Birmingham Royal Ballet

La nascita del gruppo del Birmingham Royal Ballet risale al 1946, quando Ninette de Valois, dopo il trasferimento al Covent Garden del Sadler’s Wells Ballet, ne ha fondato uno più piccolo (Sadler’s Wells Theatre Ballet) sotto la direzione di Peggy Van Praagh: coreografa stabile Andrée Howard. Nata per dare spazio alle creazioni, la compagnia ha presentato, fra gli altri, novità di Cranko, Ashton, Rodrigues e della stessa Howard. Anche la freschezza e l’entusiasmo dei giovani artisti (fra i quali Nadia Nerina, Anne Heaton, Svetlana Beriosova, Marion Lane e David Blair) ha attirato il pubblico del Sadler’s Wells. Tra il 1957 e il 1977, il Birmingham Royal Ballet è diventato Royal Ballet Touring Company ed è stato invitato più volte in Italia, al festival di Spoleto e di Nervi in particolare. Quindi, aumentato di numero, ha dato spettacoli per un paio di volte all’anno a Londra, continuando a fare tournée in Inghilterra e all’estero. Kenneth MacMillan ha creato numerosi balletti per la compagnia e Ashton ha allestito Le Deux Pigeon quando Lynn Seymour e Christopher Gable facevano parte del complesso mentre sotto la direzione di Field e poi di Wright, il Birmingham Royal Ballet ha acquisito un vasto e vario repertorio. Nel 1995, David Bintley, già incoraggiato da Wright come coreografo, è diventato direttore artistico del gruppo, dividendo il repertorio tra classici e creazioni di Bintley, Balanchine, Ashton, MacMillan e altri. Nel 1997 la compagnia si è staccata dal Covent Garden dal punto di vista amministrativo, pur mantenendo con esso un legame artistico.

Busch

Ex militare, Paul Busch (1850-1927) costruisce a Berlino nel 1895 il Circo stabile B. di 4500 posti. Nel 1902 e 1903 rileva gli edifici circensi di Amburgo e Breslavia e ne costruisce uno a Vienna. I prestigiosi spettacoli equestri (fino a 120 cavalli) includono sfarzose ed elaborate pantomime anche acquatiche ed ospitano le vedette dell’epoca, da Houdini ai Fratellini. I circhi Busch sono bombardati tra il 1943 e il 1945. Alla morte di Paul, la direzione va alla figlia Paula Busch (1886-1973) che dà vita a un circo itinerante. Nel 1965 il circo Busch si fonde con il Roland. Il circo Busch-Roland è tuttora attivo. Estraneo alla dinastia Busch è il circo itinerante di Jacob Busch, uno dei più importanti degli anni ’20 e ’30, giunto anche in Italia con la sua pista acquatica. Il circo di Jacob Busch viene rilevato nel 1952 dal governo della Ddr e sciolto negli anni ’90.

Bordon

Laureato in Legge, Furio Bordon ha lasciato la professione forense a 25 anni per dedicarsi all’attività di narratore (quattro romanzi), drammaturgo (ha vinto il Premio Idi nel ’94), sceneggiatore (al cinema ha lavorato con V. Zurlini) e regista teatrale: Tradimenti di H. Pinter con Bonacelli-Bacci; Lo zoo di vetro di T. Williams con P. Degli Esposti, Oblomov da Goncarov con G. Mauri e T. Schirinzi, La vita xe fiama di Marin con G. Moschin, Amici, devo dirvi da D. M. Turoldo con R. Sturno. Dal 1988 al 1992 ha diretto il Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia (che gli aveva allestito la prima commedia). Tra le opere, Giochi di mano (1974), Il canto dell’orco (1985), Il favorito degli dei (1988), La città scura (1994), Le ultime lune , addio al palcoscenico di M. Mastroianni, prodotto nella stagione 1996-97 dal Teatro stabile del Veneto con la regia di G. Bosetti.

Bouy

Luc Bouy ha studiato con Béjart ed è stato nelle file del Ballet du XXème siècle. Primo ballerino del Cullberg Ballet a Stoccolma, ha creato il ruolo di Albrecht nella Giselle moderna di Mats Ek (1982). Come coreografo privilegia il gesto espressionista e le marcate caratterizzazioni; ha destinato i suoi primi lavori al Cullberg Ballet, allo Scapino Ballet e in varie occasioni a compagnie italiane. Nel 1982, alla Scala, ha creato Mi Vida su musica di de Falla. Negli ultimi anni è stata però soprattutto Carla Fracci a invitarlo a creare nuove coreografie per mettere in risalto le sue qualità artistiche; tra queste, le più riuscite sono Filumena Marturano (Cagliari, 1995), dall’omonima commedia di Eduardo De Filippo e Il lutto si addice ad Elettra (Jesi, 1995) dal dramma di O’Neill.

