Romains

Nelle poesie di Jules Romains (Odi e preghiere; 1913) e nei suoi romanzi (Morte di qualcuno, 1911; I compagni, 1913), come più tardi, nell’ambiziosa epica narrativa in ventisette volumi (Gli uomini di buona volontà) cercò di raccontare vite e esistenze comuni, con gli occhi di un umanesimo e di un socialismo utopistico, spesso schematico e intellettualistico. Esordisce in teatro con L’armée dans la ville (1911). Negli anni ’20 collabora con Copeau, che gli affida la direzione della scuola di teatro del Vieux-Colombier. Si afferma come autore brillante con Monsieur Le Trouhadec saisi par la débauche e Knock ou le triomphe de la médecine (1923, regia di Jouvet), che hanno grande successo. Knock è un ciarlatano che, fingendosi un medico, convince gli abitanti di un villaggio di essere malati per imbrogliarli, ma alla fine cade vittima del suo stesso inganno. Non hanno fortuna alcune pièces successive, Le mariage de Monsieur Le Trouhadec (1925); Le déjeuner marocain (1926); Jean le Maufranc (1926); Le dictateur (1926); Boën ou la possession des biens (1930); Grâce encore pour la terre (1939), – forse appesantite da quell’ideologismo aprioristico che inficia spesso anche la sua narrativa. Il miglior Romains torna a esprimersi invece nell’adattamento francese del Volpone di Ben Jonson (1928) e in Donogoo (1930): la falsa scoperta di una città, comunicata all’Accademia geografica diventa l’occasione della fondazione di una nuova città, perfettamente rispondente a quella inventata per ottenere i fondi di ricerca. Nel 1946 è eletto all’Académie française.

Crovi

Secondario, rispetto all’impegno narrativo ed editoriale, è stato l’interesse di Raffaele Crovi per il teatro. Il suo intervento più interessante, in cui più felicemente appare la sua posizione di `cristiano illuminato’, è la commedia Quello Stolfo de Ferrara , andata in scena al Teatro Verdi di Milano per la regia di Velia Mantegazza nel febbraio 1983. L’opera è una riproposizione in chiave contemporanea delle antiche storie cavalleresche: Orlando è il signore della guerra, Astolfo l’uomo comune, che ha la capacità di convivere con tutti, le Arpie sono una trasposizione delle Brigate rosse. Col titolo Il viaggio di Astolfo lo spettacolo è stato riproposto – sempre con la regia di V. Mantegazza e musiche di F. Battiato – a Neerpelt, in Belgio, nel 1985. In precedenza, nel 1977, presso il Teatro del Giglio di Lucca, C. aveva portato sulle scene la riduzione di Uomini e no di Vittorini (in collaborazione con Enrico Vaime). Nel 1981, nell’ambito della rassegna `Formello ’81’ a Roma, è andato in scena L’orto drogato, nell’interpretazione di G. Lavia.

Moravia

Alberto Moravia ottenne il successo, di critica e di pubblico, giovanissimo, con il romanzo che molti considerano il suo capolavoro Gli indifferenti, nel 1929; cui ha fatto seguito per mezzo secolo una copiosa e continua produzione di narrativa (Agostino , 1944; La romana , 1947; Il disprezzo , 1954; La noia , 1960), tradotta in tutto il mondo e spesso trasposta in cinema. E se la scrittura teatrale è sicuramente marginale nell’opera di Moravia, tuttavia la `teatralità’ è un elemento costitutivo della sua narrativa: le sue pièce nascono dunque da abitudini collaudate. Il primo lavoro è La mascherata ( 1955) – rappresentato al Piccolo di Milano con regia di Strehler – ispirata all’omonimo romanzo (pubblicato nel 1941), in cui si mettevano alla berlina gli aspetti più corrivi del fascismo. Eccettuata Beatrice Cenci (regia di Franco Enriquez, 1955), il clima in cui è nato M. drammaturgo è quello (siamo alla metà degli anni ’60) del `teatro della parola’ contrapposto al `teatro della chiacchiera’, in sintonia con le scelte di intellettuali quali Siciliano, la Maraini – con cui crea la Compagnia del Porcospino -, la Ginzburg e, soprattutto, Pasolini. Protagonisti delle pièce elaborate a partire da questi anni sono la vita e i costumi della società stanca e pervertita, che M. analizza scendendo nelle psicologia dei personaggi, soprattutto di quelli femminili. Tra le opere, menzioniamo Il mondo è quello che è (Teatro La Fenice, Venezia, 1969, regia di Gianfranco De Bosio), Il dio Kurt (Teatro Comunale dell’Aquila, 1969, regia di Antonio Calenda), esperimento di `teatro nel teatro’ in cui affronta il tema del nazismo, recuperando le suggestioni della grecità, La vita è gioco (Teatro Valle di Roma, 1970, regia di Dacia Maraini) e le successive Voltati, parlami (un monologo risultante dall’adattamento del racconto La vergine e la droga curato da Enzo Siciliano, 1984), L’angelo dell’informazione (regia di Giorgio Albertazzi, 1985), La cintura (regia di Roberto Guicciardini, 1986), Omaggio a James Joyce ovvero il colpo di stato (allestito a Venezia, Ca’ Foscari, nel 1971, con la regia di Beppe Zambonini). Nel 1981 lo stesso M., insieme a Luigi Squarzina, ha riproposto la riduzione de Gli indifferenti (già messa in scena al Teatro Quirino di Roma nel 1948), allestita con la regia di Dino Lombardi. Nel 1985 Annibale Ruccello ha proposto l’adattamento della Ciociara .

Strauss

Botho Strauss è considerato uno degli scrittori più importanti del mondo letterario contemporaneo Dopo gli studi di germanistica, scienze teatrali e sociologia a Colonia e a Monaco, avvia un intenso dialogo con Adorno, ma si allontana da lui a causa di forti contrasti riguardo alla progettata tesi su Thomas Mann e il teatro. Collabora con la rivista “Theater Heute” e nel 1970 viene chiamato alla Schaubühne ad Halleschs Ufer, a Berlino, da P. Stein per conto del quale lavora su Ibsen (Peer Gynt, 1971), e quindi su Labiche, Gorki, Kleist. Dal 1975 vive come scrittore indipendente a Berlino. Quando nel 1972 appare il suo primo lavoro, Gli ipocondriaci (Die Hypocondern), il pubblico non lo comprende. Comincia a imporsi soltanto dopo il 1975 con degli impressionanti affreschi sulla solitudine e sull’incomunicabilità.

La Trilogia del rivedersi (Trilogie des Widersehens) del 1976 mostra, attraverso l’inugurazione di una esposizione di pittura in una piccola città di provincia, un universo di solitudine, di conflitti e di angoscie dietro la superficie degli stereotipi borghesi; gli stessi personaggi appaiono meno reali dei quadri di cui discutono. Grande e piccolo (Gross und Klein, 1979) tratta del vagabondare di una ragazza qualsiasi attraverso la Germania. Il suo desiderio di comunicare si scontra con continui rifiuti, si esaurisce in fallimenti e cadute grandi e piccole senza che lei possa rinunciare alla sua ricerca. La chiusura e la solitudine sono il motivo conduttore di tutte le opere di Strauss. Questo malessere si esprime ineluttabilmente sia nei drammi che nei racconti e nei romanzi, collegati tutti dal senso profondo di una complessa drammaturgia.

Vengono di lui rappresentati anche brevi monologhi come La dedica (Die Widmung, 1977), soliloquio di un uomo abbandonato dalla sua compagna in una torrida estate berlinese. La scelta di Berlino come scenario di molte delle sue opere non è fortuita, infatti S. associa la solitudine e il malessere interiore alla desolazione della città. La ricerca di un ancoraggio impossibile è ancora il tema di Kalldewey Farce , del 1982, che evoca due anonime donne perdute nei bar della metropoli. In Il parco (Der Park, 1983), la solitudine e la malinconia sono elevate a livello di potenze mitiche. Con riferimenti politici, ma scavando nella realtà dei sentimenti, l’autore ci mette di fronte alla necessità del ritorno a un’interiorità, per quanto mutilata e martoriata: i suoi personaggi, attraverso l’introspezione, dissezionano senza pietà la loro anima con la forza della disperazione.

Strauss – poeta come Handke e Wenders della solitudine moderna, dell’incomunicabilità degli esseri – è maestro nel rappresentare la confusione dei sentimenti, come in Visi noti, sentimenti confusi (Bekannte Gesichter, gemischte Gefühle, 1974). Il suo romanticismo trova ispirazione in un quotidiano trasfigurato in modo quasi mitico, ma anche in Kleist, Büchner e Hoffmann che gli aprono la possibilità, per esempio in Gli ipocondriaci, di trasformare i suoi personaggi nei loro doppi, prigionieri di una storia d’amore che li trasforma, apparentemente senza motivazioni comprensibili, mentre su tutto pende una minaccia inesprimibile che li segue nelle loro vite e nei loro sogni.

Vicino al `teatro mentale’ di Handke, Strauss esprime più l’anonimato, la perdita di senso e di significato della coscienza moderna che non le istanze sociali. Il nuovo realismo di cui è promotore conduce dalla vita interiore verso l’esterno, integrando l’irrazionale, il quotidiano e il triviale. La rottura sentimentale, l’abbandono sono utilizzati come metafore della solitudine collettiva. Divenuti estranei alle loro vite, privati di spontaneità, vittime della loro perpetua coscienza riflessiva, i personaggi di S. sono carnefici e vittime delle loro speranze deluse, passano attraverso processi di fusione e di scissione come in Marlenes Schwester (La sorella di Marlene, 1975).

Al grido muto di Handke, alla violenza di Bernhard, Strauss oppone un concetto drammatico della soggettività (“Ich-Dramatik”) di stampo espressionista. Ma la disperazione e la solitudine dei suoi personaggi conducono spesso a una lucidità dolorosa. La lingua di Strauss, maschera del vuoto, con la sua impressionante bellezza, è espressione di un nuovo romanticismo, quello della disillusione. Tra le sue opere più recenti sono da ricordare: Il tempo e la stanza (Die Zeit und das Zimmmer, 1989); Coro finale (Schlusschor) e I vestiti di Angela (Angelas Kleider) entrambe del 1991; L’equilibrio (Das Gleichgewicht, 1993) e Jeffers-Akt I und II , del 1998.

Serra

Una delle firme più divertenti e originali del giornalismo, Michele Serra ha coltivato fin dall’inizio della sua carriera interessi per lo spettacolo, soprattutto per quello d’autore – ha scritto un saggio su Gaber – e, naturalmente, per la satira. Ha scritto per Beppe Grillo monologhi, sketch e il primo spettacolo Buone notizie (assieme a Arnaldo Bagnasco) e L’assassino, scritto in collaborazione con Massimo Martelli e i protagonisti, I Gemelli Ruggeri. Lo spettacolo è stato allestito a Castelfranco Emilia con la regia di M. Martelli, presso il Teatro Comunale Dadà, nel 1994. L’ultimo suo testo è Giù al Nord, scritto in collaborazione con Antonio Albanese che ne è l’interprete (al testo ha collaborato anche il regista Giampiero Solari).

Weiss

Figlio di ebrei (il padre era un industriale cecoslovacco, la madre una colta vedova svizzera che in gioventù era stata attrice), dopo l’infanzia berlinese Peter Weiss fu costretto a seguire i genitori in fuga dalla montante follia nazista (emigrarono nel 1934). Prima due anni in Inghilterra, poi due in Cecoslovacchia – dove si formò all’Accademia artistica di Praga (1936-37), poi uno in Svizzera; infine, dal 1939 in Svezia, dove Weiss si stabilì prendendo la cittadinanza (1945). La giovanile vocazione per la pittura fu subito ridimensionata dalla necessità di far fronte ai bisogni materiali di chi, abbandonata la patria, aveva perso gli agi borghesi. Costretto a mantenersi, trovò lavoro nelle arti applicate (disegnatore nell’industria tessile e grafico), continuando per molti anni a dipingere, a creare collage, a occuparsi di cinema (fu consulente per l’Accademia del film svedese fino alla morte) e, naturalmente, a scrivere.

