Phoenix Dance Company

La Phoenix Dance Company è fondata nel 1981 da Leo Hamilton, Villmore James e Donald Edwards, tre giovani di colore di Leeds, appassionati di danza, ai quali si uniscono i ballerini Edward Lynch e Merville Jones. Propone da subito un proprio repertorio coreografico caratterizzato da uno stile eclettico che vede le tecniche della danza contemporanea, delle arti marziali e delle discipline ginniche unite in una originale espressione di movimento energico, dinamico e di immediata comunicatività. Accogliendo rapidamente il consenso del pubblico e della critica continua la sua crescita professionale: invita coreografi esterni come Darshan Singh Bhuller e Philip Taylor e dal 1989 aggiunge quattro componenti femminili. Ottiene importanti riconoscimenti prima con il Gran premio dell’International Coreographic Competition per il lavoro di Aletta Collins Gang of life e poi con la candidatura a miglior compagnia dell’anno per il Laurence Olivier Award. Con il passaggio della direzione artistica da Neville Campbell a Margaret Morris (1991), la Phoenix Dance Company conosce un altro periodo di cambiamento; continua la sua densa attività a livello internazionale e nazionale e si impegna anche in un progetto di lavoro con studenti e gruppi giovanili dello Yorkshire. Tra i suoi lavori: Shaded Limits (coreografia Chantal Donaldson), Sacred Space (coreografia Philip Taylor), Longevity (coreografia Gary Lambert), Covering Ground (coreografia Shapiro & Smith), Subject of the City e Face our own Face (coreografie Pamela L. Johnson).

Pan

Il nome di Hermes Pan è strettamente legato a quello di Fred Astaire per il quale realizza le coreografie di ben ciciassette film, compresi tutti quelli della RKO (1933-1939) in cui il ballerino danza in coppia con Ginger Rogers. È lui a suggerire ad Astaire di inserire nel contratto la clausula in base alla quale le riprese delle sequenze di balletto devono essere realizzate senza soluzione di continuità e proiettate senza stacchi di montaggio. Il suo metodo di lavoro si basa su una ferrea precisione geometrica che richiede una lunga fase di sperimentazione per ottenere un movimento tanto fluido quanto elegante. Con Astaire prova personalmente ogni numero, assumendo per sè il ruolo della ballerina, fino a dedicare diciotto ore al giorno per tre settimane in funzione di una sequenza di quattro minuti; al termine mostrano all’attrice l’esatta sequenza dei movimenti. Metodico ed esigente pretende dai suoi esecutori la sua stessa esattezza assoluta, costringendoli a ripetere, fino al raggiungimento del risultato. In tal senso è emblematica l’imposizione a rifare per quarantasette volte l’intera sequenza conclusiva di Follie d’inverno. Con la Rogers ha un rapporto definito «una guerriglia durata sei anni», ancora tormentato sul set di Condannatemi se potete (1942), mentre si trova a pieno agio con Betty Grable per la quale realizza i balletti di ben dieci film tra cui Maia, la sirena delle Hawai (1942) e In montagna sarò tua (1942). Segue Astaire prima alla Fox (1941-1948) e poi alla Metro (1949-1956). Compare come ballerino in alcune pellicole come Follie di New Yok (1942) e La fidanzata di tutti (1944). Firma le corografie di molti capolavori dell’epoca d’oro del musical hollywoodiano, da Tre piccole parole (1950) a Baciami, Kate! (1953), da La bella di Mosca (1956) a Pal Joey (1957), da Can-Can (1960) a My Fair Lady (1964). Svolge la sua attività anche in Italia dove crea i balletti della commedia musicale di Garinei e Giovannini Un paio d’ali (1959) e di una edizione del varietà televisivo Studio Uno (1965).

Pietri

Vive a Manhattan l’orgoglio della sua cultura ispanoamericana, forse ultimo vero erede della beat generation, lontanamente accostabile al più famoso Bukowski. Le sue performance sono state fatte conoscere in Italia da Paolo Rossi, le sue liriche dall’americanologo Mario Maffi che le ha raccolte tra l’altro in Scarafaggi metropolitani e altre poesie (1993). È appunto da Pietri che Rossi ha tratto, tra gli altri, uno dei suoi pezzi più belli e conosciuti, Scarafaggi (1991).

Pinder

Fondato dai clown inglesi George e William P., il circo Pinder si stabilisce in francia nel 1854. Nel 1928 viene acquistato dai fratelli Charles e Roger Spessardy. Pinder diviene presto un circo di enormi dimensioni, presentandosi spesso a tre piste e caratterizzato da moderni veicoli motorizzati, un ricco serraglio ambulante e soprattutto la grande sfilata allegorica che per decenni raduna folle di spettatori nelle strade delle città francesi. Per P. lavorano i maggiori artisti dell’epoca. Nel 1972 il circo Pinder viene rilevato da Jean Richard (v.) e nel 1983 da Gilbert Edelstein.

Pozzetto

Cabarettista `d.o.c.’, grande comico dall’espressività dirompente, ricordiamo Renato Pozzetto nelle maschere facciali, da quelle completamente impassibili a quelle più caricate. L’attore percorre un’intensa carriera, sia televisiva sia cinematografica. Nel 1964 in coppia con Cochi Ponzoni (il popolarissimo duo ? Cochi e Renato), inizia come cabarettista al Derby di Milano. Espressione di un’accesa milanesità, i suoi personaggi, con il loro linguaggio, diventano ben presto patrimonio collettivo di quegli anni (siamo agli inizi del ’70). Il buono e il cattivo (1971), Il poeta e il contadino nel 1972, trasmissioni televisive di grandissimo successo, fungono da trampolino di lancio per il debutto cinematografico, attività che lo vede protagonista fino a oggi nel ruolo non solo di attore, ma anche di sceneggiatore e regista. Dopo l’esordio di Per amare Ofelia , nel ruolo di un figlio perennemente innamorato della madre e poi svezzato da una prostituta, sarà brillante interprete in teatro de La conversazione continuamente interrotta , avviando un percorso che lo vedrà tra i più affermati attori italiani. Grazie alla sua comicità, in grado di rendere divertente anche film di modesto livello, l’attore offrirà al pubblico, tra le sue migliori interpretazioni, Le nuove comiche (1994) e Papà dice messa (1996), di cui firma anche la regia.

Placido

Interprete vigoroso e dotato di un’ottima sensibilità, Michele Placido si forma all’Accademia d’arte drammatica di Roma negli anni 1968-69. Nel corso della sua carriera ha spesso alternato esperienze teatrali e cinematografiche. A teatro si può ricordare la sua partecipazione a Scene di caccia in Baviera (1981) di Martin Sperr con la regia di Walter Pagliaro, La figlia di Iorio (1982) di D’Annunzio (regia di Roberto De Simone), Metti una sera a cena (1983) di G. Patroni Griffi, regia di Aldo Terlizzi, Girotondo (1988) di A. Schnitzler, in cui interpretava i dieci personaggi maschili e Uno sguardo dal ponte (1995) di A. Miller per la regia di T. Cassano, presentato al festival Taormina Arte. La grande popolarità è però dovuta alla televisione, grazie all’interpretazione del commissario Cattani in ben quattro edizioni della Piovra . Al cinema, dopo anni di lavoro solo come attore, P. ha deciso di passare dall’altra parte della macchina da presa, a volte con risultati sorprendenti. I suoi film sono: Pummarò (1990), Le amiche del cuore (1992), Un eroe borghese (1995), un asciutto e riuscito film di impegno civile incentrato sulla tragica fine dell’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli e Del perduto amore (1998) con F. Bentivoglio.

Paul

Inizialmente grafico nella nativa Vienna, Bernhard Paul è co-fondatore e in seguito proprietario in Germania del circo Roncalli ( v .) di cui crea gli spettacoli e in cui si esibisce ogni sera nel personaggio del clown Zippo, al cui fianco si alternano negli anni alcuni tra i maggiori clown degli anni ’80 e ’90. Paul diviene il più grande collezionista del mondo di antiquariato circense costituendo un museo privato a Colonia, base per il suo progetto artistico: la restituzione al pubblico tedesco della cultura artistica del circo e del varietà classico. P. inserisce gli spettacoli del circo Roncalli nei maggiori festival teatrali, e crea originali eventi circensi per numerose città europee (Berlino, Mosca, Siviglia, Vienna, Bruxelles, Copenaghen). Nel 1989 riapre l’Alte Oper di Frankfurt con un programma di varietà. Nel 1991 con le tournée Panem et circenses reinventa la formula del ristorante-spettacolo. In seguito, in accordo con il produttore berlinese Peter Schvenkow, inaugura nuovi teatri di varietà in Germania, tutti caratterizzati da notevole sfarzo, elaborate ambientazioni e una regolare programmazione di elevato livello, spesso con regie dello stesso Paul: nel 1993 ricostruisce il Wintergarten Varietè a Berlino e il Ronacher Theater di Vienna; nel 1994 fonda il Friedrichstadpalast a Stuttgart e nel 1998 l’Apollo a Düsseldorf. Paul, spesso attore di teatro e film, ha un ruolo determinante nel mercato teatrale tedesco, e il suo circo Roncalli continua a essere il più richiesto della Germania.

Porta

La produzione teatrale di Elvio Porta si caratterizza per la scelta della lingua napoletana, che gli consente di coniugare il gergo della napoletanità più autentica e popolare con l’irrinunciabile necessità di un ripensamento storico-sociale e culturale della situazione del meridione. Scrive e mette in scena, tra gli altri, il popolarissimo Masaniello (1974), Jesus (1975), O’ journo `e San Michele (1976), L’opera `e Muorte `e fame (1979), La perla reale (1982). Masaniello in particolare, esempio significativo di teatro popolare attuato rievocando un preciso periodo storico, sarà più volte ripreso da Armando Pugliese. Inoltre, nel 1990, è da ricordare l’allestimento della Compagnia della Fortezza – nata all’interno del carcere di Volterra e diretta da Armando Punzo, per la quale Porta scrive poi, appositamente, Il corrente (1992).