Barlocco

Tony Barlocco visse nelle tipiche case di ringhiera di San Vittore Olona, figlio del ceto proletario lombardo di allora, tra luoghi, figure e atmosfere che ispirarono poi il suo personaggio di Mabilia, soubrette tempestosa e capricciosa dei celebri Legnanesi. Penultimo di cinque figli, dopo gli studi trovò lavoro alla falegnameria e poi all’ufficio tecnico della Franco Tosi. A diciassette anni nella Milano dell’immediato dopoguerra vide per la prima volta Wanda Osiris nella rivista Grand Hotel , con l’ingresso in piedi, e visse tre ore abbondanti di incantesimo che non lo lasciarono più: iniziò qui il suo sogno di recitare in abiti femminili. Nell’estate del 1948 Barlocco, in campeggio, prese parte a uno spettacolo di dilettanti dell’azienda; qui lo vide un violinista compagno di lavoro di Musazzi, che stabilì così quello che fu poi l’incontro storico delle due star dei Legnanesi. Nel primo show, del ’49, B., non ancora travestito, faceva un garzone della filanda; ma dal ’50 in poi l’attore assunse definitivamente i panni della Mabilia, figlia unica della Teresa-Musazzi, rampolla zitella e poco seria che si scontrava con la saggezza popolare della madre e l’ironia dei vicini, deformando l’immagine della ragazza futile, vittima di ogni mass media e sempre troppo alla moda. Nel ’58 Barlocco debutta con la compagnia all’Odeon di Milano in Va là batel… ed ebbe la soddisfazione di vedere in prima fila, che applaudiva divertita, la sua musa ispiratrice, la Osiris. Da allora egli assunse anche il compito di coreografo della compagnia e, non più operaio, si diede a tempo pieno alla vena parodistica, raffinando quel personaggio grottesco iper – femminile che veniva nello stesso tempo dall’osservazione della realtà e dalla passione per la vecchia rivista. Rappresentava la ragazza che va con i tacchi a spillo ‘in camporella’ e vuole vivere sempre al di sopra delle sue possibilità, confondendo gli status – symbol specie quando si recava in luoghi consacrati come la Scala, il Vaticano e la corte inglese. La risata nasceva anche, naturalmente, dallo sfarzo sempre più esibito del travestimento da soubrette, dal trucco, dalle parrucche, dal lusso dei costumi, affidati a sartorie di pregio come la Boetti e la Rame, tanto che Barlocco si può considerare a tutti gli effetti l’ultima delle soubrette del teatro leggero italiano.

I suoi continui scontri, in scena, con l’ignorante e amata mamma Teresa, emblema di un’altra generazione, sono diventati proverbiali e degni della Commedia dell’Arte: per trentasette anni B. fece la soubrette dei cortili, deliziando il suo pubblico con movenze, occhiate, giochi di parole. La Mabilia portò nell’`ensemble’ legnanese quell’ombra di malizia anche sessuale contrapposta, ma assolutamente complementare, all’ingenuità popolare del gruppo e del suo ispiratore, Musazzi. Spalleggiato dagli intellettuali, amatissimo dal pubblico gay, stimato da Fellini, Barlocco raffinò le sue doti parodistiche strapaesane da Folies Bergère: la maschera dell’attore fu insostituibile e dopo la sua morte, nell’unico show che Musazzi allestì senza di lui, lo fece partire per l’America ricordandola con affetto. La Mabilia, in viaggio per le mode dell’Italia da rotocalco degli anni ’60 e ’70, ci metteva entusiasmo e genialità. Altera e scostumata zitella di provincia, faceva scattare l’invidia delle altre, perché era la più bella, ma una bellezza di teatro, da riflettore puntato, volgare ed esagitata come una caricatura, sebbene dentro costruita attraverso un minuscolo e paziente lavoro di osservazione sulle tante Mabilie che ogni giorno incontriamo.

