Balletto Reale Danese

In Danimarca i balletti di corte furono introdotti nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, mentre al Teatro Groennegard e al Teatro Reale, inaugurato nel 1748, si alternarono maestri di ballo francesi e italiani. Ma è stata la personalità e l’opera di August Bournonville tra il 1829 e il 1879 a segnare indelebilmente lo stile di danza del Balletto Reale Danese; stile francese che Bournonville aveva appreso sotto la guida di Vestris e che riprodusse in balletti ancora oggi eseguiti fedelmente come Napoli o La sylphide. Dopo la sua morte, il Balletto Reale Danese ebbe un periodo di declino, scosso appena dal passaggio di ospiti illustri come Fokine, che allestì nel 1925 Petruška , e Balanchine nel 1930. È stata la direzione di Harald Lander, fra il 1932 e il 1951, a riconsolidare la fama della compagnia. Lander si è curato della rinascita dello stile bournouvilliano e ha creato suoi balletti, tra cui il celebre Etudes (1942). Sotto la sua guida, la compagnia cominciò ad avere fama internazionale e a effettuare tournée, come quella applauditissima al Covent Garden di Londra. Un altro periodo di transizione segna la storia della compagnia dopo le dimissioni di Lander fino al 1966, quando arriva alla direzione Flemming Flindt, anche lui impegnato per ripristinare il repertorio bournonvilliano, al quale accosta un repertorio moderno con lavori di G. Tetley, P. Taylor e M. Louis. Dalle file del Balletto Reale Danese sono usciti artisti come Margot Lander, stella degli anni ’30, Erik Bruhn, Peter Martins, Peter Schaufuss. Attualmente è diretto da Maina Gielguld, ex stella di Maurice Béfart.

Balducci

Politicamente impegnato, sviluppa nei suoi testi i temi legati alla società del suo tempo. Per questo i lavori che scrive se da un lato possono dividere nel giudizio sulle idee ed i contenuti il pubblico e la critica, d’altro canto vengono apprezzati per lo stile. Nel 1979 gli è stato assegnato il premio Pirandello per Correnti nella baia . I titoli: Gente sulla piazza (1949), I dadi e l’archibugio (1960), L’equipaggio della zattera (1962), Don Giovanni al rogo (1967), Un cielo di cavallette (1969), Il vento e i giorni (1969), La nuova isola (1973, premio Riccione) L’eredità (1980), Incontro al Carrobbio (1981), Amilcare Riccotti, capocomico (1983), Labirinto (1984) .

Barra

Concetta Barra nacque a Procida, e di quel luogo – immortalato dalla Morante come L’isola di Arturo – portò sempre con sé, nella voce e nelle fattezze da saracena, l’incanto fiero e un po’ selvaggio. A sedici anni, insieme con le sorelle Nella e Maria, fonda il Trio Vittoria, con cui partecipa a riviste di primaria importanza nelle compagnie di Totò, Fabrizi, Anna Magnani e Sordi. Poi, nel ’45, lascia il teatro per dedicarsi completamente alla famiglia e ai figli nati dal matrimonio con il fantasista Giulio Barra. Ma il richiamo della ribalta è troppo forte. All’inizio degli anni ’70 comincia a cantare il repertorio folk e tradizionale in genere, accompagnata alla chitarra dal figlio Gabriele. L’incontro con Roberto De Simone fa il resto. Nel ’76 Concetta contribuisce al trionfo di La gatta Cenerentola , partecipando, quindi, a tutti gli altri più importanti spettacoli di De Simone: da Festa di Piedigrotta all’ Opera buffa del Giovedì Santo . Nel 1981, infine, entra stabilmente nella compagnia Peppe & Barra, fondata dal figlio Peppe insieme con Lamberto Lambertini, e con questa gira tutto il mondo, portando a uno straordinario successo spettacoli quali, appunto, Peppe & Barra , Sempre sì , Senza mani e senza piedi , La festa del principe e La Cantata dei Pastori , in cui è un indimenticabile e surreale Sarchiapone. Nel 1984 gira l’Europa e le Americhe con il Don Chisciotte di Scaparro. E muore sul campo: nel ’93, mentre, ancora al fianco di Peppe, è in tournée con lo spettacolo Flic e Floc.

Ballet du XXème siècle

Alla sua base è da considerare il nucleo di giovani e forti danzatori che lo stesso coreografo riunì per portare in scena, nel 1959, la sua versione del Sacre du printemps . Anche se non esclusivo, il luogo dei suoi spettacoli fu il Théâtre Royal de la Monnaie. Altre sedi: Cirque Royal e Forest National. Numerose furono le sue tournée all’estero, a cominciare dall’Italia (fra l’altro alla Scala e all’Arena di Verona). L’asse portante del suo repertorio fu costituito dalle coreografie di Béjart che ebbe il ruolo di direttore artistico e seppe circondarsi anche di altri artisti importanti (dalla Charrat a Massine, da Sparembelk a Milloss). Notevole però fu il contributo degli stessi danzatori che il maestro spingeva a prove coreografiche. Danzatori che Béjart seppe reclutare da tutto il mondo selezionando i migliori, così da costituire una compagine forte e omogenea, particolarmente brillante poi sul versante maschile. Tra le file del Ballet du XXème siècle militarono, oltre a J. Donn, ballerini di grande prestigio come A. Albrecth, G. Casado, J.M. Van Hoecke, J. Lefebre, D. Lommel, I. Marko, L. Massine, P. Touron. E ancora gli italiani V. Biagi e P. Bortoluzzi. Nel settore femminile, T. Bari, S. Farrell, M. Gielgued, S. Mirk, L. Proenca, D. Sifnios. Caratteristica della compagnia è stata anche quella di rivolgersi soprattutto al mondo dei giovani con opere, alcune delle quali (ad esempio la Nona sinfonia del 1964, portata in ampi spazi, o Bolero 1960) diventarono spettacoli `cult’ grazie al loro forte impatto emotivo. Dal 1987 la compagnia si è trasferita in Svizzera, trasformandosi nel Béjart Ballet Lausanne.

Barrymore

Il capostipite, Maurice Barrymore (Herbert Blythe; 1847 – 1905), debuttò in Inghilterra e si trasferì poi negli Usa dove sposò Georgiana Emma Drew, appartenente a un’illustre famiglia d’arte. Ebbero tre figli, tutti destinati a grande fama. Lionel (1878 – 1954) fece teatro (con successi come The Copperhead di A. Thomas e La cena delle beffe di S. Benelli accanto al fratello) fin quando un disastroso Macbeth (1921) non lo convinse a trasferirsi definitivamente a Hollywood. Lo seguì, ma nel 1940, la sorella Ethel (1879 – Filadelfia1959), che per la sua bellezza (fu coniata per lei l’espressione `glamour girl’) e il suo talento era stata un idolo di Broadway (dove un teatro porta dal 1928 il suo nome), dal 1901 ( Captain Jinks of the Horse Marines di C. Fitch) al 1939 (Il grano è verde di E. Williams), affrontando anche personaggi come Nora, Porzia, Giulietta e Margherita Gautier. A Hollywood approdò stabilmente anche John (1882 – 1942) quando, dopo aver sfruttato a lungo sulle scene il proprio fascino (il profilo famoso) e la propria disinvoltura, si era guadagnato i galloni del grande attore interpretando Giustizia di J. Galsworthy, Riccardo III e soprattutto, nel 1922, un Amleto, acclamato in patria e a Londra come il migliore, forse, del suo tempo.

Besozzi

Dopo aver debuttato appena diciottenne, Nino Besozzi fu in importanti compagnie accanto a V. Vergani, L. Cimara, L. Almirante, A. Pagnani, e ancora con Melnati e De Sica. Partecipò anche (1924) alla bella avventura milanese del Teatro del Convegno diretto da E. Ferrieri. Il successo gli arrise presto interpretando ruoli sia drammatici sia brillanti. Quanto ai primi, si distinse particolarmente in Lulù di Bertolazzi e – forse la sua prova più impegnativa – in Il magnifico cornuto di Crommelynk. Fu tuttavia nel genere brillante che si impose a partire dal 1938, tenendo per alcuni anni il monopolio delle simpatie popolari (questo anche al cinema, che a lungo lo legò a sé): una comicità caratterizzata da un che di flemmatico, e che giocava volentieri con la voce (gustosi certi suoi effetti nasali). Oltre alla prosa avvicinò la rivista, proponendosi anche come autore (Lo zio di Milano , in collaborazione con Delio Siesto) senza però ottenere risultati di rilievo. Nel corso della sua carriera tentò anche di riportare sulle scene il repertorio del grand-guignol. Negli ultimi anni fece fugaci apparizioni in televisione.

Bartolomei

Prima ballerina dell’Opera di Roma e di altri teatri italiani, Franca Bartolomei nel 1960 fonda insieme al marito, Walter Zappolini, il Balletto di Roma, compagnia di stile classico-moderno per la quale crea alcune coreografie (Lettere di una monaca portoghese 1972, Herodias 1988) e costituisce un repertorio che spazia dall’ Ottocento romantico al Novecento storico a novità di autori come Robert North, Oscar Araiz, Evgheni Polyakov. Associatasi per un breve periodo al coreografo Vittorio Biagi e alla sua compagnia, continua nella gestione del suo gruppo rinominato Nuovo Balletto di Roma.

Benavente

Premio Nobel per la letteratura nel 1922, autore di riconosciuto prestigio e di grande successo in tutta la prima metà del secolo, Jacinto Benavente fu il creatore della cosiddetta `alta commedia’, cioè di una commedia ben costruita, di ambiente alto borghese o aristocratico, sia cittadino che rurale, con una dose moderata di critica e di elegante scetticismo, lontana sia dal teatro naturalista che dalle inquietudini delle avanguardie. Tra i suoi testi più noti: Il nido altrui (El nido ajeno), 1894; La Malvoluta (La Malquerida), 1913 e Gli interessi creati (Los intereses creados), 1907; quest’ultimo ispirato a personaggi letterari.

Ballet Caravan

Ballet Caravan fu fondata nel 1936 da L. Kirstein per offrire un terreno d’esperimento a giovani coreografi americani, tra i quali i promettenti Dollar, Christensen, Hawkins e Loring. Proprio quest’ultimo seppe creare un balletto di stile totalmente nuovo e di grande successo, Billy the Kid (1938, musica di A. Copland). Assunto nel 1938 il nome di American Ballet Caravan, nel 1941 si associò all’American Ballet per una tournée in Sudamerica. Fu questo il suo ultimo ciclo di rappresentazioni; ritornata negli Usa, la troupe infatti si smembrò.