Se la pittura non gli diede mai grandi soddisfazioni (fece la prima mostra alla galleria Springer di Berlino nel 1963, quando era ormai uno scrittore famoso), così come il cinema (nel 1960, al festival di Locarno, passò inosservato il suo primo lungometraggio, Lo sperduto ), con la letteratura e il teatro, se pur tardivamente, si impose a livello internazionale, diventando il primo grande autore di lingua tedesca dopo Brecht. Alle prose d’esordio in lingua svedese (scritte tra il 1947 e il 1953) Weiss alternò i suoi primi due drammi in tedesco – La torre, 1948 e L’assicurazione, 1952 – che risentono da una parte dell’influsso del teatro dell’assurdo, dall’altra dell’opera di Strindberg, di cui in seguito tradurrà La signorina Julie (1961) e Il sogno (1963). La svolta avvenne nel 1960, quando con il microromanzo L’ombra del corpo del cocchiere (Der Schatten des Körpers des Kutschers) si impose all’attenzione della critica per l’originalità di una scrittura capace di creare forti suggestioni visive. Il plauso della critica fu ribadito e accompagnato dall’interesse del pubblico anche in occasione dell’uscita dei due successivi testi autobiografici Congedo dai genitori (Abschied von den Eltern, 1961) e Punto di fuga (Fluchtpunkt, 1962), in cui lo sradicamento esistenziale e linguistico degli esuli del nazismo provoca una profonda crisi di coscienza che sfocia in un pessimismo critico e si manifesta nella condizione dell’apolide.

La piena maturità artistica di Weiss coincide con la sua attività di drammaturgo. Nel 1963 l’atto unico Notte con ospiti riassume tutte le esperienze linguistiche precedenti in un testo grandguignolesco, in cui due bambini assistono all’autodistruzione del mondo adulto. È il preludio al primo dei suoi capolavori: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade (Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade), solitamente abbreviato in Marat/Sade . Weiss utilizzò il dramma storico e il gioco di specchi del teatro nel teatro per mettere in risalto il conflitto tra Marat, l’uomo più radicale della Rivoluzione francese, intransigente difensore della giustizia e della ragione, e Sade, interprete di un anarchismo istintivo e di un nihilismo aristocratico che lo porta a profetizzare la sconfitta della Rivoluzione (il marchese de Sade era stato realmente ricoverato in quell’ospizio). Lo scontro tra le due istanze rimane aperto – Marat può essere un eroe come un pazzo e Sade un pazzo come un saggio – e lo stesso autore nel corso del tempo non esplicitò mai definitivamente le sue propensioni. Weiss stese quattro redazioni successive alla prima, che andò in scena nel 1964 allo Schiller Theater di Berlino con scene disegnate da lui stesso, costumi creati dalla moglie, Gunilla Palmstierna, e la regia di Konrad Swinarski. Degli allestimenti successivi vanno citati almeno quello di Peter Brook (Londra 1964, che poi diventò anche un film) e, più recentemente, quello di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza (198?).

L’anno successivo il clamore fu ripetuto dalla messa in scena de L’istruttoria (Die Ermittlung). Questa volta Weiss scrisse il testo più riuscito del cosiddetto `dramma documentario’ – che aveva avuto due precedenti di grande successo con Il vicario di Hochhuth e Sul caso J. Robert Oppenheimer di Kipphardt – montando in versi gli atti del processo (Francoforte 1963-64) contro i responsabili del lager di Auschwitz. Il poema, raccontando minuziosamente la barbarie, fu uno shock; snodandosi come un oratorio, scandito dalle testimonianze delle vittime e dalla difesa degli aguzzini, si chiude senza verdetto: un finale senza catarsi che diventa un ineludibile monito per il futuro. Lo spettacolo debuttò contemporaneamente in diversi teatri tedeschi: alla Freie Volksbühne di Berlino Ovest, Erwin Piscator ne fece una rappresentazione scarna, essenziale, con i ventidue quadri introdotti dai preludi composti da Luigi Nono (ripresi poi in una geniale messa in scena di Virginio Puecher al Piccolo Teatro, con l’uso inedito di telecamere a circuito chiuso, 1967); a Colonia fu messo in scena davanti a uno specchio che rifletteva il pubblico, esplicito richiamo a considerare quella tragedia il frutto della propria storia; a Berlino Est, Helene Weigel ne diede una semplice lettura, poiché nulla si poteva aggiungere a quelle parole. Un’edizione particolarmente riuscita – che concilia la forza emotiva e il rigore – è tuttora nel repertorio della Compagnia del Collettivo di Parma (regia di Gigi Dall’Aglio, 197?).

L’eco de L’istruttoria fu anche amplificato dalle polemiche suscitate dall’autore, che ne diede una lettura politica: l’orrore dei lager era il frutto del capitalismo. La sua adesione al comunismo militante influì fortemente sulle opere successive: la Cantata del fantoccio lusitano (Gesang vom lusitanischen Popanz, 1967; messa in scena nel ’69 da Strehler con il gruppo Teatro Azione, quando lasciò il Piccolo Teatro) sul feroce imperialismo portoghese in Angola, Come il signor M. fu liberato dai suoi tormenti, `stationendrama’ su un proletario sfruttato dalla società e il programmatico Discorso sulla preistoria e il decorso della lunga guerra di liberazione nel Vietnam quale esempio della necessità della lotta armata degli oppressi contro i loro oppressori come sui tentativi degli Stati Uniti di distruggere le basi della rivoluzione , di solito abbreviato in Discorso sul Vietnam (Diskurs über Viet Nam; entrambi del 1968). Si tratta di testi dichiaratamente di propaganda, in cui si intrecciano pantomime, scenette, canzoni e danze montate come spettacoli di teatro spontaneo, con trovate divertenti e efficaci intuizioni (ad esempio, i diversi registri linguistici in Discorso sul Vietnam ) ma che, per loro stessa natura, risultano grezzi nella drammaturgia e, inevitabilmente, superficiali nei contenuti.

La prospettiva fortemente ideologica di Weiss non gli impedisce di attaccare l’Urss subito dopo l’invasione di Praga e, conseguentemente, di essere messo al bando dai comunisti. Con il collage documentario Trockij in esilio (Trotzki im Exil, 1970) ritorna sul tema della rivoluzione tradita, senza ripetere lo straordinario risultato del Marat/Sade, ma anticipando temi tuttora attuali, come la necessità di un riscatto del Terzo mondo. Segue una parabola discendente con il criticato Hölderlin (1971), una biografia del poeta come l’artista capace di combattere la tradizione culturale dominante miseramente asservita al potere (rappresentata da Goethe e Schiller), e un faticoso adattamento del Processo di Kafka (1975), ridotto alla dialettica servo-padrone. Gli insuccessi degli ultimi due testi lo spinsero a ritornare alla letteratura, ma non ad abbandonare le sue idee; il suo testamento filosofico è L’estetica della resistenza (Die &Aulm;sthetik des Widerstands, 1975-1981), biografia del movimento operaio e dell’antifascismo attraverso la vita di un proletario.

Flaiano

Scrisse romanzi (Tempo di uccidere, 1947), racconti (Una e una notte, 1959) e raccolte d’aforismi, svolse in diversi periodi attività di critico drammatico (le sue recensioni furono in parte raccolte nel volume dal titolo: Lo spettatore addormentato) e tentò occasionalmente il teatro. Ennio Flaiano esordì nel 1946 con l’atto unico La guerra spiegata ai poveri che, attraverso uno scoppiettante susseguirsi di battute, spesso azzeccate, raccontava i meccanismi alle origini dei conflitti, ironizzando sulle figure dei potenti e solidarizzando, con pudica amarezza, su quelle delle vittime. Seguirono due farse di scarso spessore (La donna nell’armadio, 1957; Il caso Papaleo, 1960) e l’opera teatrale più impegnativa, Un marziano a Roma (1960), tratta da un breve racconto e travolta dai fischi alla prima rappresentazione al Lirico di Milano, anche a causa di una messinscena di V. Gassman, inutilmente faraonica. Vi si riproponeva, nelle vesti di una storiella fantascientifica, il tema non nuovo di come una tensione ideale poteva essere assorbita e svuotata da una realtà cinica e vischiosa. L’insuccesso portò l’autore ad affermare che «scrivere per il teatro è come scrivere in ottava rima. Una forma che non ci riguarda più». Ma ci provò ancora una volta, con La conversazione continuamente interrotta (1972), dove tre intellettuali, stancamente impegnati nello stendere una sceneggiatura, parlavano delle loro nevrosi e vivevano, quasi distrattamente, piccoli drammi non certo sufficienti a riempire il loro vuoto. E anche qui osservazioni graffianti s’innestavano in una struttura programmaticamente fragile. Come critico, ebbe soprattutto il merito di segnalare, fra i primi, il talento di C. Bene; ed è stato, come sceneggiatore cinematografico, il più importante collaboratore di Fellini (I vitelloni, La dolce vita ).

Vian

Il suo carattere inquieto l’ha portato a sperimentare diverse forme artistiche: Boris Vian è stato anche attore, ballerino, cantante, librettista, musicista, critico e giornalista. Il suo debutto come autore drammatico avviene nel 1948 con l’adattamento del suo romanzo J’irai cracher sur vos tombes . Nel 1950 la rappresentazione di Equarrissage pour tous è un insuccesso. A questa seguono altre pièces: Le goûter des généraux (1951), farsa antimilitarista; Le chevalier de neige (1953), ispirato alla leggenda dei cavalieri della Tavola Rotonda; Les bâtisseur de l’empire ou le Schmürz (1959), storia di una famiglia sconvolta dall’intrusione di uno strano essere – lo Schmürz del titolo – che forse rappresenta la cattiva coscienza dell’uomo contemporaneo. Vian, poco conosciuto in vita, è stato rivalutato dopo la sua prematura scomparsa. Ricordiamo la sua attività di compositore di testi musicali e di librettista: nel 1958 ha scritto l’opera Fiesta, per Darius Milhaud.

Marotta

Autore di romanzi e di racconti di grande successo anche popolare (L’oro di Napoli, 1947; A Milano non fa freddo, 1949; Gli alunni del tempo, 1960), critico cinematografico sui generis, Giuseppe Marotta si è dedicato saltuariamente anche al teatro. La rappresentazione dei caratteri, la ricostruzione degli ambienti, l’umorismo spesso intriso di disincanto, la forza del sentimento sono i cardini attorno a cui ruota la scrittura teatrale di M. Il vero protagonista delle sue opere è comunque il tipo napoletano, l’uomo che, come il califfo Esposito, compendia pregi e virtù della sua città, dall’arte di arrangiarsi alla prorompente vitalità. M. scrisse le sue opere per il teatro avvalendosi della collaborazione di Belisario Randone. Su tutte spicca, come segnalato, Il califfo Esposito , storia delle complicazioni sentimentali di `un guappo’ di quartiere, unito alle sue donne-moglie e amanti-con «viti , bulloni e fiamma ossidrica». Tra gli altri testi si ricordino Il contratto , Bello di papà, Veronica e gli ospiti, Il malato per tutti, Vado per vedove, che hanno incontrato, tra gli anni ’50 e ’60, una discreta risposta di pubblico.

Martini

Cresciuto nella cerchia dei giovani romani che faceva capo a Corazzini, dal quale fu influenzato nella stesura dei suoi primi versi, Fausto Maria Martini partecipò alla prima guerra mondiale, restando gravemente ferito. Dalla sua produzione teatrale emerge un intimismo vicino alla poetica crepuscolare, con venature di inquietudine. I personaggi che creò furono spesso senza caratteri accentuati e le trame delle sue opere prive di forte struttura drammatica, tanto che egli stesso le definì «drammi dell’insignificante», così come recita anche il titolo di una raccolta di scritti per la scena pubblicata nel 1928. Tali caratteristiche si ritrovano anche nella sua produzione letteraria e poetica. Tra le sue opere vanno ricordati Il giglio (1914), Ridi, pagliaccio! (1919), Il fiore sotto gli occhi (1921), Altra Nanetta (1923), La facciata (1924), La sera (1926). Scrisse anche per il cinema: nel 1915 realizzò il soggetto di Rapsodia satanica , film musicale influenzato dal movimento futurista, che venne diretto da Oxilia e che si avvalse dell’interpretazione di Lyda Borelli.

Berrini

Seguace di Sem Benelli, Nino Berrini tentò di fondere lo stile dannunziano con quello tardottocentesco. Il dramma che gli diede la fama (più di diecimila rappresentazioni nel mondo) fu Il beffardo, `fresco dugentesco’ che metteva in scena il personaggio di Cecco Angiolieri, raffigurato attraverso i suoi sonetti. Altre opere: Rambaldo di Vaqueiras (1921), Francesca da Rimini (1923), La nuda del Cellini (1928), Teresa Casati Confalieri (1938) e il soggetto del film Il sogno d’amore (1922), realizzato da Gennaro Righelli.