Pagliai

Diplomato all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, ha raggiunto la popolarità con alcuni fortunati sceneggiati televisivi ( Lawrence d’Arabia , Il segno del comando , L’amaro caso della Baronessa di Carini ) e contemporaneamente ha ricoperto in teatro ruoli sia brillanti, sia introspettivi: Spettri di Ibsen (1975), Giobbe di K. Wojtyla (1985, regia di Zanussi), Domino di M. Achard (1987), Scene di matrimonio di Svevo (1988, regia di B. Navello), Il padre di Strindberg (1989, regia di A. Piccardi), Spirito allegro di N.P. Coward (1993), Giù dal monte Morgan di A. Miller (1993, regia di M. Sciaccaluga). Fa coppia nella vita e ditta artistica con Paola Gassman, incontrata in palcoscenico con Il debito pagato di Osborne.

Praga

Marco Praga è stato il dominatore della scena teatrale italiana a cavallo del secolo, il più classico rappresentante di quella commedia borghese moralisteggiante, che tanta presa aveva sul pubblico, ma che non sempre riuscì a determinare esiti artistici di rilievo. Le opere di Praga ci restituiscono una fedele immagine del suo tempo, contrassegnate come sono da un profondo pessimismo e dalla convinzione che la radice di ogni male fosse il disordine delle passioni, destinato inevitabilmente a sfociare nell’adulterio. Così nelle sue venti commedie – dominate da un realismo dai toni piuttosto edulcorati – sono le donne, incoerenti e irrazionali, ad apparire come la causa del malessere sociale. Agli uomini – tratteggiati con una certa ironia – spetta invece il ruolo di vittima predestinata. P. raccolse i maggiori successi con Le vergini (1889), La moglie ideale (1890, con la Duse nei panni della protagonista), Alleluja (1892), Il dubbio (1899), L’ondina (1903), La crisi (1904) e poi anche con La porta chiusa (1913) e Il divorzio (1915), testi più inclini all’intimismo e al crepuscolarismo.

Pirro

I suoi lavori rappresentano alcune tra le opere più importanti dal punto di vista dell’impegno civile e politico. La produzione di P. ha offerto infatti uno spaccato interessante della storia contemporanea italiana. Da segnalare la sua collaborazione con E. Petri nei film A ciascuno il suo (1967), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971), La proprietà non è più un furto (1973). Dal suo primo romanzo Le soldatesse , nel 1965 è stato tratto l’omonimo film diretto da V. Zurlini.

Pugliese

Armando Pugliese inizia a lavorare a Napoli e nel 1969 si diploma all’Accademia d’arte drammatica con lo spettacolo Barocco ineffabile con strumenti , scritto appositamente per lui da Elvio Porta. Nello stesso anno è aiuto-regista di Ronconi. Negli anni ’70 allestisce alcuni spettacoli – Iwona, principessa di Borgogna di Gombrowicz, Il barone rampante , riduzione dello stesso Pugliese dal romanzo di Calvino, Quando si fa giorno – di E. Bond, L’opera del mendicante di J. Gay – ma il successo lo raggiunge con Masaniello – di cui è anche autore del testo, scritto assieme a Elvio Porta (1974). Tra i suoi spettacoli ricordiamo: Aladino di Francesco Cerlone (1981); La guerra dei topi e delle rane di Nicola Saponaro (1983); Il Miles di Plauto , adattamento della commedia di Plauto ad opera di G. Pasculli (1984); Fiat voluntas dei di Giuseppe Macrì (Catania, 1987).

Tra gli spettacoli degli ultimi anni, diversi sono d’ambientazione napoletana: Ogni anno punto e da capo di Eduardo De Filippo, musiche originali di Nino Rota e Antonio Sinagra, con Luca De Filippo (1988); Medea di Portamedina , commedia con musiche in due tempi, liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Francesco Mastriani, con Lina Sastri – il testo scritto espressamente per l’attrice, è la storia di una Medea moderna, che uccide la propria figlia per non condannarla a vivere la sua stessa disperata esistenza – (Napoli, 1991); Angeli all’inferno di Francesco Silvestri (che ne è anche interprete), musiche di Pappi Corsicato, (1991); Limbo, di Enzo Moscato, con Isa Daniele (Benevento, 1993); I viceré, riduzione di D. Fabbri dal romanzo di F. De Roberto, con Turi Ferro (1994); Delizie e misteri napoletani (Festival dei Due Mondi di Spoleto, 1995); Ubu re , di A. Jarry, traduzione italiana di E. Moscato, con Mario Scaccia e Marisa Fabbri (Roma , 1995); Gilda Mignonette , testo e regia di P., con Lina Sastri ( 1996); I Don, di Pippo Marchese (Catania, 1996).

Pizzi

Dopo aver frequentato la facoltà di architettura Pierluigi Pizzi inizia la sua carriera nel 1951 al Teatro Stabile di Genova. Nel 1957 incontra il regista G. De Lullo con il quale instaura una intensa collaborazione destinata a protrarsi negli anni successivi, nell’ambito del teatro di prosa e lirico. Collabora con De Lullo alla Compagnia dei Giovani allestendo numerosi spettacoli tra cui La notte dell’Epifania di Shakespeare (Verona 1961), e nel 1963 il memorabile Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e Il malato immaginario di Molière al Festival di Spoleto, dove conferma il fertile sodalizio con G. De Lullo e R. Valli. Per il teatro d’opera realizza numerosi spettacoli, tra cui l’ Alceste di Gluck (Maggio musicale fiorentino 1966), I vespri siciliani di Verdi, entrambi per la regia di De Lullo (Teatro alla Scala 1970). Interessante è la collaborazione con L. Ronconi, per il celeberrimo Orlando furioso nel 1969 e in seguito per discussa edizione del Ring wagneriano. Le sue scenografie raffinate ed eleganti costruiscono un discorso visuale tendente al preziosismo; gli oggetti di scena diventano parte essenziale della scenografia, sino a determinarne l’essenza.

Debutta come regista nel 1977 con il Don Giovanni di Mozart (Teatro Regio di Torino). Una segnalazione particolare meritano il suo interesse e la sua passione per la messinscena di opere barocche: un percorso iniziato con l’ Orlando furioso di Vivaldi (Verona, Teatro Filarmonico 1978) e sviluppato con la Semiramide (Aix-en-Provence 1980) e il Tancredi di Rossini (Festival di Pesaro 1982). In questi allestimenti predomina il colore bianco nella scenografia; la plasticità e i costumi, costruiti come forme e volumi (colonne, capitelli), si accostano e si integrano nell’architettura di scena, per la sintesi nel dettaglio e la scelta cromatica. La sua attività di regista scenografo e costumista si sviluppa negli anni ’80 producendo interessanti spettacoli, dove lo stile barocco viene esaltato nelle sue caratteristiche linee decorative, ottenendo impianti scenici di estremo rigore architettonico, a volte usando macchine e trucchi teatrali tipici del teatro sei-settecentesco. Tra le sue produzioni Ippolito e Aricia di Rameau (Festival di Aix-en-Provence 1983), Ariodante e Rinaldo di H&aulm;ndel (Parigi, Teatro Châtelet 1985), Alceste di Gluck (Roma, Teatro dell’Opera 1985), La passione secondo san Giovanni di Bach (Venezia, Teatro la Fenice 1984), Armide di Gluck come apertura di stagione al Teatro alla Scala (1996). Collabora frequentemente con il Rossini Opera Festival a Pesaro; tra le sue messinscene ricordiamo Mosè in Egitto (1983), Comte Ory (1984), Maometto II (1985), Guglielmo Tell (1996). Il suo stile eclettico e personale si integra anche con il melodramma ottocentesco, come Capuleti e Montecchi (1987), I vespri siciliani (1990), entrambe al Teatro alla Scala, Don Carlos (Maggio fiorentino 1989). Inaugura il Teatro dell’Opéra-Bastille di Parigi con Les Troyens di H. Berlioz.

Pavlova

Appena quindicenne, Tatiana Pavlova abbandona la casa paterna per recitare nella compagnia di P. Orlenov con il quale compie lunghe tournée. La rivoluzione la spinge ad abbandonare Mosca per Odessa e Costantinopoli, seguendo la grande ondata dell’emigrazione antibolscevica, per poi approdare in Italia dove studia dizione per tre anni con Cecè Dondini e Carlo Rosaspina. Nel 1923 debutta al Teatro Filodrammatici in Sogno d’amore di Kossorotov accolta con diffidenza e sarcasmo non solo per la dizione non perfetta ma anche per la novità del suo repertorio e per un modo nuovo di concepire lo spettacolo non più centrato sull’individualità ma su di un lavoro d’insieme.

Il ‘fenomeno russo’, come viene chiamata, interpreta, spesso firmando lei stessa la regia, autori come Molnár, Kaiser, Andreiev e Rosso di San Secondo ( Una cosa di carne , Fra vestiti che ballano ) e per la prima volta in Italia L’albergo dei poveri di Gor’kij. Sono personaggi in grado di offrirle la possibiltà di una recitazione ricca di impeti, di sensualità, attenta alla psicologia. E se talvolta chiama accanto a sé registi del suo paese come Nemirovic-Dancenko al quale affida nel 1933 la messinscena de Il giardino dei ciliegi di Cechov, anche a lei – alle sue lunghe letture a tavolino, alla ferrea disciplina che sa imporre alla sua compagnia all’interno della quale si mette in luce Renato Cialente, e alle idee innovatrici che distinguono il suo repertorio – si deve la nascita della regia in Italia.

«Io sono nata collaboratrice del poeta – afferma in una sua celebre intervista su “Comoedia”, nel 1934 -: non lo diminuisco mai, lo esalto, lo completo, lo limo, lo affino». Giustamente è a lei che Silvio D’Amico affiderà l’insegnamento di regia non appena fondata l’Accademia d’arte drammatica a Roma nel 1935. La fine della guerra la vede sempre più raramente in scena. Ma nel 1946 L. Visconti le fa interpretare il ruolo della madre in Zoo di vetro di Tennessee Williams di cui darà un’interpretazione strepitosa. Fra il 1949 e il 1951 dirige ancora una sua compagnia interpretando il ruolo principale di La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, e firmandone, fra l’altro, anche la regia.