Bovio

Convinto sostenitore di un teatro d’arte in lingua napoletana, Libero Bovio esordisce con il bozzetto di ispirazione verista Malanova (1902). Entra nel repertorio dei maggiori attori napoletani e anche Scarpetta mette in scena Gente nosta (1907), una pièce dagli accenti cechoviani scritta in collaborazione con E. Murolo. Nel 1916 è titolare con Murolo, di una compagnia che porta al successo Vincenzella (1918) tratta da Vie de Bohème di H. Murger. Dopo l’insuccesso di La coda del diavolo (1921), tratta da Verga, B. dirada gli impegni teatrali e nel ’32 raccoglie in volume le sue opere drammatiche tra cui spiccano Pulecenella , ‘O prufessore e ‘O macchiettista. Di particolare rilievo è l’attività di canzonettista, divisa tra accenti malinconici (“‘O paese d”o sole”, “Signorinella”) e patetici slanci (“‘E ppentite”, “Pupatella”) che lo fanno prediligere da Pasquariello e Donnarumma. Considerato iniziatore della canzone drammatica, misto di canto e declamazione, influenza il repertorio della sceneggiata che ricava ‘O zappatore e Lacreme napulitane dalle sue omonime canzoni.

Bulnes

Esmée Bulnes studiò a Londra con Cecchetti e la Egorova. Ancora giovane si dedicò all’insegnamento, stabilendosi nel 1931 al teatro Colón di Buenos Aires. Dopo la guerra fu direttrice della Scuola di ballo della Scala (1951-1967), dove diresse pure il corpo di ballo (1954-1962); tra le sue allieve è da annoverare anche Carla Fracci. Successivamente è stata insegnante ospite alla scuola dell’American Ballet a New York e, dal 1967 al ’69, al Royal Ballet di Londra.

Böll

Conosciuto soprattutto per la sua produzione narrativa, che gli valse il premio Nobel nel 1972, scrisse anche due drammi, Un sorso di terra (Ein Schluck Erde, 1962) e Lebbra (Aussatz, 1971), in cui la critica della società contemporanea si arricchisce di visioni allegoriche, senza perdere la tensione morale che caratterizza anche l’opera narrativa. In Un sorso di terra (di cui ricordiamo l’allestimento italiano curato dal regista G. De Bosio per Emilia Romagna Teatro, 1978-79), l’umanità, sconvolta da una catastrofe che ha trasformato il mondo in un’immensa distesa d’acqua, è ridotta a pochi individui, legati da sterili rapporti di gerarchia, i cui gradi sono contraddistinti da un diverso colore. Dai gradi infimi, i kresti, conservatori della memoria del passato, proviene tuttavia l’istanza di riscatto del mondo, evidenziata in un linguaggio semplice e arcaico. Il tema dei contrasti fra l’individuo e il potere compare anche in Lebbra , con i toni della satira.

Beaumont

Appassionato d’arte moderna in generale e in particolare di balletto, Etienne Comte de Beaumont appartenne a quella classe di mecenati la cui azione negli anni tra il 1920 e il 1930 fu particolarmente efficace per il rinnovamento estetico della scena. La sua azione tuttavia non fu limitata al semplice incoraggiamento del nuovo. A lui va il merito, fra l’altro, di aver organizzato una serie di spettacoli che, sotto il nome di Soirées de Paris (primavera del 1924; sala del Théâtre de la Cigale), riassunsero le aspirazioni estetiche del tempo. Nel corso di queste soirées dirette da Léonide Massine, apparvero autentici capolavori quali Le Beau Danube , Scuola di ballo e Gaité parisienne , ai quali Beaumont seppe regalare anche il suo raffinato talento di disegnatore.

Bakst

Lasciata Pietroburgo, B. studiò pittura a Parigi, all’Academie de Beaux Arts dal 1883 al 1886, all’Academie Julian e nello studio di J.L. Gerôme dal 1893 al 1896. Nel 1890 conobbe Alexandr Benois e ne frequentò il circolo di amici dove incontrerà Diaghilev. Con loro B., sarà il fondatore, nel 1899, dell’associazione di artisti. Il Mondo dell’Arte (Mir Iskusstva) ed esporrà nelle mostre di pittura dell’associazione. Dotato ritrattista, immortalò personalità del teatro come Isadora Duncan, Ida Rubinstein, Sergej Diaghilev, Anna Pavlova, Léonide Massine. Realizzò i primi bozzetti di scene e costumi tra il 1902 e il 1904 per il teatro dell’Ermitage e il Teatro Marijinskij di Pietroburgo. Ricordiamo l’ Antigone di Sofocle per uno spettacolo di Ida Rubinstein. Dopo un viaggio in Grecia, nel 1907, lavorò ai costumi per Anna Pavlova nella Morte del cigno e nelle Silfidi , per Tamara Karsavina nella Danza delle fiaccole . La sua personalità di scenografo e costumista si realizzò pienamente con i Balletti Russi di Diaghilev, una collaborazione iniziata con Cleopatra e La bella addormentata , nel 1908. Il successo giunse con la stagione parigina organizzata da Diaghilev nel 1910. Fu autore di un raffinato Le Carnaval di Schumann, il balletto pantomima di cui B. curò il libretto insieme al coreografo Fokine, dove adattò alla danza abiti ispirati agli anni 1830-1840. Fu autore del celebre Sherazade di Rimskij-Korsakov, dove riversò una sfavillante vena orientalista. Il sodalizio con Diaghilev porterà ulteriori successi: L’après-midi d’un faune di Debussy (1912), Le Dieu bleu di R. Hahn (1912), Le Jeux di Debussy (1913), la nuova versione di Sherazade (1915). Gli ultimi bozzetti, del 1923, sono dedicati a Fedra di D’Annunzio e di Racine per i teatri parigini. Di se stesso e del suo stile ebbe a dire: «il mio fine è sempre stato quello di liberarmi dagli intralci dell’archeologia, della cronologia e della realtà quotidiana, per esprimere la musica del mondo che rappresentavo».