Binasco

Nel 1987 Valerio Binasco si diploma presso la scuola dello Stabile di Genova. Negli anni immediatamene seguenti lavora per il Teatro di Genova con le regie di Anna Laura Messeri (Il furfantello dell’Ovest , di J. M. Synge, 1987) e Marco Sciaccaluga (La putta onorata e La buona moglie di Goldoni, 1987-88; Inverni di C. Repetti da S. D’Arzo, 1988; Arden di Feversham, 1988-89). Nel 1989 lavora con Mario Jorio in Gelopea di Chiabrera e con Carlo Cecchi in Amleto. Quindi, nel 1991, è nuovamente con lo Stabile di Genova per il Re Cervo di Gozzi con la regia di Marco Sciaccaluga e inizia la sua attività come insegnante presso la scuola di recitazione dello Stabile. Dal 1991-92 lavora con il Teatro degli Incamminati con le regie di Franco Branciaroli (Antigone di Sofocle, Re Lear di Shakespeare, L’ispettore generale di Gogol), G. De Bosio (I due gemelli veneziani di Goldoni), M. Sciaccaluga (Cirano di E. Rostand, La bisbetica domata di Shakespeare). Nel 1994 inizia la duratura collaborazione con C. Cecchi, inizialmente come assistente alla regia per la messa in scena di Nunzio di Spiro Scimone, poi come attore in Finale di partita di Beckett (1995), La serra di H. Pinter (1997), Sogno di una notte di mezza estate e Misura per misura di Shakespeare (1998). Dal 1995, anno in cui ha diretto e interpretato Re Cervo di Gozzi con il gruppo Durandarte, si dedica anche alla regia teatrale. Ha firmato le regie di Bar di Spiro Scimone per il festival di Taormina nel 1997, di Family Voices di H. Pinter nel 1997, di La bella di Leenane di M. Mc Donagh per lo Stabile di Genova nel 1998.

Budapest,

Lo stabile di Budapest nasce nel 1891 grazie a Wulff Ede, proveniente da una famiglia tedesca di domatori. L’edificio, capace di 2300 posti, desta notevole sensazione tra gli abitanti della città ed ottiene un enorme successo di pubblico. In seguito Ede lascia la direzione del Circo di Budapest, il livello dei servizi va peggiorando e l’edificio viene trasformato in una grande uccelliera ad uso dell’adiacente parco zoologico. Nel 1904 Matyás Beketow riesce ad ottenere un buon contratto di affitto e a riportare lo stabile di Budapest agli antichi splendori. Ma le condizioni economiche del direttore russo peggiorano, nel 1929 l’impresa dichiara fallimento e Beketow si uccide gettandosi nel Danubio. Il circo viene preso in mano dalla municipalità che lo affida in sequenza a vari direttori fino a farlo arrivare nel 1935 tra le mani di Gyórgy Fenyes, il quale scrittura artisti di fama mondiale (tra i quali Charlie Rivel), stimolando allo stesso tempo il vivaio nazionale. Nel 1943 il circo è costretto a chiudere per le attività belliche. La fine della guerra e l’arrivo dei russi portano a una lenta decadenza.

Nel 1949 il circo diventa statale, l’organizzazione che se ne occupa è la Magyár Cirkusz es Varieté. Alla fine degli anni ’60 la struttura è però fatiscente, così, nel 1971, viene buttato giù il vecchio stabile e costruito l’attuale Fovarosi Nágycjrkusz, con 1800 posti, ampie scuderie per gli animali e un hotel per gli artisti. La direzione passa da Gaborne Eotvos a Tamás Radnoti fino ad arrivare, nel 1988, all’ex artista István Kristof (Clown d’Argento al festival di Monte-Carlo del 1977). Oltre allo stabile esistono due quartieri invernali ben attrezzati e l’Istituto nazionale di formazione degli acrobati, nato nel 1950 per volere del Ministero dell’Educazione. Negli anni ’90 il Circo di Budapest esegue alcune tournée in Italia con alterna fortuna.

Bolt

Robert Bolt è giunto al successo grazie a Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons, 1960), nato come radiodramma successivamente da lui ridotto per la televisione, il teatro e il cinema, regista Fred Zinnemann (1966). Il film, interpretato da Paul Scofield, Orson Welles e Vanessa Redgrave, fu premiato con cinque Oscar, tra cui quello per la miglior sceneggiatura (andato allo stesso B.). La vicenda ricalca il capitolo di storia inglese del Cinquecento che vide il conflitto tra ragion di stato (Enrico VIII) e coscienza morale (il cancelliere Thomas More, che pagò con la vita il suo rifiuto di piegarsi alla volontà del re). Tra le opere teatrali: Il critico e il cuore (The Critic and the Hearth, 1957), Il ciliegio in fiore (Flowering Cherry, 1957), La tigre e il cavallo (The Tiger and the Horse, 1960), Dolce Jack (Gentle Jack, 1963), Fratello e sorella (Brother and Sister, 1967), Vivat, vivat Regina (1970, su Elisabetta e Maria Stuarda) e Stato di rivoluzione (State of Revolution, 1977, su Lenin, per il National Theatre). Oltre al già citato Un uomo per tutte le stagioni , sono da ricordare le sceneggiature cinematografiche di Lawrence d’Arabia , Il dottor Zivago e La figlia di Ryan , tutte per la regia di David Lean; mentre ha diretto personalmente Peccato d’amore (Lady Caroline Lamb, 1972).

boulevard, teatro del

La sua origine risale a pochi anni prima della Rivoluzione, quando le compagnie della fiera Saint-Laurent furono autorizzate a insediarsi sulle traiettorie di passeggio favorite dai parigini (i boulevards, appunto). «Quando le sale dei francesi e quelle degli italiani restano deserte, gli istrioni dei `boulevards’ fanno il pienone» – così scriveva già nel 1788 chi andava alla ricerca delle cause della decadenza del teatro. Ancora all’epoca del Secondo impero, la reputazione del t. del b. risentiva di una lunga tradizione di scelte giudicate, dagli intellettuali, troppo facili: melodrammi, vaudevilles, commedie borghesi declamate con dizione spesso artificiale e enfasi eccessiva, tematiche ripetitive e sempre volte all’edificazione. Eppure, tra il 1870 e il 1914, il t. del b., specchio della società che lo acclama, trionfa: Alfred Capus mette in scena avventurieri della finanza in La Veine (1901), mentre Robert de Flers (1872-1927) e G. Arman de Caillavet (1869-1915) stigmatizzano i vizi dei loro contemporanei; il t. del b. diviene ricchissimo: emblematica è la figura di Fernand Beissier (1856-1936), autore di commedie farsesche alla Feydeau e alla Labiche, che dalla Provenza natale, attraverso i ricavi dei suoi spettacoli, riesce a influenzare economicamente la vita politica francese appoggiando l’Action Française di Maurras. Ma il t. del b. è anche il luogo in cui un autore come Tristan Bernard presenta le sue commedie piene di verve; Lucien e il figlio Sacha Guitry alternano la scrittura dei testi a una brillante recitazione; Henry Bataille e Henry Bernstein analizzano ogni piega dell’animo femminile; ma soprattutto Georges Courteline (1852 – 1929), utilizzando con sapienza le tecniche proprie della farsa, costruisce personaggi altamente credibili che sfiorano, per verità umana, quelli delle grandi commedie di Molière ( La Conversion d’Alceste del 1902 vuole essere, appunto, il sesto atto del Misantrope ). Altri nomi più o meno famosi da associare al b. sono quelli di Jacques Deval, Victorien Sardou, Yves Mirande, Louis Verneuil. Dopo la seconda guerra mondiale il t. del b., lontano dalle preoccupazioni sul destino dell’uomo espresse dal teatro impegnato, non meno che dalle istanze del teatro d’avanguardia, sconta un qualche abbandono da parte del pubblico che, tuttavia, non gli sarà del tutto nocivo. Nel 1947 si segnala il successo di Armand Salacrou nel suo L’archipel Lenoir , feroce commedia contro la famiglia borghese. A partire dagli anni Cinquanta, il t. del b. scopre il teatro realista americano (Tennessee Williams, Arthur Miller), ma continua anche a ignorare il cosiddetto teatro d’arte, presentando opere come Ta femme nous trompe (1964) di Alexandre Breffort. Al successo continueranno ad attingere, nella seconda metà del secolo, Marcel Archard, Marc Camoletti ( Boeing-boeing , 1961), Jean Poiret ( La Cage aux folles , 1973), Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy, autori di Lily et Lily (1985), con Jacqueline Maillan.

Bene

Carmelo Bene esordisce nel 1959 al Teatro delle Arti di Roma nel Caligola di Camus diretto da Alberto Ruggiero, ma già l’anno successivo offre un lavoro creativo autonomo con Spettacolo Majakovskij , arricchito dalle musiche di S. Bussotti. Gli anni ’60 rivelano la novità dirompente dell’arte di B. Nascono spettacoli di inattesa forza eversiva e di oltraggiosa provocazione: Pinocchio da Collodi (1961), Amleto da Shakespeare (1961), Edoardo II da Marlowe (1963), Salomè da O. Wilde (1964), Manon da Prévost (1964), Nostra Signora dei Turchi (1966), Amleto o le conseguenze della pietà filiale da Shakespeare e Laforgue (1967), Arden of Feversham (1968), Don Chisciotte in collaborazione con Leo De Berardinis (1968). Il decennio, fra i più fecondi nella carriera di Carmelo Bene, consegna a un pubblico spesso scandalizzato spettacoli inattesi, creazioni che l’attore tornerà a rielaborare con accanimento, ricercando un punto prospettico sempre variato e conturbante. In quel decennio Carmelo Bene, oltre a costituire una propria compagnia in sodalizio con Lydia Mancinelli, partecipa all’attività del Beat ’72; sperimenta il cinema, realizzando il lungometraggio Nostra Signora dei Turchi (1968), che segue i mediometraggi Ventriloquio (1967) e Hermitage (1968); aderisce al `Manifesto per un nuovo teatro’ firmato a Ivrea nel 1967 dalle schiere più avanzate della cultura e della ricerca teatrale. Carmelo Bene è ormai il simbolo di un’arte antagonistica, opposta al teatro ufficiale. Per la prima volta, con lui, prende corpo una nuova nozione di attore, che non è soltanto un dissacratore di regole, di repertori e di autori, ma molto di più e di diverso: è l’attore filosofico, l’attore ideologico, l’attore saggista, che si pone «al di qua della rappresentazione e al di là del teatro» (M. Grande). Invece delle superstiti sicurezze dei cosiddetti grandi attori, dà al pubblico dubbi, polivalenze e ambiguità di significati, sottili intarsi culturali, la degradazione parodistica. Nel Romeo e Giulietta (1976), per esempio, si assume la parte di un Mercuzio che non muore a metà della tragedia, ma continua nelle parole di Romeo, da lui plagiato e fagocitato, ridotto a un mimo animato soltanto dal suo padrone e partner, la cui voce gli è trasmessa attraverso il play-back. È un caos doloroso e beffardo, il crollo di ogni illusione interpretativa.