Schnitzler

Nella produzione narrativa e drammaturgica di Arthur Schnitzler la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico fa da sfondo alla crisi dell’individuo, sempre più chiuso tra le pareti di un io confuso e velleitario; ma se in ambito narrativo Schnitzler si trova all’avanguardia – con il racconto Il tenente Gustl (Leutnant Gustl, 1901) introduce per la prima volta nella letteratura in lingua tedesca il flusso di coscienza, non altrettanto può dirsi in campo teatrale, dove il suo contributo è stato forse meno radicale. Laureatosi in medicina, cominciò a frequentare il `Caffè Grienstadl’, dove lo scrittore Hermann Bahr diffondeva la nuova letteratura francese. Qui Schnitzler incontrò i bei nomi della gioventù letteraria austriaca (Hofmannsthal, Kraus, Polgar, Altenberg), con alcuni dei quali strinse una duratura amicizia.

Nel 1888, a sue spese, fece pubblicare l’atto unico L’avventura della sua vita, in cui compaiono per la prima volta i personaggi di Anatol e Max. Gli atti unici di Anatol sono i primi a vedere la luce: nel 1889 pubblica Episodio , nel 1890 esce in rivista il poema drammatico in un atto Il canto di Alkandi ; nell’ottobre del 1892 viene dato alle stampe l’intero ciclo, con un prologo di Hugo von Hofmannsthal (Loris). Il successo giunge nel 1895, con la rappresentazione al Burgtheater di Amoretto (Liebelei), storia dell’infelice amore di una ragazza di periferia per un giovane e insensibile borghese, destinato a rimanere in cartellone fino al 1910. L’attenzione di S. andava sempre più concentrandosi sugli atti unici. In questi anni sono allestiti Paracelso (1899), l’interessante esperimento di `teatro nel teatro’ del Pappagallo verde (Der grüne Kakadu, 1899), Res nullius, L’una e mezzo (ispirato dall’attrice Adele Sandrock, con la quale S. aveva una relazione), Acquisti di Natale a Vienna (del ciclo di Anatol), Il velo di Beatrice (Der Schleier der Beatrice, 1900).

Nel 1901 va in scena lo spettacolo Marionette, incentrato sul tema della precarietà dell’esistenza; quando verrà dato alle stampe, comprenderà anche Il burattinaio e Il valoroso Cassian . Sempre dello stesso anno è la prima rappresentazione, a Berlino, dell’atto unico Le nozze di Anatol e la pubblicazione del dialogo La notte di san Silvestro . Il ciclo di atti unici Ore di vita (comprendente l’atto omonimo, La donna col pugnale, Le ultime maschere, Letteratura), imperniato sull’analisi del difficile rapporto arte-vita, viene rappresentato nel 1902. L’anno successivo è la volta di Girotondo (Reigen; sono allestiti solo due dei dieci dialoghi che lo compongono: soltanto nel 1920 e con grande scandalo verrà rappresentato tutto il ciclo), che indaga il delicato territorio dei rapporti di coppia. La strada solitaria (Der einsame Weg) viene rappresentato a Berlino nel 1904: forse il suo capolavoro. Negli anni successivi prosegue febbrile l’attività, con due commedie Intermezzo (Zwischenspiel, 1905) e Il richiamo della vita (Der Ruf des Lebens, 1906), e con l’atto unico Il gran teatro dei burattini.

Nel 1909 viene rappresentata la commedia in un atto La contessina Mizzi (Komtesse Mizzi). Nel 1910 a Dresda viene realizzata la pantomima Il velo di Pierrette, con musica di Ernö von Dohnanyi; nello stesso anno a Vienna si rappresenta la `storia drammatica’ Il giovane Medardo (Der junge Medardus). Le tragicommedie L’ampio paese (1911) e Il professor Bernhardi (1912), storia di un medico ebreo che fatica a imporre i propri principi etici, introducono alla seconda parte della vita letteraria di Schnitzler, in cui si fa prevalente l’analisi dell’io e la volontà di «tracciare quanto più decisamente possibile i confini tra conscio, semiconscio e inconscio»; proprio a partire da questo snodo, del resto, si fa meno incisiva la drammaturgia rispetto alla narrativa.

Del 1915 è la rappresentazione degli atti unici Commedia delle parole, i cui personaggi sono, come scrisse lo stesso autore, «privi di nucleo e vegetano in una solitudine terribile, di cui però non diventano mai del tutto coscienti». Nel 1916 scrive l’atto unico Lapidi (fa parte del ciclo di Anatol ) e nel 1917 pubblica la commedia in versi Le sorelle ovvero Casanova a Spa (Die Schwestern oder Casanova in Spa). Nel 1924 viene rappresentata La commedia della seduzione. Nel 1929 si allestisce l’ultimo lavoro teatrale di S., Brezza d’estate, nato dopo una elaborazione più lunga del consueto, segnata anche dal suicidio della figlia Lilli; paradossalmente si tratta dell’opera più serena dell’autore. Nel 1931 viene rappresentato il poema drammatico Il sentiero del laghetto, concluso dieci anni prima.

Rolland

Filosofo, umanista e musicologo, Romain Rolland è noto soprattutto per il romanzo-fiume Jean-Christophe (1904-1912), biografia simbolica di un musicista renano, e per una minuziosa e copiosa monografia su Beethoven. Pacifista convinto, è stato un polemico e vivace assertore della necessità della fratellanza e amore tra gli uomini, espressa in varie forme e in varie opere, spesso in modi ingenui. Nel 1915 gli fu conferito il premio Nobel. In un `credo’ artistico (pubblicato postumo nel 1956, ma anteriore agli inizi del secolo) si trova la sua prima formalizzazione teorica e organica di un teatro progressista, dove Rolland rinnega l’idea dell’`arte per l’arte’ e auspica un teatro per le masse. Ma è solo nei primi del Novecento, grazie alla collaborazione con la rivista “Revue d’Art Dramatique” e alla pubblicazione del saggio Le théâtre du peuple, essai d’esthétique d’un théâtre nouveau (1903), che le sue teorie iniziano a essere conosciute in Francia. Il ‘teatro per il popolo’ dovrebbe, nell’opinione dell’autore, ispirarsi alle epopee nazionali e trasmettere ideali eroici e egalitari. Seguendo queste convinzioni, R. realizza dal 1898 (in seguito a Les loups, ispirato al caso Dreyfuss) una sorta di `Iliade del popolo francese’ – così la definì l’autore – in otto drammi: un `preludio’, ispirato a J.J Rousseau, dal titolo Pâques fleuries, seguito dalla rievocazione di fatti storici centrali nella storia francese, come Le 14 juillet, Le triomphe de la raison sul periodo del Terrore (sarà messo in scena da Lugné-Poe), Le jeu de l’amour et de la mort, Danton e Robespierre, vasti affreschi dominati dall’ideologia dell’eroismo e del sacrificio.

Bellow

Di origine ebreo-russa, Saul Bellow è uno dei più grandi scrittori americani del secolo, premio Nobel per la letteratura nel 1976. Nei suoi romanzi (L’uomo in bilico , 1944; Herzog , 1964; Il dono di Humboldt , 1975) e racconti (Quello col piede in bocca, 1984), narra quasi sempre la crisi esistenziale e intellettuale di un personaggio in lotta tra tra follia e ragione, istanze individuali e processi di massificazione. Per il teatro ha scritto il dramma L’ultima analisi (1964), storia del triste e cosciente tramonto di uno scrittore, e gli atti unici: Soufflé à l’orange, Un neo e Non c’è scampo (1965), rappresentati a Spoleto e a Roma l’anno successivo.

Cicognani

Legato al filone della tradizione veristica toscana, Bruno Cicognani compose per il teatro soltanto due lavori, realizzati a più di vent’anni di distanza l’uno dall’altro. Nel 1927 vide la luce Bellinda e il mostro , un testo che racchiude gli elementi caratteristici della fiaba tradizionale, portato in scena dalla compagnia diretta da Luigi Pirandello. L’altra opera teatrale fu Jo, el Rej: scritta nel 1949, narra in chiave psicologica le vicende della tragedia di Filippo II e di Don Carlos.

Curcio

Nato a un giorno di distanza da Eduardo De Filippo, con cui ebbe un proficuo sodalizio artistico, Armando Curcio scrisse la sua prima commedia a ventisette anni: Lionello e l’amore fu rappresentata nello stesso anno dalla compagnia De Cristoforis-Leonardi; seguì nel 1929 La diva del cinema . Il grande successo di critica e pubblico arrivò nel 1939 con A che servono questi quattrini? , messo in scena al Quirino di Roma dai tre De Filippo. Questo lavoro rimane il migliore di C., che riesce a costruire lo straordinario personaggio di Eduardo Parascandolo, sedicente professore e marchese, che predica l’elogio della povertà a patto che gli altri vi credano ricchi. Il sodalizio con la famiglia De Filippo (sia divisa sia unita) dura fino alla fine della Seconda guerra mondiale, con titoli quali I casi sono due (1941), La fortuna con l’effe maiuscola (1942, in collaborazione con Eduardo), Casanova farebbe così (1945), C’era una volta un compagno di scuola (1946; le ultime in collaborazione con Peppino). Altri titoli: Ci penso io (1940), Le barche vanno da sole (1941), Lo strano caso di Salvatore Cecere (1952), oltre a due riviste musicali come Tarantella napoletana e Funiculì funiculà . Fondò la casa editrice che porta il suo nome.

Schéhadé

Georges Schéhadé ha dato vita a una serie di opere teatrali animate da una notevole unità d’ispirazione: un mondo poetico che nasce dall’accostamento dell’astratto con il concreto, che diventano espressione e misura drammatica in atto. In Monsieur Bob’le (1951) l’eroe eponimo è un essere favolistico, remoto e concreto al tempo stesso. Quest’opera pone in primo piano uno dei temi centrali del teatro di Schéhadé: il tema della perdita di un valore assoluto, naturale, semplice ma sempre più lontano da noi, e il contrasto tra la vita e l’immagine della vita stessa. Su quest’ultimo aspetto è imperniata La serata dei proverbi (La soirée des proverbes, 1954), opera dall’andamento aforistico e lieve, stemma stilistico anche della Storia di Vasco (Histoire de Vasco, 1956), commedia antimilitarista, scritta nel periodo della guerra d’Algeria e portata in scena da Jean-Louis Barrault. Se con Le violette (Les violettes, 1960) l’attualità continua a essere fonte di ispirazione, con L’emigrato di Brisbane (L’émigré de Brisbane, 1965) e L’abito fa il monaco (L’habit fait le prince, 1973), Schéhadé ritorna a quella poeticità del testo teatrale che aveva caratterizzato le sue prime produzioni e che fa pensare, per affinità di toni e di ispirazione, alla poesia di García Lorca, di Valle-Inclán, di Audiberti.

Fava

Giovanissimo Giuseppe Fava si trasferì a Catania, che divenne la sua città di adozione, dove intraprese l’attività di giornalista nel quotidiano “Espresso sera”, con la carica di capocronista e di redattore capo, che mantenne fino al 1980. A questo periodo risalgono le prime inchieste sulla Sicilia e sui siciliani che avrebbe successivamente raccolto in due volumi: Processo alla Sicilia e I siciliani. Nel 1966, col premio Vallecorsi, inizia la sua attività di autore teatrale: scrisse Cronaca di un uomo (1966) e La violenza (premio Idi, 1970), la cui struttura è quella di un processo per delitti e fatti di mafia. I personaggi somigliano molto a quelli che ritroviamo nelle cronache giudiziarie, ovvero imputati, testimoni, vittime reticenti nei grandi e piccoli processi alla criminalità organizzata. F. predilesse, in alcune sue commedie, la formula del `teatro documento’, mentre in altre quella della dimensione onirica. Altri suoi testi sono: Il proboviro (1972); Bello, bellissimo (1974), Opera buffa (1979), Sinfonia d’amore (1980), Foemina ridens (1982), L’ultima violenza (1983). Quest’ultima divenne il suo testamento spirituale, dato che un anno dopo, davanti al Teatro Verga di Catania, F. fu ucciso in un agguato mafioso. Emblematicamente l’ Ultima violenza è il documento di ciò che può accadere in una società stravolta dalla violenza mafiosa, col suo palazzo di giustizia stretto in un assedio mortale. Il suo linguaggio attinge a una forma di `dialettalità’ che non è dialetto ed è espressione di una originale partecipazione degli esclusi alle vicende della storia.