Baty

Gaston Baty cresce in una benestante famiglia lionese. Si accosta al teatro grazie a un soggiorno di studio a Monaco, dove ha occasione di conoscere il lavoro scenografico di F. Erler, da Baty considerato un geniale innovatore della scena, lontano com’era dalle convenzionalità della tradizione. Baty approda tardi alla regia: dal 1908 al 1914, infatti, il suo impegno è principalmente critico e teorico. È Gémier nel 1919, visti alcuni suoi progetti di regie, a volerlo come assistente. I pochi mesi di lavoro alla Comédie Montaigne accanto a Gémier costituiscono un fondamentale apprendistato per B., il quale firma sei regie, tra cui un Avaro interpretato da C. Dullin.

Nel 1921, Baty fonda la Compagnie de la Chimère per la quale firma lo strepitoso successo Intimité di J.-V. Pellerin, spettacolo apprezzato anche dal grande Antoine. Nel 1923 apre, nel quartiere di Saint-Germain-des-Près a Parigi, `La Baraque de la Chimère’, teatro che, per ragioni economiche, ha purtroppo vita breve. Chiusa la Baraque, Baty passa attraverso esperienze teatrali diverse: torna a lavorare con Gemiér all’Odéon; poi dal 1924 al 1928 è allo Studio des Champs-Elysées dove realizza alcune delle sue regie più celebri (Maya di S. Gantillon); dopo una parentesi all’Avenue e al Pigalle, Baty ottiene nel 1930 la direzione del Montparnasse, inaugurato lo stesso anno con la brechtiana Opera da tre soldi , testo prima mai rappresentato in Francia. Qui, Baty mette in scena anche sue rielaborazioni drammaturgiche di opere letterarie: Madame Bovary (1930), Delitto e castigo (1933) e Dulcinée (1938) dal Don Chisciotte.

A metà degli anni ’30, Baty lavora anche alla Comédie-Française, accanto a Copeau, Dullin e Jouvet (registi con i quali aveva firmato nel 1926 il celebre Cartel, patto artistico contro l’accademismo e il teatro commerciale), mettendo in scena opere di De Musset, Labiche, Racine, Salacrou. Fermamente cattolico, B. ha espresso nella sua pratica registica – così come nella teoresi sul teatro del saggio Le masque et l’encensoir – la convinzione che il teatro non debba limitarsi a descrivere i conflitti umani, ma che debba al contrario trasmettere un’idea di armonia universale dominata dalla presenza divina. Mezzi privilegiati in tale processo di ricerca, anche spirituale, saranno quelli specificatamente teatrali: luci, costumi, scenografia e musica sono infatti per lui strumenti determinanti nella riuscita dello spettacolo scenico.

Non alieno ad interventi sul testo – un esempio per tutti, la sua versione del Lorenzaccio di De Musset – Baty ha privilegiato per la sua compagnia un repertorio di classici, senza però trascurare opere contemporanee come L’annuncio a Maria di Paul Claudel, uno dei suoi maggiori successi, con Il malato immaginario e L’avaro di Molière, I capricci di Marianna di De Musset, Fedra e Berenice di Racine. Solo regista del Cartel a non subire la diretta filiazione di Coupeau, Baty si allinea tuttavia alla direttrice estetica di questo periodo storico che prevede un atteggiamento di allontanamento dai moduli di messa in scena del repertorio monopolio della Comédie Française, ma non la sua contestazione. Con la sua attività artistica Baty dichiara di voler «spostare il proiettore» e illuminare, attraverso l’intervento registico, la natura spettacolare e non esclusivamente letteraria del teatro.