È il cosiddetto teatro della sottrazione o dell’amputazione: Carmelo Bene elimina dai testi il dato ideologico immobile e vi sostituisce una potente forza distruttiva, con cui cancella il rapporto attore-personaggio, autore-regista e, di conseguenza, la rappresentazione convenzionale. Nascono da qui S.A.D.E. (1977), Lorenzaccio (1986), La cena delle beffe e Pentesilea (1989), dove l’elemento negativo sembra travolgere la nozione stessa di teatro. Nasce ancora da qui la rissosa e sfortunata direzione della Biennale Teatro nel 1989, in cui B. promette uno strenuo esercizio di ricerca teorica il cui scopo è il teatro senza spettatori. Pensiero negativo. Ma Carmelo Bene esce dalla negatività per affermare l’unica presenza per lui possibile, quella dell’attore; l’attore che non si nasconde dietro il personaggio, rifiuta di morire con Mercuzio, ma ripropone continuamente se stesso come realtà esistenziale in cui il poeta e la sua visione fantastica si fondono e finiscono con lo scomparire. L’attore, cioè il diverso: con la sua nevrosi, i suoi eccessi e mancamenti, la sua ambiguità sessuale, il suo autobiografismo ostentato, la distruzione di se stesso in pubblico, nell’onda di grandi musiche che enfatizzano i sentimenti caduti. Così, fra l’altalena del dubbio e lo schiocco dell’oltraggio, Carmelo Bene mette in discussione non solo il teatro nella sua accezione storicamente accertata, ma anche lo spettatore, invitato a riconoscere come unica realtà la sofferenza, la nausea, il narcisismo spudorato e malinconico, l’impotenza, la protervia e la mortale consapevolezza dell’attore, che ora ha perduto ogni connotato psicologico ed è diventato una macchina attoriale, arrivando a raccontare se stesso col nastro del play-back, in quinta, e avendo per interlocutori dei manichini. L’elemento vivo della macchina attoriale è la voce, che con Bene diventa phoné: uno strumento duttile, ricco di ombreggiature e di colori, di timbri, di sonorità e di cupezze, messi al servizio non solo dei personaggi anchilosati e collassati, ma anche del verso poetico, che egli esplora non nella cantabilità, ma nella profondità emotiva e concettuale, restituendolo a platee anche immense (Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna nel 1981) con l’uso del microfono, che con lui non è più una protesi, ma è la voce che vince il suo stesso corpo. Ed ecco le letture di Majakovskij e dei Canti orfici di Dino Campana, ecco Leopardi, ecco i concerti per voce recitante, come Manfred di Byron (1979, musica di Schumann), Hyperion di Maderna (1980) ed Egmont da Goethe con musiche di Beethoven (1983); ecco Hamlet Suite (1994), in cui l’opera di Laforgue ha le musiche di B. È l’apoteosi dell’attore-creatore che si è specchiato in G. Deleuze e in Nietzsche, si è sovrapposto ai grandi scrittori della scena reinventandoli in un’assoluta originalità ed è arrivato al grado massimo di narcisismo con l’autobiografia Sono apparso alla Madonna (1983), inserita nell’opera omnia pubblicata nel 1995.

Blok

Massimo esponente del simbolismo poetico di inizio secolo, Aleksandr Aleksandrovic Blok si interessa fin da giovanissimo al teatro, partecipando come attore a spettacoli amatoriali nella tenuta familiare di Sachmatovo. Dopo le prime affermazioni come poeta (soprattutto con la raccolta Versi per la bellissima dama ), scrive per il teatro una trilogia di drammi lirici in versi, La baracca dei saltimbanchi, Il re in piazza e La sconosciuta (1906). Il primo dramma viene rappresentato lo stesso anno, con esemplare intelligenza registica, da Mejerchol’d al teatro di Vera Komissarzevskaja: Pierrot e Arlecchino si contendono l’amore di Colombina mentre sullo sfondo i mistici simbolisti affondano nelle loro eterne diatribe. Ritenuto una presa in giro dei principi del movimento, lo spettacolo suscita enorme scalpore e vivaci polemiche. Nel secondo dramma c’è l’eco dei moti rivoluzionari del 1905, dell’inquietudine che pervade l’intera società russa.

Tre anni dopo scrive Il canto del destino (1908), dove affronta il problema dell’intelligencija e del suo destino in un’epoca di transizione come Blok sente essere la sua. L’ultimo dramma è La rosa e la croce (1913) che nasce da attente ricerche sul mondo dei trovatori nella Bretagna medioevale. Il lavoro viene inserito da Stanislavskij nel repertorio del Teatro d’Arte, che B. preferisce di gran lunga agli esperimenti mejerchol’diani (in realtà molto più consoni al suo tipo di scrittura); ma per motivi sia interni al Teatro d’Arte, sia esterni (la Prima guerra mondiale, l’approssimarsi della rivoluzione) la messinscena non fu realizzata, con grande amarezza del poeta.

Brasch

Figlio di emigrati ebrei, nel 1947 Thomas Brasch rientra in Germania, nella Rdt, dove il padre è funzionario del Sed, il Partito socialista unitario tedesco, e viceministro della cultura. Dal ’56 al ’60 frequenta l’Accademia militare come allievo ufficiale e, dopo il ’64, studia pubblicistica a Lipsia. Espulso dalla scuola, tra il ’67 e il ’68 frequenta l’istituto superiore di cinematografia a Berlino, ma viene espulso anche da questo istituto con l’accusa di sobillazione contro lo Stato. Dal ’72 lavora come scrittore indipendente e nel ’76 espatria a Berlino Ovest.

Nel ’77 vince il premio Gerhart-Hauptmann e nel ’87 il premio Kleist. La rivolta dell’individuo contro le limitazioni sociali, il tentativo di evadere dall’imposizione dei ruoli viene elaborato da Brasch attraverso la sperimentazione di nuove forme drammaturgiche e di una nuova estetica. Dalla disgregazione della società borghese nonché del concetto di individuo sorge la necessità di una nuova specie di eroi, ma eroi tra virgolette: in testi come Der Papiertiger (1976), Lovely Rita (1977), Rotter (1977), Anton Tschechovs Platonow (1978), Lieber Georg (1980), Mercedes (1983), Frauen. Krieg. Lustspiel. (1989), tanto poco ruolo ha l’eroe in quanto individuo, tanto si riduce anche la tematica.

I personaggi sono spesso messi in una posizione azzerata, in una situazione di bonaccia, così come l’autore la definisce, per evidenziare come essi usano il tempo libero che è stato loro concesso, al quale sono stati forzati o che si sono presi. Pertanto, tutti i testi di Brasch sono incentrati sul tema del lavoro considerato non solo secondo un’accezione economica: la disoccupazione, nel senso di essere utile o non utile, è secondo Brasch l’esperienza decisiva e fondamentale nelle società moderne.

Bernstein

Il suo teatro ha un ritmo incalzante che conduce alla scena ad effetto, vera e propria chiave di volta della rappresentazione. I protagonisti dei lavori di Henry Léon Gustave Bernstein spesso cedono a compromessi, in vista dell’appagamento della passione che li muove (generalmente il desiderio del denaro o l’amore), e che spesso resta inappagato. Fin dall’esordio, nel 1900 con Il mercato (Le marché), lo schema dell’intreccio si ripete in ognuno dei suoi lavori. In Il raggiro (Le détour, 1902) è il desiderio di riscatto di una giovane donna, che, sentendosi destinata come sua madre a lavorare in una casa d’appuntamenti, decide di sposare un medico di provincia; ma l’ostilità e la maldicenza la ricacciano verso quella vita a cui cercava di sfuggire. In La raffica (La rafale, 1905) il gioco d’azzardo soggioga e conduce alla rovina una coppia d’amanti; in La griffe (1906, scritta per Lucien Guitry) un uomo anziano cade vittima dei capricci della giovane di cui è innamorato; in Samson (1907) un finanziere, scopertosi tradito, per vendicarsi provoca la caduta dei titoli di borsa, coinvolgendo nel suo fallimento l’amante della moglie; in Israel (1908) – presa di posizione dell’autore, ebreo, contro l’antisemitismo – un antisemita scopre di essere ebreo; in L’après-moi (1911), un uomo, colpevole di appropriazione indebita, recede dal proposito di suicidarsi quando la moglie decide di tornare da lui; in Il segreto (Le sécret, 1913) una donna nasconde sotto l’apparenza della serenità del suo matrimonio un’indomita gelosia che la spinge a ostacolare la felicità altrui. Nel periodo che precede la Prima guerra mondiale, il successo di B. è incontrastato, dovuto alla sua capacità di accordarsi alla sensibilità del pubblico; il favore della platea si appanna però con la rivelazione di nuovi talenti come Pirandello e Giraudoux. Bernstein cerca di adattarsi al mutamento di gusto, approfondendo l’analisi psicologica dei personaggi: in Félix (1926) racconta il riscatto morale di un uomo senza scrupoli, arricchitosi durante la guerra, e di una prostituta; in Mélo (1929, da cui Resnais ha tratto un film omonimo nel 1986) una donna, innamorata di un amico del marito, cerca di avvelenarlo, ma non riuscendovi, si toglie la vita; in Il messaggero (Le messager, 1933) un uomo descrive con tale passione la moglie a un compagno, che quando quest’ultimo torna a Parigi dall’Africa ne diventa l’amante. Nonostante la superficialità delle storie e qualche cedimento al linguaggio volgare, il pubblico non abbandona completamente Bernstein, che continua a scrivere per il teatro: La sete (La soif) è del 1950, Evangeline del 1953.

Barlach

Considerato fra i maggiori esponenti dell’arte espressionista, Ernst Barlach fu perseguitato dal nazismo come `artista degenerato’. Pur avendo dato alle arti figurative le sue prove migliori, approdò al teatro con alcuni drammi di tonalità espressionista e simbolista e nel 1924 vinse il premio Kleist. Tra questi: Il giorno morto (Der tote Tag, 1912, rappresentato nel 1919), in cui una madre uccide di nascosto il cavallo fatato che doveva condurre il figlio nel vasto mondo, e uccide così anche il figlio per non separarsi da lui; Il povero cugino (Der arme Vetter, 1918, rappresentato nel 1919), Die echten Sedemunds (1920, rappresentato nel 1921) e Der Findling (1922) sono rappresentazioni di vita popolare della Bassa Sassonia, che si sviluppano in linee di allucinata leggenda; Il diluvio (Die Sundflut, 1924) oppone il pio e docile Noè al fiero e ribelle Calan; Der blaue Boll (1926) mostra l’esperienza religiosa del ricco e ben pasciuto proprietario Boll. Con Die gute Zeit (1929), B. chiuse la sua attività di autore drammatico. Der Graf von Ratzenburg fu pubblicato postumo da Fridrich Schult (1949).

Biancoli

Oreste Biancoli esordì con L’uomo di Birzulah , scritto in collaborazione con Dino Falconi. Con Falconi collaborò alla stesura di numerosi atti unici, alcuni dei quali per la compagnia ZaBum (Il sabato del villaggio, Soldati, Visitare gli infermi, Rosso e Nero). Si dedicò soprattutto alla rivista (ricordiamo Lucciole della città), collaborando con diverse compagnie, tra le quali quella di Macario e la Viarisio-Porelli. Nel cinema svolse un’intensa attività firmando numerosi soggetti e sceneggiature (Noi vivi – Addio, Kira, 1942; Domani è troppo tardi, 1949; Altri tempi, 1951; Don Camillo, 1952). Il suo nome figura anche fra gli sceneggiatori di Ladri di biciclette (1948). Da ricordare la serie televisiva Cantachiaro per Anna Magnani.

