Vilar

Jean Vilar nasce da una famiglia di commercianti. A ventun anni si iscrive all’Atelier di C. Dullin e successivamente, negli anni ’40, crea `La compagnie des sept’. Queste esperienze lo porteranno a fondare, nel 1947, il Festival di Avignone (che dirigerà fino alla morte) e a guidare, dal 1951 al 1963, il Teatro di Chaillot diventato Teatro Nazional Popolare (teatro che, sull’esempio del Piccolo, vuole essere considerato non uno svago, ma qualcosa di necessario «come il gas e la luce»). Queste due attività, accanto al suo lavoro di attore e di regista, cambieranno radicalmente la vita teatrale francese.

Democratico, popolare Vilar si adopera per strappare il teatro al suo ambito borghese cambiando orari, prezzi e trasformando sempre di più Chaillot da una sala a una casa abitata da artisti, aperta a una società che cambia. Di qui l’idea, che ritroviamo anche fra i punti cardine della fondazione del Piccolo, di un teatro d’arte accessibile a tutti e, dunque, attento a un pubblico popolare che è favorito dalla politica dei prezzi e degli abbonamenti. Del resto, la definizione `teatro popolare’ ritorna continuamente negli scritti di Vilar, ispirati a un’altissima moralità, come la sua vita.

Tutto questo si definisce nella scelta di un repertorio concentrato soprattutto sui grandi classici da Corneille (Cid, 1949 e 1951) a Molière (memorabili le sue interpretazioni dei personaggi di Don Giovanni e di Arpagone nell’ Avaro, 1952), da Shakespeare (Riccardo II, 1953; Macbeth, 1954) a, Kleist (Il principe di Homburg, 1951), fino a Hugo (Ruy Blas, 1954), avendo spesso come compagno d’avventura e come interprete ideale quel grandissimo attore che è G. Philipe. Soprattutto, rinnova l’approccio a un classico scomodo come Marivaux (esemplare in questo senso Il trionfo dell’amore , 1955), togliendolo per sempre alle sue finte levigatezze e recuperandolo nella sua chiave `nera’.

Ma Vilar non è stato solamente regista e interprete di classici. Ha infatti firmato e interpretato opere della drammaturgia moderna (Strindberg, ma anche Cechov e Pirandello) e contemporanea (Brecht, per esempio, di cui mette in scena Madre Coraggio , 1951 e La resistibile ascesa di Arturo Ui , 1960) nei quali lo spettatore potesse vedere rispecchiati i suoi problemi. Qualcuno ha definito questa esigenza, questa tensione che ha permeato tutta la sua vita di teatrante, un’illusione. Se così è stato si è però trattato di un’illusione che ha dato linfa al teatro. Eppure anche un artista di così alta moralità non passa immune attraverso l’uragano del maggio ’68 quando gli studenti contestano il Festival di Avignone, come del resto tutte le istituzioni, culturali e no, di Francia. Amareggiato e deluso, non rinuncia però a battersi, fino all’ultimo, per le sue idee.

Avignone

L’idea di Jean Vilar – a cui è intitolata in città una casa che possiede tutti i copioni, gli scritti, i costumi, i cimeli, le lettere del maestro e che svolge un’intensa attività culturale per tutto l’anno – alla lunga risulta ancora quella vincente: sposare teatro e architettura, cercare nei luoghi all’aperto spazi privilegiati. All’inizio il Festival di Avignone ha come palcoscenico d’elezione la grande Corte d’onore del Palazzo dei Papi, dove ancora oggi si tengono gli spettacoli inaugurali e quelli più importanti preceduti da tre squilli di tromba. Ma nel tempo altri luoghi, come il celeberrimo Cloître des Carmes, sono diventati palcoscenici teatrali. Accanto al festival vero e proprio, che ha saputo trasformare l’intera città in un palcoscenico – basti ricordare le facciate delle case del centro che portano dipinti i ritratti dei maggiori attori che da A. sono passati, simili a personaggi affacciati a delle ipotetiche finestre – se n’è sviluppato un altro, off, il quale – una volta spontaneo, adesso con regole ferree di organizzazione, non ha nulla da invidiare a quello ufficiale. A tal punto che da qualche anno, in Place de l’Horloge, è nato addirittura un festival off-off che ruota attorno a quello che si può considerare il vero cuore pulsante della manifestazione. Come tutte le istituzioni anche questo festival, mentre è ancora direttore Vilar, subisce la contestazione del 1968. Anzi in questo caso la contestazione è duplice: ai giovani che chiedono un cambiamento, fa eco quello che sarà lo spettacolo-evento, lo spettacolo scandalo di quell’edizione, il Paradise now del Living Theatre con il suo messaggio rivoluzionario: il teatro deve lasciare i luoghi codificati e andare per le strade, fra la gente. Dalla morte di Vilar alla direzione del festival si sono succeduti diversi direttori, qualcuno magari migliore di lui dal punto di vista manageriale, ma nessuno con il suo carisma e la sua grandezza. Nel corso degli anni comunque il Festival di Avignone ha continuato a produrre grandi spettacoli, ospitando artisti da tutto il momdo. È qui, per esempio, che va in scena il Mahabharata di Peter Brook alla Cava di Boulbon. È qui che colgono significativi trionfi Béjart, Bausch e Carlson. È qui che Patrice Chéreau, allora direttore di Nanterre, presenta un Amleto destinato a girare mezzo mondo e recita in prima persona in Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard Marie Koltès. Progettualità, capacità di pensare in grande, cospicui finanziamenti pubblici ma anche contributi privati, fanno ancora oggi del festival di A. un avvenimento di notevole ricchezza culturale malgrado l’evidente declino tipico di questo genere di manifestazione.