Pozzi

Elisabetta Pozzi è una delle attrici più versatili e interessanti della nuova generazione, con uno stile di recitazione personale che le fa dar vita con vivace, capricciosa e morbida duttilità a ogni tipo di personaggio. Recita in un vasto repertorio: da autori classici a contemporanei, con registi di fama ed esordienti. Debutta a diciassette anni ne Il fu Mattia Pascal diretta da L. Squarzina (1974), con G. Albertazzi allo Stabile di Genova. Al fianco di quest’ultimo lavora in numerosi spettacoli, tra cui Memorie dal sottosuolo da Dostoevskij, Peer Gynt di Ibsen. Dal 1979 lavora con lo Stabile di Genova (tra gli altri Re Nicolò ovvero così è la vita di Wedekind, Tre sorelle di Cechov, La putta onorata di Goldoni e Arden of Feversham di anonimo elisabettiano, per la cui interpretazione vince il premio Ubu). È diretta da Siciliano ne La parola tagliata in bocca , al Festival di Spoleto 1985, e da G. Lavia in Miele selvatico di M. Frayn. Recita in Francesca da Rimini di D’Annunzio per la regia di A. Trionfo e in Piccoli equivoci di Claudio Bigagli. Come interprete di nuovi autori offre una grande prova in Giacomo il prepotente di G. Manfridi (1988). Dal 1989 inizia la sua collaborazione con il Teatro Stabile di Parma, con Il gabbiano di Cechov (1989). Partecipa al Progetto Ritsos, con l’Apa (Attori Produttori Associati), con il poemetto Elena . Fonda con De Rossi e Maccarinelli Tea (Teatro e Autori). Vince nel 1990 il premio Ubu con I serpenti della pioggia di Enquist. Ha una assidua collaborazione con Cristina Pezzoli, allo Stabile di Parma; recita in diversi spettacoli, tra i quali anche L’attesa di R. Binosi, in cui alterna il ruolo di protagonista con Maddalena Crippa. È diretta da G. Dall’Aglio in Molto rumore per nulla di Shakespeare. Offre una grande interpretazione di Sonia nello Zio Vanja di Cechov diretta da P. Stein. Debutta con la regia di L. Ronconi ne Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, con cui vince il premio Ubu 1996, e in Ruy Blas di V. Hugo (1997). È con Carmelo Bene nell’ Adelchi (1997). Offre una delle migliori prove da attrice nel monologo Max Gericke di Manfred Karge (1997), diretta da Le Moli. Il suo debutto cinematografico è nel Mistero di Oberwald di G. Antonioni (1979), nel 1992 si aggiudica il premio Donatello come attrice non protagonista nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrata di C. Verdone.

Pitoëff

La vocazione teatrale di Georges P. si rivela prestissimo, fin da quando, giovanissimo, frequenta, nella città natale di Tiflis, il teatro diretto da suo padre. A questa prima esperienza seguono la partecipazione alla vita del Teatro d’arte di Stanislavskij, la collaborazione, a soli ventiquattro anni, con la grande attrice Vera Kommissarjevskaja, la fondazione di un teatro popolare a San Pietroburgo. La frequentazione di artisti-scenografi come Bakst e Larionov, lo porta a elaborare un’intelligente visione dello spazio scenico, mentre la sua conoscenza di Appia, Craig, Reinhardt, Jaques-Dalcroze sviluppa in lui un’attenzione particolare ai grandi temi del rinnovamento teatrale che lo avrà fra i suoi maggiori protagonisti. Dal 1915, dopo avere sposato la grande attrice Ludmilla de Smanov (nota come Ludmilla P. con la quale formerà una coppia mitica, assolutamente complementare, `i Pitoëff’, della scena europea), si stabilisce in Svizzera e poi in Francia dove sarà una delle punte del Cartel accanto a Dullin e a Jouvet. P. si muove di preferenza all’interno di un repertorio eclettico, che mescola Shakespeare a Cechov, Pirandello con Ibsen tanto che accanto ad Amleto il suo successo più grande è la prima rappresentazione francese de Sei personaggi in cerca d’autore (1923), che tanto colpirà Pirandello. Il montacarichi che porta in scena i sei personaggi non solo conquisterà l’autore, ma trasformerà questo spettacolo in un vero e proprio oggetto di culto. Del resto l’abilità di scenografo fortemente innovatore di P. che inventa paraventi mobili, scene simultanee, è stata universalmente riconosciuta. Curioso, intelligente, fortemente attratto dalla contemporaneità (Claudel, Gide, Cocteau, Anouilh), vede il teatro come la sintesi di tutte le arti e, proprio per questo, il regista come «un autocrate assoluto che non deve mai legarsi a nessun sistema». Eppure pochi, come lui, sono stati rispettosi dell’integrità del testo e affascinati dalla centralità dell’attore, unico tramite per oggettivare il pensiero dell’autore. Interprete sensitivo ha avuto tenaci ammiratori e tenaci detrattori. Fra le sue maggiori interpretazioni c’è sicuramente l’ Amleto in più di un’edizione a partire dal 1920, ma anche i personaggi visionari, scaltri, cinici, le vittime predestinate del destino come lo scapestrato Liliom nell’opera omonima di Ferenc Molnár (1923), i folli innocenti come Enrico IV di Pirandello (1925).

Paroni De Castro

Si diploma come assistente alla regia alla Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano dopo gli studi in giurisprudenza. La sua prima messinscena, del 1988, Il delitto dell’insegnante di matematica di Claudia Botta, al Litta. Inizia poi una collaborazione con il giovane drammaturgo Renato Gabrielli e il Crt. Nascono Oltremare (1990), un Ubu cornuto (1991), Oplà siamo vivi! (1993), Moro e il suo boia (1994). Insegna anche recitazione alla `P. Grassi’ e tiene seminari e training di recitazione in Italia e all’estero.

Piscator

Erwin Piscator nasce in una famiglia borghese, composta per lo più da pastori protestanti o bottegai. Prima delle scoppio della Grande Guerra il giovane Erwin, che è studente universitario, frequenta a Monaco la Scuola di teatro. Ma gli orrori del conflitto di cui è diretto testimone lo inducono a ricercare un’arte più legata ai bisogni della vita. Diventato pacifista, Piscator, che ormai vive a Berlino, è subito coinvolto nella ribellione dadaista alla cultura codificata, alla quale partecipa anche un grande pittore come George Grosz. La sua attenzione punta immediatamente al valore politico, propagandistico, `educativo’ del teatro, dunque ben al di là del ribellismo individualistico espressionista. Così fra il 1920 e il 1921 dirige a Berlino il Teatro Proletario che si pone come fine un’arte popolare in forte contrapposizione con quella borghese. Sovvenzionato dai suoi iscritti, gestito da un collettivo, perseguitato dall’ostilità politica, il teatro deve chiudere i battenti.

L’astro di Piscator comincia ad affermarsi quando entra alla Volksbühne dove dirige alcuni spettacoli che ne visualizzano lo stile a partire dal dramma di A. Paquet Bandiere , sulle lotte degli operai di Chicago per la conquista delle otto ore lavorative. Qui usa, per la prima volta, le proiezioni fisse come commento e riflessione all’azione scenica. Più tardi in A onta di tutto (Trotz alledem!), un testo collettivo e politico-propagandistico, inserirà anche il film costruendo uno spettacolo-montaggio. Lavora drammaturgicamente sui testi prescelti, siano essi romanzi o classici, intervenendovi anche pesantemente, per sperimentarne la contemporaneità. Atteggiamento che gli costerà l’allontanamento dalla Volksbühne. Con l’aiuto di finanziatori privati fonda, nel 1927 in Nollendorfplatz la Piscator-Bühne dove istituisce un collettivo di drammaturgia del quale fanno parte, fra gli altri, Bertolt Brecht e Alfred Döblin. Qui mette in scena alcuni fra gli spettacoli ai quali è legata la sua fama, da Oplà noi viviamo ! di Ernst Toller (1927), celebre anche per la scenografia simultanea, che riproduce sul palcoscenico la facciata scoperchiata di un albergo. La scena multipla si ritroverà anche in Rasputin, dove rappresenta sul palcoscenico adirittura una sfera-mondo, mentre in Schweyk (1928, adattamento di Brecht), cercherà di adattare al teatro i nuovi materiali, le innovazioni tecnologiche che in quegli stessi anni il Bauhaus usa nell’arte, nel design e nell’architettura. Del resto è proprio in sintonia con le nuove tecnologie che progetta con il grande architetto Walter Gropius, un `Teatro totale’ in cui lo spettatore si trovi inserito da protagonista all’interno di una sofisticata, avveniristica macchina teatrale.

L’avvento del nazismo spinge questo regista, allo stesso tempo discusso e osannato, all’esilio prima in Unione Sovietica, dove gira il film La rivolta dei pescatori di Santa Barbara (1934), poi a Parigi e di lì a New York dove apre un Workshop teatrale frequentato da un giovanissimo Marlon Brando, prima dell’Actors’ Studio, da Tennessee Williams, destinato a diventare uno dei massimi drammaturghi americani contemporanei, e da Judith Malina che negli anni ’60 fonderà con Julian Beck il Living Theatre. Coinvolto nel clima di caccia alla streghe fomentato dalla Commissione del generale McCarthy, Piscator ritorna nel 1951 a Berlino Ovest dove lavora, soprattutto da regista ospite, mettendo in scena testi contemporanei come I sequestrati di Altona di Sartre (1960), ma anche Come tu mi vuoi di Pirandello (1957) e ancora una volta I Masnadieri di Schiller (1957). Diventato sovrintendente della Volksbühne firma le regie delle prime rappresentazioni assolute di Il vicario di Hochuth sulla corresponsabilità del papa nelle deportazioni degli ebrei, dell’ Istruttoria di P. Weiss sugli orrori dei campi di streminio e di Sul caso di Julius Robert Oppenheimer sulle responsabilità della scienza, dove ha modo di mettere in luce la sua predilezione per un teatro politico, coscienza critica di una Germania che avrebbe preferito essere senza memoria.