Bozzolini

Cristina Bozzolini studia balletto con Darja Collin a Firenze, agli Studi Wacher di Parigi e al centro internazionale di Cannes. Fin dai sedici anni professionista, nel 1968 entra nel corpo di ballo del Maggio Musicale Fiorentino diventandone prima ballerina nel 1971. Qui danza importanti ruoli del repertorio classico e moderno, ma insieme avvia una personale ricerca espressiva creando nel 1975 il Collettivo Danza Contemporanea con il quale in dieci anni produce creazioni di Micha Van Hoecke, Orazio Messina, Susana Zimmerman e altri. Ritiratasi nel 1983, si dedica all’insegnamento e al Balletto di Toscana, del quale è direttrice artistica dal 1985.

Barbareschi

Dopo aver studiato allo Studio Fersen di Roma, ai corsi di Lee Strasberg, Nicholas Ray e Stella Adler a New York, Luca Barbareschi debutta al Teatro di Verona con Enrico V di Shakespeare per la regia di Virginio Puecher. È impegnato come attore nel cinema, in televisione e in teatro (è stato uno degli interpreti di Sogno di una notte d’estate , il musical di Gabriele Salvatores). Tra i numerosi lavori che lo hanno visto regista ed interprete si ricordano American Buffalo (1984), Sexual Perversity in Chicago (1985), Mercanti di bugie (1989) e Oleanna (1993) tutti testi di David Mamet, autore che per primo ha portato in Italia. Provocatore ed irriverente, B. nel 1995 mette in scena il violento Piantando chiodi nel pavimento con la fronte di Eric Bogosian, adattandolo alla realtà italiana. Nel febbraio 1990 fonda la Casanova Entertainment, che si occupa di produzioni cinematografiche e teatrali. Nel marzo 1998 entra a far parte del Consiglio d’Amministrazione del Piccolo Teatro di Milano.

Bulandra

Costituito da nove attori, il Bulandra Lucia Sturdza Teatrul diventa subito un organismo fondamentale della vita culturale della Romania. Diretto inizialmente da Lucia Sturdza Bulandra – alla quale è stato dedicato – per quindici anni dispone di due sale che vengono utilizzate contemporaneamente. In seguito, dal 1963 al 1977 il teatro e la compagnia passano sotto la guida di Liviu Ciulei che impone la sua visione e il suo stile. Durante la lunga direzione di Ciulei, il regista stabile è Lucian Pintilie che presenta molti spettacoli di classici rumeni e non; gli autori più frequentati sono: Ion Luca Caragiale, il fondatore del teatro comico rumeno, Cechov e Gogol’. I direttori permanenti della compagnia sono successivamente Tocilesco – del quale si ricordano: Tartuffe (1983), Barbul Vacaresco di Bulgakov (1984) e Hamlet (1985) – e Catalina Buzoianu che allestisce A lost morning (1986) di G. Adamsteanu, I giganti della montagna di Pirandello (1987), Merlin (1991) di Tankred Dorst. L’ultima generazione è invece rappresentata da Valeriu Moisescu: Il concetto di felicità da Salomone , Il segreto della famiglia Posket di Pinero, Il Misantropo di Molière; e da Ion Caramitru, che è regista e interprete di spettacoli come: The third stake (1988) di Marin Soresco e Shape of the table (1991) di David Edgar. Il B. è sempre stato molto controllato dal regime che lo considerava un punto di riferimento per i dissidenti; dopo la censura de Il revisore di Gogol (1972), Lucien Pintilie va in esilio in Francia e Ciulei si dedica alla regia. Dal 1979 alla compagnia viene di fatto impedita qualsiasi tournée all’estero, e solamente nel 1990 riescono a viaggiare e lavorare liberamente.

Brusati

Franco Brusati ha cominciato a lavorare nel cinema come sceneggiatore e come regista. Ma nel 1959, al Teatro Valle di Roma, ottiene un grande successo con Il benessere, scritta in collaborazione con Fabio Mauri, che lo rivelò come autore dai dialoghi raffinati, dalla scrittura per immagini, ricca di tensioni interiori. Seguì un altro successo: La fastidiosa, che vinse il premio Idi nel 1963, con al centro anche qui una figura femminile che cerca di inserirsi nella vita del marito e del figlio, con premure e sollecitudini che finiscono per infastidirli. Nel 1966 scrive Pietà di novembre, la vicenda di un giovane mediocre che, nella disperata ricerca di identità, approda al delitto. Seguirono: Le rose del lago (1974); La donna sul letto (1984), Conversazione galante (1987). La drammaturgia di Brusati ha un vero respiro europeo; abile nella scrittura come nelle metafore, ricca di ‘immagini’ borghesi, si caratterizza per l’uso raffinato dei dialoghi. Come regista cinematografico ottiene un discreto successo con I tulipani di Haarlem (1971) e Pane e cioccolata (1974); non ripetuto con Il padrone sono me (1956), da un romanzo un tempo famoso di Panzini e Il disordine. Divertente e feroce, aperto alla commedia brillante, a volte tenera, a volte disperata, Brusati è certamente uno dei nostri migliori commediografi, non solo per la qualità dello stile, ma per aver svecchiato la nostra drammaturgia dalla tradizionale barriera del naturalismo. Le sue commedie hanno avuto grandi interpreti e grandi registi, da L. Adani ad E. Magni; dalla Proclemer, alla Aldini, da Ricci a Randone, da Albertazzi a Ferzetti, da Squarzina a Missiroli.

Bernardi

Marco Bernardi ha studiato all’università di Bologna con Ezio Raimondi e Luciano Anceschi ed è stato allievo di M. Scaparro col quale ha collaborato per sette anni. Nel 1973 debutta in teatro allo Stabile di Bolzano come aiuto regista di Scaparro nell’ Amleto . Nel 1975 insieme a Scaparro e Micol fonda il Teatro Popolare di Roma dove nel ’76 cura la sua prima regia con Murales , uno spettacolo multimediale con il quartetto di Giorgio Gaslini. Nella stagione 1977-78 ha fatto il critico teatrale per il quotidiano “L’Adige” di Trento e nella stagione seguente ha lavorato per la Biennale di Venezia, collaborando alla progettazione del Carnevale del Teatro.

Dal ’79 si dedica regolarmente alla regia e nel 1980 diventa direttore artistico del Teatro stabile di Bolzano. Nei sui lavori si possono individuare due linee guida: la prima è quella di una grande fedeltà al teatro di parola riscontrabile in Andria (1979), Romeo e Giulietta (1980), William Shakespeare Hotel (1982), Sogno di una notte di mezza estate (1983), Minetti (1984) e Il Teatrante (1986) di T. Bernhard; la seconda incentrata sui rapporti drammaturgici tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico come in Coltelli (1981) di J. Cassavetes, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1986), Anni di piombo (1989) di M. von Trotta. Altre produzioni di Bernardi allo Stabile di Bolzano: La rigenerazione (1990) di I. Svevo, Libertà a Brema (1991) di Fassbinder, La locandiera (1993), Hedda Gabler (1995) di Ibsen e Il contrabbasso (1995) di P. Suskind.

Bignardi

Dopo gli studi inizia la sua attività a Genova come assistente di E. Luzzati (1958); autore prolifico e accumulatore di `materiali trovati’, scopre nelle cooperative l’assoluta libertà creativa con cui predilige operare, diventando lo scenografo fisso del Collettivo di Parma, dove conosce il regista B. Jerkovic ( La molto orrifica vita del gigante Gargantua della Compagnia del Collettivo da Rabelais, scene di E. Luzzati, Parma, Teatro Regio, 1978), insieme al quale lavora anche per la Cooperativa Piccionaia-Teatro Veneto ( Non è reato mettere gli occhiali ai fagiani e Dopo una giornata di lavoro chiunque può essere brutale di F. Zardo, Treviso 1978). Collaboratore assiduo di Missiroli (celebri Il bagno di V. Majakovskij del 1976 e lo Zio Vanija di Cechov del 1977), oltre che di Cobelli e Trionfo ( Madama Butterfly di Puccini, 1977), negli ultimi lavori rielabora la tecnica del bricolage e si caratterizza sempre per una ricerca che mira a restituire la totalità degli ambienti.

Bennington School of the Dance

Nel 1934 la Bennington School of the Dance inaugura i corsi estivi, fondamentali per la nascita e lo sviluppo della danza moderna negli Usa. Vi debuttano i primi lavori di Graham, Humphrey, Holm, Weidman, insegnanti residenti. Nel 1939 la scuola si trasferisce al Mills College, in California. Nel 1940 prende il nome di Ballet School of the Arts. Dopo un periodo di attività discontinua, si trasforma, nel secondo dopoguerra, in Connecticut College School of Dance.

Bragaglia

Anton Giulio Bragaglia aderì al movimento futurista e nel 1918 fondò la Casa d’arte Bragaglia a Roma, luogo di promozione artistica attraverso mostre e conferenze. Dal 1916 al 1922 diede vita alle riviste “Ruota” e “Cronache d’attualità”, che si occupava di problemi d’arte, di teatro e di cultura. Impegnò le sue forze soprattutto nel rinnovamento del teatro per mezzo di nuove soluzioni scenotecniche e scenografiche, dando così risposta all’esigenza del tempo di ammodernamento del palcoscenico, in polemica con lo stile dei mattatori e con il loro repertorio commerciale. Secondo B., che sostenne questa tesi in numerosi interventi, il teatro era qualcosa di diverso dalla produzione letteraria ed in quanto tale doveva essere affidato ad un `corago’, piuttosto che ad uno scrittore. Nel 1922 fondò, nelle cantine di Palazzo Tittoni, il Teatro degli Indipendenti, dove i protagonisti di testi scritti da letterati erano attori dilettanti. L’esperienza, che si concluse nel 1931 con La veglia dei lestofanti di Brecht, permise la messa in scena di lavori, tra gli altri, di Strindberg, Turgenev, Schnitzler, Unamuno, Apollinaire, Jarry, O’Neill, Pirandello (L’uomo dal fiore in bocca, All’uscita ) e Campanile (Centocinquanta la gallina canta, Il ciambellone, L’inventore del cavallo). Dopo aver scritto alcuni saggi di critica teatrale, nel 1937 assunse la direzione del Teatro delle Arti, dove allestì testi italiani poco rappresentati e copioni di autori contemporanei. Per il cinema firmò tre regie: Perfido incanto e Thais (entrambi del 1916) e Vele ammainate (1931). Alla tecnica della fotodinamica dedicò alcuni studi.

