Carraro

Unanimemente considerato l’attore nel quale maggiormente si rispecchiano l’idea e il modo di recitare del Piccolo Teatro, Tino Carraro, figlio di un tipografo, fin da ragazzo recita nelle compagnie amatoriali, facendo molti lavori, fra i quali il venditore di pezzi di ricambio per auto. Intanto si diploma all’Accademia dei Filodrammatici: entra nelle maggiori compagnie di giro dell’epoca, accanto ad attori come Evi Maltagliati e Luigi Cimara (con loro interpreta il personaggio di Vronskij in un’ Anna Karenina, 1941, andata famosa), Laura Adani e Ernesto Calindri. Il dopoguerra lo vede ancora recitare in spettacoli di compagnie primarie con il nome in ditta e, per qualche anno, partecipare anche all’esperienza del Piccolo Teatro di Roma (dal 1951 al ’52) diretto da Orazio Costa, dove interpreta fra l’altro Le colonne della società di Ibsen e Così è (se vi pare) di Pirandello. Dal 1952 al ’62 è primo attore al Piccolo Teatro di Milano, con Giorgio Strehler (che lo ha già diretto nel 1946 nella compagnia Maltagliati-Randone-Carraro e nel 1948 in Romeo e Giulietta a Verona, nella regia a quattro mani con Renato Simoni). Al Piccolo Carraro, che prende il posto lasciato libero da Gianni Santuccio, interpreta in questo decennio spettacoli memorabili, nei quali può realizzare pienamente un modo di essere attore poco divistico, molto legato agli spettacoli d’ensemble (perfetto per il teatro di regia, al quale lo avvicinano le sue grandissime qualità interpretative), ma anche un’idea dell’essere attore come artigianato, disciplina estrema, scavo interiore mai soddisfatto di sé.

In questi anni Carraro interpreta ruoli classici e contemporanei, dall’ Ingranaggio di Sartre (1952) al ruolo di Bruto in un Giulio Cesare di Shakespeare in chiave psicologica (1953), alla Trilogia della villeggiatura di Goldoni (1954); dal primo Giardino dei ciliegi diretto da Strehler, dove accanto a Sarah Ferrati è un magnifico Lopachin, a uno strepitoso Togasso, dalla camminata sghemba a piccoli passi, nel mitico Nost Milan di Bertolazzi (1955), a Coriolano di Shakespeare, in cui interpreta il ruolo del protagonista visto come una sanguinaria macchina di guerra (1957). Sempre diretto da Strehler interpreta quello che sarà, eccezion fatta per alcuni recital, il suo unico Brecht: un insuperabile Mackie Messer in una memorabile Opera da tre soldi (1956) con Milly e Mario Carotenuto; sempre accanto a Sarah Ferrati è un Platonov (1959) malato di male di vivere. Il sodalizio con Strehler si rompe dopo la prova estrema di L’egoista di Bertolazzi (1960), uno dei suoi ruoli più grandi, quando il regista gli preferisce per Vita di Galileo di Brecht (1963) Tino Buazzelli (cedendo come Brecht che, per la prima edizione di questo testo, era stato preso dal fascino dell’attore grasso e lo aveva fatto recitare a Charles Laughton).

Allontanatosi dal Piccolo, Carraro entra alla corte di Luchino Visconti; il ritorno al teatro milanese avviene proprio nel momento in cui Strehler se ne è allontanato, quando, diretto dal giovanissimo Patrice Chéreau, interpreta accanto a Valentina Cortese una memorabile Lulu di Wedekind (1972). Ma è al ritorno di Strehler al Piccolo come direttore unico che restano legate le sue interpretazioni maggiori, da Re Lear (1972) al Prospero nella Tempesta di Shakespeare (1978), dal Peppon, il padre della Nina, nel secondo Nost Milan messo in scena da Strehler (1979) al capolavoro assoluto del Signore vestito di bianco, protagonista del Temporale di Strindberg (1980). Il suo addio al pubblico avviene con I giganti della montagna di Pirandello («qui si interrompono I giganti della montagna , qui finisce il teatro delle maschere nude») nel 1994: per qualche recita, perché la sua salute ormai precaria non gli permette di seguire tutto lo spettacolo, ha il compito di dire l’ultima parte dei Giganti , così come Pirandello la raccontò a suo figlio Stefano sul letto di morte.

Ronconi

Nato in Tunisia, dove la madre a quel tempo si trovava a insegnare, Luca Ronconi deve forse anche a questo spiazzamento d’origine la capacità di distanziazione critica che l’ha distinto dai suoi colleghi, specie dai registi della prima generazione, lui che come capofila della seconda, era più portato a mettersi continuamente in questione, a sfuggire alle etichette, a inventarsi sulla propria pelle una poetica personale, perseguendo un modo di comunicare dettato da diverse modalità espressive e spaziali. È anche rilevante il fatto che approdi alla regia nel 1963, con un Goldoni sfortunato e controcorrente per gli eccessi naturalistici (La buona moglie, frutto di un dittico con La putta onorata – che in un rifacimento televisivo chiamerà Bettina), da una carriera d’attor giovane applaudito ma poco convinto, in cui affronta tra l’altro, con regie di Squarzina, Costa, De Lullo e anche Antonioni, due edizioni di Tre quarti di luna accanto rispettivamente a Gassman e a Carraro, Romagnola dello stesso Squarzina, il doveroso Candida, e due successi d’epoca quali Tè e simpatia con la Villi e Il diario di Anna Frank con la Guarnieri. Ma la messinscena che lo fa conoscere sarà, tre anni più tardi, quella dei Lunatici di Middleton e Rowley, dove trasferisce nel manicomio assieme al protagonista savi e pazzi con effetti di recitazione esasperata che subito lo fanno apparentare al Teatro della Crudeltà artaudiano, rilanciato in quegli anni da Brook.

Nello stesso senso s’indirizzano i due successivi Shakespeare: un Misura per misura estivo e un importante Riccardo III con Vittorio Gassman imprigionato in una protesi, dentro una scena di sculture lignee preesistenti di Mario Ceroli, che con ardue scale delineano il meccanismo del potere e mettono a dura prova gli attori, impediti nei movimenti come sul pendio ripidissimo della Fedra senechiana. Il principio di lettura è strutturalista e fa scattare le contraddizioni anziché risolverle, come accadrà per altri elisabettiani del periodo, da La tragedia del vendicatore di Tourneur con tutti i 24 personaggi interpretati da sole donne alla Partita a scacchi di Middleton con i ragazzi dell’Accademia in funzione di pedine. Ma alla base di questi testi a interessare Ronconi c’è lo stesso delirio barocco che si ritrova nel Candelaio di Giordano Bruno, dove, in pieno Sessantotto, le parti dei marioli contestatori sono affidati ad attori presi dalla vita da contrapporre ai professionisti, e nelle ardite stranezze della Centaura seicentesca di G. B. Andreini, montata ancora con gli allievi in uno studio di Cinecittà.