Parise

Cresciuto come romanziere nel solco del tardo neorealismo (Il ragazzo morto e le comete, 1951; Il prete bello, 1954), una volta scoperta la portata delle teorie darwiniste e freudiane, Goffredo Parise si situa in zone letterariamente ben diverse (Il padrone, 1965; Il crematorio di Vienna, 1969; Sillabario I e Sillabario II, 1972 e 1982) Rare sono state le sue esperienze teatrali: La moglie a cavallo (atto unico, Milano, Teatro Gerolamo 1960), La donna è realtà (Roma, Teatro delle Muse 1964), L’assoluto naturale (Prato, Teatro Metastasio 1968, con Valeria Moriconi e Renzo Montagnani e regia di Franco Enriquez). Quest’ultimo lavoro è certamente il più denso di significati. Si tratta di un dialogo tra uomo e donna, in cui sentimenti, pulsioni, interessi di coppia sono notomizzati alla luce raziocinante della scienza, che li sottrae all’impressionistico dominio delle sensazioni, tanto soggettive quanto poco esplicative. Non sempre adeguatamente calibrata, l’opera – recentemente ripresa a Milano – non ha sempre incontrato il gradimento del pubblico, proprio per l’originalità della sua impostazione.

Longanesi

Il teatro fu uno dei bersagli prediletti di Leo Longanesi: ammalato di provincialismo, era – a suo parere – insopportabilmente antiquato e del tutto al servizio di attori di fatto incapaci di recitare. Promotore delle nuove tecniche di comunicazione di massa, la sua attenzione andava, piuttosto, in direzione del cinema. Il contributo alla drammaturgia si riduce perciò a una serie di rapidi atti unici in cui – facendo mostra delle sue affilatissime armi satiriche – Longanesi sbeffeggia la società contemporanea, lasciando peraltro affiorare anche un certo sentimentalismo nostalgico. Tra essi, si ricordino, Una cartolina del cuore (1930) e Una conferenza o la storia di Francia (1942).

Tagore

Nel 1913 a Rabindranath Tagore fu attribuito il premio Nobel per la letteratura. Fondamentale il suo apporto al teatro indiano moderno. Fu anche attore e musicista e si occupò di tutte le forme di spettacolo, dalla canzone alla danza, dalla commedia brillante alla tragedia. Le sue opere spaziano fra i generi e gli stili: dal realismo di Sanyasi (1939), in cui il serrato impegno civile del poeta è volto a diffondere il suo ideale umanitario e a combattere la divisione in caste e le superstizioni della società indiana, fino ai drammi allegorico-mistici di ardua interpretazione, da Dak-ghar (1913), considerata una delle sue opere più riuscite, al più classico dramma di sapore shakespeariano Chitrangada (1891). Tra le altre opere citiamo anche Rakta-karabi (1924) e Syama (1939), suo ultimo lavoro. Personalità ricchissima, Tagore si impegnò per fondere nel suo teatro poesia e passione spirituale, congiunte ad una forte aspirazione di libertà e giustizia sociale.

Sciascia

L’avvicinamento al teatro da parte di Leonardo Sciascia avviene negli anni ’60: si tratta di un approdo spontaneo, data la struttura intimamente dialogica della narrativa di Sciascia. In tal senso si giustifica la riduzione di numerosi romanzi (presso lo Stabile di Catania sono stati messi in scena gli adattamenti, curati da Ghigo De Chiara, di A ciascuno il suo , Il consiglio d’Egitto e Candido). Significativo – perché di fatto segna il debutto teatrale di un’opera di S. – l’adattamento di Il giorno della civetta , curato da Giancarlo Sbragia al Teatro stabile di Catania nel 1963; dell’anno successivo è la traduzione-capovolgimento de I mafiusi alla Vicaria di Palermo di Rizzotto e Mosca, allestita al Piccolo Teatro di Milano nel 1966. I due testi scritti direttamente per il teatro sono L’onorevole (Torino 1966) e Recitazione della controversia liparitana (Catania, Teatro delle Muse 1970; ripresa nel 1971 con la regia di M. Missiroli): il primo, incentrato sulla trasformazione di un professore perbene in un politico corrotto, nasce dal bisogno di «misurare le censure istituzionali, ambientali e psicologiche del nostro Paese»; il secondo propone, in chiave storica, il conflitto tra potere ecclesiastico e statale. Il lavoro di Sciascia si è anche rivolto alla televisione: nel 1971 viene trasmessa la commedia Gioco di società (da cui ha successivamente tratto l’atto unico Il sicario e la signora , allestito nel 1985). Nel 1972 è la volta del film Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di F. Vancini, per cui collabora alla sceneggiatura (insieme a N. Badalucco, B. Benedetti, F. Carpi e lo stesso Vancini). Del 1989 è l’atto unico, realizzato con la collaborazione di Antonio Di Grado, Quando non arrivano i nostri .

Greene

Graham Greene si convertì al cattolicesimo nel 1927, evento che lasciò una profonda traccia nella sua opera. Ma pur strumenti di una volontà superiore, i personaggi dei suoi romanzi, tutti di grande successo, possiedono sempre una netta individualità e vivono con intensa passione la loro avventura, spesso drammatica e tragica, talvolta ironica e grottesca. Esordì in teatro con le riduzioni dalla sua opera narrativa La rocca di Brighton (Brighton’s Rock, 1943), Il nocciolo della questione (The Hearth of the Matter, 1950), in collaborazione con B. Dean, e Il potere e la gloria (The Power and the Glory, 1952) in collaborazione con P. Bost, messo in scena per la festa del teatro di S. Miniato da L. Squarzina prima e da G. Sbragia nel 1991. La sua prima commedia è L’ultima stanza (The Living Room, 1953), cui seguirono Il capanno degli attrezzi (The Potting Sad, 1957), L’amante compiacente (The Complaisant Lover, 1959), la tragicommedia Scolpendo una statua (Carving a Statue, 1964), Il ritorno di A. J. Raffles (The Return of A. J. R., 1975), Sì e no (Yes and No), Per chi suona la campana (For Whom the Bell Chimes, 1980), Lo splendido Jowett (The Great Jowett, 1980). Nelle sue opere teatrali G. rispetta le regole del `well-made-play’: le sue commedie, eleganti e ben costruire, puntano l’interesse più sui contenuti (problematica morale) che sullo sviluppo delle nuove tecniche e modi espressivi. Di rilievo sono anche le sue sceneggiature cinematografiche: Idolo infranto (The Fallen Idol, 1948) e Il terzo uomo (The Third Man, 1950).

Zweig

La produzione teatrale di Stefan Zweig si richiama alle tendenze del gruppo della Giovane Vienna. Oltre alle tragedie Tersite (Tersites, 1907) e Geremia (Jeremias, 1917), Zweig scrisse diversi altri drammi quali Il volo verso Dio (Die Flucht zu Gott, 1928), ispirato agli ultimi anni della vita di Tolstoj, il divertimento L’amore nasce dall’occasione (Gelegenheit macht Liebe, 1928) e la tragicommedia L’agnello del povero (Das Lamm des Armes, 1930), elegante satira sociale. Le due opere di maggiore impegno sono Volpone (1926), rifacimento in chiave psicologica dell’omonimo lavoro di B. Jonson, e il libretto La donna silenziosa (Die schweigsame Frau, 1935), definito da R. Strauss, per il quale era stato scritto, «il miglior testo per opera comica dopo Le nozze di Figaro». La collaborazione con R. Strauss, che si preannunciava fruttosa, fu bruscamente interrotta dall’avvento del nazismo: la sera della prima la censura impose di togliere il nome di Zweig dalle locandine, essendo egli di madre ebrea; il che non avvenne per volontà del musicista. Ma in seguito l’opera fu bandita dalle sale di Austria e Germania fino al secondo dopoguerra. Dopo aver accettato di lavorare per un breve periodo in incognito, Zweig fu costretto a emigrare, prima a Londra, poi a Parigi e infine in Brasile, dove, incapace di adattarsi alla nuova situazione di esule e, soprattutto, alla fine della sua felix Austria, descritta nella sua accorata autobiografia Il mondo di ieri, si tolse la vita.

Musil

Laureatosi in ingegneria a Brno e successivamente in filosofia e psicologia a Berlino, Robert Musil rinuncia sia alla carriera scientifica sia alla carriera di funzionario per dedicarsi all’attività letteraria. Tali scelte, che rimandano alla sua sostanziale contestazione dei valori familiari e borghesi del `probo servitore dello stato’, gli procurarono però costanti preoccupazioni economiche: fino alla morte è costretto a vivere degli scarsi proventi del suo lavoro di scrittore e pubblicista, e soprattutto dell’aiuto di amici e estimatori. Le sue opere maggiori sono i romanzi I turbamenti del giovane Törless (Die Verwirrungen des Zöglings Törless, 1906) e L’uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften). Per il teatro scrisse un dramma e una farsa. Il dramma I fanatici (Die Schwaulmrmer), i cui personaggi costituiscono per la maggior parte un’anticipazione delle figure di L’uomo senza qualità , viene pubblicato nel 1921 e riceve nel 1923, grazie ad Alfred Döblin, il premio Kleist. Ma a una positiva accoglienza dei critici letterari corrispose una totale indifferenza del mondo teatrale. Venne infatti rappresentato soltanto nel 1929 a Berlino con numerosi tagli, per iniziativa di un giovane regista. A determinare questo insuccesso vi sono sicuramente il venir meno di due elementi determinanti per la cultura dell’epoca: l’assenza di una tensione drammatica – i motivi che spingono i personaggi all’azione vengono esposti sin dal principio, i protagonisti recitano una tragedia interiore che si esteriorizza in poche azioni , e la scomparsa di uno dei personaggi principali, Anselm, alla fine del secondo atto. Migliore fortuna teatrale ebbe la farsa Vinzenz e l’amica di uomini importanti (Vinzenz und die Freundin bedeutender Maulmnner) rappresentata a Berlino nel 1923, nuovamente a Berlino nel 1924 (con tournée a Praga) e poi sulle scene a Vienna. Un elemento importante che contraddistingue queste due opere, e che segna una svolta nell’attività letteraria di Musil, è la rappresentazione satirica della realtà. Agli `uomini importanti’, strettamente legati alle `qualità’ che hanno fatto il loro successo, che si integrano senza disagio nel mondo delle convenzioni, i non-visionari su cui Musil riversa la sua satira, egli contrappone `l’uomo della possibilità’, che non si adatta a vivere nella realtà e ha in sé il germe di un altro ordine.

Savinio

«La prima volta che misi piede in un teatro, avevo sì e no cinque anni. Ciò avveniva a Volo, in quell’antica Jolco che vide salpare gli Argonauti alla conquista del vello d’oro». Fu precoce la fascinazione di Alberto Savinio per il teatro: quando lasciò ancora ragazzo la patria adottiva greca, salpando per l’Italia con il fratello Giorgio De Chirico, il sognato approdo era la conquista della scena teatrale. A questa meta affinò le armi di musica e teatro; e se la sua versatilità lo indusse a cimentarsi anche nelle vesti di pittore e scrittore, ottenendo solidi riconoscimenti postumi, nell’ambito della produzione di prosa e per la danza un processo di rivalutazione critica è tuttora in corso. Gli esordi di S. compositore avvennero nella Parigi di Apollinaire e dei Ballets Russes.

Tra il 1912 e il ’13 vi scrisse tre balletti: Deux amours dans la nuit (inedito, forse la sua migliore partitura), Persée (soggetto di Fokine; rappresentato a New York, Metropolitan, nel 1924) e La morte di Niobe (allestito a Roma nel 1925, con scene di De Chirico, al Teatro d’Arte diretto da Pirandello). Poi intervenne una lunghissima pausa nella produzione ballettistica, interrotta solo da Ballata delle stagioni (Venezia, La Fenice 1925) e da un ultimo titolo su commissione di Aurelio Milloss, Vita dell’uomo (Roma 1948, Scala 1951). Agli anni ’20 risale invece la prima prova teatrale, Capitan Ulisse (1925, rappresentata nel 1938), le cui gravi difficoltà di allestimento, e l’esito alquanto contrastato della `prima’, tennero S. lontano dal teatro per un altro decennio. Seguirono Il suo nome (1948), La famiglia Mastinu (1948), Alcesti di Samuele (Milano, Piccolo Teatro 1950, regia di Strehler) e Emma B. vedova Giocasta (Roma, Teatro Valle 1952, interprete Paola Borboni che lo incluse nelle sue serate di monologhi fino al 1958).

Episodico ma denso fu il contributo di Alberto Savinio alla critica teatrale, che esercitò tra il 1937 e il ’39 sul settimanale “Omnibus” diretto da Leo Longanesi (contributo ora raccolto in volume con il titolo Palchetti romani), e concentrata in pochi anni fu l’attività di regista, scenografo e costumista per il teatro d’opera. Accanto alle scene e ai costumi per Oedipus rex di Stravinskij e I racconti di Hoffmann di Offenbach (Scala 1948 e 1949), di particolare riuscita e assai apprezzato risultò l’allestimento dell’ Armida di Rossini, di cui firmò anche la regia (Firenze, Maggio musicale 1952), che segnò una tappa non marginale nell’evoluzione del gusto della messa in scena del teatro lirico in Italia. Tanto nel teatro che nel balletto, S. aspirò a un dinamico `teatro metafisico’, di clima strettamente affine e complementare a quello suscitato da De Chirico con la spazialità sospesa della sua pittura. Egli mirò a intessere un dialogo intriso di scetticismo tra gli archetipi della mitologia greca, rivisitati con ironia assieme tagliente e affettuosa, e l’anticonformismo più iconoclasta delle avanguardie.