Bramieri

Con la sua aria di buon lombardo, con il suo sorriso a cinemascope, con la sua straripante voglia di divertire sempre e comunque, Gino Bramieri è stato l’ultimo paladino della risata liberatoria senza doppio fondo, l’ultima gloria del vecchio mondo del varietà e della rivista. Talento multimediale in anticipo sui tempi (teatro, radio, tv, rivista, prosa, quindici dischi e ventiquattro film di consumo comico usa e getta), Gino Bramieri nacque in via Madonnina e visse a Porta Garibaldi, nella Milano di ringhiera col naso all’insù verso il Teatro Fossati, tempio dell’avanspettacolo e della operetta. Incominciò con l’entusiasmo del dilettante e del dottor Jeckyll: impiegato di banca di giorno, intrattenitore alla sera, fin da subito portato per la barzelletta, dettaglio non secondario dell’arte di intrattenere il pubblico. Tempi eroici, anche perché Gino Bramieri, che ai tempi della guerra fu deportato in Austria, si salvò vestendosi da donna, proprio come in uno sketch che poi avrebbe ripetuto all’infinito e con sottile bravura, forse anche per affetto all’insolito destino. Una carriera iniziata dunque davanti ai volti truci delle SS e continuata poi a Milano, dove inizia a calcare l’avanspettacolo che è il 1945. Le compagnie erano quelle classiche: Tognazzi, Maldacea, Scotti, Di Napoli, Inglese. Nell’autunno del 1948, a parte il precoce matrimonio, il salto di qualità avviene con la scrittura per la compagnia di Macario, che l’aveva visto e preso, sua unica scoperta maschile: Votate per Venere ha grande successo in Italia e l’anno dopo, nella stagione 1949-50, fa una tournée di sette mesi a Parigi. È il via a una lunga carriera brillante che da allora non avrà più soste. Gino Bramieri si raffinerà nei tempi e nella tecnica, ma non conoscerà mai cali di popolarità, conquistando ogni pubblico disponibile al gran successo d’ilarità.

«In cinquanta anni di carriera’» disse il comico «ho contato trentadue combinazioni per far ridere, sempre quelle: basta metterle insieme in un certo modo». Al milanesone classico danno fiducia le romanissime sorelle Nava che nel ’50 lo scritturarono in Davanti a lui Tre Nava tutta Roma con un pool di giovani attori dotati e fra loro complementari: Pelitti, Conti, Cajafa, Pisu, Bonagura e lui, il Gino Bramieri extra large, costretto ad alcuni tempismi e sketch obbligatori, distinguendosi per la circonferenza: ma il peso non gli negò mai, miracoli della forza di gravità del palcoscenico, la grazia del suo famoso saltino da libellula. Una lista infinita di spettacoli di sicuro impatto: nel 1952-53 sta con Walter Chiari in una buona rivista da camera, Controcorrente ; nel 1954-55 è con Tognazzi e Dorian Gray in Passo doppio, cui segue l’ingresso nella ditta di Garinei e Giovannini con cui resterà legato per oltre vent’anni, dopo altre esperienze, in esclusiva. Il primo spettacolo è un’operetta musicale con Osiris-Billi-Riva, La granduchessa e i camerieri , in cui Gino Bramieri ha il classico ruolo del `cumenda’ lombardo che deve comprare una proprietà. Resta con la Wanda anche nelle stagioni seguenti, le meno fortunate della grande soubrette che rappresentava comunque un mito, formando un trio comico ben assortito con Vianello e Durano: Okay fortuna (1956-57) e I fuoriserie (1958-59), spettacoli non privi di alcune vicissitudini economiche. Forma poi un altro trio giovane con Vianello e la Mondaini (frattanto sposi) in un musical fortunato come Sayonara Butterfly (1958-59), seguito dal meno riuscito Un juke box per Dracula, rivista in cui un’innocente strofetta anti fanfaniana fece stare una notte sotto scorta i tre nomi `in ditta’: censura d’allora.

Attore anche di prosa comica, Gino Bramieri si allea poi con la Volonghi e Grazia Maria Spina in Un marito in collegio di Guareschi (1960). Seguì il primo boom di popolarità vera, nel sodalizio televisivo con la Del Frate e Pisu per il varietà di culto L’amico del giaguaro. In scena, dal 1964, il nuovo trio – struttura comica che si ripete e si rinnova nel tempo, adatta alla singolarità anche fisica del B. prima della dieta – porta in scena con allegria, in tournée capillari, con orchestra dal vivo, alcune riviste tradizionali: Italiani si nasce di Faele (1964-65), Hobbyamente (1964-65), L’assilllo infantile di Marchesi (1966-67) e La sveglia al collo (1967-68), prototipo del varietà con piccola satira politica e imitazioni incorporate. Gino Bramieri è irresistibile nella caricatura di Edith Piaf, alla fine della quale faceva volare in sala una parrucca: finì che una sera, una signora, partorì in teatro per il gran ridere. Nel 1969-70-71, accanto a Milva, col musical Angeli in bandiera , in cui è un divertente pappone, rientra con Garinei e Giovannini per vent’anni di esauriti in rivista e prosa: ed è subito un bel successo personale, uno strano binomio con Milva, un utilizzo diverso e più discreto della sua vis comica. Intanto Gino Bramieri dimagrisce di quaranta chili (e lo racconta in un libro), passa a interpretare non solo sketch con epicentro la Lombardia, ma anche traduzione di famose farse e commedie brillanti americane, cui aggiunge sempre un tocco della sua personalità: Lo sai che non ti sento mentre l’acqua scorre di Anderson, nel 1968; nel 1972 Povera Italia! di Bobrick e Clark, odissea di un padre piccolo borghese che si scopre un figlio gay. Ma tra i grandi successi che stanno in equilibrio tra la prosa e la rivista vanno citati Cielo, mio marito! , conferenza sull’adulterio di Marchesi e Costanzo (1973) con la Colli; Anche i bancari hanno un’anima , gustosa pochade inter-coniugale di Terzoli e Vaime, con la Tedesco e una brava Valeria Valeri (1977-79).

Ma lo spettacolo migliore della sua carriera, replicato ovunque con delirio di folla dal 1975 al 1977, è Felicibumta (felicità con un colpo di tamburo, come recitavano in coro alla fine le compagnie di avanspettacolo), sempre di Terzoli e Vaime, diretto, con la perfezione delle occasioni migliori, da Garinei e Giovannini. Si tratta di un amarcord dei tempi della rivista attraverso la confessione in flash back di un attore di varietà che fa rivivere i vecchi tempi e ringiovanisce per un attimo le sei soubrette della sua vita, ora attempate: in queste vesti nostalgiche ma complete di barzellette in passerella finale, Gino Bramieri è bravissimo e svolge un compito antologico comico e teatrale ad altri impossibile. Nel 1982-83, sempre con i fedeli Terzoli e Vaime, recita La vita comincia ogni mattina , cui segue un ambizioso, sfarzoso, curioso, ma poco gradito tentativo di musical settecentesco ispirato al Borghese gentiluomo: Pardon, Monsieur Molière , di cui Garinei lamenta oggi l’eccessivo scrupolo di fedeltà. Dal 1985 al 1987 è l’attore in crisi protagonista di Sono momentaneamente a Broadway , indi mette in scena Una zingara m’ha detto (1987-89), spesso testi interscambiabili, variazioni sul tema Bramieri. L’ultimo capitolo della sua carriera, sei anni di successo, sono dedicati alla coppia con il giovane entertainer e fantasista siciliano Gianfranco Jannuzzo, e per questo fortunato alunno l’ormai maestro B. mette in scena lo spiritoso Gli attori lo fanno sempre di Terzoli e Vaime, seguito dal mediocre Foto di gruppo con gatto e da Se un bel giorno all’improvviso (buona satira della tv che entra nel privato), due titoli in cui si inserisce la verve verace di Marisa Merlini. L’ultimissimo show di Bramieri, allestito sulle sue misure comiche e sul suo desiderio di comunicare ancora col pubblico dopo una lunga malattia, ma recitato solo in poche piazze prima della sua scomparsa, porta un titolo beneaugurante, Riuscite a farvi ridere . Garinei scrive per il suo attore preferito, per l’amico e fratello di scena, e per Enzo, il vero fratello, una `summa’ del teatro di varietà e dei numeri famosi di Gino, che ancora una volta, l’ultima, si veste da donna.

Bramieri ha alternato i generi e in prosa ha recitato anche la leggendaria farsa della Zia di Carlo, I dent dell’eremita di Terron, mentre in tv lavorò con Albertazzi, Calindri e la Toccafondi in Addio giovinezza, seguito da Una ragazza indiavolata , Esami di maturità con la Lazzarini, Ti conosco mascherina, Il signore delle cinque, Lieto fine, I tre Maurizii . Ma sul piccolo schermo interpreta nel 1971 anche versioni tv di celebri successi teatrali come Un mandarino per Teo e Mai di sabato, signora Lisistrata , entrambi accanto a Milva, che dava profondità di campo sonoro alle musiche di Kramer. Un record storico del varietà tv sono poi le settantadue puntate dell’Amico del giaguaro, le tre edizioni della Biblioteca di Studio Uno, le innumerevoli partecipazioni a serate, Batto quattro , che si replica alla radio per undici anni; e infine il mitico varietà `one man show’ G.B. Show , gioco di iniziali, in onda dal 1982 al 1988 sotto l’egida di Garinei, mentre nel ’92 partecipa anche al Festival di Sanremo . B. recupera le origini e le tradizioni culturali del teatro leggero con le sue belle retoriche di polvere di stelle (caffelatte e pailettes, come dice un refrain di una sua rivista). La sua specialità era il tu per tu col pubblico, quando il suo talento sfocia nel piccolo capolavoro dialettico che è il racconto delle barzellette. B. era un uomo felice solo quando arrivava l’ora dell’ingresso in scena: l’ultimo ad avere nel suo codice genetico i doni del Gran Varietà, l’eco di una risata senza tempo.

Bianchi

Ottiene la sua prima grande notorietà grazie al fortunato scenneggiato televisivo intitolato La freccia nera , ma all’epoca aveva già interpretato ben duecento commedie per la tv. Inizia all’età di ventun’anni una lunga carriera teatrale con la compagnia Carini. Prima della Seconda guerra mondiale lo ritroviamo in diverse compagnie e formazioni con i più grandi nomi di quegl’anni: da Wanda Capodaglio a Ruggeri, da Benassi a S. Benelli. Dopo la guerra lavora con R. Ricci ma già nel 1947 è accanto a Strehler nello spettacolo che inaugura la prima stagione del Piccolo, L’albergo dei poveri . Seguiranno così Le notti dell’ira (1947) e Il mago dei prodigi (1947) altri due notevoli successi. Tra gli altri spettacoli importanti ai quali prestò la sua interpretazione si possono ricordare Giulio Cesare al Teatro Romano di Verona, e più di recente Maria Stuarda diretto da Zeffirelli e La resistibile ascesa di Arturo Ui con la regia curata da Sepe.

Braun

Dopo aver lavorato come tipografo, dal ’60 al ’64 studia filosofia a Lipsia. Tra il ’65 e il ’66 lavora come autore al Berliner Ensemble e, a partire dal ’72, al Deutsches Theater. La problematica che percorre tutta l’opera di B. è la politica del Sed, il Partito socialista unitario tedesco e i diversi aspetti della rivolta sono i temi alla base di opere come Grosser Frieden (1979), Siegfried Frauenprotokolle Deutscher Furor e Transit Europa (1987). Sebbene tutta la produzione di B., dal Ballade von Kipper Paul Bauch del 1962 a Übergangsgesellschaft del 1982, sia una critica tagliente alla mancanza di sviluppo nella Rdt, egli non lascia alcun dubbio sul fatto che, nonostante ciò, la considera il migliore tra tutti gli Stati.