Pilotto

Camillo Pilotto esordisce nel 1903 con E. Zacconi, mentre dal 1911 al 1914 fa parte della compagnia stabile del Teatro Manzoni di Milano recitando, tra l’altro, nella Locandiera di Goldoni (1915) e nella Figlia di Iorio di D’Annunzio (1915). Incontro importante per la sua carriera è quello con E. Gramatica, che gli consente di sperimentarsi in un repertorio che va da Ibsena a Goldoni, Shaw, Synge, Amiel e Pirandello dal quale è diretto nel 1927 al fianco di M. Abba. Negli anni ’30 con la compagnia ZaBum si cimenta anche nella rivista ( Le lucciole della città, 1931-32); mentre in seguito lavora con la compagnia del T. Quirino e con la compagnia Bagni-Cortese-Zacconi, con la quale, nella stagione 1947-48 inizia la collaborazione con i Piccoli Teatri di Genova e Milano, interpretando, a Milano, Cotrone nei Giganti della montagna , Porfirio in Delitto e castigo, Sganarello in Don Giovanni e il Duca di York in Riccardo II. Nel 1958 recita allo Stabile di Napoli, mentre nel 1959-60 si esibisce con continuità al Teatro Ridotto dell’Eliseo a Roma in un repertorio di spettacoli gialli con L. Carli. Lavora anche negli scespiriani La tempesta – (1948) e Enrico IV (1951) con la regia di Strehler; ne Le allegri comari di Windsor (1949) di Fersen a Nervi con P. Borboni, A. Pagnani e A. Proclemer; ne La dodicesima notte (1950) di Costa e in Sogno di una notte di mezza estate – (1952) di Brissoni. In oltre sessant’anni di palcoscenico e di ininterrotto prestigio, P. si caratterizza per una recitazione antiretorica, quasi `parlata’ che fa di lui un attore di singolare concretezza e umanità.

Pietragalla

Entrata a dieci anni alla Scuola dell’Opéra di Parigi, Marie-Claude Pietragalla sedicenne è stata scritturata nel corpo di ballo del medesimo teatro. Qui ha percorso l’intera carriera, diventando prima ballerina nel 1988 e étoile nel 1990. In precedenza (1984) aveva ottenuto il primo Grand Prix al Concorso internazionale di Parigi. Dotata di grande freschezza, in possesso di un corpo longilineo e molto femminile, ha saputo imporsi come una delle migliori danzatrici della sua generazione. Interprete brillante – ma anche di superbe qualità drammatiche – è riuscita a mettersi in rilievo in ruoli estremi e di grande difficoltà, come nella Giselle di M. Ek. Ha lavorato con molti coreografi e in particolare con C. Carlson (Don’t look back ). Anche Béjart ha messo in luce le sue belle qualità, in particolare con l’intenso duo Juan y Teresa (danzato con G. Roman), basato sui rapporti tra Juan de la Cruz e Teresa d’Ávila. In veste di coreografa ha debuttato con Boramabile (1988). Interessante omaggio alla terra d’origine paterna è Corsica (1996, musica di Petru Guelfucci). Dal 1988 è direttrice del Ballet National de Nancy.

Palermi

Esordì appena diciassettenne come giornalista e commediografo in dialetto siciliano e in lingua italiana ( ‘U Lupu e Amuri foddi ; La vela grande , 1913; Il primo amore , 1919). Il suo debutto cinematografico come regista di film muto avvenne nel 1914 con Colei che tutto soffre a cui seguirono numerose produzioni che assecondavano il gusto popolare del tempo per gli intrecci drammatico-sentimentali. Con l’avvento del sonoro P. diresse film interpretati da famosi attori teatrali fra cui Paraninfo del 1934 e L’eredità dello zio buonanima del 1935 con A. Musco. Collaborò proficuamente con E. Murolo realizzando Napoli d’altri tempi nel 1938, Le due madri e Napoli che non muore nel 1939. Nel 1941 diresse Totò in San Giovanni Decollato .

Polaire

Emilie-Marie Bouchad Polaire, dalla particolare figura sottile («esile come nessun’altra donna fu mai» scrisse di lei Colette) e dagli stravaganti e fastosi costumi di scena, si esibiva con stile appassionato e insieme semplice, e con un istinto infallibile per i tempi teatrali. Nel 1902 debutta nella prosa grazie a Willy (Henry Gauthier-Villars, marito di Colette) che la vuole per interpretare Claudine à Paris (dal romanzo di Colette, ridotto dallo stesso Willy e da Luvey, nome fittizio di Lugné-Poe e Charles Vayre), messo in scena da Lugné-Poe. Polaire («attrice improvvisata a cui scienza e mestiere erano superflui» scrive ancora Colette) crea una Claudine celeberrima (lo spettacolo vanta 123 repliche consecutive), vivace e monella, ispirandosi alla ragazzina povera di Montmartre disegnata da Poulbot. Dopo avere recitato in numerosi teatri parigini, appare ai Capucines nell’operetta Le Coq d’Indie (1908) di Rip e Terrasse. Si esibisce con successo anche fuori dalla Francia, a Londra e a New York (nel 1910, dove viene paragonata a Sarah Bernhardt). Tra le sue interpretazioni si segnalano Glu (1909) di Richepin, in un ruolo già portato al successo da Réjane, Les sauterelles (1911) di E. Fabre, l’operetta di Flers, Caillavet e Terrasse Monsieur de la Palisse (1913), La flamme di C. Méré, all’Ambigu (1922), Les Marchands de canons di Rostand (1933). Nel 1933 pubblica la sua autobiografia, Polaire par elle-même , che raccoglie i suoi ricordi teatrali.

Piccolo

Ottavia Piccolo esordisce in teatro a undici anni nel ruolo della bambina sorda e muta di Anna dei miracoli (1960, con A. Proclemer e la regia di L. Squarzina). Nel 1963 è Caterina nel Gattopardo di L. Visconti. A quindici anni, approda al Piccolo Teatro di Milano in Le baruffe chiozzotte di Goldoni, regia di Strehler (1964). Lavora con i maggiori registi del teatro italiano: ancora Visconti (Il giardino dei ciliegi di Cechov nel 1965, Egmont di Goethe nel 1968), G. De Lullo (La Calandria di Bibbiena nel 1968), O. Costa (Ivanov di Cechov nel 1969), L. Ronconi (Orlando furioso nel 1970 e nel 1972, per la versione televisiva). Nel 1972 torna al Piccolo Teatro con Strehler nel doppio ruolo del Fool e di Cordelia per il Re Lear di Shakespeare. Seguono tra gli altri lavori Amleto di Shakespeare, Anfitrione di Kleist, Il gabbiano di Cechov con la regia G. Lavia, Barnum , spettacolo musicale con M. Ranieri, e ancora Mirra di Alfieri, regia di L. Ronconi, Il berretto a sonagli di Pirandello, regia di M. Castri, La dodicesima notte di Shakespeare, regia di J. Savary. Nel 1996 è protagonista accanto a P. Villaggio in L’avaro di Molière ancora al Piccolo Teatro, con la regia di L. Puggelli. Tra le sue interpretazioni cinematografiche, si ricordano Serafino di P. Germi (1968) e Metello di M. Bolognini (1970), La famiglia di E. Scola (1987). In tv tra i tantissimi sceneggiati e tv-movie è stata interprete di Il Mulino del Po (1963), La coscienza di Zeno (1966), Vita di Leonardo (1971), La Certosa di Parma (1982), e più di recente Chiara e gli altri (1989), e Donna.

Pinter

Harold Pinter nasce e si forma nel quartiere di Hackney nel nord-est di Londra. Fallito il tentativo di inserirsi nelle file del RADA (Royal Academy of Dramatic Art), debutta nel teatro come attore di repertorio per la compagnia itinerante dell’irlandese A. McMaster, con lo pseudonimo di David Baron. Nel 1957 su richiesta di un amico attore, scrive il suo primo dramma, The Room, e l’anno successivo assiste all’infausta seppur curata messa in scena del suo secondo pezzo Il compleanno (The Birthday Party, 1959), uno dei suoi lavori migliori, eppure a suo tempo uno dei suoi più famosi insuccessi. In questi primi drammi e in quelli successivi (Il calapranzi, The Dumb Waiter, 1960; Il guardiano, The Caretaker, 1960; Un leggero malessere, A Slight Ache, 1961; Il ritorno a casa, The Homecoming, 1965), Pinter elabora il suo stile scarno ed essenziale, capace di portare sulla scena concreti stralci di conversazione quotidiana catturati in tutta la loro intensità ma anche nella loro vacuità e incoerenza. Gestisce con grande destrezza l’apparato didascalico, in particolare pause e silenzi, che carica di significato rendendoli più eloquenti della parola, il cui uso è volutamente inappropriato, limitato al piacere della sua pronuncia, mero gioco d’intrattenimento, o più spesso maschera per celare il sé di fronte all’altro. Il linguaggio acquista sempre più spazio nell’opera pinteriana, fino a rivestire il ruolo di strumento di `guerra’ per spiazzare e combattere l’altro che rappresenta l’esterno, l’intruso o la minaccia.

Definito con varie etichette (teatro dell’assurdo, teatro di minaccia, teatro della memoria), il suo teatro è progressivamente svuotato dell’azione e si incentra (fra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’70) su tematiche quali il tempo e la memoria, mentre il dialogo tende a scomparire, quasi annullato in battute monologanti. I suoi personaggi vagano mentalmente smarriti in uno spazio temporale dove passato e presente, persi i loro contorni, si confondono l’uno nell’altro ( Il seminterrato , The Basement, 1967; Paesaggio, Landscape, 1968; Silenzio , Silence, 1969). Nel corso degli anni ’70 ( Vecchi tempi , Old Times, 1971; Terra di nessuno , No Man’s Land, 1975; Tradimenti , Betrayal, 1978) l’interesse per il tempo e la memoria si fa più impellente e porta Pinter a recuperare il dialogo e a creare personaggi meno statici. Confrontando un passato comune essi impongono a turno la propria versione, rappresentando così la relatività del ricordo e il meccanismo fallace della memoria, inficiato da sogni, fantasie e immaginazione.