Ricorrente nei suoi testi è il desiderio, che lo approssima a Cocteau, di far scendere le figure degli statuari miti greci dai loro piedistalli perché affrontino, come strani angeli caduti per sbaglio sulla terra, le angustie delle banalità borghesi e quotidiane del nostro tempo. Permeato di uno spirito surrealista da lui originalmente rivisto, il suo teatro si gioca tutto sull’abile montaggio di umori eterogenei. Ora si vena di una razionalistica nostalgia del mondo classico; ora si apre a riletture in chiave psicoanalitica (come nel monologo Emma B. vedova Giocasta, in questi anni riproposto con la regia di E. Marcucci da Valeria Moriconi); o ancora, è capace delle inaspettate cadenze di un malinconico esistenzialismo, il cui sguardo si posa a scrutare con vigile distacco tra le pieghe più dolorose della quotidianità.

Roussel

Personalità complessa e ardito sperimentatore, Raymond Roussel si pone, con grande anticipo sui tempi, il problema di ciò che, nel linguaggio, consente di pensare e di produrre la letteratura; elabora così un’opera che, come ha acutamente osservato Michel Foucault, pone al centro la questione della parola e del silenzio. Per comprendere i suoi romanzi (La doublure, 1897; La vue , 1902; Impressions d’Afrique, 1910; Locus solus , 1914; Nouvelles impressions d’Afrique , 1932) e i suoi lavori teatrali (L’étoile au front , 1925 e La poussière des soleils, 1927) occorre tuttavia partire dal suo ultimo testo, pubblicato postumo: Comment j’ai écrit certains de mes livres (1935). In esso è svelato il `procedimento’ – come lo chiama lo stesso Roussel – della creazione letteraria: un testo si costruisce inserendolo fra due frammenti di discorso, i più vicini possibile quanto al significante, i più distanti possibile quanto al significato. Una volta trovate le due frasi, la narrazione si incaricherà di riempire lo spazio tra la prima e l’ultima. Il risultato è un’apparenza di grande verosimiglianza, inserita, tuttavia, in un quadro di estrema complessità e artificialità in cui il contenuto duplica, per metafora, i processi che hanno contribuito a produrlo. Il linguaggio è, come si comprende facilmente, il cuore del dispositivo fantastico narrativo di R. Ed è proprio l’interesse verso la libera associazione di immagini, verso la loro oniricità che ha condotto Perlini, con il teatro La maschera, ad allestire a Roma, nel 1976, Locus solus , avvalendosi della collaborazione dello scenografo Antonello Aglioti.

Ruiz

Artista dalla personalità multiforme, attivo sia al cinema che a teatro, con uno stile volutamente `artificiale’ e fantastico attraverso i quali filtra la sua personale poetica dell’esistenza. Dopo gli studi liceali Rául Ruiz si iscrive alla facoltà di Diritto e nel tempo libero decide di seguire i corsi di teologia. In seguito studierà la teoria cinematografica, scoprendo che i film dei registi che più amava come Ford Beebe, Reg Le Borg erano considerati di serie B. Arriva perciò alla conclusione che forse in queste teorie c’era qualcosa che non andava. Dopo aver girato più di venti film Ruiz abbandona il suo paese nel 1974, un anno dopo il golpe del generale Pinochet che ha deposto il Presidente di Unidad Popular S. Allende, di cui Ruiz fu consigliere per i mezzi di comunicazione. Trasferitosi in Francia (a Parigi), diventata la sua seconda patria, ha continuato con successo la sua attività artistica, grazie soprattutto all’interessamento della celebre rivista di cinema “Cahiers du cinéma”, realizzando film, messe in scena e pubblicando romanzi, testi teatrali e riflessioni teoriche.

Nell`86 viene nominato direttore della Casa della Cultura di Le Havre, dove allestisce numerosi spettacoli teatrali. Nel 1990 dirige il suo testo I maghi per il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. L’anno dopo espone, presso la la Galleria Jeau de Pomme di Parigi, un’istallazione multimediale dal titolo L’expulsion des Maures. Nel 1992 mette in scena Il convitato di pietra, ispirato al Don Giovanni, alla sesta edizione del Festival Volterra Teatro. Tra i suoi film ricordiamo: Tre tristi tigri (1968), L’isola del tesoro (1993), Tre vite e una sola morte (1996) con M. Mastroianni, e la sua partecipazione come attore (impersonava il teologo) in Palombella rossa (1989) di N. Moretti.

Tadini

Emilio Tadini attualmente dirige l’Accademia di Brera. Per il teatro ha scritto il dramma La tempesta (messo in scena nel 1995), tratto dall’omonimo suo romanzo per la regia di Andrée Ruth Shammah. Il folle Prospero si barrica nella sua palazzina per opporsi allo sfratto, aiutato da un immigrato e assediato da un commissario. Un giornalista, che funge da narratore dell’intera vicenda, riesce ad avvicinare Prospero intraprendendo così un viaggio nel suo stravagante mondo, ma non riesce a evitarne il suicidio. La deposizione (rappresentato nel 1997) mette sulla scena una donna che, accusata di omicidio, nella sala d’attesa del tribunale spiega i suoi punti di vista e le sue ragioni aspettando la sentenza finale. Tadini ha infine curato una traduzione del Re Lear di Shakespeare.

Porta

La produzione teatrale di Elvio Porta si caratterizza per la scelta della lingua napoletana, che gli consente di coniugare il gergo della napoletanità più autentica e popolare con l’irrinunciabile necessità di un ripensamento storico-sociale e culturale della situazione del meridione. Scrive e mette in scena, tra gli altri, il popolarissimo Masaniello (1974), Jesus (1975), O’ journo `e San Michele (1976), L’opera `e Muorte `e fame (1979), La perla reale (1982). Masaniello in particolare, esempio significativo di teatro popolare attuato rievocando un preciso periodo storico, sarà più volte ripreso da Armando Pugliese. Inoltre, nel 1990, è da ricordare l’allestimento della Compagnia della Fortezza – nata all’interno del carcere di Volterra e diretta da Armando Punzo, per la quale Porta scrive poi, appositamente, Il corrente (1992).

Viola

Conosciuto dal grande pubblico come giornalista sportivo tv anomalo e anticonformista, Beppe Viola è stato al pari di altri intellettuali come L. Bianciardi e U. Simonetta, lo stesso U. Eco, grande testimone delle contraddizioni della Milano tra il Dopoguerra e gli anni Settanta. Tutti più o meno direttamente hanno influito non poco sulla cultura, anche teatrale e cabarettistica, della città. A V. in particolare si deve buona parte delle invenzioni del linguaggio comico che, partito dal Derby club, segnò un’epoca irripetibile della comicità diretta, abolendo non solo la quarta parete, ma anche le altre tre. Viola lavorò con Jannacci firmando assieme a lui decine di canzoni storiche del `periodo di mezzo’ tra cui “Quelli che…” (1975), geniale adattamento di una lirica di Prévert, e “Vincenzina e la fabbrica” (1974), struggente canzone che fu colonna sonora del cult-movie Romanzo popolare di cui Jannacci e Viola furono decisivi co-sceneggiatori. Tra l’altro in questo film di Monicelli Viola si ritagliò un divertente cameo in cui egli stesso interpreta il proprietario di un cinema bigotto e reazionario, il suo esatto contrario.

Nel 1978, sempre assieme a Jannacci Viola scrive e dirige La Tappezzeria, spettacolo di cabaret surreale e comico che consacrò Massimo Boldi e lanciò il semisconosciuto Diego Abatantuono, che fino a allora aveva bazzicato al Derby club soprattutto perché figlio delle mitica Rosa, guardarobiera (e cognata) del proprietario Bongiovanni. Altri comici selezionati da Jannacci e Viola per questo lavoro furono i neofiti Faletti, Porcaro, Di Francesco, Micheli, Salvi, tutti destinati a ritagliarsi uno spazio nel mondo dello spettacolo. Negli anni del Derby Viola lavorò in amicizia e complicità anche con Cochi e Renato ma, in modo più o meno ufficioso, anche con tutti i comici più anticonformisti del grande zoo di viale Monterosa.

In tv collaborò come autore ad alcune trasmissioni di Jannacci dalla sede un po’ defilata ma prolifica per originalità della Rai di Milano. Appassionato oltre che di calcio, di automobilismo e soprattuttodi cavalli, curioso di letteratura e di politica Viola riuscì a cogliere in ciascun ambiente, in ognuno dei suoi incontri, i linguaggi comici, ironici e satirici e a trasmetterli anche nelle sue esperienze professionali. Una sua riscoperta a dieci anni dalla morte dovuta anche alla ristampa dei suoi racconti migliori (Quelli che, 1992), ha fatto sì che Viola sia tornato ad essere un punto di riferimento per le attuali generazioni di artisti e autori milanesi.

Tabori

Compiuti gli studi universitari in Germania, George Tabori comincia a lavorare come traduttore e giornalista, prima di emigrare a Londra (1941) e poi negli Stati Uniti (1945). Qui , per lunghi anni, esercita una fortunata carriera di sceneggiatore cinematografico, scrivendo per Hitchcock, Losey, Young e Siegel. Scrive romanzi e racconti (The Good one, 1952; Son of a Bitch, 1981). Le sua prime commedie sono Flight to Egypt, rappresentata a Broadway da Elia Kazan, nel 1952, e The Emperor’s Clothes (1953). A causa del maccartismo, è costretto a tornare in Europa, dove inizia la sua attività di regista, mettendo in scena suoi testi (Brecht-Abend e The C annibals , 1962) e testi di Strindberg (La signorina Giulia, 1958), di Euripide (Le Troiane, 1976), di Beckett ( En attendant Godot, 1984). Alterna da sempre trionfi, come il citato Beckett e la sua prima regia lirica I pagliacci di Leoncavallo a Vienna, a clamorosi rifiuti come il suo Stammhein Epilog (1986) o Das Buch mit sieben Siegeln di Franz Schmidt, che fece scandalo a Salisburgo (1986). Tra le sue opere ricordiamo anche Mein Kampf, rivisitazione farsesca delle note memorie di Hitler ((1986). In Italia, per ora, la sua unica commedia rappresentata è Jubil&aulm;um , ad Asti nel 1994, per la regia di G. Solari. Dal 1987 è direttore dello Schauspielhaus di Vienna, e, in Italia, nel 1992 è stato direttore del Mittelfest di Cividale del Friuli.

Fo

Jacopo Fo inizia giovanissimo l’attività di disegnatore di fumetti (con lo pseudonimo di Giovanni Karen) di cui va innanzitutto ricordata l’edizione illustrata del ’75 del Poer nano del padre Dario con il quale da tempo collabora alla stesura dei testi. Nel ’76 pubblica il suo primo libro-saggio Testimoni di stato , cui seguirà una lunghissima lista di altri libri-saggio scritti con intento di controinformazione ( La vera storia del mondo ) e manuali comici: Come fare il comunismo senza farsi male , Come diventare dio in dieci mosse , Parlare l’inglese come toro seduto. Lo zen e l’arte di scopare gli offrirà lo spunto per iniziare nell’86 l’attività di conferenziere. Nel ’94 firma con la madre Franca Rame il testo di Sesso? Grazie, tanto per gradir , uno spettacolo che l’attrice porta in tournée con successo per alcune stagioni. In questi anni inizia anche la collaborazione in qualità di co-autore con Paolo Rossi ( Rabelais , 1996). Nel ’96 è attore, autore e interprete di un monologo teatrale tratto sempre da Lo zen e l’arte di scopare (ripreso e mandato in onda anche da Palcoscenico su Raidue). Nell’81 ha fondato vicino Gubbio l’Università di Alcatraz, un’associazione che organizza corsi e laboratori in svariati campi. Ricordiamo inoltre il suo libro Dio c’è e vi saluta tutti.