Borioli

Edoardo Borioli debutta nel 1956 con la compagnia Volonghi-Corti-Lionello, ne Il maggiore Barbara di G.B. Shaw. Negli anni seguenti lavora con la compagnia Calindri, con la compagnia Bramieri-Volonghi (commedia musicale Il marito in collegio ), per il Teatro stabile di Torino, con Esperia Sperani e Nino Besozzi (allestimento di drammi gialli), con la compagnia Ricci-Magni (1960-61, Il Cardinale di Spagna di de Montherlant). Dal 1963 al 1973 recita per Paolo Poli ed è per due anni socio della Cooperativa Teatro Insieme (I tre Moschettieri da A. Dumas, regia di Roger Planchon). In seguito lavora a lungo con il regista Filippo Crivelli, con la compagnia di Salvo Randone e con il regista Lamberto Puggelli. Recita in diverse commedie televisive e programmi radiofonici con i registi Mario Ferrero, Vito Molinari e Mario Morini. Da alcuni anni partecipa a spettacoli di opera e operetta con i maggiori teatri lirici italiani.

Baj

La lunga carriera di Enrico Baj si snoda attraverso la seconda metà del secolo attraverso molteplici esperienze, dalle influenze fauviste alla stesura del Manifesto per l’Arte Nucleare con Sergio D’Angelo negli anni ’50, dalle collaborazioni spazialiste con Yves Klein e Piero Manzoni all’invito di Andrè Breton a raggiungere i Surrealisti negli anni ’60, fino ai collage venati di riferimenti socio-politici degli anni ’70 e ’80. Su quest’ultima nota è caratterizzata anche buona parte della sua produzione teatrale, come testimoniano le scenografie per L’affare Pinelli di Michael Meschke (Kungstadgarden, Stoccolma, 1978), Bosnie (Sarajevo, 1993) per la regia di Massimo Schuster e Eric Poirier, e Das Begrabnis des Anarchisten Pinelli di Dario Fo (Darmstadt, 1995). Altri contributi importanti da ricordare sono le scenografie per Il passaggio (Piccola Scala di Milano, 1963) con la regia di Virginio Puecher, Le avventure di un burattino di legno (Teatro Comunale di Pistoia, 1980) basato sul celebre personaggio di Collodi, Ubu Roi (Espace Kiron, Parigi, 1981) di Alfred Jarry, che avrà risvolti anche sulla sua pittura, e le marionette realizzate per l’ Iliade di Massimo Schuster (Piacenza, 1989), e per l’adattamento di Jean-Pierre Carasso di Le Bleu-Blanc-Rouge et le Noir di Anthony Burgess, rappresentato al Centre Georges Pompidou nel dicembre del 1989 e al Teatro dell’Elfo a Milano, nel febbraio del 1990.

Bonino

Luigi Bonino compie i suoi studi di danza con Susanna Egri a Torino, entrando come solista nel 1965 nel gruppo da lei fondato. Dopo una parentesi televisiva nel 1973 diventa primo ballerino del Cullberg Ballet e danza i ruoli principali dei balletti di Birgit Cullberg Adamo ed Eva e Romeo e Giulietta. Nel 1975 entra nel Balletto nazionale di Marsiglia di Roland Petit, ben presto danzando alcuni tra i ruoli più significativi della produzione dell’autore francese: Coppelius in Coppélia, Frollo in Notre Dame de Paris, Ulrich ne Il Pipistrello e il protagonista de Le Jeune Homme et la Mort. Affianca inoltre Zizi Jeanmarie in Parisiana 25 e nelle commedie musicali Can Can, I Love Paris (1982), Hollywood Paradise (1984), sempre firmate da Petit. Artista sensibile, capace di variegate sfumature interpretative nel 1991 crea il ruolo di Charlot in Charlot danse avec nous di Petit, con Elisabetta Terabust. In seguito all’attività di danzatore affianca quella di assistente coreografo e riproduttore dei balletti di Petit.

Burton

Fin dalle sue prime interpretazioni, come La signora non è da bruciare (The Lady’s Not For Burning) di Fry, Richard Burton dimostra l’abilità di un talento naturale associata una scrupolosa preparazione. Si distingue in particolare nei ruoli shakespeariani, di cui tra gli altri si ricorda l’ Enrico V nel 1951 per il festival annuale di Stratford-Upon-Avon e l’ Amleto nel 1953 all’Old Vic, prestazione attoriale con cui conquista un largo successo di pubblico e di critica e per il quale viene definito il migliore attore della sua generazione. Alla fine degli anni ’50, lascia definitivamente il palcoscenico per intraprendere la carriera cinematografica che gli porterà un successo ancora maggiore.

Bonos, I

Più applauditi all’estero che in Italia, assai apprezzati da registi importanti (Fellini, Strehler, Garinei) i tre fratelli Gianni, Vittorio e Gigi, figli e nipoti d’arte (avi circensi), hanno fatto ogni genere di spettacolo: circo (allievi del mitico Grock), music-hall, cabaret, pantomima, avanspettacolo. Tra i loro autori, un giovanissimo Federico Fellini che campava vendendo sketch tra le quinte di cinema-teatri. Scrisse di loro Alessandro Ferraù: «Non è sulla scena un trio di danze, o un trio di acrobati, o un trio di comici o un trio di canzonettieri. È tutto questo o niente di tutto questo…». Negli anni Quaranta si esibiscono a Broadway e a Londra dove recitano al Palladium davanti ai reali inglesi e poi, per venti settimane, nella rivista Crazy Gang . A Parigi, diventano partner di Chevalier e di Mistinguette. Nel 1948-49, i tre fratelli presentano al Supercinema di Roma, in avanspettacolo, Superspettacolo Bonos . Come slogan, una battuta: «Gianni? È polenta». A Roma, stagione 1949-50, nel varietà New York-Londra-Parigi di Williams: «Finalmente niente politica, niente sconcezze» annota il critico, lodando l’«attrazione internazionale» i tre B., qui con Antonella Steni, di scena al Quattro Fontane. Si replica la stagione successiva, sempre al Quattro Fontane di Roma e sempre con Antonella Steni, in Bagatelle , rivista «piuttosto elegante». Si scioglie il trio, continua a lavorare, superstite, Gigi B., che fa il maggiordomo gay in Le sei mogli di Erminio VIII con Macario, con canzoni di Arturo Testa (1965-66). Gigi B. ha messo a punto un `carattere’ che poi replicherà spesso: un’espressione stolida e attonita, una balbuzie insistita e, soprattutto, un’`entrata’ in scena con incespicata, che strappa puntualmente l’applauso di sortita.

Beketow

Matyas Beketow fu uno dei primi artisti circensi russi ad avere successo all’estero. Ammaestratore di cavalli, realizzatore di grandiosi pantomime equestri e direttore di complessi famosi in tutta Europa. Ottiene successi al Renz di Vienna, al Noveau Cirque di Parigi con il Grande Circo Russo, all’Hengler di Londra (poi Palladium). Nel 1904, aiutato dalla moglie Matyasne e dal figlio Sandor, entrambi validi cavallerizzi, diventa direttore del Circo Stabile di Budapest che con entusiasmo riporta ai passati splendori. Ingaggia i migliori artisti dell’epoca impegnando però capitali eccessivi. Nel 1929 è costretto a dichiarare il fallimento. Si uccide gettandosi nel Danubio.

Billetdoux

François-Paul Billetdoux scrive a diciannove anni la sua prima sceneggiatura per la radio e poi ne diventa responsabile del settore varietà (a lui si deve il debutto di Yves Robert e di Jeanne Moreau). Scrive sketch e monologhi per il cabaret. Il suo primo lavoro teatrale è del 1955, À la nuit la nuit , rappresentato al Théâtre de l’Oeuvre. Il grande successo arriva nel 1959 con Tchin-Tchin, rappresentato al Théâtre de Poche-Montparnasse, di cui Billetdoux è anche interprete accanto all’attrice Katarina Renn. Il testo racconta dell’incontro di Pamela e Romero, che, abbandonati dai rispettivi coniugi, si abbandonano alla disperata dissoluzione nell’alcolismo.

Nel 1984 lo spettacolo è stato allestito al Théâtre Moderne, interpretato da Marcello Mastroianni e Natasha Parry. Altri suoi lavori sono: Le Comportement des époux Bredburry (1960); Va donc chez Törpe (1961); Les chemises de nuit (1962, questa pièce fa parte di una trilogia a cui collaborano anche Ionesco e Vauthier); Comment va le monde, môssieu? Il tourne, môssieu (1964, che ottiene il premio Ibsen); Il faut passer par les nuages (1964); Silence! L’arbre remue encore (1967, presentato al festival d’Avignone, con la regia di Antoine Bourseiller e l’interpretazione di Serge Reggiani); Femmes parallèles (1970); Ne m’attendez pas ce soir (1971). Seguono alcuni anni in cui Billetdoux interrompe la sua attività teatrale, che riprende nel 1988 con Réveille-toi, Philadelphie, rappresentato al Théâtre de la Colline; lo spettacolo è un successo di pubblico e critica. Nel 1989 vince il premio Molière come migliore autore drammatico e il grand prix dell’Académie Française.

Bonacci

Si diploma alla Scuola del Piccolo Teatro e ivi debutta nel 1963 con la regia di Jacobbi ( I burosauri , 1963) e Puecher ( L’annaspo , 1964). È con Strehler nella Vita di Galileo (1964). Nel 1966 partecipa alla rivista freccia azzurra con Macario, per provarsi in un ruolo diverso da quello dell’attore classico. Fonda nel 1966 il Teatro da Camera allestendo autori allora poco rappresentati come Arrabal e Genet. L’anno dopo ritorna al Piccolo dove verrà diretto da Grüber in Processo di Giovanna D’Arco a Rouen , 1431 di Brecht-Seghers. Fondamentale è l’esperienza con Dario Fo, nel Teatro Politico che dura fino al 1973, dove sviluppa la sua vena giullaresca. Nel 1983 inizia la collaborazione con Franco Parenti al Salone Pier Lombardo di Milano recitando in alcuni spettacoli storici: L’Ambleto di Testori, Il malato immaginario e Il misantropo di Molière. Sostituirà Parenti nella parte del protagonista ne Il processo di Kafka con la regia di A.R. Shammah, con la quale lavorerà in molti altri spettacoli fino al 1997.