Sempre determinante per l’interpretazione è il contenitore, esaltato in un altro lavoro il cui tema è ancora la follia, e che per la prima volta sottolinea la spinta del regista a misurarsi con l’irrappresentabile. L’Orlando furioso, ridotto e volto in prima persona da Edoardo Sanguineti nel ’69, con un occhio alla festa rinascimentale piuttosto che al teatro dei pupi, è giocato da una quarantina d’attori (protagonista Massimo Foschi) in un grande quadrilatero dove le loro azioni simultanee si svolgono tra il pubblico itinerante secondo un principio di coinvolgimento teorizzato da Schechner: gli spettatori, a diretto contatto con i personaggi, spingono i palcoscenici mobili e i carrelli su cui sono disposti gli elementi figurativi di Uberto Bertacca semplici come giocattoli, ma che spiazzandoli con i loro improvvisi movimenti li mettono in uno stato d’insicurezza e ne eccitano la partecipazione. Non essendo possibile vedere in una sola volta l’intero spettacolo, ciascuno si sceglie un proprio percorso come se sfogliasse le pagine d’un libro e si costruisce un’immagine personale della rappresentazione. Il successo è enorme, a dispetto della diffidenza italiana di critica e autorità, e dilaga in tutto il mondo, tanto che piovono dall’estero nuove proposte.

All’Odéon di Parigi, il regista monta una casa a due piani dove XX , testo commissionato a Rodolfo Wilcock su un colpo di stato fascista, viene recitato da 10 attori italiani e 10 francesi nella rispettiva lingua, dentro 20 camerette per 20 persone ciascuna, che col progressivo crollo delle pareti divisorie formeranno uno spazio unico. Sul lago di Zurigo viene montata su galleggianti anche per il pubblico la romantica Kaetchen von Heilbronn di Kleist, come una sagra del meraviglioso affidata da Arnaldo Pomodoro a materiali elementari; ma lo spettacolo sarà vietato dalla polizia cantonale alla vigilia della prima per motivi di sicurezza. Va in scena invece nello stesso 1972, al Festival di Belgrado e poi alla Biennale, l’Orestea di Eschilo, otto ore di durata, per cui Enrico Job costruisce un vero teatro con tre gradinate attorno alla scena su due piani in legno e ferro, comprensiva di due ascensori e di un piano bilanciabile, con una grande porta che s’apre su un altro spazio. Ma il grande spettacolo, che ha le sue premesse nella perdita della tradizione che il coro cerca di ricreare balbettando, offre un approccio antropologico alla tragedia che procede da una zona cosmica a un interno borghese, a una città quasi futuribile, dove si compie un compromesso pseudodemocratico, dopo che dalla teocrazia era nato un matriarcato tirannico.

Al termine di un importante giro straniero questo spettacolo verrà però considerato inagibile per l’Italia nella sua integralità e Ronconi, eletto ormai regista delle macchine e dell’impossibile, per reazione si autoesilierà dalla nostra prosa, optando per la lirica (tra l’altro La Walkiria e Sigfrido alla Scala), l’insegnamento, la televisione con una nuova versione di Orlando, o il Burgtheater di Vienna, dove in quattro anni, realizzerà sul palcoscenico Le baccanti di Euripide, Gli uccelli di Aristofane, e una più sintetica Orestea. Il confronto col teatro necessario delle origini corrisponde a un’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro ricominciando dall’inizio, comune nello stesso periodo a una serie di registi della stessa generazione, da Stein a Grüber a Serban al più anziano Brook, e quando Ronconi viene chiamato a un compito istituzionale come direttore del settore prosa della Biennale veneziana torna ai Greci: nel ’75 riunisce un collage di 7 commedie di Aristofane in versione contemporanea, in un nuovo kolossal di molte ore, che avrà un seguito nell’allestimento del Pluto a Epidauro.

Utopia è montato come un fumettone su una piccola borghesia anni ’50, un romanzo-fiume che scorre all’infinito lungo una strada con le gradinate degli spettatori per marciapiedi: un gorgo di camion, aerei, macchine arredate da Luciano Damiani come case, stanze da letto kitsch, pezzi di vita in cui lo spettatore che spia dalla sua immaginaria finestra è invitato a riconoscersi. È la premessa del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, occasione per formare un gruppo a lungo termine e sperimentare un metodo recitativo che già ha conosciuto i suoi prodromi nelle ricerche sulla dizione dell’Orestea. Il piano ha per oggetto la comunicazione e si avvale del contributo di personalità di diversi rami tra cui spicca Gae Aulenti alla guida del `gruppo spazio’ e, anche se non approderà al compimento triennale, rimarrà uno dei risultati più notevoli di questi decenni per le sue finalità analitiche. Da una parte lo smontaggio del concetto di personaggio realizzato mirabilmente da Marisa Fabbri in una esecuzione a una sola voce per 24 spettatori della prima parte delle Baccanti in un andirivieni per diverse stanze. Dall’altra lo smontaggio di un testo, La vita è sogno di Calderón, solo studiato nel suo impianto metaforico, ma visitato sviscerandone due rifacimenti d’altra epoca: Calderón di Pasolini viene creato nella sua natura di manifesto ideologico tra la scena e la platea del Teatro Metastasio che si specchiano l’una nell’altra per gli spettatori nei palchi; La torre di Hofmannsthal viene demistificata nell’ambiguità della sua interpretazione cristologica da una lettura naturalistica nell’ex-hangar del Fabbricone trasformato con un falso ostentato nella sala della reggia tedesca di Würzburg.

