva si interruppe bruscamente nel 1984, con Blitz , a causa di una `bestemmia’ sfuggitagli in diretta. In teatro, M. si è costruito un ruolo di bizzarro e estroso fantasista `en travesti’, interprete caustico e satirico di personaggi maschili e femminili, in preda a nevrosi e ossessioni, alternando a brani musicali monologhi di cui è anche l’autore. Si ricordano, tra gli altri: Ottavia ovvero indifferentemente (1985), con la regia di D. Mele e la partecipazione di Angela Pagano; Macabé (1987), insieme a Ursula von Baechler; Senza impegno (1988) con Franco Acampora; Cuore ingrato (1989); Passerotto (1996); Sorelle, madri, spose… (1997). Infine non si possono dimenticare i ruoli drammatici nella trilogia pirandelliana del `teatro nel teatro’ diretta da G. Patroni Griffi (Sampognetta e Hinkfuss).

Frassica

Nino Frassica raggiunge la popolarità con Renzo Arbore e la fortunata trasmissione televisiva Quelli della notte (1985) e poi con Indietro tutta (1986-87). Inventore di un linguaggio strampalato che sovverte ogni minima regola grammaticale e deforma le parole creando un linguaggio parallelo pubblica Sani Gesualdi , Terzesimo Libro Sani Gesualdi , Il manovale del bravo presentatore , e Come diventare maghi in 15 minuti . Sporadiche le apparizioni in teatro ( L’aria del continente 1987 diretto da Calenda e Le 23.20 per la regia di Quartucci a Taormina Arte), mentre sul fronte cinematografico si ricorda un adattamento di L’aria del continente (1993).