Balò

Studia all’università di Firenze, dove hanno inizio le sue prime esperienze teatrali. Nel 1971 con la regia di Valerio Valeriani firma le scene per I quattro sogni dell’operaio Jen di Brecht. Lavora con il Gruppo della Rocca, dove per lo spettacolo, Schweyk nella seconda guerra mondiale di Brecht è assistente di Luzzati. Dal 1975 nasce la collaborazione con il regista Massimo Castri firmando le scene dei suoi spettacoli tra cui È arrivato Pietro Gori , e nel 1996 la Trilogia della villeggiatura di Goldoni. Con Gianfranco Cobelli inizia negli anni ’80 un fertile sodalizio progettando numerosi allestimenti di opere liriche: tra le altre, La dannazione di Faust di Hector Berlioz, al Teatro Comunale di Bologna (1982). In questa rappresentazione lo spazio tradotto circolarmente si sviluppa in una sorta di limbo dove Faust trova la sua condanna. Nei suoi spettacoli si occupa anche dei costumi, che inserisce con abile cromatismo come supporto della scena.

Braunschweig

Dopo gli studi di filosofia all’Ecole Normale Supérieure, nel 1987 Stéphane Braunschweig entra all’Ecole du Théâtre National du Chaillot diretta da Antoine Vitez. Debutta alla regia già nel 1988 al festival d’Alès con Woyzeck di Büchner, messo in scena con la sua compagnia Théâtre-Machine: considerato un enfant prodige e un regista tra i più interessanti della nuova generazione francese, è sostenuto e accolto dalle istituzioni. L’esplorazione dell’universo europeo d’inizio Novecento prosegue con Tambours dans la nuit di Brecht (1989) e Don Juan revient de guerre di Horváth (1990). I tre lavori formano la trilogia Les hommes de neige , che a Gennevilliers riceve il premio per la rivelazione teatrale del Syndacat de la critique (1991). Sempre del 1991 è la messa in scena a Digione di Ajax di Sofocle, di La cerisaie di Cechov a Orléans nel 1992, entrambi presentati al festival d’Automne. Nel 1993, in collaborazione con G. Barberio Corsetti, realizza a Digione Doctor Faustus da Thomas Mann; allestisce quindi Le conte d’hiver di Shakespeare e nello stesso anno è nominato direttore del Centre dramatique national d’Orléans-Loiret Centre. Affronta H. von Kleist con Amphitryon e Paradis Verrouillé (Sur le théâtre des marionettes, Penthésilée, fragments) nel 1994 per il festival d’Avignone, confermando la predilezione per i classici e per il lavoro sul testo, punto di partenza per la produzione di un universo poetico-emotivo che susciti nel pubblico uno `stupore lucido’. Si dedica anche alla regia lirica: Le chevalier imaginaire di P. Fénelon (1992), Le chateau de Barbe Bleu di B. Bartók (1993), Fidelio di Beethoven (1995, Staatsoper di Berlino, ripreso a Venezia nel 1998), La rosa de Ariadna di G. Dazzi, Jenufa di L.Janácek (Parigi, Théâtre du Chatelet 1996). Del 1995-96 sono Franziska di F. Wedekind e Peer Gynt di Ibsen; del 1997 è la consacrazione europea con Measure for measure di Shakespeare su commissione del festival di Edimburgo per l’edizione del cinquantenario. Dans la jungle des villes di Brecht (1997-98) è l’ultimo spettacolo messo in scena per il Centre dramatique national d’Orléans, direzione che lascia nel luglio 1998. Per il gennaio 1999 prepara con il suo Théâtre-Machine, in coproduzione con il Théâtre Bouffes du Nord di Parigi, Le marchand de Venise di Shakespeare, che quindi riallestirà con attori italiani per il Nuovo Piccolo Teatro di Milano in primavera.

Bujones

Fernando Bujones studia danza classica alla School of American Ballet e alla Julliard School per debuttare con l’Eglevsky Ballet nel 1970. Entrato nel 1972 nell’American Ballet Theatre, nel 1974 è nominato primo ballerino; nello stesso anno vince la medaglia d’oro al Concorso internazionale di Varna. Attivo con la compagnia americana e numerose formazioni internazionali, danza tutto il repertorio classico, ma si mette in luce anche interpretando coreografie di Antony Tudor (Jardin aux Lilas), Jerome Robbins (Fancy Free), Maurice Béjart (Sis Danses pour Alexandre). Dotato di una tecnica eccellente e di una aristocratica presenza è considerato uno dei maggiori ballerini classici della sua generazione; si è inoltre dedicato alla direzione di compagnie tra le quali quella del Teatro Colón di Buenos Aires.

Bolza

Autore di commedie, principalmente in vernacolo milanese. Impiegato in un istituto di credito, si dedicò alla scrittura di alcuni lavori per la Compagnia del grand-guignol. Ma la produzione per la quale è maggiormente ricordato è quella, briosa, in dialetto. Scrisse infatti molti copioni appositamente per la compagnia di Bonecchi, nata a Milano nel 1920. Raggiunse la notorietà con il vaudeville Longalonghera , ma tra i suoi testi vanno ricordati anche I gioeugh della vita , Caprizzi vecc e caprizzi noeuv , La cordetta , S’giaff e basitt e Le medaglie dalle novelle di Pirandello.

Balletto di Toscana

Su iniziativa di Cristina Bozzolini, sua direttrice artistica, Balletto di Toscana nasce con il sostegno della Regione Toscana nel 1985 come compagnia stabile e indipendente di balletto contemporaneo e nel 1997 ottiene una residenza presso il Teatro Manzoni di Pistoia. Formata da quattordici solisti di scuola classica, ma dotati di un notevole eclettismo stilistico e interpretativo, si è ben presto caratterizzata nelle sue linee artistiche, tese alla proposta delle principali tendenze coreografiche europee e alla valorizzazione dei coreografi italiani contemporanei. Così, negli anni, si è imposta sulla scena nazionale e internazionale come una delle più interessanti compagnie di danza europee, interpretando titoli di Hans Van Manen (In & Out , Grosse Fuge), Nils Christe (Quartett II ), Ed Wubbe (Bianchi flussi ), Christopher Bruce (Dancin’ Day), Vasco Wellenkamp (Holberg Suite), Cesc Gelabert (Hortensia), Angelin Preljocaj (Liqueurs de Chair), Amanda Miller (Two Pears ) e producendo molti lavori di autori italiani tra i quali Elysios (1987) di Gianfranco Paoluzi, Nuit en huit (1988) di Massimo Moricone, Apollon Musagète (1989) e Pulcinella (1990) di Virgilio Sieni, Era Eterna (1988), Giulietta e Romeo (1989), Otello (1994), La Tempesta (1996) di Fabrizio Monteverde, Turnpike (1991), Mediterranea (1993), Pression (1994), Don Giovanni (1996) di Mauro Bigonzetti.

butoh

Fu Hijikata ad usare per la prima volta, nel 1959, il termine butô (butoh), formato da bu , danza, e , fare un passo o posare i piedi, e ad elaborare l’ ankoku butô , danza delle tenebre, con esplicito riferimento ai lati oscuri, a ciò che rimane nascosto. Il nuovo stile rifiutava gli squisiti formalismi della tradizione teatrale giapponese, come pure il teatro occidentalizzante di parola che si diffondeva allora in Giappone, in favore del grottesco e di una forte intensità espressiva. Caratteristica del b. è un movimento introverso, i danzatori hanno perlopiù il baricentro basso, stanno attaccati alla terra, chini, piegati, come se emergessero dalla terra, si rotolano, tengono le gambe curve e ripiegate verso l’interno, come i contadini nelle risaie, parte di un’arcaicità giapponese a cui il b. si richiama esplicitamente. Volti e corpi sono spesso dipinti di bianco o grigio, come fossero coperti di cenere; indossano costumi a brandelli o spesso sono seminudi o nudi: la nudità non ha nulla di erotico, l’attenzione è attirata piuttosto sull’essenza corporea, sul principio animale dell’essere umano. Non la bellezza, vuole mostrare il b., ma l’autenticità. Il viso e il corpo sono torti, contratti, in posizioni grottesche, anormali, eccessive, ma il tutto avviene spesso con estrema lentezza. Molti danzatori b. della seconda generazione spiegano quest’insistenza sul grottesco e l’anormale con l’esigenza propria del b. di mostrare la vita da diversi punti di vista, che possono essere quelli della follia, di animali, di feti, oppure il mondo capovolto, o visto da un buco in una stoffa. Esplicitamente, il b. intende scuotere i punti di vista degli spettatori, lasciare in loro delle tracce, delle immagini memorabili. Dagli esordi con Hijikata, il b. è teatro di protesta, di rifiuto e ribellione, che parla di violenza, del doloroso processo dell’esistenza, tanto che uno dei temi prediletti è la creazione e distruzione dell’universo, dei lati oscuri. Il b. si è molto diffuso, a partire dagli anni ’60, in Giappone ma anche in Europa e negli Usa.

Balanchine

Creatore rigoroso, raffinato formalista e principale fautore del balletto neoclassico, passato indenne attraverso tutte le rivoluzioni della danza del Novecento, George Balanchine è stato, secondo Rudolf Nureyev, che alla sua morte fornì una delle più lucide definizioni della sua arte, un artista «indispensabile» per lo sviluppo del balletto nel nostro secolo. Le sue principali coreografie hanno determinato lo stile, il tempo, la linea, la musicalità, l’agilità e l’arte del fraseggio danzato. Oltre al genio personale, qualità imponderabile, hanno forse contribuito a renderlo un creatore `indispensabile’ le frequentazioni di ambienti culturali diversi, le scelte drastiche e decisive, come quella di abbandonare la Russia già nel 1924, dopo aver compreso che le sue idee coreografiche poco interessavano al Teatro Marijinskij di Pietroburgo in cui era entrato a far parte nel 1921, dopo aver terminato gli studi di balletto all’annessa Scuola imperiale (i suoi maestri furono Andrejanov e Pavel Gerdt), ma anche quelli di pianoforte e di teoria al Conservatorio della stessa città.

Aveva firmato la sua prima coreografia (La Nuit , ribattezzata in seguito Romance) nel 1920, all’età di sedici anni, ma tra le sue prime opere spicca anche una Sagra della primavera su musica di Stravinskij di cui purtroppo non esistono documenti, né tracce. Più importanti di quanto non si sia sino ad oggi creduto, furono, per i suoi esordi creativi, i contatti con l’avanguardia teatrale russa: l’incontro con Vladimir Majakovskij, la visione delle coreografie innovative di Kazian Goleizovskij e Nikolas Foregger, l’attività al teatro sperimentale FEKS e nel cabaret, indirettamente influenzata dalla biomeccanica di Vsevolod Mejerch’old. Ottimo danzatore e musicista, oltre che precoce talento coreografico, non gli fu difficile ottenere dal governo rivoluzionario sovietico il permesso di espatriare in Germania, appunto nel 1924, con una piccola compagnia di cui facevano parte Alexandra Danilova e Tamara Geva che, tra l’altro, divennero, una dopo l’altra, le sue due prime mogli. Nel 1925 (l’anno in cui mutò il suo nome in George Balanchine, più semplice all’orecchio occidentale), Sergej Diaghilev lo chiamò a Parigi ed egli rimase nella compagnia dei Ballets Russes sino al suo scioglimento (1929), respirandone il clima innovativo e condividendo l’idea di svecchiare il balletto, liberandolo dalle convenzioni del passato. Non era simpatico a Diaghilev, forse per la sua spiccata predilezione per il sesso femminile (ebbe in tutto cinque mogli), ma questo piccolo ostacolo non gli impedì di diventare il coreografo di riferimento nell’ultima fase della celebre compagnia diagleviana. Tutte le coreografie che firmò per i Ballets Russes si tramutarono in successi immediati come lo stravinskijano Le chant du rossignol (1925), La chatte (1927) su musica di Henri Sauguet, Il figliol prodigo (1929) su musica di Sergej Prokof’ev, persino Le Bal (1929) su musica di Vittorio Rieti ma soprattutto Apollon Musagète (1928): il balletto che, oltre a inaugurare la sua collaborazione a quattro mani con Stravinskij (dopo Apollon, Orpheus del 1948 e Agon del ’57), si impose come primo e compiuto, esempio della sua nuova estetica neoclassica. Un credo analogo al neoclassicismo musicale di Stravinskij, imperniato sull’utilizzo più ampio e completo del vocabolario tradizionale della `danse d’école’: ma rinnovato, reso veloce, epurato dai manierismi stilistici accumulati nei secoli e alimentato da nuovi stimoli dinamici (come la gestualità sportiva o quella quotidiana).