A questo punto si può dire che Ronconi abbia definito i canoni della sua opera creativa: lettura dei testi secondo le loro vere motivazioni, scelta spaziale ad hoc tesa a ristabilire il rapporto originario tra l’autore e il suo pubblico, recitazione volta a demistificare i possibili piani di lettura. Il suo lavoro futuro spesso riuscirà a realizzare queste premesse, anche nella lirica dove contiene al massimo gl’interventi recitativi, ma gioca sui rovesciamenti prospettici sempre badando al rapporto con la tradizione: coglie quindi risultati particolari quando la mancanza di precedenti o l’uscita dall’ambiente canonico gli permette una libertà interpretativa. Da citare in questo senso i rossiniani Il viaggio a Reims e Il barbiere di Siviglia dell’Odéon, l’Orfeo di Luigi Rossi alla Scala e quello di Monteverdi al Goldoni di Firenze, l’autobiografismo dei Capricci di Strauss con Raina Kabaivanska, protagonista anche di un vertiginoso Caso Makropulos di Janacek contemporaneo all’originale in prosa di Capek con Mariangela Melato. Durante il Laboratorio, Ronconi aveva cominciato lo studio su Ibsen con L’anitra selvatica, giocata per il Teatro di Genova sulla moltiplicazione delle immagini sceniche, mentre John Gabriel Borkman dilata il suo naturalismo nell’edizione televisiva e Spettri isola i tormenti dei personaggi in un cinematografico alternarsi di campi e controcampi sotto una serra liberty che incamera su un lato dell’enorme pedana anche gli spettatori. Vi si sente un sadomasochismo alla Strindberg, autore avvicinato solo per un saggio dell’ Accademia in un Sogno avvincente, ma che influirà anche sul ritorno del regista a Goldoni con una crudissima Serva amorosa tutta livori tra i mobili affastellati, protagonista Annamaria Guarnieri, come nella Fedra di Racine formato Ottocento.

Correlativamente avanza il filone austriaco che, dopo La torre, presenta Schnitzler: ed ecco Al pappagallo verde svolto come un esercizio teatrale dove a ogni posa corrisponde un cambio di luce e La commedia della seduzione galleggiare trepida sull’acqua. Ma al centro di questo travaglio, interrotto dall’esplosione emozionante del teatro nel teatro del prediletto Andreini nelle Due commedie in commedia per la Biennale, l’avvenimento degli anni ’80 è, ancora al Fabbricone, Ignorabimus di Arno Holz: un manifesto sconosciuto del `naturalismo conseguente’ scritto all’inizio del secolo per resuscitare l’antica tragedia in una cronaca di famiglia che rasenta il dibattito scientifico e non ignora effetti parapsicologici, rappresentato in tempi reali (12 ore), in una scena in cemento di Margherita Palli, da cinque attrici-mostri (Fabbri, Nuti, Aldini, Gherardi, Boccardo) di cui solo l’ultima interpreta un personaggio femminile per smitizzare con l’aspetto la caricata verità dei loro comportamenti.

Il ritorno a Shakespeare per Il mercante di Venezia alla Comédie-Française e la collaborazione con tre teatri stabili per l’affollata messinscena dei Dialoghi delle Carmelitane (in occasione del bicentenario della rivoluzione francese!), il primo Cechov (Le tre sorelle in flashback) e l’unico Alfieri (Mirra con la debuttante Galatea Ranzi), precedono la chiamata del regista a dirigere il Teatro Stabile di Torino, dove la sua attenzione si sposta con più insistenza sul repertorio del secolo: di nuovo Hofmannsthal con una bellissima edizione di Un uomo difficile con Umberto Orsini; di nuovo Pasolini, ma con un trittico che prevede accanto a un’impegnativa Affabulazione le riuscite di Pilade e Calderón grazie alla freschezza della nuova scuola del Teatro; e l’atteso incontro con O’Neill con le sei ore di Strano interludio , un risultato assai più impressionante del Lutto si addice ad Elettra che seguirà poi a Roma, in una ironica atmosfera da film anni ’50.

Ma entrano in campo anche novità autentiche: Botho Strauss con Besucher, la sperimentazione di Simone Veil su Venezia salva , addirittura un testo italiano un po’ hard uscito dal Premio Riccione, L’aquila bambina di Antonio Syxty, come contrappeso al remake di Misura per misura (1992) tradotto da Garboli e puntato sulla ricerca d’identità con la scena che però continua i palchi del Carignano, come se il pubblico dovesse ritrovarsi nella teatralizzazione di quella Vienna corrotta. Un’altra Vienna parimenti emblematica era già apparsa l’anno prima nell’ennesimo spettacolo impossibile e in assoluto forse il più grandioso di Ronconi, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, già da vent’anni da lui messo allo studio sia in Italia che in Francia e finalmente allestito nell’ambiente ideale del Lingotto alla vigilia della chiusura, in una vera sala presse con macchine d’epoca, ma anche vagoni ferroviari e personaggi in volo sul filo: una ripetizione dei fasti dell’ Orlando per le masse mobilitate, la scelta itinerante, la simultaneità di almeno sei azioni e anche l’ironia dell’autore alle prese stavolta con la manipolazione dell’opinione pubblica di fronte a una catastrofe come la prima guerra mondiale.

Ma a riscontro di quella precedente esperienza tutto figura più perfettamente tecnicizzzato e perfino lo spettatore potrebbe sentirsi soggetto alla manipolazione generale, quasi il percorso da scegliere gli venisse subliminalmente suggerito. Al Teatro di Roma, dove arriva sulla scia di un allestimento di Aminta, Ronconi sembra lasciarsi prendere, come già del resto nell’ Affare Makropulos , dal piacere di raccontare spesso sacrificato a preoccupazioni concettuali. È già evidente nel Re Lear, dove la trama con le sue insensatezze prende il sopravvento alla Kurosawa sulle problematiche. E lo conferma la felicità del suo ultimo Ibsen, Verso Peer Gynt , che coi suoi tagli era nato come un primo approccio al capolavoro e che, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Massimo Popolizio nelle due età della balorda spensieratezza e della resa dei conti, s’è imposto come risultato a se stante di superba immediatezza espressiva.