Nel 1949, Baty abbandona l’attività registica e si dedica ai Guignols, marionette popolari lionesi, sulle quali scrive testi storici e teorici, considerandole autentica e radicale forma di espressione teatrale. Spesso le teorie sceniche di B. sono state contestate e sbrigativamente giudicate, in ragione del gusto del paradosso e del carattere intransigente del loro autore. L’espressione Sire le mot , per esempio, titolo di uno dei suoi saggi più celebri, gli costa l’accusa di ostilità al testo drammaturgico. In realtà, Baty intende affermare che il testo è uno degli elementi, ma non l’unico, che concorre alla creazione dell’illusione scenica. Diversamente, infatti, si giungerebbe a un teatro letterario cui Baty è ostile, prediligendo un teatro quale luogo del sogno e dell’evasione dalla quotidianità. Lontano dal teatro politico e engagé , Baty ravvisa proprio nei burattini il senso ultimo dell’arte teatrale, la sola verità del sogno.

Banda Osiris

La formazione nasce nel 1980 per la volontà di quattro musicisti professionisti diplomati al conservatorio che, stanchi del solito repertorio classico, si riuniscono per sperimentare un nuovo genere comico-musicale. Il repertorio della Banda Osiris punta principalmente su colte e divertenti divagazioni di opere classiche (Le quattro stagioni da Vivaldi) che riescono nel loro intento comico-sonoro grazie all’utilizzo e all’estrema padronanza degli strumenti musicali. Nell’estate del 1996 hanno preso parte alla curiosa reinterpretazione degli Uccelli di Aristofane per la regia di G. Vacis al festival di Spoleto. Oltre alla musica, la mimica e le gag esilaranti che farciscono ampiamente i loro spettacoli – in repertorio hanno: Storia della musica volume 1, 2, 3 e 4 – sono stati oggetti di attenzioni di registi come Maurizio Nichetti che ha firmato nel 1997 Sinfonia fantastica. Sul fronte prettamente musicale sono molti e prestigiosi i riconoscimenti internazionali.

Bruni

Ferdinando Bruni frequenta la scuola del Piccolo Teatro di Milano e nel 1973 fonda a Milano con Gabriele Salvatores il Teatro dell’Elfo (poi diventato Teatridithalia) dove lavora tutt’oggi in qualità di regista e scenografo. Fra gli spettacoli nati in collaborazione con Salvatores ci sono Woyzeck (1974), Pinocchio Bazar (1975), Le mille e una notte (1978), Sogno di una notte d’estate (1981) e Comedians (1983). Nel 1984 inizia il sodalizio con Elio de Capitani da cui viene diretto tra gli altri in Visi noti sentimenti confusi (1984); Il servo e I creditori (1988); Decadenze e Alla Greca (1993); Amleto (1994); Caligola (1997). Sempre con de Capitani firma le regie di L’isola (1994); Le lacrime amare di Petra von Kant e, La bottega del caffè (1991); Resti umani non identificati e La vera natura dell’amore (1992). Tra le sue regie: The fantasticks (1983), Capodanno di Copi (1994) e Madame de Sade di Mishima (1996, anche come interprete). Intensa anche l’attività di regista nel teatro lirico. Artista particolarmente incline a personaggi tormentati, ha coltivato l’idea di un teatro contemporaneo, fatto di linguaggi espressivi talvolta violenti e giovanilistici, altre volte geometricamente rarefatti.

Bianchessi

Carlo Bianchessi è un cabarettista dalla vena ironica e sarcastica, nel 1983 muove i primi passi al Derby Club di Milano con lo spettacolo nonsense Sono pazzo… e allora? Nel 1988 partecipa al Raffaella Carrà Show e, l’anno successivo, lo ricordiamo in Monterosa 84 , riapre il Derby condotto da G. Funari. Attualmente è impegnato in tour teatrali e cabarettistici in tutta Italia.

Baracca, La

La B. ha costituito a Bologna, prima al San Leonardo poi al Teatro Testoni, uno dei centri più fervidi di teatro per l’infanzia in Italia, in stretto collegamento con le altre esperienze europee. Con Stelle e dinosauri , nel 1993, ha iniziato un progetto molto importante di spettacoli per i nidi. Da ricordare anche: Dire fare baciare (1986), Il drago della fiumana (1987), Pollicino (1995).