In Stravinskij, con il quale formò la seconda coppia russa più famosa e fertile del balletto (dopo la collaborazione tardottocentesca del coreografo Marius Petipa con Cajkovskij), trovò una sorta di alter ego musicale, a lui affine non solo nella Weltanschauung artistica ma anche nei tratti della personalità distaccata e ironica. Basti pensare che nel 1942 i due, uniti per soddisfare una commissione dei Ringling Brothers, crearono addirittura una danza per elefanti: l’effervescente Circus Polka , rappresentata dal grande circo americano per un’intera stagione e con grande successo. Ma ormai Balanchine non era più un artista europeo. Si era trasferito oltre oceano e aveva preso la cittadinanza americana: nel 1934 l’impresario Lincoln Kirstein, che poi si sarebbe rivelato anche un acuto storico del balletto, lo aveva invitato a dirigere la School of American Ballet. Ed egli, che alla morte di Diaghilev era diventato un freelance, attivo a Copenhagen, Londra, Parigi (nel 1933 vi aveva creato, per la compagnia Les Ballets, Mozartiana e soprattutto I sette peccati capitali di Brecht-Weill) accettò. Divenne insegnante e animatore di varie compagnie statunitensi come l’American Ballet, l’American Ballet Caravan, il Ballet Society, prima di trasformare quest’ultimo gruppo nel New York City Ballet (1948) di cui restò direttore artistico sino alla morte. Nel 1964 la città di New York destinò proprio alla sua compagnia l’uso dell’ambitissimo New York State Theatre, presso il Lincoln Center. Negli Usa B. confermò e approfondì la sua ricerca linguistica, creando balletti per lo più astratti, sempre improntati a un attento esame delle partiture musicali. L’influenza del nuovo paese e la sua cultura veloce e di massa contribuirono a rendere persino più `democratico’ il suo stile. Certo principi e regine non entrarono mai nei suoi balletti di pure linee come l’algido Balletto imperiale (1941) su musica di Cajkovskij, o il non meno sfavillante Symphony in C (o Palais de Cristal , 1947), su musica di Bizet, che pure trasudano una vibrante nostalgia per i grandi spettacoli della corte zarista e per il coreografo Marius Petipa, da lui considerato tra i suoi ideali precursori e maestri. Ma Stars and Stripes (1958), Square Dance (1957, poi ripreso e variato nel ’76) soprattutto Who Cares? (1970), su musica di Gershwin (per non parlare delle coreografie per i musical, come On Your Toes , firmate a Broadway alla fine degli anni ’30) rivelano che la sua danza tendeva a rispecchiare gli ideali della nuova classe media americana, pur senza giungere a ibridarsi con altre tecniche moderne, opposte al balletto, come talune opere di Jerome Robbins (il coreografo di West Side Story ) che fu a lungo suo collega al NYCB. Sin dall’inizio Balanchine desiderò che la sua compagnia newyorkese fosse soprattutto espressione della fisicità americana; scelse perciò ballerine atletiche come Tanaquil Le Clercq o Suzanne Farrell, la sua ultima musa, dalle gambe e braccia lunghe e con la testa piccola (come tutte le sue `baby-ballerine’) e danzatori atletici ed eleganti come Peter Martins (che egli stesso designò come suo successore alla testa del NYCB), il nero Arthur Mitchell o l’aitante Edward Vilella.

‘Mister B’, come fu affettuosamente soprannominanto (nonostante godesse la fama di coreografo-tiranno), muoveva questa suoi corpi ‘ideali’ come uno stratega poco interessato alle loro psicologie e personalità, nella convinzione che i ballerini non dovessero «pensare ma solo agire» e che fossero fiori destinati, purtroppo, a morire troppo in fretta e perciò ad essere utilizzati solo all’apice della loro giovanile bellezza e forza fisica. Per nulla affascinato dalla danza narrativa, si può capire perchè avesse allestito nella sua lunga carriera solo alcuni classici del repertorio ottocentesco; tra questi uno scintillante Schiaccianoci (1954), tuttora cavallo di battaglia natalizio del NYCB. Ma del resto nel suo ampio repertorio spiccano autentici e insostituibili capolavori antinarrativi o solo sottilmente evocativi come Serenade (musica di Cajkovskij, 1935), Concerto Barocco (musica di Bach, 1941), La Valse (musica di Ravel, 1951), Liebeslieder Walzer (musica di Brahms, 1960), Jewels (musica di Fauré, Stravinskij e Cajkovskij) e soprattutto Theme and Variations (musica di Cajkovskij, 1947) e The Four Temperaments (musica di Hindemith, 1946): tutti balletti per lo più ‘nudi’, immersi in uno spazio virtuale e nel décor che preferiva: la luce. Dentro la luce fece rinascere anche il suo Apollon Musagète in forma di balletto concertante (1979), depurando la coreografia di ogni scoria teatrale (scene e costumi grecizzanti) a riprova che questo caposaldo neoclassico non si sarebbe mai davvero fermato nel tempo. A Balanchine si richiamano artisti del teatro come Robert Wilson e coreografi contemporanei come William Forsythe, mentre il termine `balanchiniano’ che sta a ricordare l’influenza da lui esercitata su tutto il balletto del secolo, indica una pratica coreografica neoclassica basata sull’esplorazione delle potenzialità espressive del movimento, nella sola esaltazione delle sue linee più adamantine e pure, in costante dialogo con le strutture musicali.

Boston Ballet

Sotto la direzione di Ellen Virginia Williams e grazie allo stretto legame artistico con il New York City Ballet, il Boston Ballet acquisisce titoli di Balanchine, accanto ai classici di repertorio e a lavori di Pearl Lang, Agnes de Mille, Merce Cunningham (Summerspace e Winterbranch), Taylor, Choo-San Goh. Alla sua guida si succedono Violette Verdy (1980-1984) e Bruce Marks (dal 1985) con l’apporto di Anna-Marie Holmes. Negli anni ’90 amplia il repertorio con brani di Elisa Monte, Lila York, Daniel Pelzig, coreografo residente (Romeo and Juliet , 1997). È la prima compagnia statunitense a danzare in Cina (1980).

Balletto Virskij

Fondato nel 1937 da Pavel Virskij (ballerino e coreografo, Odessa 1925 – Kiev 1975) come Ansambl’ Narodnogo Tanca della Rssu (Repubblica Socialista Sovietica Ucraina), nello stesso anno in cui nasce l’analogo balletto popolare russo di Igor Moiseev, Balletto Virskij diventa l’insieme più rappresentativo della danza nazionale ucraina e accoglie nel proprio repertorio danze popolari che vanno dalla Vistola agli Urali, dai confini con la Bielorussia sino alle foci del Danubio. Con la scomparsa dell’Urss il balletto ha eliminato dal proprio repertorio i brani non specificamente ucraini. Dal 1980 è diretto da Miroslav Vantuch. I titoli di repertorio sono basati sulla tradizione ucraina e vanno da Bereznjanka al Gopak , da Il luppolo al Povzunec.

Bojarskij

Ha danzato dal 1935 al ’41 al Teatro Kirov di Leningrado interpretando i ruoli di Ivanuska lo sciocco in Il cavallino gobbo , Jean in Le fiamme di Parigi . Dal ’45 è stato attivo come ballerino e coreografo preso il Teatro della Commedia Musicale e il Teatro Malyj di Leningrado, nonché direttore artistico del Balletto sul ghiaccio di Leningrado sino alla sua morte. La sua formazione di coreografo è avvenuta negli anni in cui è in pieno sviluppo il genere del `drambalet’ (il balletto drammatico) sovietico, ma i suoi lavori, soprattutto quelli tardi, si allontanano da questo inquadramento estetico. Fra le sue coreografie si ricordano La sinfonia classica su musica di Prokof’ev del 1961 e La Signorina e il teppista su musica di D. Sostakovic del 1962.

Beck

Julian Beck iniziò come pittore legato all’espressionismo astratto statunitense, e dal 1948, quando con la moglie Judith Malina fondò a New York il Living Theatre, pur senza cessare di dipingere, si dedicò prevalentemente al teatro, firmando le scene di tutti gli spettacoli del Living, dirigendone molti e comparendo quasi sempre anche come interprete. La sua biografia si identifica con le vicende dell’organismo del quale fu l’animatore e la guida attraverso le sue varie fasi, da quella imperniata sull’allestimento di testi dell’avanguardia europea e americana a quella che vide la graduale affermazione di un’idea di teatro basata sulle improvvisazioni degli attori e sull’eloquenza dei loro corpi e sempre meno legata a testi drammaturgici preesistenti. Fondamentale fu anche il suo apporto all’evoluzione politica e ideologica che portò il gruppo a prendere posizioni esplicitamente anarchiche e pacifiste tutt’altro che gradite al sistema, e ad abbandonare a poco a poco l’attività teatrale vera e propria per mettersi al servizio delle battaglie politiche e sociali del tempo, in particolare quella contro l’intervento americano nel Vietnam, agendo nelle strade e in altri contesti non specificamente teatrali. Pubblicò, oltre a una raccolta di versi, numerosi scritti teorici, i più importanti dei quali furono raccolti nei volumi The Life of the Theatre (La vita del teatro, 1972) e Theandric, uscito postumo nel l992.

Boggio

Attenta analista dei fermenti che coinvolgono gli strati sociali meno protetti, Maricla Boggio si è occupata con passione delle tematiche legate al mondo della donna. Ha inoltre indagato le questioni che riguardano la tossicodipendenza, la malattia mentale e la vita del sottoproletariato romano. Dai suoi testi emerge uno stretto connubio fra realismo e forza letteraria. Alcuni titoli: Santa Maria dei battuti (scritto con F. Cuomo, 1969); Mara, Maria, Marianna (con D. Maraini e E. Bruck, 1973), Passione 1514 (1973), Anna Kuliscioff (1977), Mamma eroina (1983), Schegge-Vita di quartiere (1986).