Lo si rivede nei suoi due primi Pirandello, firmati entrambi all’estero: I giganti della montagna a Salisburgo in tedesco, letti come un travestimento del rapporto tra l’autore e Marta Abba; Questa sera si recita a soggetto , a Lisbona per l’Expo ma in italiano, con il sacrificio dei pirandellismi alla vicenda. E mentre si moltiplicano i minispettacoli tratti da racconti o novelle a cura specialmente di Enzo Siciliano, e viene commissionato e rappresentato un testo di Alessandro Baricco, il romanzo vero e proprio fa capolino nei programmi del maestro: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, tale e quale, com’è scritto, con tagli ma senza adattamento del racconto che resta in terza persona, detto dal personaggio che viene descritto con qualche gesto d’appoggio… Insieme al plurilinguismo così costruito di Gadda che in piedi trova un’insperata verifica della propria funzionale verosimiglianza, nel giallo ocra della scena semplice e allungata verso la platea di Margherita Palli è la Rometta fascista a rivivere in questo evento degli anni ’90. E I fratelli Karamazov – fermi per ora alla seconda puntata, escludendo il processo, sono un bis più dialogato data la natura del testo, con qualche ombra data dall’enormità dell’assunto, ma in grado di condurre il lungo tragitto ronconiano tra le imprese impossibili al traguardo, dall’ostilità un po’ sospettosa che ne ha bollato per anni l’imprevedibilità, a riconoscere in lui un grande narratore del nostro tempo.

regista

Il regista è colui che coordina e armonizza le varie componenti del discorso scenico in un unico evento artistico. In un senso generico è presente con diverse denominazioni in tutta la storia del teatro, anche se fino all’ultimo scorcio del XIX secolo non esisteva come figura autonoma; questo compito veniva infatti affidato, a seconda dei casi, a drammaturghi, direttori di compagnia, attori di particolare autorevolezza, perfino a impresari. A fare del regista il protagonista indiscusso della scena novecentesca coincisero inizialmente diversi fattori, primo fra tutti l’impiego dell’energia elettrica che estese lo spazio teatrale da un’area limitata nelle vicinanze del proscenio all’intero palcoscenico; poi il trionfo del realismo, e la sempre maggiore riluttanza, da parte del pubblico più preparato, ad accettare scenografie e costumi indifferentemente applicabili a più opere.

Non per caso la storia della regia inizia con la compagnia dei Meininger (il cui eponimo era curiosamente l’impresario, Giorgio II duca di Meiningen, e non Ludwig Chroneck che di fatto allestiva gli spettacoli), che nell’Europa di fine secolo si fece ammirare per la precisione storica degli allestimenti e per l’attenzione al lavoro d’assieme, e con il Théâtre-Libre (1887) di Antoine che tradusse in termini teatrali la lezione del naturalismo zoliano, facendo perfino recitare gli attori con le spalle rivolte al pubblico. Fino a questo punto, però, la regia era soltanto un’esigenza ancora imperfettamente definita. A precisarne le funzioni, indicando due strade contrapposte, furono Stanislavskj con la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca (1898) e Gordon Craig con la pubblicazione di L’arte del teatro (1905). Il primo, attore e artigiano sapiente, poneva il regista al servizio del testo drammatico e gli affidava il compito di metterne in luce i contenuti più profondi attraverso un lungo lavoro di scavo affidato in misura determinante a interpreti capaci di esprimere anche le loro pulsioni più segrete per poter di rivelare i personaggi in tutta la loro complessità. L’altro, che di teatro ne fece pochissimo, si contrapponeva al realismo dominante e teorizzava un teatro simbolico, totalmente autonomo dal testo e affidato a valori di visibilità e di sonorità (e contemporaneamente Appia preconizzava una scenografia non rappresentativa).

Nella direzione aperta da Stanislavskij lavorarono fra gli altri, ciascuno a suo modo, Copeau in Francia (con tutta la sua posterità dai registi del Cartel a Vilar), Granville Barker in Inghilterra, Reinhardt in Germania (ma sperimentando costantemente nuove strade e dando importanza determinante agli aspetti più spettacolari delle messinscene) e Vachtangov in Russia; della lezione di Craig fece tesoro Mejerchol’d, considerato da molti il massimo regista del secolo, che, recuperando le tradizioni della Commedia dell’Arte e del circo, programmava minuziosamente ogni suo spettacolo, teatralizzandolo al massimo (cioè sottolineandone la natura illusoria) con i ritmi, i movimenti, le deformazioni grottesche e l’eloquente fisicità degli interpreti. E all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre fu tra i primi a proporre un teatro dichiaratamente politico (al quale si sarebbe rifatto Piscator nella Germania di Weimar), anche se gli eventi più tipici della Russia di quegli anni furono le grandi celebrazioni di massa degli avvenimenti recenti, allestite fondendo teatro e festa come aveva preconizzato nel 1902 Rolland nel suo Il teatro e il popolo e prima di lui Rousseau.

Poi, fino a tutti gli anni Cinquanta, prevalse la lezione di Stanislavskij, filtrata attraverso le esperienze di quanti da essa erano partiti, che prevedeva la subordinazione, più o meno totale, della messinscena al testo. Fu allora che la regia arrivò anche in Italia, negli anni Trenta come vocabolo (ma i modelli ai quali si guardava erano tutti stranieri), nel decennio successivo, grazie soprattutto a personalità quali Strehler e Visconti, come strumento necessario per trascinare la recalcitrante scena italiana nel XX secolo. Altrove le personalità registiche dominanti del periodo furono Vilar in Francia, Kazan negli Stati Uniti e soprattutto Brecht, finalmente in grado di tradurre in atto le idee elaborate e maturate durante l’esilio: insieme con i suoi drammi, il suo concetto di teatro epico, con l’effetto di straniamento, il rifiuto dell’immedesimazione, l’oggettivizzazione dell’azione scenica, esercitarono a lungo una notevole influenza.

Contemporaneamente si diffondevano gli scritti teorici di Artaud che, raccolti in volume nel 1938, spingevano alle estreme conseguenze le idee di Craig e peroravano un teatro che non fosse soltanto una forma d’arte autonoma, ma arrivasse a coinvolgere attori e spettatori nella totalità del loro essere, facendo appello più ai loro sensi che alla loro razionalità. Fu grazie anche al fascino esercitato da questa predicazione utopica che negli anni Sessanta e Settanta venne quasi improvvisamente alla luce, in Europa e negli Stati Uniti, un teatro radicalmente differente da quello che lo aveva preceduto. Ne favorì la nascita una molteplicità di fattori estranei alla scena, quali le rivolte delle minoranze etniche in America, l’irrequietezza degli studenti un po’ dappertutto, l’insoddisfazione per il consumismo trionfante nei paesi capitalistici e quella per il socialismo reale in quelli dell’Europa orientale.