Praga

Marco Praga è stato il dominatore della scena teatrale italiana a cavallo del secolo, il più classico rappresentante di quella commedia borghese moralisteggiante, che tanta presa aveva sul pubblico, ma che non sempre riuscì a determinare esiti artistici di rilievo. Le opere di Praga ci restituiscono una fedele immagine del suo tempo, contrassegnate come sono da un profondo pessimismo e dalla convinzione che la radice di ogni male fosse il disordine delle passioni, destinato inevitabilmente a sfociare nell’adulterio. Così nelle sue venti commedie – dominate da un realismo dai toni piuttosto edulcorati – sono le donne, incoerenti e irrazionali, ad apparire come la causa del malessere sociale. Agli uomini – tratteggiati con una certa ironia – spetta invece il ruolo di vittima predestinata. P. raccolse i maggiori successi con Le vergini (1889), La moglie ideale (1890, con la Duse nei panni della protagonista), Alleluja (1892), Il dubbio (1899), L’ondina (1903), La crisi (1904) e poi anche con La porta chiusa (1913) e Il divorzio (1915), testi più inclini all’intimismo e al crepuscolarismo.

Beaumont

Per lunghi anni Cyril William Beaumont fu tra le massime autorità nel campo della danza, arte da lui scoperta vedendo danzare Anna Pavlova. La sua libreria, nel centro di Londra, fu punto di riferimento per artisti e amanti del balletto. Ha lasciato numerose opere sulla danza e sui danzatori, tutte nate dal suo sapere enciclopedico e scritte con stile chiaro e rigoroso; fondamentale è il suo Complete Book of Ballets (1937, supplemento 1942) .

Gadda

Marginale e globalmente di scarso rilievo risulta l’impegno teatrale di Carlo Emilio Gadda, circoscritto alle tre pièce Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale di Ugo Foscolo (messo in scena a Roma, Teatro di via Belsiana, nel 1967), Un radiodramma per modo di dire e Gonnella buffone (ripreso da Bandello, allestito nel 1952) , in cui sono evidenti le sue tradizionali propensioni all’irriverente e demistificante satira, perseguita attraverso un rocambolesco rimpasto del linguaggio. D’altro canto, la teatralità è, a ben vedere, una delle componenti forti della sua narrativa. In tale direzione ha creato non pochi consensi l’operazione di adattamento al palcoscenico di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana effettuata da Ronconi e rappresentata a Roma, presso il Teatro Argentina nel 1996. Tra le altre opere ridotte per il teatro, ricordiamo Eros e Priapo e La cognizione del dolore e L’Adalgisa .

Audiberti

Autore estremamente eclettico, in origine giornalista, Jacques Audiberti ha praticato con il medesimo agio prosa e poesia, teatro e romanzo: inoltre, un sostrato culturale diversificato (la cabala, le avanguardie surrealiste e dada), una grande ricchezza verbale dove si fa sentire l’influenza di Rabelais ed Hugo, non fanno che rendere più complesso un approccio sintetico alla sua opera. Tutta l’attività drammaturgica di Jacques Audiberti da Le mal court (1947) a La fête noire (1949), da La femme du boeuf (1949), fino a Dimanche m’attend (1964) potrebbe essere descritta come un’inesausta messa in discussione della realtà: Jacques Audiberti la definisce l’`incarnazione’ e vi identifica la maledizione primigenia, segno di un Cielo vuoto e di una Terra sede di tutti i dolori. Nulla e nessuno potrebbero modificare questa condizione: lo stesso sacrificio di Cristo non è servito (Le cavalier seul, 1955) e la fraseologia politica non dà vita che a rivoluzioni grottesche (La poupée ,1956). Indice di quel `ritorno del tragico’ di cui il teatro francese dell’immediato secondo dopoguerra nelle sue diverse tendenze, dall’esistenzialismo al teatro dell’assurdo, appare essere caratterizzato, l’opera di Jacques Audiberti trasmette tuttavia una mistica della redenzione esemplificata da un simbolismo di gusto quasi medievale; il quale, non potendo passare da altri canali, ormai distrutti dagli `acidi del pensiero’, passa attraverso la scrittura, il potere della parola, segno e immagine di una ricerca di assoluto.

Kraus

Di famiglia ebrea, in giovane età Karl Kraus si convertì al cattolicesimo, rinunciando in seguito a qualsiasi professione religiosa, per affermare l’autonomia della propria posizione intellettuale. Pur dichiarandosi socialista, non aderì mai ad alcun partito; fu invece un convinto sostenitore delle teorie pacifiste, fin dalla prima guerra mondiale, e un critico sociale fra i più inflessibili del suo tempo. Dalle pagine della sua rivista “La fiaccola” (Die Fackel, 1899-1936), di cui fu direttore e dal 1911 redattore unico, condusse una vera e propria battaglia culturale, animata da un notevole rigore etico ed estetico. Bersaglio delle sue aspre critiche fu la società tedesca e austriaca dei primi del secolo, nei diversi aspetti: i costumi del vivere borghese, la politica del tempo (pacifista durante la prima guerra mondiale, Kraus divenne strenuo oppositore del nazismo nel suo nascere e affermarsi), le tendenze culturali e in particolare letterarie (polemico verso lo stile del gruppo della `Giovane Vienna’, verso i critici e i giornalisti raffinati e decadenti, fu invece fra i più convinti sostenitori di Wedekind e di Brecht). Fra le opere scritte da Kraus per il teatro la più nota è Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzten Tage der Menschheit, 1915-1922; recentemente allestito da Luca Ronconi per lo Stabile di Torino, 1990), violenta satira che vuole rappresentare gli orrori della prima guerra mondiale, smascherandone le cause e le autentiche motivazioni; l’ambizione politica, l’avidità priva di scrupoli degli speculatori finanziari, la grettezza e corruzione della stampa, la miopia degli intellettuali sono fatte oggetto di aperta denuncia. Il dramma ha un’articolazione complessa e grandiosa, al limite dell’informe: i fatti rappresentati sono disposti entro la struttura `a stazioni’, caratteristica dello stile espressionista; fanno da filo conduttore due personaggi, l’Ottimista e il Sofista, che guidano il dipanarsi della vicenda e assolvono la funzione di commento tipica del coro tragico. L’atmosfera ricorda quella del cabaret berlinese, in cui satira, tragico e grottesco si fondono in uno stile popolare ed efficace.

Grass

I primi lavori teatrali di Günther Grass, all’inizio degli anni ’50, sono di stampo surrealista e avanguardista. Evidente è la volontà di rinnovare la scena teatrale tedesca, allacciando un dialogo soprattutto col pubblico giovanile. Il debutto avviene in un teatro di studenti a Francoforte sul Meno, dove viene rappresentato il suo dramma Acqua alta (Hochwasser) con la regia di Karlheinz Braun. Sempre nel 1957 si ha la prima del balletto Resti di materia presentato ad Essen. L’anno dopo G. sperimenta i toni comici e satirici nella commedia Zio, zio (Onkel, Onkel) allestita a Colonia. Nel 1959 a Berlino si svolge la prima dell’atto unico A dieci minuti da Buffalo (scritta nel 1957). In Italia viene rappresentato a Roma nel 1967 a cura di Virginio Gazzolo. Contemporaneamente G. continua a seguire itinerari diversi: va in scena il balletto Cinque cuochi (Funf Köche) e viene allestito O Susanna, Ein Jazzbilderbuch, uno spettacolo costituito da blues, ballate, spirituals e jazz, con testi dell’autore. Il dramma I cuochi malvagi (Die bösen Köche), scritto a Parigi nel 1956 e allestito a Berlino nel 1961, conclude la prima parte della sua attività teatrale.

Nel 1964 l’adattamento della terza parte di Anni di cani (Hundejahre, romanzo della Trilogia di Danzica), proposto a Monaco col titolo di Una discussione pubblica , spinge G. a far ritorno alla drammaturgia, con un’opera destinata a diventare evento, espressione della volontà dell’autore di andare oltre le calcificazioni ideologiche: si tratta del trauerspiel (vocabolo che indica il genere teatrale, di ascendenza barocca, in cui tutti sono sconfitti) I plebei provano la rivolta (Die Plebejen proben den Aufstand), allestita a Berlino nel 1966. Protagonista è un Brecht preoccupato soltanto dell’allestimento del Coriolano di Shakespeare, che viene accusato di comportamento contraddittorio in un momento storicamente delicato come la sommossa operaia a Berlino il 17 giugno 1953. Là davanti (Davor) è il dramma messo in scena nel 1969 a Berlino. Diventerà poi il nucleo centrale del romanzo Anestesia locale. Nel 1970 viene messo in scena, sempre a Berlino, il balletto Gli spaventapasseri (Die Vogelscheuchen).

Cechov

Di famiglia modesta, Anton Pavlovic Cechov si laurea in medicina e contemporaneamente (ancora da studente) inizia a scrivere brevi racconti umoristici sotto vari pseudonimi. «La medicina, che è una cosa seria, e la letteratura, che è un gioco, vanno esercitate sotto cognomi diversi», sostiene; e, nonostante il successo in letteratura, continua la professione di medico fino ai suoi ultimi giorni. Al teatro si dedica fin dall’inizio della sua carriera: insieme ai primi racconti, nell’inverno 1880, abbozza un lungo dramma in quattro atti, che non finisce e lascia nel cassetto. È Platonov (titolo postumo, dal nome del protagonista), ritrovato nell’archivio dello scrittore solo nel 1920 e pubblicato nel 1923: storia di un dongiovanni cinico, scroccone e disperato sullo sfondo di una noiosa, apatica vita provinciale. Dopo il fallimento del primo lavoro, passa alle forme brevi: tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 scrive una serie di atti unici e di vaudeville in poche scene che hanno un inatteso successo, sia nella capitale sia in provincia (Sulla strada maestra, 1884; I danni del tabacco, 1886; Il canto del cigno, 1887; Una domanda di matrimonio, 1888; L’orso, 1888; Le nozze, 1889; Tragico controvoglia, 1889; Tatjana Repina, 1889; L’onomastico, 1891). Alcuni di questi testi suscitarono negli anni ’20 del nostro secolo l’interesse di registi d’avanguardia come Vachtangov e Mejerchol’d, che ne diedero versioni piene di fantasia, sottolineandone i lati grotteschi e il ritmo travolgente.

Contemporaneamente ritenta la via dei lavori in più atti: su sollecitazione di F.A. Kors, direttore del teatro omonimo, scrive Ivanov (1887). «Ho scritto il lavoro senza accorgermene… Ho concentrato la mia energia su alcuni momenti veramente forti, memorabili, però i personaggi che uniscono le varie scene sono spesso insignificanti, fiacchi, banali. Comunque sono contento». Nessuna serietà da parte della compagnia, approssimazione e faciloneria, quattro prove invece delle dieci previste, attori superficiali, ottusi, fuori ruolo, pronti a inventarsi battute pur di strappare risate: due repliche e il lavoro è tolto dal repertorio. Due anni dopo riprende in mano il testo, convinto della necessità che il teatro debba passare «dalle mani dei bottegai a quelle dei letterati, altrimenti è condannato»: nella nuova versione Ivanov viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo e ha un successo strepitoso. Incoraggiato, scrive subito una nuova commedia, Lo spirito della foresta (1889), che ha per protagonista una curiosa figura di medico amante della natura e deciso a salvare le foreste dall’insensata opera di distruzione. Nuovo fiasco: assoluta indifferenza di pubblico e critica. Dimentica il teatro per intraprendere l’avventuroso viaggio all’isola di Sachalin, luogo di deportazione tristemente famoso (la circostanziata, cruda relazione sulle condizioni di vita dei forzati e delle loro famiglie suscita scandalo); prosegue poi la prolifera attività di narratore.

Nel 1895 scrive un nuovo lavoro, Il gabbiano : «Ho cominciato il dramma forte e l’ho terminato pianissimo. Ne sono più scontento che soddisfatto; dopo averlo riletto, mi rendo sempre più conto che non sono un drammaturgo». Un dramma quasi senza trama che si conclude con il suicidio del protagonista, giovane scrittore depresso e incompreso. Il lavoro viene accettato dal Teatro Aleksandrinskij per la stagione successiva: nonostante la presenza della grande Vera Komissarzevskaja nella parte di Nina, e di altri celebri attori, nessun successo. Lo scrittore è desolato: «Vivessi ancora settecento anni, non scriverò mai più per il teatro». Due anni dopo l’amico Vladimir Nemirovic-Dancenko, che da pochi mesi ha fondato a Mosca con il giovane regista e attore Konstantin Stanislavskij un nuovo teatro, il Teatro d’Arte, vuol ritentare la messa in scena del Gabbiano e gli chiede l’autorizzazione: gli assicura impegno e serietà degli interpreti, tutti giovani e entusiasti, un numero di prove dieci volte superiore agli altri teatri, massima attenzione ai dettagli dell’allestimento. C. prima rifiuta categoricamente, poi si lascia convincere: ed è un trionfo. Un trionfo dell’autore, ma anche un trionfo del nuovo metodo di messinscena, attento, orchestrato in tutti i movimenti e in tutti i registri. Ogni battuta acquista il giusto peso, ogni scena la tensione e l’intensità pensata dall’autore e mai realizzata. D’ora in poi, Cechov affida tutti i successivi lavori teatrali al Teatro d’Arte, che ne fa messinscene accuratissime, lungamente preparate, con slancio e partecipazione commossa di tutta la compagnia, attori e scenografi, registi (sempre Nemirovic e Stanislavskij insieme) e costumisti, elettricisti e trovarobe. Messinscene esemplari, ancor oggi punto di riferimento ineliminabile.

