Creatore rigoroso, raffinato formalista e principale fautore del balletto neoclassico, passato indenne attraverso tutte le rivoluzioni della danza del Novecento, George Balanchine è stato, secondo Rudolf Nureyev, che alla sua morte fornì una delle più lucide definizioni della sua arte, un artista «indispensabile» per lo sviluppo del balletto nel nostro secolo. Le sue principali coreografie hanno determinato lo stile, il tempo, la linea, la musicalità, l’agilità e l’arte del fraseggio danzato. Oltre al genio personale, qualità imponderabile, hanno forse contribuito a renderlo un creatore `indispensabile’ le frequentazioni di ambienti culturali diversi, le scelte drastiche e decisive, come quella di abbandonare la Russia già nel 1924, dopo aver compreso che le sue idee coreografiche poco interessavano al Teatro Marijinskij di Pietroburgo in cui era entrato a far parte nel 1921, dopo aver terminato gli studi di balletto all’annessa Scuola imperiale (i suoi maestri furono Andrejanov e Pavel Gerdt), ma anche quelli di pianoforte e di teoria al Conservatorio della stessa città.
Aveva firmato la sua prima coreografia (La Nuit , ribattezzata in seguito Romance) nel 1920, all’età di sedici anni, ma tra le sue prime opere spicca anche una Sagra della primavera su musica di Stravinskij di cui purtroppo non esistono documenti, né tracce. Più importanti di quanto non si sia sino ad oggi creduto, furono, per i suoi esordi creativi, i contatti con l’avanguardia teatrale russa: l’incontro con Vladimir Majakovskij, la visione delle coreografie innovative di Kazian Goleizovskij e Nikolas Foregger, l’attività al teatro sperimentale FEKS e nel cabaret, indirettamente influenzata dalla biomeccanica di Vsevolod Mejerch’old. Ottimo danzatore e musicista, oltre che precoce talento coreografico, non gli fu difficile ottenere dal governo rivoluzionario sovietico il permesso di espatriare in Germania, appunto nel 1924, con una piccola compagnia di cui facevano parte Alexandra Danilova e Tamara Geva che, tra l’altro, divennero, una dopo l’altra, le sue due prime mogli. Nel 1925 (l’anno in cui mutò il suo nome in George Balanchine, più semplice all’orecchio occidentale), Sergej Diaghilev lo chiamò a Parigi ed egli rimase nella compagnia dei Ballets Russes sino al suo scioglimento (1929), respirandone il clima innovativo e condividendo l’idea di svecchiare il balletto, liberandolo dalle convenzioni del passato. Non era simpatico a Diaghilev, forse per la sua spiccata predilezione per il sesso femminile (ebbe in tutto cinque mogli), ma questo piccolo ostacolo non gli impedì di diventare il coreografo di riferimento nell’ultima fase della celebre compagnia diagleviana. Tutte le coreografie che firmò per i Ballets Russes si tramutarono in successi immediati come lo stravinskijano Le chant du rossignol (1925), La chatte (1927) su musica di Henri Sauguet, Il figliol prodigo (1929) su musica di Sergej Prokof’ev, persino Le Bal (1929) su musica di Vittorio Rieti ma soprattutto Apollon Musagète (1928): il balletto che, oltre a inaugurare la sua collaborazione a quattro mani con Stravinskij (dopo Apollon, Orpheus del 1948 e Agon del ’57), si impose come primo e compiuto, esempio della sua nuova estetica neoclassica. Un credo analogo al neoclassicismo musicale di Stravinskij, imperniato sull’utilizzo più ampio e completo del vocabolario tradizionale della `danse d’école’: ma rinnovato, reso veloce, epurato dai manierismi stilistici accumulati nei secoli e alimentato da nuovi stimoli dinamici (come la gestualità sportiva o quella quotidiana).