Si moltiplicarono gli esperimenti e si sottoposero a un riesame approfondito tutte le componenti del linguaggio scenico. Corpo e suono, staccato dalla parola come strumento della comunicazione teatrale, riacquistarono la loro preminenza; il dramma divenne in molti casi frutto di una creazione collettiva attraverso esercizi di improvvisazione finalizzati a esiti non predeterminati; la scenografia nell’accezione tradizionale scomparve o si ridusse a pochi elementi non rappresentativi in sé; il pubblico venne isolato oltre barriere non valicabili o chiamato a partecipare all’evento scenico rendendosene attivamente complice; i rapporti con le arti figurative si fecero più stretti; l’aspirazione ad agire sulla società si spinse fino all’intervento diretto nei suoi problemi. I protagonisti di questa sorta di rivoluzione furono individualità come Grotowski (forse il più stimolante), Barba, Kantor, Wilson, Bene, o collettivi come il Living Theatre, l’Open Theatre, il Théâtre du Soleil, El Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre, per citare soltanto alcuni nomi.

Ma innumerevoli furono i gruppi che in ogni parte del mondo affrontarono il teatro cercando in esso un modo di esprimere le proprie ossessioni o le proprie ribellioni e un mezzo di comunicazione le cui regole chiedevano di essere continuamente reinventate. E anche coloro che continuarono ad allestire testi preesistenti furono sensibili a certi aspetti del teatro alternativo, assorbiti e rielaborati secondo esigenze differenti: Brook e Ronconi, Stein e Dodin, Grüber e Vassil’ev, e anche artisti al confine fra teatro e danza come la Monk e la Bausch, furono fra i protagonisti del teatro di fine secolo, annunciando e indicando, a cento anni dalla nascita della regia, su quali strade essa potrebbe indirizzarsi in un futuro la cui fisionomia è ovviamente imprevedibile.

Grassi

Figura di spicco nella Milano degli anni ’40, il giovanissimo Paolo Grassi organizza la Ninchi-Tumiati, fonda ‘Palcoscenico’, primo gruppo di teatro sperimentale italiano attivo alla Sala Sammartini di Palazzo Serbelloni: con lui ci sono Franco Parenti, Liana Casartelli, Giuliana Pogliani, Mario Feliciani, Speranza Pistoia, Giuseppe Migneco e Luigi Veronesi e si rappresentano testi di Pirandello, Roberto Rebora, Ernesto Treccani, Beniamino Joppolo, Tullio Pinelli, Cesare Meano, Leopardi (frequentatissimo in quegli anni il suo Federico Ruysch e le sue mummie ) e Yeats, O’ Neill, Synge, Evreinov, Cechov; nell’ultimo spettacolo, dato al Palazzo dell’Arte al Parco, prende parte anche il neolaureato attore all’Accademia dei Filodrammatici, G. Strehler. Nell’immediato dopoguerra è critico drammatico de “l’Avanti!”, dirige la collana teatrale della Rosa e Ballo dove appaiono, fra gli altri, testi di O’ Casey, Wedekind, Strindberg, Toller, Büchner, Majakovskij e con Strehler è attivissimo al Circolo Diogene, che svolge attività di letture, intorno al quale si muove il meglio del teatro italiano che, nel ’46, fa capo a Milano: ci sono Gassman, la Torrieri, Carraro, Ferrieri, Landi, Jacobbi, Ettore Gaipa; Grassi, fresco della regia di Giorno d’ottobre di Kaiser per la compagnia di Adani, presenta La linea di condotta di Brecht, e Strehler legge con Gassman e Carraro Il cancelliere Krehler di Kaiser e presenta l’ Edipo re nella nuova traduzione di Quasimodo.

Intrecciati così i loro destini, Grassi e Strehler fondano nel ’47 il Piccolo Teatro della Città di Milano, primo Stabile italiano: «Noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana, un astratto omaggio alla cultura (…) e nemmeno pensiamo al teatro come a un’antologia di opere memorabili del passato o di novità curiose del presente, se non c’è in esse un interesse vivo e presente che ci tocchi (…) Il teatro resta quello che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale o nella loro responsabilità sociale. Il centro del teatro sono dunque gli spettatori, coro tacito e attento. Chiediamo la vostra solidarietà in questa nostra fatica» (dal programma dell’ Albergo dei poveri di Gor’kij, spettacolo inaugurale, 14 maggio 1947). G. resta alla direzione del Piccolo fino al ’68 con Strehler. Dal 1968 al ’71 ne mantiene alto e vivo il valore, da solo, con una programmazione eclettica che presenta nuove linee registiche e scenografiche, con una ventina di spettacoli, e apre nuovi spazi (decentramento e tendoni): arrivano il giovane Chéreau, la Mnouchkine con Grüber, Bellocchio, Scabia e i suoi `interventi’ in L’isola purpurea di Bulgakov e gli scenografi Arroyo, Allio, Luzzati insieme ai testi di Wedekind, Adamov, Gatti, Neruda, Dorst, ma anche il Brecht di Strehler ( Santa Giovanna dei macelli ), perché «morto Strehler non se ne fa un altro» dichiara consapevolmente. Dal 1972 al ’77 è sovrintendente alla Scala succedendo a Ghiringhelli e poi direttore della Rai. La storia di G. è quella di una grande amicizia – unica nella storia del teatro del ‘900 – che ha saputo salvaguardare e grandemente aiutare con forza e acutezza quel talento di Strehler che ha fatto di Milano il centro di cultura che tutta Europa ci ha invidiato.

Santuccio

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, Gianni Santuccio esordì con Donadio (1942) per poi formarsi al fianco di R. Ruggeri, L. Cimara, S. Ferrati, rivelando la conquistata pienezza dei mezzi espressivi durante il proficuo – anche se non sempre idilliaco – rapporto con il Piccolo Teatro di Strehler-Grassi, fin dall’inaugurale Albergo dei poveri di Gor’kij (1947). Alla fervida stagione milanese di via Rovello appartengono le sue interpretazioni di Le notti dell’ira di Salacrou, L’uragano di Ostrovskij, I giganti della montagna di Pirandello (con cui si sarebbe riconfrontato quarant’anni dopo). Con crescente autorità trascorse dal frequentatissimo Shakespeare (Riccardo II, Romeo e Giulietta, La bisbetica domata , Riccardo III, La dodicesima notte, Macbeth) all’amato Cechov (Il gabbiano), a Goethe e Ibsen, da Alfieri a Pirandello, da Betti a Sartre. Parimenti decisivo fu il suo sodalizio umano e artistico con L. Brignone, assieme alla quale entrò a far parte (con Benassi) della compagnia del Teatro Manzoni di Milano, interpretando, fra l’altro, I fratelli Karamazov di Copeau-Dostoevskij, Tartufo di Molière, L’allodola di Anouilh.