L’anno successivo è la volta di Zio Vanja, rielaborazione de Lo spirito della foresta (1899): tra le interpreti, Ol’ga Knipper, che si lega sentimentalmente allo scrittore. Si sposano poco dopo la prima rappresentazione del lavoro successivo, scritto in parte sull’onda di questo amore: Tre sorelle (1900). «Ho faticato parecchio a scrivere Tre sorelle. Tre sono infatti le protagoniste e ciascuna deve avere un suo carattere»: dall’estero, dove va per curare la tisi che da anni lo tormenta e che peggiora sempre più, manda preziosi consigli sull’interpretazione delle scene più complesse e delicate. Il grande successo spinge i direttori del Teatro d’Arte a chiedere un nuovo lavoro per la stagione successiva; ma per C. scrivere è ormai uno sforzo enorme, concentrarsi diventa faticosissimo. Il giardino dei ciliegi ha una gestazione lunga: è pronto solo alla fine del 1903 e va in scena il 17 gennaio 1904, alla presenza dell’autore che esce alla ribalta, distrutto dalla tensione e dalla malattia, ad accogliere onori e applausi. C. parte subito per la Germania, nel disperato tentativo di una cura che gli dia sollievo; morirà il 2 luglio. Il suo teatro, nell’arco del nostro secolo, non ha smesso di stimolare lettori, critici, spettatori e registi: si è sempre dimostrato, nonostante l’ineliminabile legame con il tempo, la società e i luoghi in cui fu scritto, di una attualità e una pertinenza sconcertanti. I grandi interpreti del nostro tempo, da Strehler a Visconti, da Ronconi a Peter Stein, da Dodin a Nekrosius si sono misurati con i suoi testi, traendone spettacoli di straordinaria suggestione, rispondendo di volta in volta a nuovi interrogativi, aprendo nuove dimensioni. La ragione va forse cercata in queste parole dello stesso Cechov: «Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere lavori in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo, giocano a wint … Non perché questo sia necessario all’autore, ma perché così avviene nella vita reale».

Lo sfondo di tutti i grandi drammi cechoviani è la provincia russa, dove, tra inaspettati guizzi di follia, di eccentricità, la vita impigrisce e gli uomini instupidiscono, ma dove, pur senza far nulla per reagire, non si smette di chiedersi il perché; e tuttavia qualcuno, sia pur raramente, lotta contro l’appiattimento, l’azzeramento delle velleità, delle volontà di riuscire. Cechov riesce con straordinaria perspicacia a rappresentare l’agonia di un mondo, travolto dall’insipienza e dalla noia, prima che eventi politici ne decretino di lì a pochi anni la cancellazione definitiva. Forse la grandezza e la contemporaneità del teatro cechoviano sta proprio nella acuta, lucida lettura della crisi di una società, i cui sintomi non hanno fatto che accentuarsi nei nostri inquieti anni.

Biermann

Wolf Biermann nasce da famiglia operaia e il padre muore nel lager nazista di Auschwitz. Trasferitosi nella Rdt nel 1953, studia economia politica, quindi lavora come assistente al Berliner Ensemble, dal ’57 al ’59; dal ’59 al ’63 alterna la produzione di testi poetici e canzoni con gli studi di filosofia e matematica; nel ’64 debutta al Distel, teatro cabaret di Berlino Est, come cantautore, e tiene concerti nella Germania occidentale ottenendo un grande successo. Critico del capitalismo, non è meno tagliente nei confronti del socialismo burocratico della Rft, così, a partire dal 1965, gli viene proibito di esibirsi in spettacoli musicali e teatrali e di pubblicare i suoi testi. Nel 1970 mette in scena ai Kammerspiel di Monaco l’opera teatrale Il Dra-Dra. La grande visione dell’uccisore di draghi in otto atti con musica , da Evgenij Švarc, una resa dei conti con lo stalinismo. Privato della cittadinanza ed espulso dalla Germania orientale nel 1976, si stabilisce ad Amburgo, sua città natale.

Malaparte

Personaggio controverso e singolare, difficilmente riducibile a una sola definizione, Curzio Malaparte deve il successo a provocatorie sfide di genere anarcoide. In letteratura, si ricordano soprattutto i suoi reportage narrativi, Kaputt (1944) e La pelle (1949), ambientato a Napoli durante l’occupazione. A Parigi, nel 1948, nella speranza di raggiungere quel successo a cui ambiva da quando aveva messo piede in Francia, Malaparte comincia a dedicarsi al teatro. Ma i due lavori, Du côté de chez Proust (`impromptu’ in un atto con musica e canto) e la commedia Das Kapital , dedicata all’esilio di Marx a Londra, non ottengono esito positivo. La ripresa d’interesse verso il palcoscenico si registra alcuni anni più tardi, quando, nell’agosto 1954, dopo aver curato la regia della pucciniana La fanciulla del West , in una memorabile edizione al Maggio musicale fiorentino, propone alla Fenice di Venezia, con la regia di Guido Salvini, la sua commedia Anche le donne hanno perso la guerra . Rovinoso – anche sul piano finanziario – è infine l’esito dell’ultima pièce, la rivista musicale di satira socio-politica, Sexophone , allestita al Teatro Nuovo di Milano nel 1955 per la regia dello stesso Malaparte, e portata in giro per l’Italia. Per il cinema si occupò di un solo film, nel 1950, di cui però fu soggettista, regista e tecnico musicale: Il Cristo proibito, che curiosamente, nel 1994, è stato riproposto teatralmente a San Miniato, con la regia di Massimo Luconi, nella riduzione curata da Ugo Chiti e dallo stesso Luconi.

Hardy

Dopo aver studiato architettura ed essersi trasferito a Londra per esercitare questa professione, Thomas Hardy optò per la letteratura, imponendosi come poeta e romanziere. Si cimentò anche nel teatro, con opere più adatte forse alla lettura che alla rappresentazione. In I dinasti (The Dynasts, 1903-08), dramma epico scritto dopo aver visitato il campo di Waterloo, le battaglie napoleoniche sono viste da un coro di intelligenze ultraterrene. Nel 1923 viene rappresentata La regina di Cornovaglia (The Famous Tragedy of the Queen of Cornwall at Tintagel in Lyonness), tragedia in versi ispirata alla vicenda di Tristano e Isotta.

Svevo

L’interesse e il lavoro per il teatro sono stati costanti nel corso della vita di Italo Svevo. Un’attenzione testimoniata non solo dalla creazione di tredici testi – non tutti arrivati a noi in versione definitiva – ma anche da una fitta serie di varianti, appunti, annotazioni critiche su opere altrui, vissute da spettatore o da lettore. Un’attenzione e un amore peraltro poveri di soddisfazioni: una sola delle sue opere, Terzetto spezzato, venne portata sulle scene nel 1927 da Anton Giulio Bragaglia che, frettolosamente, cercava un atto unico col quale completare la serata; tutte le altre opere teatrali rimasero inedite durante la vita del loro autore. È stato notato (fra tutti da Odoardo Bertani) quanto grave sia risultato per la drammaturgia italiana il silenzio che gravò su S., almeno sino alla fine degli anni ’60. Gli allestimenti che da questa data cominciarono a giungere con regolarità (estendendosi anche alla drammatizzazione delle maggiori opere di narrativa) non colmano comunque lo iato.

Il teatro di Svevo è il testimone della crisi delle coscienze a cavallo tra i due secoli. Il vuoto interiore, la fiacchezza esistenziale, il deserto del sentimento sono resi attraverso la creazione di una teoria di anti-eroi, personaggi svuotati di progettualità, inclini a seguire torbidamente la superficie delle cose fino a quando un evento non programmato spezza la routine. Il quadro di riferimento delle commedie di Svevo, il circuito in cui egli fa agire i suoi personaggi, è quello della borghesia mercantile triestina, incapace di memoria, rispettosa delle forme e visceralmente ancorata alla legge del denaro. In particolare, il luogo dove meglio giungono a maturazione le contraddizioni di un’esistenza vuota di sensi è la coppia, colta sempre nel suo inevitabile deflagrare sotto i colpi di adulteri vissuti (o immaginati) con il piglio di chi cerca un’avventura per `consistere’, anche a costo di perseguire la strada obbligata dell’inganno. Le ire di Giuliano, Una commedia inedita ma, soprattutto, Terzetto spezzato, L’avventura di Maria, La verità, Un marito e Con la penna d’oro (riproposta col titolo Le cugine da M. De Francovich nel 1970) fanno tutte perno su questo tema, rappresentandolo con una capacità di penetrazione psicologica via via crescente.

A parte questa, l’opera forse più riuscita di Svevo, La rigenerazione, ruotante attorno al vecchio Giovanni che, insieme al Federico Arcetri di Un marito , è uno dei pochi personaggi teatrali sveviani capaci di gettare lo sguardo al di sotto della superficie, scrutandosi davvero dentro. Giovanni, convinto dal nipote (studente in medicina) a sottoporsi a un’operazione per tornare giovane, e poi disposto a fingere con se stesso anche per dimostrare di non aver buttato via il denaro, dà infatti un senso alla vita accettandola per quello che è, con tutti i suoi pesi e le sue insoddisfazioni.

Hofmannsthal

I drammi lirici del poeta Hugo von Hofmannsthal non ancora ventenne e già celebre – Ieri (Gestern, 1891), La morte di Tiziano (Der Tod des Tizians, 1892), Il folle e la morte (Der Tor und der Tod, 1893) – preludevano al suo futuro impegno nel teatro, accanto alla prosa e alla saggistica, e annunciavano un tema che attraverserà la sua produzione: il dono poetico coltivato all’ombra di un estetismo schivo, e il presentimento della necessità di inoltrarsi nel mondo per dare autenticità e vita alla propria missione letteraria. Tra i drammi scritti nel 1897 L’imperatore e la strega (Der Kaiser und die Hexe) anticipava la tragedia La Torre (Der Turm), ispirata a La vita è sogno di Calderón, di cui Hugo von Hofmannsthal darà due versioni (1920 e 1925) che ne testimoniano la genesi tormentata da quesiti morali e filosofici; e Il ventaglio bianco (Der weisse Faulmcher) declinava già, nel minuetto dell’infedeltà di Fantasio e Miranda, le note della commedia portata alla piena riuscita in L’uomo difficile (Der Schwierige, 1921), dove nella rappresentazione dell’aristocrazia viennese al crepuscolo si uniscono due filoni hofmannsthaliani, l’opera leggera e il dramma mistico.

Era dunque ormai definito il destino di Hugo von Hofmannsthal nel teatro quando si andava esaurendo la sua precoce vena poetica, col conseguente smarrimento spirituale di cui diede testimonianza nella Lettera di Lord Chandos (1901). Nel primo dramma non breve, L’avventuriero e la cantante (Der Abenteurer und die Saulmngerin, 1898), scritto in seguito al viaggio in Italia sulle orme di Goethe che riavvicinerà il poeta alle proprie origini italiane, compare Venezia, la città che farà da sfondo ad altre opere di Hugo von Hofmannsthal, prose e drammi. Venezia è per il poeta il simbolo dell’ambiguo sovrapporsi di vita e apparenza, la città dove «tutti vi sono mascherati», come osserva l’Andrea del romanzo Andrea o i ricongiunti (Andreas oder Die Vereinigten, 1907-13), quella Venezia popolata di aristocratici austriaci che non è molto diversa dalla Vienna del Canaletto, e che fa da sfondo al tema, ricorrente in Hugo von Hofmannsthal, del tentativo di ricongiunzione di istanze etiche ed estetiche nei personaggi intimamente scissi tra i due versanti della realtà e dell’apparenza. E, procedendo come l’autore per disvelamenti, nelle sembianze dell’avventuriero di L’avventuriero e la cantante, ulteriore figura dell’esteta hofmannsthaliano, perennemente infatuato dell’artificio che gioca da virtuoso tra la vita e le apparenze, si cela il volto del `Grande italiano’, come Hugo von Hofmannsthal aveva definito D’Annunzio; mentre la cantante Vittoria delinea il profilo di Eleonora Duse, a cui il giovane poeta aveva tributato la propria ammirazione nelle pagine scritte in occasione delle tournée viennesi dell’attrice nel 1892 e nel 1903.