Nel 1980 Pinter rivede, corregge e mette in scena La serra (The Hothouse), dramma scritto nel 1958, e subito accantonato perché inadeguato. Dopo alcuni atti unici (Voci di famiglia, Family Voices, 1981; Victoria Station e Una specie di Alaska , A Kind of Alaska, 1982), la sua scrittura si fa più esplicita e le tematiche della minaccia, della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, già ampiamente indagate fin dai primi lavori, vengono ora trattate in modo diretto (Precisamente, Precisely, 1983; Il bicchiere della staffa, One for the Road, 1984; Il nuovo ordine del mondo, The New World Order, 1991; Il linguaggio della montagna, Mountain Language, 1988; Regime di festa, Party Time, 1991), segnando una fase dichiaratamente politica del suo teatro. Manifesta pubblicamente il suo impegno politico e sociale entrando a far parte di associazioni come PEN e Amnesty International; dà vita al gruppo di intellettuali ’20th June Group’, con i quali organizza incontri sul tema della censura e delle libertà civili. Nel 1993 interrompe la produzione impegnata con Chiaro di luna (Moonlight), riproponendo atmosfere e tematiche degli anni ’70. Il suo lavoro più recente è Ceneri alle ceneri (Ashes To Ashes, 1997), di cui ha curato la regia sia nella versione londinese (Lindsay Duncan e Stephen Rea), sia in quella italiana (Adriana Asti e Jerzy Stuhr). È autore anche di un romanzo, I nani , giovanile (1952), ma pubblicato solo nel 1990.

Pavlenko

Nel 1972 eredita un gruppo di tigri dal suo maestro Alexander Fedotov, noto ammaestratore. Cambia la struttura della presentazione del numero delle belve impostandola sull’eleganza. Dapprima si esibisce in calzamaglia e camicia a maniche larghe come un danzatore del Bol’šoj. In seguito, soprattutto dall’apparizione al Festival di Montecarlo del 1992 (premiata con un Clown d’Oro), in frack, con solo una bacchetta come attrezzo di comando, cosa che gli vale l’appellativo di `von Karajan delle tigri’.

Pasqual

Il debutto di Lluìs Pasqual nella regia è avvenuto con un testo di Arnold Wesker, Radici, allestito (1968) per il Tartana Teatre Estudi di Reus, la città catalana dov’è nato e dove ha iniziato a lavorare, spesso per il Fortuny Teatre, anche su testi di sua composizione (Reus, Paris et Londres , 1972). Nel 1976 a Barcellona ha fondato il Teatro Lliure, organismo cui è legata una importante parte della sua attività, nella quale si alternano la drammaturgia moderna, dal Cechov delle Tre sorelle (1979) a Genet ( Il balcone , 1980), e il lavoro sui classici: da Shakespeare (Come vi piace , 1983) a Goldoni (Una delle ultime sere di carnovale, 1985). Ha lavorato anche in Polonia ed è stato assistente alla regia di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro di Milano, nel 1978. Nel 1983 è stato nominato direttore del Centro drammatico nazionale – Teatro Maria Guerrero di Madrid. Particolare attenzione ha dedicato allora all’opera di Federico Garcia Lorca, sia con l’allestimento di El publico (di cui nel 1986, a Milano, ha firmato il primo allestimento), sia con Comedia sin titulo (1989) che ha riproposto a Parigi. È direttore dal 1990 dell’Odéon – Teatro d’Europa. Numerose anche le sue regie di teatro musicale (Sansone e Dalila di Saint-Saëns a Madrid; Falstaff di Verdi a Bruxelles e a Bologna; Il ratto dal serraglio di Mozart a Parigi). Nel 1995 ha diretto il settore Teatro della Biennale di Venezia.

Pradella

Nel 1966 Riccardo Pradella si diploma con la medaglia d’oro all’Accademia dei Filodrammatici di Milano sotto la guida di Esperia Sperani e nello stesso anno, dopo aver abbandonato gli studi di Chimica, esordisce nello spettacolo Se questo è un uomo di Primo Levi per la regia di G. De Bosio. In seguito interpreta Emone nell’ Antigone (1967) di Alfieri, allestita dal centro culturale Il Trebbo di Milano e nella stagione 1968-69 è scritturato dal Teatro S. Babila come assistente regista per F. Piccoli, E. Calindri e V. Cottafavi. Nel 1970 insieme a Paride Calonghi riapre il Teatro Filodrammatici di Milano, distrutto dai bombardamenti del 1943 e fonda una Compagnia Stabile di ex allievi dell’Accademia. Nell’ambito del Teatro dei Filodrammatici ha partecipato, come attore e in alcuni casi come regista, a quasi tutti gli spettacoli del gruppo. Segnaliamo in particolare: Bellavita (1976) di Pirandello, Il ladro in casa (1984) di Italo Svevo, La trilogia della villeggiatura (1988) di C. Goldoni per la regia di Silvano Piccardi, Con la penna d’oro (1991) di I. Svevo. Nel 1985 succede a Ernesto Calindri alla guida del Corso di Recitazione presso l’Accademia dei Filodrammatici. Accanto alle esperienze teatrali ha sempre alternato esperienze televisive e radiofoniche.

Pepe

Interprete dalle notevoli doti mimiche, Nico Pepe ha offerto nel corso della sua carriera ottime interpretazioni di personaggi comici. Debutta nel 1930 nella compagnia Lupi-Borboni-Pescatori. Lavora anche con Ruggeri, Gandusio, P. De Filippo, De Sica. Dal 1947 passò al Piccolo Teatro. Di talento versatile si è distinto anche nella recitazione di autori classici, Molière (L’avaro) e Gozzi (Re Cervo), sia di autori napoletani: P. De Filippo  (Don Felice Imparato), A. Curcio (I casi sono due). Da segnalare una sua memorabile interpretazione goldoniana, nel ruolo di di Pantalone in un’edizione dell’ Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, uno spettacolo in cui recita per vent’anni (viaggiava con un baule pieno di maschere di commedia dell’arte, tanto da meritarsi il titolo di `commesso viaggiatore del teatro’). Sempre con Strehler interpreta il direttore ne Sei personaggi in cerca d’autore (1952) al fianco di T. Buazzelli e L. Brignone. Nel 1961 è diretto da L. Squarzina in Ciascuno a suo modo di Pirandello presentato allo Stabile di Genova, e da Macedonio ne La commedia dell’arte , per lo Stabile Friuli Venezia Giulia. Ha diretto lo Stabile di Torino, l’Ateneo di Roma e lo Stabile di Palermo. Negli ultimi anni ha portato in giro con successo alcune lezioni-spettacolo (Pirandello visto da un attore e I secoli gloriosi della Commedia dell’Arte) con Ada Prato.

Pallenberg

Dopo alcune scritture in teatri della provincia austriaca e a Vienna, nel 1914 viene chiamato da Max Reinhardt a lavorare al Deutsches Theater a Berlino. Ha contribuito alla popolarità di Molière nella Germania degli anni ’20 e ’30 interpretandone i grandi personaggi come quello di Arpagone ne L’avaro . Famoso per la voce vibrante e la mimica, con la sua arte fatta di sfumature ha reso possibile un rapporto tra una tradizione derivata dalla Commedia dell’Arte e il teatro politico. Poteva interpretare altrettanto bene i drammi naturalisti di Hauptmann e quelli di Kaiser o Il malato immaginario di Molière. A Berlino lavora anche con Piscator come protagonista de Il buon soldato Schweyk, dal romanzo di J. Hasek, nel 1928. Lascia la Germania dopo l’avvento di Hitler. Nel 1933 interpreta il ruolo di Mefistofele nel Faust al festival di Salisburgo. Muore in un incidente aereo.

Palli

Margherita Palli si diploma all’Accademia di belle arti di Brera nel 1976. Dal 1980 al 1984 è assistente di Gae Aulenti per alcuni spettacoli teatrali e per la progettazione del parigino Museé d’Orsay. Con Fedra (1984) ha inizio il lungo sodalizio con Luca Ronconi, per il quale firma le scene di importanti spettacoli fra cui Le due commedie in commedia (1984, premio Ubu per la scenografia), La commedia della seduzione (1985) e Ignorabimus (1986), entrambe premiate nuovamente con l’Ubu, il bellissimo Dialoghi delle carmelitane (1988), Tre sorelle (1989), Strano interludio (1990), Il caso Makropulos (1993), I giganti della montagna al Festival di Salisburgo nel 1994. Sue anche le scene del Mercante di Venezia (1987), realizzate per il prestigioso Odéon di Parigi. La collaborazione con Ronconi prosegue anche nell’ambito del teatro musicale, dove Palli realizza, per esempio, le scene per Oberon (Scala di Milano, 1989), Lodoiska (Scala di Milano, 1991), La damnation de Faust (Regio di Torino, 1995). Palli ha lavorato anche con altri registi di vaglia, quali Franco Branciaroli e Liliana Cavani (La vestale, Scala 1993). Il suo stile – che rivela una concezione architettonica del lavoro scenografico – è attento all’evoluzione dello spazio: muovendo da scene a impianto fisso, Palli progetta efficaci modalità per alterarle e ricomporle, servendosi di praticabili e costruzioni. Importante anche la collaborazione con Italo Rota, con il quale lavora, fra le altre cose, a interessanti mostre (per esempio, quella per il quarantennale di Dior a Parigi nel 1988). Dal 1991, Palli è docente di scenografia presso la Nuova Accademia di Milano.

Pitagora

Gargaloni; Parma 1942), attrice. Dopo essere apparsa in televisione come presentatrice del Giornale delle vacanze ottiene il suo primo ruolo importante nel 1967 interpretando Lucia ne I promessi sposi televisivi di S. Bolchi. Successivamente si dedica al teatro senza però abbandonare l’attività televisiva. Nel 1981 lavora con Lavia in Il pellicano di Strindberg e nel 1984 partecipa a Diana e la Tuda di Pirandello per la regia di A. Foà. Affronta poi diverse interpretazioni con la regia di L. De Fusco: Le relazioni pericolose di Hampton (1987), Sottotenente Güstl di Schnitzler, La finta serva di Marivaux (1991), Candida di Shaw (1992), La chunga di M. Vargas Llosa (1994). Nel 1993 si confronta con l’inconsueta trasposizione teatrale del testo di Gibran Il profeta (lo spettacolo è intitolato Io e il profeta ) per la regia di W. Manfrè e nel 1996 è co-protagonista de La governante di Brancati insieme ad Albertazzi (che ne è anche il regista). È autrice e interprete di Leopardi segreto dove nelle vesti della sorella del celebre poeta narra la vita e le opere di Leopardi; lo spettacolo viene portato in tournée nella stagione 1998-99.