Formata la compagnia con la Brignone-Randone-Volonghi, prese parte a Come le foglie di Giacosa (regia di Visconti), a La parigina di Becque e a Casa di bambola di Ibsen. Attore di razza, capace di momenti sublimi alternati a impuntature capricciose, pervaso da una frenesia esistenziale bruciata senza risparmio, andò progressivamente affinando gli impeti giovanili, ostentati soprattutto nei classici greci (Elettra di Sofocle, Ippolito di Euripide, Tiresia nell’ Edipo re con Mauri-Moriconi) e nell’ Antigone di Alfieri, per passare con pari esiti da D’Annunzio a Claudel, da Rattigan a Greene, con un occhio di riguardo ancora per Shakespeare (Pene d’amor perdute, Antonio e Cleopatra, Il mercante di Venezia ). Prestò voce inconfondibile, volto intenso, gesto misurato a drammi di Betti, Madariaga, Kleist, ricomponendo il binomio con la Brignone per La parigina di Becque e Danza di morte di Strindberg.

Ritornò al Piccolo di Milano per Marat/Sade di P. Weiss e per l’indimenticabile riallestimento strehleriano del Giardino dei ciliegi di Cechov. Tra le sue ultime interpretazioni significative figurano quella del grande attore Sir Randolph in Servo di scena di Harwood, l’antologia pirandelliana proposta assieme a Foà, l’inquietante apparizione in Finale di partita di Beckett, la sconvolgente personificazione del mago Cotrone nei Giganti della montagna di Pirandello a Erice, poche settimane prima dell’estremo addio. Campione di genio e sregolatezza ‘alla Benassi’ (se non proprio alla Kean), assurse alla più alta poesia di palcoscenico possedendo le stesse virtù magiche che, come ultimo gesto, prestò a Cotrone. Molto meno significative le sue interpretazioni cinematografiche e televisive.

Agus

Considerato ‘spalla ideale’ da tutti i comici con cui ebbe occasione di lavorare, spesso fu accanto a Wanda Osiris che ne lodava il tratto signorile, Gianni Agus forse si raccomanda alla memoria collettiva per l’interpretazione televisiva del sadico capufficio di Fracchia-Villaggio in bilico su una poltrona-cuscinone. Ma nel corso della sua lunga carriera Agus seppe fornire ragguardevoli prove nel teatro `leggero’, dalla rivista al varietà alla commedia musicale, attraversando i vari generi e adattandovisi con talento. In Si stava meglio domani , rivista sontuosa del primo dopoguerra (1946-47) con Wanda Osiris che cantava “Ti parlerò d’amor”, Agus, in duetto con la soubrette, affrontava audaci non sense a doppio senso come «Voglio fare come fanno al Mississippi/dove ognuno va diritto ai propri scopi». Nella stagione 1948-49 fu accanto alla Osiris in Grand Hotel di Garinei e Giovannini, con la Wandissima che scende le scale più lunghe della sua carriera intonando “Sentimental”; nella stagione successiva (1949-50) in Sogni di una notte di questa estate con Rascel e la Osiris, Agus duetta, applauditissimo, con Dolores Palumbo. Nella stagione 1950-51, sempre per Garinei e Giovannini, è in Il diavolo custode, con Wanda Osiris, senza scale, nel ruolo di Elena di Troia. Nel cast, Enrico Viarisio, Raffaele Pisu e, per la prima volta dall’Inghilterra, il balletto delle Bluebell. In quello spettacolo, Agus era Renzo in una parodia dei Promessi sposi . Nella stagione 1951-52, sempre con la Osiris, è in Galanteria di Michele Galdieri. Nella stagione seguente, 1952-53, ancora una rivista di Galdieri La gioia con Carlo Dapporto. Nel 1961 s’era distinto in un bel ruolo del film Il federale di Luciano Salce, con Ugo Tognazzi alla sua prima impegnativa prova cinematografica.

Nel dopoguerra, la gente fatica a mettere insieme i soldi per pranzo e cena e allora le riviste in teatro dovevano essere sontuose, doviziose, kolossal, per offrire tre ore di evasione. Nella stagione 1947-48, Garinei e Giovannini realizzarono Domani è sempre domenica, un allestimento da quarantacinque milioni, con la Osiris che usciva come Venere da una conchiglia di madreperla, con Enrico Viarisio, Enzo Turco e Agus che arrivavano in palcoscenico su un’auto Volpe e due Vespe fiammanti. Nel 1954-55, A. partecipò alla commedia musicale di Garinei e Giovannini Giove in doppiopetto, con Dapporto, la rivelazione Delia Scala e la soubrettina Franca Gandolfi applaudita nel quadro “Quanto è buono il bacio con le pere”, soubrette e `seconda donna’, Lucy D’Albert, in coppia con la Scala. Lo spettacolo venne replicato per due stagioni consecutive, un primato. In Gran baldoria, stagione 1952-53, con la Osiris, il Quartetto Cetra, Enzo Garinei, Agus era impegnato in uno sketch intitolato “ra il sì e il no c’è il ma”: accolto freddamente dal pubblico, venne `tagliato’ dopo il debutto. Dopo i successi in teatro, Agus passò stabilmente in televisione, partecipando a molte trasmissioni di successo; nel 1967 accanto a Peppino De Filippo `Pappagone’ nella Canzonissima definita Scala reale; e toccò a lui presentare il Festival di Sanremo nel 1958, l’anno di Domenico Modugno e di “Volare”. Concluse la sua carriera da dove era partito, dalla prosa, memore degli esordi nella compagnia di Elsa Merlini e, per cinque anni, di Ruggero Ruggeri. Da ricordare il ruolo di Tiger Brown in L’opera da tre soldi di Brecht al Piccolo Teatro, regista Giorgio Strehler, nella riedizione, del 1973, con Domenico Modugno e Lamberto Laudisi in Così è (se vi pare) di Pirandello diretto da G. Sepe (1983). Aveva conosciuto e sposato, nel 1952, la soubrette austriaca Lilo Weibel, avendone un figlio, Davide, nel 1959.