Borgio Verezzi

Nella splendida cornice di piazza Sant’Agostino di Verezzi (divenuta poi il luogo deputato alla maggior parte delle successive rappresentazioni) il Festival di Borgio Verezzi è stato allestito come primo spettacolo Due volti del Medioevo , composizione scenica tratta da testi di Jacopasse da Todi, Folgore da San Gimignano e Francesco d’Assisi con la regia di Luciana Costantino e la partecipazione di Giampiero Becherelli e Adalberto Rossetti. Sin da questo primo appuntamento il Festival di Borgio Verezzi si è distinto per il rigore delle scelte artistico-culturali e per la forte spinta all’innovazione e alla riscoperta e valorizzazione di testi poco frequentati. Come grande animatore dell’evento estivo del borgo ligure, giunto ormai alla XXXII edizione (1998), si è dall’inizio distinto Enrico Rembado che del comune è sindaco oltre che direttore del festival. Dal 1967 a oggi sono stati presentati una trentina di lavori prodotti appositamente per la manifestazione e ne sono stati ospitati più di quaranta, legati al ricorrente tema `Il teatro classico per i nostri giorni’ o invitati appositamente (richiedendo la prima nazionale) e affiancati da un convegno critico. La letteratura frequentata maggiormente si situa in un ambito di ricerca al testo `minore’, ma non per questo meno significativo, dei grandi classici del teatro nazionale e internazionale. Non sono rimasti esclusi importanti richiami al teatro contemporaneo. Dal 1971 a ogni edizione del F. viene assegnato il premio `Veretium’ che ha visto come vincitori tra gli altri attori come E. Pagni, P. Micol, L. Vannucchi, R. Valli, G. Lazzarini, P. Degli Esposti e A. Jonasson. Tra gli spettacoli allestiti a B.V. ricordiamo L’impresario delle Smirne (1973) di C. Goldoni, con T. Schirinzi per la regia di G. Cobelli, Anfitrione (1979) di E. von Kleist regia di G. Lavia (anche interprete), Don Giovanni e Faust (1990) di Christian Dietrich Grabbe, con la regia di G. Zampieri e Purgatorio 98 (1998) tratto da Dante, regia di U. Gregoretti nell’affascinante cava dei fossili di B.V.

Binosi

Laureato in filosofia, si avvicina al palcoscenico frequentando un corso di teatro gestuale all’interno di un gruppo universitario. Nel 1992 scrive per la scena il monologo Sognanti , che viene interpretato da di Rosa di Lucia, testo che, con L’attesa (1993), viene tradotto e allestito a Parigi al Théâtre de la Bonne Graine nel 1996. Seguono Fausta , monologo interpretato da Carola Stagnaro (1994, ripreso nell’95 nell’interpretazione di Camilla Fortini); La finestra sul ponte , di cui è protagonista Elettra De Salvo (1995) e Il martello del diavolo (1997). Nel 1998 sono sulle scene italiane La Bovarì sulla bocca di tutti, I cacciatori, Ich bin Elisabeth .

Bausch

È difficile immaginare cosa sarebbe il teatro della danza dell’ultimo quarto di secolo senza la paradigmatica esperienza e creatività di Pina Bausch. Questa coreografa dall’inconfondibile silhouette nera e dall’effigie esangue, sofferente, come in preda all’imminente consunzione ma in realtà da anni potente e energica capofila del genere teatrodanza (o Tanztheater), è riuscita a modificare gli orizzonti culturali ed estetici della danza del nostro tempo, guadagnandosi non solo una schiera di imitatori ma anche un pubblico insospettabile: forse il pubblico più largo e nuovo che qualsiasi altro coreografo di oggi abbia attirato a sé. Complice del suo successo, almeno in Italia, è proprio il termine Tanztheater da lei adottato per definire il suo teatro della danza, o ‘della vita’ e ‘dell’esperienza’: in realtà un termine d’uso, strettamente correlato a un preciso progetto artistico comune a un’intera generazione di creatori e coreografi tedeschi come lei ingaggiati, già negli anni Settanta, all’interno di grandi strutture e teatri d’opera della Germania. Per segnalare che la loro produzione artistica non avrebbe più avuto alcuna attinenza con il balletto o la danza moderna, precedentemente accolti in quegli stessi teatri, essi preferirono chiamare le loro compagnie, nonché definire la loro stessa produzione, Tanztheater. Nella lingua tedesca questo vocabolo composto significa semplicemente teatro della danza, ma in molti paesi di lingua non tedesca, come appunto l’Italia, esso ha dato adito alle più diverse e spesso improprie traduzioni/interpretazioni. Tanto è vero che la tentazione di inscrivere la geniale Bausch nell’alveo dei registi teatrali, sminuendo così sia la sua formazione strettamente coreutica che quella dei suoi interpreti-ballerini, ha provocato non pochi equivoci nell’iniziale esegesi del suo teatro, almeno sino a quando la sua evidenza danzante e le recise affermazioni della stessa B., che tante volte ha dato di sé persino la definizione di `compositrice di danza’, per rimarcare l’importanza della musica e dell’ispirazione musicale nelle sue opere, hanno finito per convincere anche i più increduli della natura eminentemente coreografica, anche nell’uso del gesto teatrale e della parola, del suo ‘teatro totale’.

