Hofmannsthal

I drammi lirici del poeta Hugo von Hofmannsthal non ancora ventenne e già celebre – Ieri (Gestern, 1891), La morte di Tiziano (Der Tod des Tizians, 1892), Il folle e la morte (Der Tor und der Tod, 1893) – preludevano al suo futuro impegno nel teatro, accanto alla prosa e alla saggistica, e annunciavano un tema che attraverserà la sua produzione: il dono poetico coltivato all’ombra di un estetismo schivo, e il presentimento della necessità di inoltrarsi nel mondo per dare autenticità e vita alla propria missione letteraria. Tra i drammi scritti nel 1897 L’imperatore e la strega (Der Kaiser und die Hexe) anticipava la tragedia La Torre (Der Turm), ispirata a La vita è sogno di Calderón, di cui Hugo von Hofmannsthal darà due versioni (1920 e 1925) che ne testimoniano la genesi tormentata da quesiti morali e filosofici; e Il ventaglio bianco (Der weisse Faulmcher) declinava già, nel minuetto dell’infedeltà di Fantasio e Miranda, le note della commedia portata alla piena riuscita in L’uomo difficile (Der Schwierige, 1921), dove nella rappresentazione dell’aristocrazia viennese al crepuscolo si uniscono due filoni hofmannsthaliani, l’opera leggera e il dramma mistico.

Era dunque ormai definito il destino di Hugo von Hofmannsthal nel teatro quando si andava esaurendo la sua precoce vena poetica, col conseguente smarrimento spirituale di cui diede testimonianza nella Lettera di Lord Chandos (1901). Nel primo dramma non breve, L’avventuriero e la cantante (Der Abenteurer und die Saulmngerin, 1898), scritto in seguito al viaggio in Italia sulle orme di Goethe che riavvicinerà il poeta alle proprie origini italiane, compare Venezia, la città che farà da sfondo ad altre opere di Hugo von Hofmannsthal, prose e drammi. Venezia è per il poeta il simbolo dell’ambiguo sovrapporsi di vita e apparenza, la città dove «tutti vi sono mascherati», come osserva l’Andrea del romanzo Andrea o i ricongiunti (Andreas oder Die Vereinigten, 1907-13), quella Venezia popolata di aristocratici austriaci che non è molto diversa dalla Vienna del Canaletto, e che fa da sfondo al tema, ricorrente in Hugo von Hofmannsthal, del tentativo di ricongiunzione di istanze etiche ed estetiche nei personaggi intimamente scissi tra i due versanti della realtà e dell’apparenza. E, procedendo come l’autore per disvelamenti, nelle sembianze dell’avventuriero di L’avventuriero e la cantante, ulteriore figura dell’esteta hofmannsthaliano, perennemente infatuato dell’artificio che gioca da virtuoso tra la vita e le apparenze, si cela il volto del `Grande italiano’, come Hugo von Hofmannsthal aveva definito D’Annunzio; mentre la cantante Vittoria delinea il profilo di Eleonora Duse, a cui il giovane poeta aveva tributato la propria ammirazione nelle pagine scritte in occasione delle tournée viennesi dell’attrice nel 1892 e nel 1903.

Il panorama lagunare si fa fosco e sinistro in Venezia salvata (Das gerettete Venedig, 1902-04), il dramma tratto dall’opera di Thomas Otway, dove il brutale realismo elisabettiano diventa raffinato estetismo agitato da barlumi sinistri e grotteschi. Qui Venezia è una trappola dove i condannati a morte, cuciti in sacchi, vengono affogati in una laguna putrida e stagnante. È il periodo in cui Hugo von Hofmannsthal studia i capolavori teatrali del passato, dalle tragedie greche ai misteri medioevali, dal teatro secentesco spagnolo a quello elisabettiano; studi che daranno vita, in epoche diverse, a numerosi rifacimenti. Dall’Elektra (1902) rivissuta nel crudo scenario espressionista, tra laceranti evocazioni di sangue e danze macabre, che avvierà il sodalizio con Max Reinhardt e in seguito con Richard Strauss, nella versione operistica del 1909, inaugurando il cammino di Hugo von Hofmannsthal librettista; a La leggenda di Ognuno (Jedermann, 1911), la `moralità’ ispirata all’ Everyman di un ignoto drammaturgo inglese del Cinquecento, rappresentata ogni anno al festival di Salisburgo di cui H. fu uno dei promotori. Figure allegoriche delle virtù e dei vizi (la Morte, le Opere buone, la Fede) e figure realistiche (il cuoco, i servi, il debitore) gravitano nell’atmosfera di ombroso chiaroscuro declinato dai presagi e dalle inconsce parole di Jedermann, fino al culmine drammatico, situato da Hugo von Hofmannsthal – come già dagli autori cinquecenteschi – verso il centro dello svolgimento della vicenda, nella scena del banchetto dove si dà l’annunzio terrificante e inatteso della Morte. Dopo una lunga e dolorosa perplessità, Jedermann si spoglia di ogni bene terreno e, sorretto dalla Fede e circondato da un alone di compassione, si inoltra fiducioso nella tomba.

A questo dramma dichiaratamente liturgico si affiancano i drammi mistici, che si alternano ad altri lavori dal 1897, anno di Il piccolo teatro del mondo (Das kleine Welttheater), primo esperimento calderoniano di rappresentare il mondo come sogno illusorio, a cui molti anni dopo farà seguito Il gran teatro salisburghese del mondo (Das Salzburger Welttheater, 1922), dove Hugo von Hofmannsthal rifà El gran teatro del mundo di Calderón, ampliandolo e rendendolo quanto più possibile spettacolare, nella vicenda del ricco che afferma il valore dell’ordine consacrato dalla tradizione e del povero che, pur sognando la rivoluzione, torna al lavoro nei boschi; e quando la Saggezza gli impedisce di levare la scure sull’empietà del ricco, incapace di comprensione per i deboli, rinuncia a infliggere la punizione e, divenuto infine santo, intercede per il ricco dinanzi alla morte. A conclusione del percorso calderoniano e della maturazione di H., ora alla crisi culminante delle proprie riflessioni, giunge La Torre, dove il mistero, non più sorretto da un precetto religioso, diviene tragedia.

Se Venezia è la città della maschera, della caducità, dell’io che viaggia alla ricerca di se stesso attraverso le avventure del Caso, la Spagna di Calderón è il regno della durata, dove i grandi problemi vengono innalzati all’universalità. Un theatrum mundi dove agiscono le figure eterne che incarnano i conflitti dello spirito e dove, infine, si impone l’ordine della divina grazia e saggezza. Così l’uomo, il re, liberato dalle illusioni mondane, è svegliato alla coscienza che la vita è sogno, illusione, gioco, nel senso che l’uomo agisce sempre in vincoli cosmici e religiosi, di fronte ai quali ogni manifestazione del singolo diviene vana. Nelle due versioni di La Torre Hugo von Hofmannsthal scandaglia la possibilità del riaffermarsi di quell’ordine cosmico nella nuova epoca dilaniata e sofferta, dove gli accenni alla situazione del dopoguerra sono numerosi e velati. Il crollo di questa possibilità e la conseguente necessità di comprendere «disperatamente», senza consolazione, le nuove potenze che si affermano, culminano in un cupo pessimismo, che sigilla irrimediabilmente la conclusione del dramma.