Battistoni

Dopo una lunga esperienza televisiva Carlo Battistoni è entrato a far parte del Piccolo Teatro di Milano come aiuto-regista di G. Strehler, con il quale ha collaborato alla messa in scena dei più importanti spettacoli cominciando con l’allestimento del Re Lear del 1972. Negli anni successivi segue e assiste Strehler anche in molte regie di opere liriche e in Il gioco dei potenti da Shakespeare al festival di Salisburgo nel 1973. È autore di una riduzione televisiva, purtroppo andata perduta, sull’ Opera da tre soldi ; inoltre ha curato la regia televisiva di molti spettacoli del Piccolo e di numerose opere liriche. Dal 1975 ha firmato autonomamente una quindicina di allestimenti tra cui Le case del vedovo (1977-78), Poesie e canzoni per i tempi oscuri , Minnie la candida interpretata da Giulia Lazzarini, con la quale divide vita e arte, (1980), Gli ultimi (1982-83), Intermezzo (1986), Grande e piccolo (1987-88), L’intervista (1989-90), Siamo momentaneamente assenti (1992), Le utopie di Marivaux (1994-95), Quanto costa il ferro? (1995-96), Lux in tenebris (1995-96) e Le nozze dei piccoli borghesi (1995-96). Dopo l’improvvisa morte di Strehler ha portato a termine la regia di Così fan tutte di Mozart (1998).

Zareschi

Elena Zareschi nasce in Argentina ma è di origine italiana da parte del padre. Frequenta il Centro studi cinematografici di Roma e nel 1937 debutta sullo schermo con L’ultima nemica di Umberto Barbaro. Nel 1939 fa la sua prima comparsa sulle scene teatrali con la compagnia di A. G. Bragaglia in Nozze di sangue di Federico García Lorca. Successivamente passa nella compagnia Grandi Spettacoli diretta da Forzano; nel 1941 interpreta accanto a Memo Benassi Il cadavere vivente di Tolstoj e Sperduti nel buio di R. Bracco. Nel 1942 è nella formazione di Paola Borboni, quindi nel 1944 recita nuovamente al fianco di Benassi ne La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio e in Amleto di Shakespeare, presentati entrambi al Festival di Venezia.

Nel 1947 è chiamata da Strehler per la stagione inaugurale del Piccolo Teatro di Milano (L’albergo dei poveri di Gor’kij, Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Il mago dei prodigi di Calderòn). Dopo aver recitato in Corruzione al Palazzo di Giustizia di U. Betti per la regia di Spadaro e in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello diretto da Brissoni, nel 1949 interpreta il ruolo di Cassandra in Troilo e Cressida di Shakespeare regista di Visconti. La sua carriera è costellata da grandi, personali affermazioni (Delitto all’isola delle capre di Betti, regista di C. Pavolini, 1950 con S. Randone e L. Alfonsi; Sofonisba di Trissino diretta da Strehler all’Olimpico di Vicenza; Oreste di Alfieri, Tieste di Seneca, Peer Gynt di Ibsen, Edipo re di Sofocle e Amleto tutti in coppia con V; Gassman).

Nel 1955-56 è primattrice del Teatro Regionale Emiliano (Vestire gli ignudi e Enrico IV di Pirandello), poi ancora con Gassman interprete nell’Oreste di Alfieri a Parigi. Negli anni Sessanta si conferma ottima attrice tragica è Ecuba nella traduzione di Quasimodo, Elettra diretta da Fenoglio (1961), Medea per la regia di Minotis (1964), Atossa ne I persiani allestito da Rondiris (1966). Fra le ultime interpretazioni è Donna Allegrina ne La fiaccola sotto il moggio di D’Annunzio per la regia di P. Maccarinelli. Intensa è l’attività cinematografica e televisiva.

scenografia

La scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. È legata all’evoluzione del teatro e influenzata dalle correnti artistiche e dal costume. La scenografia del Novecento si avvale di mezzi tecnologici moderni (piattaforme mobili, tiri meccanici, piani inclinati, piani girevoli). All’inizio del secolo si svilupparono movimenti contrapposti al decorativismo di fine Ottocento di scenografi francesi e italiani (G. Sécan, A. Sanquirico, C. Ferrario, A. Rovescalli).

Tali movimenti furono il realismo del teatro di Stanislavskij e il naturalismo di Rosin, scenografo di Antoine e del suo Théâtre Libre. Ma nell’ambito del teatro e della scenografia moderna la prima vera rivoluzione si ha partendo dalle indicazioni e dalle ricerche dello scenografo svizzero Adolphe Appia (evoluzione della scena orizzontale con piani praticabili e la plasticità scenica esaltata dalla luce, non più dipinta illusionisticamente) e del teorico inglese Gordon Craig che al naturalismo sostituisce in scena masse di luce e di ombra, forme plastiche su vari piani, esaltando la tridimensionalità e la verticalità scenica, il colore, il ritmo. In questi primi decenni del secolo significativi sono gli interventi scenografici di pittori-decoratori in teatro: con Diaghilev e i Balletti Russi lavorarono artisti come L. Bakst, Benois, Goncarova, Larionov, de Chirico, Picasso, Matisse, Dalì, ecc. In Italia il vero rinnovamento si ha con l’avvento del futurismo e della tecnologia in palcoscenico.

Di Prampolini è il primo Manifesto della scenografia futurista (1915) in cui si enunciano le conquiste della luce, della dinamica e del movimento che compongono la scenografia futurista, ed è proprio lui a dare alla scenografia italiana un’apertura internazionale. Di Balla sono gli esperimenti di luce per Feu d’artifice balletto astratto proposto da Djagilev, mentre Depero continua le sue ricerche plastico-figurative con macchine-marionette e realizzando sempre con Diaghilev Le chant du rossignol . Interessanti le esperienze sulla luce-colore di A. Ricciardi per il Teatro del colore (1920), sviluppate dal regista-scenografo A. G. Bragaglia (inventore della scena multipla al Teatro degli Indipendenti). Contemporaneamente in Europa correnti artistiche come l’espressionismo in Germania (O. Kokoschka), il surrealismo in Francia e il costruttivismo in Unione Sovietica (con Mejerchol’d, il Teatro d’Arte di Mosca e gli scenografi L. Pòpova, A. Exster, A. Tairov) ribaltarono tutti le vecchie concezioni teatrali.

Lo scenografo da decoratore diviene costruttore scenografico e la scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. dinamica motore dello spettacolo. Nel primo dopoguerra la scenografia italiana con N. Benois, Colasanti, Oppo, Sensani, abolisce il fondale dipinto per spezzati dipinti e praticabili e un realismo neopittorico. Con un neorealismo plastico usato da artisti quali V. Marchi, D. Cambellotti, P. Marussig, sviluppano le esperienze plastico-astratte-cromatiche del futurismo-cubismo (Kaneclin, Baldessarri, Prampolini, Ratto, Coltellacci).