In Stravinskij, con il quale formò la seconda coppia russa più famosa e fertile del balletto (dopo la collaborazione tardottocentesca del coreografo Marius Petipa con Cajkovskij), trovò una sorta di alter ego musicale, a lui affine non solo nella Weltanschauung artistica ma anche nei tratti della personalità distaccata e ironica. Basti pensare che nel 1942 i due, uniti per soddisfare una commissione dei Ringling Brothers, crearono addirittura una danza per elefanti: l’effervescente Circus Polka , rappresentata dal grande circo americano per un’intera stagione e con grande successo. Ma ormai Balanchine non era più un artista europeo. Si era trasferito oltre oceano e aveva preso la cittadinanza americana: nel 1934 l’impresario Lincoln Kirstein, che poi si sarebbe rivelato anche un acuto storico del balletto, lo aveva invitato a dirigere la School of American Ballet. Ed egli, che alla morte di Diaghilev era diventato un freelance, attivo a Copenhagen, Londra, Parigi (nel 1933 vi aveva creato, per la compagnia Les Ballets, Mozartiana e soprattutto I sette peccati capitali di Brecht-Weill) accettò. Divenne insegnante e animatore di varie compagnie statunitensi come l’American Ballet, l’American Ballet Caravan, il Ballet Society, prima di trasformare quest’ultimo gruppo nel New York City Ballet (1948) di cui restò direttore artistico sino alla morte. Nel 1964 la città di New York destinò proprio alla sua compagnia l’uso dell’ambitissimo New York State Theatre, presso il Lincoln Center. Negli Usa B. confermò e approfondì la sua ricerca linguistica, creando balletti per lo più astratti, sempre improntati a un attento esame delle partiture musicali. L’influenza del nuovo paese e la sua cultura veloce e di massa contribuirono a rendere persino più `democratico’ il suo stile. Certo principi e regine non entrarono mai nei suoi balletti di pure linee come l’algido Balletto imperiale (1941) su musica di Cajkovskij, o il non meno sfavillante Symphony in C (o Palais de Cristal , 1947), su musica di Bizet, che pure trasudano una vibrante nostalgia per i grandi spettacoli della corte zarista e per il coreografo Marius Petipa, da lui considerato tra i suoi ideali precursori e maestri. Ma Stars and Stripes (1958), Square Dance (1957, poi ripreso e variato nel ’76) soprattutto Who Cares? (1970), su musica di Gershwin (per non parlare delle coreografie per i musical, come On Your Toes , firmate a Broadway alla fine degli anni ’30) rivelano che la sua danza tendeva a rispecchiare gli ideali della nuova classe media americana, pur senza giungere a ibridarsi con altre tecniche moderne, opposte al balletto, come talune opere di Jerome Robbins (il coreografo di West Side Story ) che fu a lungo suo collega al NYCB. Sin dall’inizio Balanchine desiderò che la sua compagnia newyorkese fosse soprattutto espressione della fisicità americana; scelse perciò ballerine atletiche come Tanaquil Le Clercq o Suzanne Farrell, la sua ultima musa, dalle gambe e braccia lunghe e con la testa piccola (come tutte le sue `baby-ballerine’) e danzatori atletici ed eleganti come Peter Martins (che egli stesso designò come suo successore alla testa del NYCB), il nero Arthur Mitchell o l’aitante Edward Vilella.
‘Mister B’, come fu affettuosamente soprannominanto (nonostante godesse la fama di coreografo-tiranno), muoveva questa suoi corpi ‘ideali’ come uno stratega poco interessato alle loro psicologie e personalità, nella convinzione che i ballerini non dovessero «pensare ma solo agire» e che fossero fiori destinati, purtroppo, a morire troppo in fretta e perciò ad essere utilizzati solo all’apice della loro giovanile bellezza e forza fisica. Per nulla affascinato dalla danza narrativa, si può capire perchè avesse allestito nella sua lunga carriera solo alcuni classici del repertorio ottocentesco; tra questi uno scintillante Schiaccianoci (1954), tuttora cavallo di battaglia natalizio del NYCB. Ma del resto nel suo ampio repertorio spiccano autentici e insostituibili capolavori antinarrativi o solo sottilmente evocativi come Serenade (musica di Cajkovskij, 1935), Concerto Barocco (musica di Bach, 1941), La Valse (musica di Ravel, 1951), Liebeslieder Walzer (musica di Brahms, 1960), Jewels (musica di Fauré, Stravinskij e Cajkovskij) e soprattutto Theme and Variations (musica di Cajkovskij, 1947) e The Four Temperaments (musica di Hindemith, 1946): tutti balletti per lo più ‘nudi’, immersi in uno spazio virtuale e nel décor che preferiva: la luce. Dentro la luce fece rinascere anche il suo Apollon Musagète in forma di balletto concertante (1979), depurando la coreografia di ogni scoria teatrale (scene e costumi grecizzanti) a riprova che questo caposaldo neoclassico non si sarebbe mai davvero fermato nel tempo. A Balanchine si richiamano artisti del teatro come Robert Wilson e coreografi contemporanei come William Forsythe, mentre il termine `balanchiniano’ che sta a ricordare l’influenza da lui esercitata su tutto il balletto del secolo, indica una pratica coreografica neoclassica basata sull’esplorazione delle potenzialità espressive del movimento, nella sola esaltazione delle sue linee più adamantine e pure, in costante dialogo con le strutture musicali.