Primus

Pearl Primus studia medicina e antropologia e debutta come danzatrice nel 1941 con il New Dance Group. Nel 1944 crea una compagnia con la quale inizia a realizzare alcune coreografie (African Ceremonial). Attraverso l’approfondito studio delle danze africane e caraibiche avvia una personale ricerca di nuove modalità espressive di movimento. Si trasferisce per diversi anni in Africa dove fonda un centro di danza moderna (in Liberia) e dirige il Centro d’arte per la cultura negra (in Nigeria). Rientrata negli Usa insegna all’Hunter college di New York e si dedica alla creazione di nuovi lavori. Tra le sue coreografie ricordiamo Fanga e The Wedding che sono entrate a far parte del repertorio dell’Alvin Ailey American Dance Theatre. Insieme a C. Dunham la ricerca della Primus ha contribuito alla nascita della Black Dance americana.

Puggelli

Diplomatosi nel 1958 all’Accademia dei Filodrammatici di Milano (studia sotto la guida di Esperia Sperani) Lamberto Puggelli si avvicina all’ambiente del Piccolo Teatro dove, nel 1960, interpreta `El Pinascia’ ne El nost Milan di Bertolazzi con la regia di G. Strehler. Nello stesso anno esordisce nella regia di prosa con A ciascuno la sua fame di Jean Mogin, spettacolo allestito al Teatro Pirandello di Roma. Nella stagione 1964-1965 viene nominato responsabile della programmazione del Festival dei Due Mondi di Spoleto e contemporaneamente comincia a collaborare con il mondo della lirica, curando la regia di Oedipus rex (1965) di I. Stravinskij a La Fenice di Venezia. L’intensa attività svolta in questo ambito lo porta a lavorare nei maggiori teatri lirici italiani, come appunto La Fenice, di cui nel 1967 diviene regista stabile, oltre che con la Scala di Milano, il Regio di Parma, l’Opera di Roma, il Regio di Torino e il Teatro S. Carlo di Napoli, compiendo numerose tournée all’estero (soprattutto con La Fenice).

Nel 1970 ritorna al Piccolo Teatro di Milano, dove diviene assistente alla regia di Strehler. In questa veste lavora in Santa Giovanna dei macelli di Brecht, Re Lear (1972) di Shakespeare, L’opera da tre soldi (1973) di Brecht e Il campiello (1975) di Goldoni. Inoltre, firma insieme a Strehler le regie di alcuni spettacoli tra i quali nel 1971 Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (1971) di Pallavicini e Vené e nel 1973 La condanna di Lucullo (1973) di Brecht. Lo stesso anno P. mette in scena Barbablù (1973) di Dursi, primo spettacolo firmato da solo per la struttura milanese.

Parallelamente all’attività svolta al Piccolo, diviene direttore al Nuovo San Babila di Milano (1975) e cura la regia di alcuni allestimenti al Teatro Uomo (stagione 1976-77). Altre sue regie: La madre dal romanzo di Gor’kij (1978); Le furberie di Scapino di Molière (1984), Igne Migne dal romanzo di A. Campanelli (1987), Pilade di Pasolini (1989), Il libro di Ipazia di Luzi (1995) Tra le sue regie liriche ricordiamo: Turandot (1966) di Puccini, Il trovatore (1969) di Verdi, Norma (1972) di Bellini, I masnadieri (1974) di Verdi, Il barbiere di Siviglia (1979) di Rossini, La forza del destino (1982) e Otello (1990) di Verdi, La favorite (1991) di Donizetti, La sonnambula (1994) di Bellini e Fedora (1996) di Giordano. Va ricordato inoltre lo studio condotto dal regista su Pirandello, iniziato nel 1970 con lo spettacolo Le maschere nude , e proseguito poi, con Così è se vi pare nel 1975, La nuova colonia nel 1992 e Questa sera si recita a soggetto , l’anno dopo.

Pompei

Ernesto e Luigi Pompei, marchigiani di Fermo giunti a Roma negli anni ’30, dove iniziarono a lavorare per il teatro e il cinema. Il loro debutto avvenne con il film Scipione l’Africano nel 1937, da allora svilupparono una intensa collaborazione con importanti costumisti italiani e stranieri con le calzature Pompei, partecipando a grandi produzioni di spettacolo (fornitori ufficiale di Cinecittà). Lo storico laboratorio ha sede nelle vecchie stalle del palazzo Brancaccio a Roma, dove abili artigiani creano le calzature, famose nel mondo. La famiglia P. raccoglie da generazioni calzature, ne possiede una collezione di circa novecentomila paia che spesso vengono esposte in mostre storiche, nell’attesa dell’istituzione di un museo ad esse dedicato.

Parodi

Il primo debutto di rilievo è un’edizione degli Orazi e Curiazi di Brecht (1968) a Genova. Segue nel 1970 Fuenteovejuna di Lope de Vega. Si specializza in grandi allestimenti `open air’ come lo storico Il genovese liberale di Lope de Vega che viene recitato nel centro storico della città ligure nel 1971. Nel 1975 firma un testo poco noto di Karl Valentin, Tingel Tangel . Nel 1976 si dedica a Brecht e alle sue Nozze piccolo-borghesi . Seguono numerose regie con nomi in ditta di rilievo: Amleto in trattoria di Achille Campanile, con Eros Pagni e Magda Mercatali (Teatro stabile di Genova), La bisbetica domata di Shakespeare con Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi, Questa sera si recita a soggetto di Pirandello con Arnoldo Foà (prodotto dal Teatro stabile di sardegna), Cafè-Feydeau di Feydeau con Andrea Giordana e Giancarlo Zanetti, Ciò che vide il maggiordomo di Orton, con Gianni Agus, Orazio Orlando, Magda Mercatali e Gino Pernice. Tra i premi ricevuti va segnalato il Prix Italia per la regia radiofonica (1980).

psicoanalisi e teatro

Psicoanalisi e teatro si riferisce a una linea di pensiero novecentesca che individua nella creazione di relazioni autentiche (tra sé e sé e tra sé e il mondo esterno) l’obiettivo comune a teatro e terapia. Il gioco si presta bene a quest’obiettivo. In Al di là del principio del piacere S. Freud riconosce nel `gioco del rocchetto’ un simbolico tentativo di elaborare l’angoscia del lutto: egli osserva un bimbo di diciotto mesi che lancia ripetutamente lontano un rocchetto legato a un filo per poi riavvicinarlo a sé. Il gioco simboleggia l’allontanamento della madre, motivo d’angoscia per il piccolo, e il suo riavvicinamento. La ripetuta esperienza ludica gli permette di passare da una posizione passiva a una posizione attiva, da spettatore ad attore di una scena giocata e rielaborata in prima persona. Per D.W. Winnicott, specializzato in psicoanalisi clinica infantile, il teatro è – così come il gioco per il bambino – uno `spazio transizionale’ (cioè di passaggio) tra desiderio e realtà, mentre la maschera e gli oggetti scenici fungono – così come i giocattoli per il bimbo – da `oggetti transizionali’, poiché consentono all’individuo di sperimentarsi nei diversi ruoli per poi `giocare’ quello a sé più confacente. E. Goffman, studioso delle istituzioni sociali soprattutto psichiatriche, paragona la vita quotidiana a una rappresentazione dove gli individui `recitano’ ruoli diversi in base a situazioni diverse, mossi dall’inconscio desiderio di essere appagati dall’applauso della società. V. Turner, antropologo teatrale, intravede nel `come se’ del gioco teatrale un potenziale elemento terapeutico, quando esso riesce a trasformarsi in `come è’.

Come nei riti di passaggio: l’individuo/attore, in comunione con una collettività partecipante/pubblico, fa esperienza di una diversa dimensione vitale, passando da una previa fase di normalità a una fase mediana di `liminalità’, periodo a-normativo dove la trasgressione diventa liceità (come nel Carnevale) per, infine, essere reintegrato all’interno della comunità, ora in un’ottica più adulta e matura. Per quanto riguarda più da vicino il teatro, cenni comuni a p. e t. sono già rintracciabili nella psicotecnica di Stanislavskij, training basato sull’incontro creativo tra sé (uomo/attore) e l’altro (personaggio), di cui bisogna vestire i panni pur sapendo rimanere se stessi. Invece J. Beck e J. Malina, fondatori del Living Theatre, riprendono in parte il teatro della crudeltà di Artaud, riconoscendo nella sua follia esibita (nonché realmente vissuta) una potenzialità terapeutica: la demolizione della crudeltà attraverso la sua rappresentazione, ossia l’esorcizzazione della violenza reale.

Il teatro socio-politico del Living interviene direttamente sulla realtà, trasformando l’intenzione in azione. ‘Fare teatro’ significa essere totalmente coinvolti in ciò che accade dentro e intorno a te. J. Grotowski, con il teatro povero, fonda il proprio metodo teatrale eliminando ogni sovrastruttura scenografica per andare alla scoperta del corpo in scena. L’attore è un `attore santo’ portatore di `luce spirituale’, che come un capro espiatorio assume su di sé le colpe e il male di tutti. La condivisione delle emozioni non passa però dalla psiche, ma dal corpo. Le prove diventano più importanti dello spettacolo, il processo vince sul prodotto: la nuova via sperimentale del Teatro Laboratorio è fondata. L’attore, se pronto alla disciplina e all’offerta di sé, può giungere all’autopenetrazione e allo “scarico dei complessi proprio come in un trattamento psicoanalitico”. E. Barba, già discepolo di Grotowski e poi fondatore dell’Odin Teatret, rifiuta la prospettiva psicoanalitica di Freud (il problema del soggetto è psicodinamico e intrapsichico, cioè sostanzialmente rimane dell’individuo) per avvicinarsi a una prospettiva psicosociale (il problema del soggetto è interpsichico: dev’essere partecipato dalla comunità, in quanto corresponsabile). Si diffonde la pratica del `terzo teatro’, fatto né per chi va a teatro né per chi lo rifiuta aprioristicamente, bensì per chi è ai margini, per chi vive per strada. E così il teatro di strada diventa un veicolo per rimettere in circolo le emozioni di chi viene allontanato nelle zone d’ombra che riecheggiano le zone più ambigue della nostra psiche, dove ribolle silenziosamente ciò che preferiamo negare. P. Brook, con lo spettacolo Marat/Sade di P. Weiss, apre una breccia sulla riflessione tra teatro e psichiatria. Si rappresenta l’assassinio di J.-P. Marat, ammazzato da un manipolo di malati mentali di una clinica francese, dove il marchese de Sade li farà costituire in compagnia teatrale. Il linguaggio e le immagini sono acri, ma a Brook preme un teatro immediato, vero, denso di chiaroscuri come la vita. Il teatro non può essere terapeutico se cela, ma se svela.