Il panorama lagunare si fa fosco e sinistro in Venezia salvata (Das gerettete Venedig, 1902-04), il dramma tratto dall’opera di Thomas Otway, dove il brutale realismo elisabettiano diventa raffinato estetismo agitato da barlumi sinistri e grotteschi. Qui Venezia è una trappola dove i condannati a morte, cuciti in sacchi, vengono affogati in una laguna putrida e stagnante. È il periodo in cui Hugo von Hofmannsthal studia i capolavori teatrali del passato, dalle tragedie greche ai misteri medioevali, dal teatro secentesco spagnolo a quello elisabettiano; studi che daranno vita, in epoche diverse, a numerosi rifacimenti. Dall’Elektra (1902) rivissuta nel crudo scenario espressionista, tra laceranti evocazioni di sangue e danze macabre, che avvierà il sodalizio con Max Reinhardt e in seguito con Richard Strauss, nella versione operistica del 1909, inaugurando il cammino di Hugo von Hofmannsthal librettista; a La leggenda di Ognuno (Jedermann, 1911), la `moralità’ ispirata all’ Everyman di un ignoto drammaturgo inglese del Cinquecento, rappresentata ogni anno al festival di Salisburgo di cui H. fu uno dei promotori. Figure allegoriche delle virtù e dei vizi (la Morte, le Opere buone, la Fede) e figure realistiche (il cuoco, i servi, il debitore) gravitano nell’atmosfera di ombroso chiaroscuro declinato dai presagi e dalle inconsce parole di Jedermann, fino al culmine drammatico, situato da Hugo von Hofmannsthal – come già dagli autori cinquecenteschi – verso il centro dello svolgimento della vicenda, nella scena del banchetto dove si dà l’annunzio terrificante e inatteso della Morte. Dopo una lunga e dolorosa perplessità, Jedermann si spoglia di ogni bene terreno e, sorretto dalla Fede e circondato da un alone di compassione, si inoltra fiducioso nella tomba.

A questo dramma dichiaratamente liturgico si affiancano i drammi mistici, che si alternano ad altri lavori dal 1897, anno di Il piccolo teatro del mondo (Das kleine Welttheater), primo esperimento calderoniano di rappresentare il mondo come sogno illusorio, a cui molti anni dopo farà seguito Il gran teatro salisburghese del mondo (Das Salzburger Welttheater, 1922), dove Hugo von Hofmannsthal rifà El gran teatro del mundo di Calderón, ampliandolo e rendendolo quanto più possibile spettacolare, nella vicenda del ricco che afferma il valore dell’ordine consacrato dalla tradizione e del povero che, pur sognando la rivoluzione, torna al lavoro nei boschi; e quando la Saggezza gli impedisce di levare la scure sull’empietà del ricco, incapace di comprensione per i deboli, rinuncia a infliggere la punizione e, divenuto infine santo, intercede per il ricco dinanzi alla morte. A conclusione del percorso calderoniano e della maturazione di H., ora alla crisi culminante delle proprie riflessioni, giunge La Torre, dove il mistero, non più sorretto da un precetto religioso, diviene tragedia.

Se Venezia è la città della maschera, della caducità, dell’io che viaggia alla ricerca di se stesso attraverso le avventure del Caso, la Spagna di Calderón è il regno della durata, dove i grandi problemi vengono innalzati all’universalità. Un theatrum mundi dove agiscono le figure eterne che incarnano i conflitti dello spirito e dove, infine, si impone l’ordine della divina grazia e saggezza. Così l’uomo, il re, liberato dalle illusioni mondane, è svegliato alla coscienza che la vita è sogno, illusione, gioco, nel senso che l’uomo agisce sempre in vincoli cosmici e religiosi, di fronte ai quali ogni manifestazione del singolo diviene vana. Nelle due versioni di La Torre Hugo von Hofmannsthal scandaglia la possibilità del riaffermarsi di quell’ordine cosmico nella nuova epoca dilaniata e sofferta, dove gli accenni alla situazione del dopoguerra sono numerosi e velati. Il crollo di questa possibilità e la conseguente necessità di comprendere «disperatamente», senza consolazione, le nuove potenze che si affermano, culminano in un cupo pessimismo, che sigilla irrimediabilmente la conclusione del dramma.

Courteline

Figlio di un noto umorista, Georges Courteline conservò nella sua pratica drammaturgica il gusto per la farsa e la parodia sociale e `di genere’: il suo primo esito letterario fu infatti Le allegrie dello squadrone (Les gaîtés de l’escadron, 1886), racconti comici ispirati alla sua esperienza nell’esercito. Funzionario ministeriale, C. continuò la sua carriera letteraria dedicandosi, libero dell’ansia per la sopravvivenza, al teatro: il successo non si fece attendere e con Boubouroche (1893) l’autore ottenne una vasta notorietà, confermata dalla riuscita di commedie come La peur des coups (1894), Le droit aux étrennes (1896), Hortense, couche-toi! , Théodore cherche les allumettes (1897) e Les Bouligrins (1898). Seguirono, fra il 1900 e il 1901, le satire di argomento giudiziario, come L’article 330 e Les balances . L’ingresso di due opere di C. nel repertorio della Comédie-Française ( La paix chez soi nel 1906 e Boubouroche nel 1910) suggella la sua consacrazione ufficiale, ribadita dal suo ingresso nell’accademia Goncourt (1926). Scegliendo quali assi portanti della sua produzione temi e situazioni tratti dalla vita quotidiana della piccola borghesia del suo tempo, C. ha realizzato opere taglienti, farse `nere’ con cadenze che quasi annunciano l’Ubu di Jarry, ma che non vanno a intaccare i meccanismi sociali di cui mettono in luce la mediocrità. Dal punto di vista della tecnica drammaturgica, C. mostra di partecipare al rinnovamento teatrale del primo Novecento: è il Théâtre Libre di Antoine a mettere in scena la sua prima pièce, Lidoire , e successivamente Boubouroche . Con il suo gusto per lavori brevi (un atto o due al massimo), la sua attenzione alla messa in scena e ai temi scelti, Georges Courteline si inserisce perfettamente nella corrente realista di questa fase. Piccolo borghese, egli descrive personaggi ‘medi’ e, soprattutto, vicini socialmente e culturalmente allo `spettatore-tipo’ della Francia della Terza Repubblica. Il teatro di Georges Courteline partecipa infatti alla tendenza detta della `comédie rosse’, dominata da temi familiari come le relazioni coniugali ed extraconiugali, e da temi etico-sociali, come quello della giustizia.

Capek

Dopo la laurea in filosofia (1915) Karel Capek scrisse per diversi giornali cechi; dal 1921 al ’23 collaborò stabilmente come drammaturgo con il Teatro municipale di Praga. Il primo successo fu Il brigante (1920), metafora della ribellione della giovinezza contro la vecchiaia immobile e tradizionalista. Dello stesso anno è il suo dramma più conosciuto, R.U.R., acronimo di Rossum’s Universal Robots (1920), una satira in chiave fantascientifica della società moderna, in cui uno scienziato (Rossum; dal ceco `rozum’, ragione) costruisce a servizio degli uomini degli automi, uomini-macchina, che finiscono per ribellarsi ai loro padroni-creatori distruggendoli. Il testo divenne famoso fra l’altro per aver coniato un termine diventato d’uso comune, `robot’ (dal ceco `róbota’, che significa lavoro, servitù della gleba).

In Dalla vita degli insetti (1921) gli animali vengono utilizzati come allegorie di alcuni vizi umani: la farfalla per la vanità dell’amore, gli scarabei per l’avidità e la brama di accumulare beni, le formiche per la superbia che sacrifica l’individuo alla massa. L’affare Makropulos (1922) – di cui ricordiamo l’allestimento di Luca Ronconi per lo Stabile di Torino, 1993 – racconta la storia di una donna che, in virtù di un elisir di lunga vita, rimane giovane e vitale per oltre trecento anni. La prospettiva di vivere tanto a lungo fa inorridire coloro ai quali la donna offre la ricetta, che alla fine viene bruciata da una ragazza. In Adamo creatore (1927) Adamo è un anarchico rivoluzionario che distrugge il mondo e viene punito da Dio con il compito di creare un mondo nuovo, migliore di quello precedente; accecato dalla propria superbia, Adamo entra in conflitto col proprio alter-ego, per finire distrutto dall’usurpatore.

Il teatro di Capek riflette i problemi e le inquietudini della sua epoca: gli effetti della distruzione bellica, l’avvento della tecnologia, l’ansia per il futuro. Pacifista e pragmatista, Capek innalza al di sopra di tutto i valori dell’esistenza umana, come il rispetto per la vita, la solidarietà civile, le tradizioni del vivere comune, contro le tendenze autodistruttive della superbia e del titanismo. Fra gli altri drammi ricordiamo Il morbo bianco (1937), sulla follia della guerra decisa da un fanatico dittatore, e La madre (1938), in cui l’amore materno entra in conflitto con i doveri civici e patriottici.

Hamsun

Di origini contadine, dopo aver lavorato come calzolaio si ingegnò in vari mestieri, facendo la spola tra la sua patria e gli Stati Uniti. Knut Hamsun riuscì a pubblicare novelle, articoli e il romanzo che decretò il suo successo, Fame (1890). Premio Nobel per la letteratura nel 1920, per il teatro ha scritto una trilogia ( La porta del regno , 1895; Il gioco della vita , 1896; Tramonto , 1898), che narra delle vicende dell’eroe nietzschiano Kareno, filosofo-poeta il cui pensiero è schiacciato dal trionfo inevitabile della natura sull’intelletto. Dopo il poema drammatico Il monaco Vendt (1902), esaltazione dell’atteggiamento naturalista, H. affronta il dramma romantico con La regina Tamara (1903) e grottesco con In balia della vita (1910), incentrati sul tema dell’amore. L’influenza di Nietzsche e il dichiarato filonazismo durante la seconda guerra mondiale lo porteranno a essere accusato di tradimento, rinchiuso in una casa di cura (1945-48), processato e privato dei beni.

Simenon

L’unico momento teatrale della fertilissima carriera di Georges Simenon è l’adattamento di La neve era sporca (La neige était sale), allestito a Parigi nel 1950 con l’interpretazione di Daniel Gélin e Lucienne Bogaert. La riduzione del romanzo (pubblicato nel 1948) – ambientato durante la guerra in una imprecisata città occupata dal nemico, protagonista un giovane che discende tutti i gradini dell’abiezione – era stata effettuata dall’autore con la collaborazione di Frédéric Dard e la successiva supervisione (che suscitò l’ira di Simenon) di Raymond Rouleau. Il successo di pubblico fu notevole, ma l’episodio non ebbe seguito: a detta di Simenon la differenza tra teatro e narrativa è la stessa che separa la pittura dalla scultura. E lui affermò di sentirsi esclusivamente narratore.

Siciliano

Nelle due stagioni 1966-68, con Moravia e Dacia Maraini, Enzo Siciliano dà vita a Roma alla Compagnia del Porcospino, con l’intento di rinnovare il nostro teatro, polemicamente dichiarato morente. In quegli anni S. scrive tre atti unici, Tazza, Tempesta e La mamma com’è. L’obiettivo è realizzare «un teatro affidato interamente alla parola; un teatro di idee, un teatro dibattito, che tenti di ricondurre il pubblico all’attenzione per la realtà, fuori da ogni condizionamento sociale cui siamo spinti dai mass-media». Rosa (pazza e disperata) – allestito da R. Guicciardini nella stagione 1979-80, pièce incentrata sul tema della parola – diventerà un romanzo proprio per le difficoltà che ne condizionano la messinscena. Scritto su commissione è invece Vita e morte di Cola di Rienzo (Arezzo 1973; regia di Alessandro Giupponi), in cui Siciliano indaga l’animo di Cola, sondandone soprattutto la smania di grandezza e la paura della morte. Negli anni successivi la sua attività di scrittura si mantiene intensa; tra le opere più significative citiamo La vittima (1984), Tournée (1984), La parola tagliata in bocca (1985), Concerto per Medea (1985), Jacopone (1986), Singoli (1988), Ciano, cella 27 (1993), Accidia (1993), Un olmo dalle foglie troppo chiare (1993), Scuola romana (1994), Dio ne scampi (adattamento da Dio ne scampi dagli Orsenigo di U. Imbriani, allestito a Roma con la regia di L. Ronconi nel 1995) La morte di Galeazzo Ciano (1998). Oltre che autore, Siciliano è stato ed è impegnato come regista e, negli anni ’80, ha diretto il Teatro stabile di Catania.