L’immagine dell’adolescente e timidissima Pina che trascorre i suoi giorni sotto i tavoli del ristorante del padre e ne osserva, in desolata solitudine, gli avventori (un flash che servirà poi per ricondurre a memorie personali il suo indiscutibile capolavoro del 1978: Café Müller) è la prima di un’agiografia che contempla pure lo sconforto della ballerina in erba dai piedi troppo lunghi (a dodici anni calzava già il 41) per calzare le scarpette a punta. Ma prima di entrare, quindicenne, alla Folkwang Hochschule di Essen, diretta da Kurt Jooss, allievo e divulgatore delle teorie e dell’estetica dell’Ausdruckstanz (danza espressionista) promulgata da Rudolf von Laban, la B. non aveva mai frequentato veri corsi di balletto o di danza; compariva assiduamente, però, nel teatro della sua città e ben presto ne divenne una comparsa, utilizzata in operette e piccoli ruoli e anche in serate di balletto. A Essen, dove ha la fortuna di studiare proprio con Jooss, si diploma nel 1959 e ottiene una borsa di studio dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (l’Organizzazione tedesca per i programmi di scambio accademico) che le consente di perfezionarsi negli Usa. A New York è `special student’ alla Julliard School of Music, dove studia, tra gli altri, con Antony Tudor, José Limón, Louis Horst e Paul Taylor; contemporaneamente entra a far parte della Dance Company Paul Sanasardo e Donya Feuer, creata nel 1957. Viene quindi scritturata dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera Ballet diretto da Tudor. Nel 1962 Jooss la invita a tornare in Germania e a diventare ballerina solista nel suo ricostruito Folkwang Ballet. Dopo l’elettrizzante esperienza americana, il nuovo impatto con la realtà tedesca è deludente. Il lavoro dei danzatori non è così approfondito e severo come a New York: la B. cerca partner infaticabili, che le somiglino, e inizia a collaborare con il danzatore e futuro maestro Jean Cébron che sarà suo partner nelle prime esibizioni italiane (al festival dei Due Mondi di Spoleto del 1967 e del ’69). Dal 1968 diviene coreografa del Folkwang Ballet e nell’anno successivo ne assume l’incarico di direttrice. Risale a quel periodo anche la creazione di Im Wind der Zeit (1969) che le vale il primo premio al Concorso di composizione coreografica di Colonia, seguito, tra gli altri lavori dell’epoca, da Aktionen fur Taumnzer (1971) e da Venusberg per il ‘Baccanale’ del Tannhauser di Wagner (1972). Nel 1973, su invito del sovrintendente Arno Wüstenhöfer, accetta la direzione della Compagnia di balletto di Wuppertal, ben presto ribattezzata Wuppertaler Tanztheater: i suoi primi collaboratori sono lo scenografo Rolf Borzik, scomparso nel 1980, e i danzatori Dominique Mercy, Ian Minarik e Malou Airaudo.