Dagli anni ’60, con la diffusione degli happening e dunque con l’integrazione tra attori e spettatori (da Boal chiamati `spettattori’), nasce l’animazione teatrale che, attraverso laboratori teatrali attenti al processo più che al prodotto, ben presto si insedia nelle zone del disagio: manicomi, carceri, centri per l’handicap Questo diviene il bacino d’utenza per animatori (psicologi, educatori ecc.) che, partendo da certi capisaldi della psicoanalisi, se ne discostano per avvicinarsi sempre più ai paradigmi teatrali, dove la dimensione dell’incontro e della relazione viene salutata come terapeutica di per sé. La legge Basaglia del 1978 consente l’apertura dei cancelli dei manicomi e il successivo sorgere delle artiterapie, laboratori di espressività per piccoli gruppi tesi a trasformare i pazienti in attori, realizzatori dei propri desideri. Il Velemir Teatro di Trieste, capitanato da un ex degente di manicomio, ne è un esempio.

Pasqualino

Con il fratello Giuseppe ha operato una trasformazione assai radicale dell’opera dei pupi, impiantando a Roma un teatro nel quale ha fatto agire pupi del tipo catanese (cioè pupi più grandi di quelli palermitani e mossi dal ponte per mezzo di due ferri, uno alla testa ed uno alla mano sinistra) riducendone però notevolmente le misure. Inoltre, i fratelli P. hanno utilizzato quali testi per i loro spettacolo, riferiti sempre all’epopea dei Paladini di Francia, copioni da loro scritti, molto più sintetici e brevi di quelli tradizionali, ritenuti più consoni al gusto moderno e ad un pubblico non locale e tradizionalmente competente.

Pistarino

Ex vigile del fuoco e guidatore di autobus, la sua carriera inizia nel 1978 come animatore radiofonico di diversi personaggi da lui inventati e trasmessi dalle frequenze di due radio liguri. Dopo una breve parentesi televisiva, sempre in circuiti locali, nel 1981 viene chiamato come supporter dal Club Instabile, il più importante teatro-cabaret di Genova. Nel 1983 con Drive In , P. conquista popolarità e approda al teatro con suoi resital e negli spettacoli di Zuzzurro e Gaspare ( Sete ) con i quali partecipa anche a varie trasmissioni televisive (tra le altre Emilio ).

Pieraccioni

Leonardo Pieraccioni esordisce giovanissimo sul piccolo schermo accanto a Fiorello in “Deejay Televison”, ma ha già dalla sua una precoce esperienza cabarettistica: debutta nel 1985 con Camomilla e viene diretto due anni dopo da G. Ariani in Molto poco spesso . Poi, il teatro vero e proprio: Leonardo Pieraccioni Show (1990), Novantadue verso l’Europa (1992), Villaggio Vacanze Pieraccioni (1992), Pesci e Frigoriferi (1994) e Fratelli d’Italia (1995) con C. Conti e G. Panariello. Dotato di una mimica estrosa e naturale, attraverso l’uso sapiente di un vernacolo mai eccessivo ha saputo imporsi soprattutto al cinema dove, in coppia con lo sceneggiatore G. Veronesi, ha sfornato alcuni tra i più grandi successi commerciali della commedia italiana popolare di questo secolo (Il ciclone nel 1996, Fuochi d’artificio l’anno successivo), livellando verso il basso il gusto della risata generazionale e riuscendo tuttavia a scansare gran parte della volgarità sottesa al genere.

Panadero

Dopo aver seguito gli insegnamenti di danza classica a Madrid si trasferisce a Parigi per dedicarsi allo studio della danza moderna. Qui supera un’audizione per entrare nella compagnia di Pina Bausch (1979) e da allora la sua carriera si è svolta prevalentemente nel Wuppertaler Tanztheater. La sua prima esibizione nella compagnia è in Arien (1979) cui seguono La leggenda della castità (1979), Bandoneon (1980), Walzer (1982), Nelken (1983). Per la riprese di Café Muller , Arien , Kontakthof ha interpretato i ruoli che erano stati creati per Meryl Tankard (che dal 1982 ha lasciato la compagnia). Dopo una breve assenza dal Wuppertaler Tanztheater (1986-87) torna nella compagnia con Palermo Palermo (1991).

Pendleton

Appassionato sciatore, Moses Pendleton vince il campionato mondiale di fondo nello stato del Vermont (1967). Si laurea poi in letteratura inglese al Darmouth College (1971) e da vita, con Jonatahan Walken, al Pilobolus Dance Theatre. In seguito al successo della inedita formula di danza acrobatica del gruppo, vince il Berlin Critics Prize (1975) e debutta a Broadway, presentato da Pierre Cardin (1977). Intanto, mentre continua a esibirsi con il Pilobolus, firma in proprio la coreografia per l’ Integrale Eric Satie all’Opéra di Parigi (1979) e il suo notissimo `a solo’ al ralenti, vestito di bianco, con occhiali neri e bastoncino, dal titolo Momix, ideato per la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi Invernali di Lake Placid. Nasce da qui la sua nuova compagnia, chiamata appunto Momix (1980), per la quale crea numerosi titoli a partire da un’intuizione, da un oggetto o da un dettaglio, che diventano occasioni di giocosi virtuosismi ginnici e di invenzioni fantasiose, sfruttando le potenzialità dinamiche del corpo. Tra le sue coreografie, al di fuori dell’attività con Pilobolus e Momix, ci sono anche il remake di Relâche per il Joffrey Ballet (1980), Pulcinella di Stravinskij per il Ballet de Nancy (1985), Platée di Rameu per il festival di Spoleto negli Stati Uniti (1987), il remake di Les mariés de la Tour Eiffel di Cocteau a New York (1988).

Coreografo per l’opera ( Kovancina alla Scala di Milano, regia di Y. Lyubimov, 1982; Carmen , regia di L. Wertmüller, Monaco di Baviera), per il video ( Quadri di un’esposizione , Decca), per il cinema ( The Go Between di Joseph Losey, 1970; Batdance per il cantante-ballerino Prince nel film Batman ), per la televisione (“Moses Pendleton presents Moses Pendleton”, “Abc”, 1982 e “Too Late for Goodbyes” di Julian Lennon, regia di S. Peckinpah, 1984), si dedica anche alla fotografia, sia per fissare nuove idee di movimento sia come espressione artistica pura. Alla base della straordinaria fortuna che il pubblico internazionale tributa alla danza allegra e surreale dei Momix ci sono indubbiamente il suo talento e la sua inventiva, uniti a un grande senso del ritmo teatrale e a un sicuro istinto registico. Sa, quindi, scegliere la via della semplicità per arrivare in modo diretto e immediatamente comprensibile a qualsiasi spettatore. La continuità della sua carriera e l’influsso che ha esercitato su altre personalità, come Daniel Ezralow, e su altri gruppi, come i Movers, testimoniano che si tratta della più acuta testa pensante nel campo dell’intrattenimento intelligente, che associa la libertà di ricerca della danza moderna e la spettacolarità del varietà e del teatro leggero.

Parsons

David Parsons studia nella sua città natale per entrare poi nella compagnia di Paul Taylor a New York (1978), dove interpreta, alla creazione, Arden Court (1981), Last Look e Roses (1983). Passa poi al gruppo dei Pilobolus e a quello dei Momix, ma fonda intanto la propria compagnia (1978), per cui coreografa numerosi lavori, tra i quali il solo a luci stroboscopiche Caught (1982), che è il suo brano più noto, The Envelope (1984), Nascimento (1990), Rise & Fall (1991), Bachiana (1992), Union e Step into my Dream (1993), Mood Swing (1994). In Italia, debutta al Festival di Spoleto nel 1988, dove porta Brothers, creato con Daniel Ezralow, anch’egli proveniente dalla compagnia di Taylor; un brano interpretato anche da famosi ballerini classici come Paolo Bortoluzzi, Charles Jude, Rudolf Nureiev. Il suo fisico di ragazzo americano sano e robusto, il suo atletismo, la positività e l’allegria dei suoi temi, l’energia dei suoi danzatori, ne hanno fatto una figura molto popolare. Alla base del successo c’è però soprattutto la semplicità delle sue coreografie, costruite con strutture di facile comprensione, piacevolmente ritmate sulle musiche accattivanti che ama scegliere.

Pasolini

Arrivato al successo anche di scandalo con i romanzi, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) Pier Paolo Pasolini scrive per il teatro soprattutto negli anni ’60, quando acquisisce sofferta coscienza dell’irrilevanza sociale del letterato-umanista, ormai del tutto incapace di incidere sulla realtà. Il mondo infatti va mutando radicalmente volto: la spinta all’omologazione innescata dal boom economico, col conseguente annullamento dell’antica diversità del sottoproletariato e la presunta azione politica organizzata per favorirla, si intreccia con i crescenti segni di malessere di una gioventù ansiosa e desiderosa di cambiare, inevitabilmente in attrito con la generazione dei padri. Pasolini, convinto che a questo livello, «la realtà non può essere detta, ma solo rappresentata», cerca una reazione imboccando sia la strada del cinema sia quella, appunto, del Teatro. La sua drammaturgia – a forte matrice autobiografica – nasce dunque dalla volontà di trovare nuove forme di comunicazione, capaci di individuare inediti e residui spazi di movimento per l’intellettuale in crisi politica e psicologica. La scelta impone però di ripartire da zero, accettando soltanto il puntello del teatro classico.