In Italia come in Europa e in America lo sviluppo della scenografia è l’insieme di elementi visivi, decorativi, dipinti, tridimensionali o architettonici e luci che determinano l’ambiente e lo spazio dell’azione teatrale di attori, cantanti o ballerini. moderna è legata al mezzo tecnico, influenzata dalle varie tendenze di linguaggio o dal bisogno di trovare trucchi e soluzioni nuove, per un continuo rinnovamento. La scena mobile, abbinata a effetti di luce, o scena multipla, con angoli visuali scorciati, plastica e tridimensionale o con l’applicazione di materiali inediti, dimostra quanto importante sia sottolineare la collaborazione tra regista e scenografo. Una figura fondamentale per lo sviluppo della scenografia italiana è il regista L. Visconti che, con la sua personalità, ha influenzato scenografi e costumisti, nella scelta dello spazio e nella ricerca di sintesi, e di riproposta storico-filologica. Per lui hanno lavorato M. Chiari, G. Polidori, F. Zeffirelli, P. Zuffi, L. De Nobili, P. Tosi, V. Colasanti, M. De Matteiscenografia

Al Maggio musicale fiorentino negli anni ’50 viene aperta una stagione di pittori-scenografi come Casorati, Sironi, Fiume, Cagli, Maccari, Savinio, le cui scene sono importanti soprattutto per il valore cromatico. Con il teatro politico di Piscator e l’avvento del teatro epico di Brecht e degli scenografi Theo Otto, K. Nener, e del francese R. Allio, collaboratore di R. Planchon, la scenografia ritrova un giusto equilibrio tra elementi allusivi e l’esatta ricostruzione storica. Sempre con un teatro fatto di metafore sceniche (macchine per proiezioni, uso di luci, scena cinetica) J. Svoboda continua le sue ricerche al Teatro Lanterna Magika di Praga (1948). Strehler, fondatore del Piccolo Teatro di Milano (1947) ha tra i suoi collaboratori G. Ratto per le scene, E. Colciaghi per i costumi, che risentono dell’influsso internazionale della scena epica (fondali con grandi scritte, scene costruttiviste). La collaborazione di Strelher con L. Damiani darà vita a produzioni storiche (Il ratto dal serraglio, 1965; Il giardino dei ciliegi , 1974; La tempesta , 1978).

Damiani suggerisce nelle sue ambientazioni spazi astratti e le citazioni storico-pittoriche allusive, lasciano spazio all’immaginazione senza prevaricare la parola. La ricerca di Damiani sviluppa la scena tridimensinalmente e la sintesi drammatica spaziale; Damiani collaborerà anche con altri registi tra cui V. Puecher, L. Ronconi, L. Squarzina, L. Pasqual. Intensa è la collaborazione di E. Frigerio con Strelher, la sua scenografia è fatta di un realismo in cui viene esaltata la forma architettonica tridimensionale, sottolineata dall’uso della luce che fa da cornice all’azione. Frigerio e la moglie F. Squarciapino (costumista) realizzano produzioni importanti (Le nozze di Figaro 1981, Don Giovanni 1987). Sempre al Piccolo con G. Strelher collaborano P. Bregni e L. Spinatelli che caratterizza la sua attività professionale anche nell’ambito del balletto ( Orlando 1997).

Negli scenografi che hanno lavorato al Piccolo Teatro vi è un costante riferimento iconografico tratto dalla pittura. Questo dualismo regista scenografo si ritroverà in Squarzina e Polidori, De Bosio, Scandella e Guglieminetti, De Lullo e Pizzi, Fersen e Luzzati. L’attività di Luzzati è fondamentale nel panorama della scenografia italiana attraverso il suo forte e personale modo di fare scenografia, caratterizzato dall’illustrazione fantastica e dal concepire lo spazio teatrale come un gioco. Ad artisti famosi spesso viene dato l’incarico nei teatri italiani di progettare la scena, basti pensare a M. Ceroli, T. Scialoja, F. Clerici, o alle sorprendenti strutture di A. Pomodoro per Semiramide 1982. Negli anni ’60 comincia il lavoro di L. Ronconi con cui collabora, P. L. Pizzi per la messinscena dell’ Orlando furioso a cui seguiranno le scene di altri famosi spettacoli. Pizzi sul finire degli anni ’70 inizierà a firmare regia, scene e costumi di tutti i suoi spettacoli caratterizzando il suo lavoro con opere barocche in cui architettura, decorazione e colore trovano il giusto equilibrio. Ronconi nel Laboratorio teatrale di Prato (1976-79) sviluppa un’inconsueta idea di allestimento scenico in stretto contatto con il pubblico risolta dall’architetto-scenografo G. Aulenti: ricerca e collaborazione destinata a continuare anche nel teatro lirico.

Con la scenografa M. Palli, Ronconi continua l’analisi sullo spazio e sulle forme architettoniche usate come macchine sceniche, fondamentali all’azione drammaturgica, diventando la scenografia filo conduttore dello spettacolo, determinante è il contributo visivo dei costumi di V. Marzot. Particolare è la ricerca formale di E. Job per le opere di Strindberg in cui la scena e l’oggetto, diventano essenza del testo drammaturgico. Nel corso della sua carriera proficua è l’intesa professionale con Ronconi e M. Missiroli. Le scenografia di M. Balò che instaura un costante lavoro con M. Castri e G. Cobelli sono fatte di forme circolari, moduli ripetuti di porte e finestre, strutture avvolgenti e imponenti sullo spazio del palcoscenico.

Mentre Bob Wilson propone spettacoli in cui immagine visiva, luce, colore movimento e suono-parola ci portano verso l’astrazione pura allusiva del quadro tridimensionale quasi metafisico. Il panorama della scenografia italiana è in continua evoluzione a partire dal realismo rivisitato e rielaborato di M. Pagano, P. Grossi, W. Orlandi, C. Diappi o agli scenografi che si legano in stretto sodalizio con gruppi teatrali e registi tra i quali, Carosi, Fercioni, Gregori, Agostinucci. Numerosi gli scenografi che si avvalgono nelle loro messinscene della tecnologia (luci, laser, macchine di proiezione, audiovisivi, scene mobili, plastiche), della ricerca di forme e di spazi alternativi e di materiali all’avanguardia pur non allontanandosi dal carattere decorativo astratto-spaziale tipico della scena italiana, riprendendo scorci prospettici, piani praticabili inclinati a simulare la psicologia del testo, e a suggerire la metafora drammaturgica. Scene ricche di atmosfere suggestive e di tradizioni.