Nel marzo 1968 su “Nuovi Argomenti” Pasolini firma “Il Manifesto per un nuovo teatro”, col quale ribadisce che il suo sarebbe stato un `Teatro di Parola’, cioè un vero e proprio `rito culturale’ opposto sia al teatro ufficiale (`Teatro della Chiacchiera’), sia a quello d’avanguardia (`Teatro del Gesto e dell’Urlo’). Preceduta dalla stesura di Turcs tal Friul (in lingua friulana) e da Nel ’46, oltre che dall’attività di traduttore-rifacitore (l’Orestiade di Eschilo – su impulso di Gassman che ne curò la regia al teatro greco di Siracusa nel 1960 – e il Miles gloriosus di Plauto riproposto in romanesco, Il Vantone di Plauto, 1963), la produzione teatrale maggiore di Pasolini è costituita dalle sei tragedie, tutte ideate e stese nel corso dell’estate del 1966. Pilade – allestita nel 1969 per la regia di Giovanni Cutrufelli – propone lo scontro tra Oreste, il politico in sintonia con un mondo sempre più industrializzato, e Pilade (cioé Pasolini stesso), l’intellettuale condannato alla solitudine. Orgia – portata sulle scene dall’autore nel 1968 – si incentra sull’opposizione uomo-donna e lancia il tema della diversità. Affabulazione -la `prima’ è stata diretta da Navello nel 1975, Gassman ne ha invece curato un successivo allestimento nel 1977 – affonta invece i rapporti padre e figlio, mentre Porcile (R. Guicciardini ne ha allestito un’interessante versione nel 1989) insiste, tra l’altro, sul tema della continuità del Potere.

Calderón, rappresentata per la prima volta nel 1978, sperimentalmente al Metastasio di Prato, con regia di L. Ronconi, è un continuo gioco di specchi tra sogno e realtà, che si risolve nella consapevolezza di non aver più armi contro il Potere, ormai capace – attraverso la presunta rivoluzione del ’68 – di rinnovare proprio se stesso. Bestia da stile (di cui si ricorda la messinscena curata da Cherif), scritta in dieci anni di lavoro, ritorna all’autobiografismo e alle riflessioni sulla diversità e sulla inutilità di una vita spesa per la poesia. La fortuna del teatro di Pasolini è cresciuta soprattutto dopo la sua morte. Oggi i suoi testi sono riproposti con regolarità e si è giunti anche alla trasposizione di opere narrative (Petrolio, rivisitato per le scene da G. Bertolucci nel 1994 nello spettacolo intitolato Il pratone del Casilino), di lavori cinematografici (Uccellacci e uccellini, a cura di Pasolini Bocelli nel 1984), o di sceneggiature (Il Vangelo secondo Matteo, regia di F. Ambrosini, Milano 1994). Tra i suoi film si ricordano: Accattone (1961), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Edipo re (1967), Medea (1970) con Maria Callas, Il Decameron (1971) e, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Poiret

Jean Poiret ha formato una celebre coppia comica con Michel Serrault; assieme hanno recitato in La cage aux folles (1972), scritta dallo stesso P., ottenendo uno straordinario successo di pubblico. Lo spettacolo, rimasto in cartellone per sette anni consecutivi al Palais-Royal, ha dato vita nel 1978 anche a una versione cinematografica, Il vizietto , interpretata da Serrault e Ugo Tognazzi, nel ruolo che a teatro aveva impersonato lo stesso P., mentre nel 1991 è stata rappresentata dalla Compagnia della Rancia. Come autore ha firmato: Douce amère (1970); L’impromptu de Marigny (1974); Féfé de Broadway (1977); Joyeuses Pâques (1980); Les clients (1987); C’est encore mieux l’aprèsmidi (1987, adattamento dal testo di R. Cooney). È stato interprete di tutte le sue commedie, e ha recitato inoltre in: Fleur du cactus di Barillet e Gredy; Le canard à l’orange di W. Douglas Home e M. Gilbert Sauvajon; Le vison voyageur .

Paolini

Marco Paolini è una delle figure più interessanti e originali del teatro di questo ultimo scorcio di secolo: reinventa il linguaggio della narrazione prendendo spunto dalla tradizione degli affabulatori e dal teatro di Dario Fo, raccontando vicende autobiografiche e della sua terra d’origine. Una sintesi a cui approda dopo diversificate esperienze raccolte da autodidatta, in molti settori del teatro: da quello politico a quello di strada, alla clownerie, alla commedia dell’arte. Inizia a lavorare partecipando all’esperienza del teatro politico (1974) e fino al 1982 fa parte dei gruppi Teatri di Base, prosegue in seguito nell’area chiamata del `terzo teatro’, lavorando con il gruppo di Pontedera e con Eugenio Barba. Fa parte del Tag Teatro di Venezia (1984-86). Dal 1987 al 1986 è con il Teatro Settimo diretto da G. Vacis nelle vesti di attore e coautore. A farlo conoscere è il suo spettacolo sul romanzo di L. Meneghello Libera nos a malo. Recita anche La storia di Romeo e Giulietta e La trilogia della villeggiatura in una originale e un po’ gigionesca interpretazione di Filippo. Si incammina in una scelta di lavoro autonomo di opere a-solo, con la cooperativa teatrale Moby Dick-Teatri della Riviera. I primi spettacoli sono Gli Album di Marco Paolini, dove nella parte del suo alter-ego Nicola (dal nome del protagonista del Petit Nicolas di Goscinny) mescola ricordi autobiografici, storie, memorie e personaggi della sua terra d’origine. Da Adriatico a Tiri in porta a Liberi Tutti (scritti con G. Vacis che ne ha curato anche la regia) e Aprile ’74 e 5 sono tappe di una crescita dall’infanzia alla giovinezza, e nello stesso tempo un affresco dell’Italia dal 1964 in poi. Lo ha reso famoso Il racconto del Vajont , la cronaca della frana di Longarone, con il quale vince il Premio Speciale Ubu 1995 e il premio Idi (diventato un evento televisivo nel 1997 nell’adattamento di Felice Cappa e Gabriele Vacis che ne è coautore e ne ha curato la regia teatrale). Prosegue il racconto di viaggio: Il milione, quaderno veneziano di Marco Paolini (1997). Realizza in tre puntate su opere di poeti veneti (Zanzotto, Meneghello, Marin): Bestiario in Brenta , Bestiario Parole Matte e L’orto per l’Olimpico di Vicenza (1998).

Pessoa

Fernando Pessoa trascorse l’infanzia a Durban, in Sudafrica e studiò all’Università di Città del Capo. Tornato a Lisbona divenne caposcuola del modernismo. Pur coltivando per anni l’ambizione di esprimersi come autore drammatico, lasciò al teatro un esiguo contributo. L’atto unico di stampo simbolista O Marinheiro (1913, pubblicato nel 1915) è un `dramma statico’ sul quale grava l’influenza di Maeterlinck, in cui l’azione, puramente verbale, nasce e si sviluppa nel dialogo di tre personaggi femminili, che vegliano in una stanza di un antico maniero il corpo di una morta. Sedute di fronte alla finestra, immobili per tutto il tempo, esse rievocano «un passato che non hanno mai avuto». Dal sogno emerge l’invenzione del marinaio sperduto in un’isola lontana. Scrisse anche un monologo Nella selva dell’alienazione e i frammenti di un incompiuto Faust in versi.

Panigrahi

Dalla prima infanzia studiò danza, nello stile classico Bharata Natyam alla scuola di Rukmini Devi. Assieme a quattro guru dello stato di Orissa, fra cui il proprio maestro Kelucharan Mohapatra, fu protagonista della rifondazione dello stile Odissi ( v. ), del quale è stata per oltre trent’anni splendida interprete e coreografa, nonché ambasciatrice nel mondo, accompagnata dal marito Ragunath Panigrahi, uno dei migliori musicisti dello stile musicale dell’Orissa. Artista di grande talento, creatività e forza intellettuale, è stata cofondatrice con Eugenio Barba dell’Ista.

pochade

Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, la p. è costruita su una struttura d’intreccio con intrighi, riconoscimenti, colpi ad effetto e ammicammenti maliziosi e salaci sulla vita amorosa. Genere brillante e piacevole, rivolto alla piccola e media borghesia e di grande successo popolare la p. appartiene alla piéce bien fait, ovvero a quella drammaturgia tardottocentesca, che annovera tra gli altri Scribe, Sardou, Labiche, caratterizzata da una grande maestria nella costruzione dello sviluppo narrativo e dei caratteri, alla quale con tratti diversi appartiene anche il vaudeville. Tra gli autori più noti Georges Feydeau (1862-1921) con L’albergo del libero scambio (1894) e Tristan Bernard (1866-1947) con Tripleatte (1905).

Peduzzi

Con un rapporto professionale praticamente esclusivo, Richard Peduzzi si lega al regista francese P. Chéreau (L’italiana in Algeri di Rossini, Spoleto, 1969), con cui lavora per il Piccolo Teatro di Milano (Toller e Lulu), elaborando uno stile raffinato che riadatta e sfrutta liberamente le strutture architettoniche (di grande impatto L’anello del Nibelungo di R. Wagner, con cui Chéreau scandalizzò Bayruth, nel 1976, studiato in occasione del Centenario del Festival e ripreso nel 1978 con alcune varianti, dove i materiali e le forme si adeguano ad un perfetto equilibrio geometrico). Negli anni seguenti, lo scenografo si occupa di rappresentazioni di rilievo, tra cui I racconti di Hoffmann di Offenbach (Parigi, 1974), Les paravents di J. Genet (Nanterre, Theatre des Amondieres, 1983), Lucio Silla di Mozart (Milano, Teatro alla Scala, 1984). Fortunati il Quartetto di Müller (Nanterre, Theatre des Amandiers, 1985), una specie di `camera-bunker’ dai muri smisuratamente alti, ed il labirintico Amleto di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988). Più di recente, Le temps et la chambre di B. Strauss (Parigi, Odéon Thèatre de l’Europe, 1991) con un indovinato prolungamento della platea: proiettando il pubblico dentro la stanza in cui si svolge la vicenda, permette di comprendere il suo tentativo di fondere spazio scenico ed edificio teatrale. Per l’ultimo Le nozze di Figaro di Mozart (Festival di Salisburgo, 1995), lo scenografo lavora con L. Bondy, con il quale aveva già presentato un riuscito Il racconto d’inverno di Shakespeare (Festival di Avignone, 1988).