Nel 1974 crea la pièce Fritz (su musiche di Mahler e Hufschmidt), l’opera-ballo Iphigenie auf Tauris (riallestito nel 1991 all’Opéra di Parigi), la rivista Zwei Krawatten, il balletto su musiche da ballo e canzoni del passato Ich bring dich um die Ecke e Adagio-Fünf Lieder von Gustav Mahler : una danza sui Lieder mahleriani. Il 1975 è l’anno della realizzazione scenico-coreografica di Orpheus und Eurydike di Gluck, ricomposto nel 1992 e ammirato anche in Italia (Teatro Carlo Felice, 1994), e dell’importante trittico stravinskiano Frühlingsopfer (Wind von West, Der zweite Frühling e Le sacre du printemps ), seguito dalla prima svolta nella carriera dell’artista che coincide con un progressivo allontanamento dalle forme canoniche della coreografia, ben evidente in opere ormai di rilevante importanza storica, come Die sieben Todsünden su musica di Kurt Weill (1976), Blaubart, Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper”Herzog Blaubarts Burg”, su motivi dell’opera bartókiana Il castello del duca Barbablù , che nel 1998 affronta da regista, su invito di Pierre Boulez. E ancora Komm tanz mit mir (1977), una pièce accompagnata da antiche canzoni popolari, l’operetta Renate wandert aus (1977) e un originale adattamento del Macbeth shakespeariano ( Er nimmt Sie an der Hand und führt Sie in das Schloss, die anderen folgen, 1978). Gli allestimenti successivi al capolavoro Café Müller (quaranta minuti di danza su musica di Henry Purcell, per sei interpreti in tutto, tra cui la stessa coreografa che sino alla fine degli anni Novanta non accetterà più di comparire in scena) tengono conto soprattutto della scoperta del linguaggio, del verbo, della parola e di un’intera gamma di suoni originari, intesi come possibilità di articolazioni animali (ridere, piangere, urlare, sussurrare, tossire, piagnucolare) già sperimentata in Blaulbart : vero spettacolo di riferimento per il passaggio alla sua nuova `drammaturgia totale’. Proprio in questo spettacolo frantumato e elettrizzato dal fruscio delle foglie secche disseminate in scena, la coreografa inizia a mettere a fuoco un nuovo metodo di lavoro. Invece della tradizionale imposizione ai ballerini di movimenti e passi, si propongono dei `questionari’ scritti e orali ai quali la risposta potrà essere verbale o corporea. Istigando la sua troupe, la Pina Bausch finisce per sostituire le partiture e i testi drammatici (Stravinskij per il suo madido e furioso Sacre du printemps , Brecht per Die sieben Todsünden , Shakespeare per il già citato Macbeth del 1978, che ha il titolo di una lunga didascalia) con un variegato collage di risposte a domande quali: «Da piccolo avevi paura del buio?», «Cosa fai quando ti piace qualcuno?», «Qual è il tuo maggiore complesso fisico?». Il risultato eclatante della sovvertita pratica coreografica – come dimostra lo spettacolo 1980, Ein Stück von Pina Bausch – non consiste però solo nell’entrata in scena di urla, gesti sonori, canti, parole e musiche di riporto – tutte novità relative nella storia della danza, in specie per il ceppo espressionista, a cui Pina Bausch, con il tramite del suo maestro Jooss, ma anche nella progressiva demolizione del mito e dell’estetica tradizionale del ballerino. Trasformarlo in `persona’ che si muove in abiti quotidiani (giacca e pantaloni per i danzatori, sottovesti, ma soprattutto lunghi abiti da sera per le danzatrici) crea uno scandalo negli edulcorati ambienti del balletto europeo e costa a Pina Bausch accuse di volgarità e cattivo gusto germanici, specie da parte della critica americana, sbigottita di fronte al realismo del pianto delle sue danzatrici, e persino accuse di sadismo verso il vissuto interiore degli interpreti.

In Italia, spettacoli degli anni Settanta e Ottanta come Kontakthof del 1978 (incredula e ancora impacciata l’accoglienza al Teatro alla Scala nel 1983), Bandoneon, creato nel 1980, subito dopo un lungo soggiorno in Sud America e Auf dem Gebierge hat Man ein Geschrei gehört (1984) ottengono un riconoscimento ufficiale a Venezia, grazie a un’antologia della Biennale Teatro alla Fenice (1985). Prima di questa importante vetrina solo Café Müller e Keuschheitslegende (1979), entrambi presentati al Teatro Due di Parma nel 1981, con Nelken (1983), allestito nell’anno di nascita al Teatro Malibran di Venezia, avevano turbato, rapito e scosso il pubblico italiano. E mentre alcune opere importanti come Arien (1979) e Walzer (1982) attendono non solo una prima italiana ma di essere riallestite, la coreografa viene consacrata negli anni Novanta un po’ ovunque. Nelle sue pièce totali si scopre quanto abbia saputo dolorosamente scavare nella psiche del danzatore, restituendogli una gestualità senza maschere e una padronanza totale della scena. Errate interpretazioni del suo metodo di lavoro, come già si diceva, hanno tentato di accostarla al mondo del teatro di improvvisazione. In realtà, la B. ha sempre utilizzato a sua esclusiva discrezione i materiali espressivi dei ballerini, anche affidando il vissuto di un danzatore a un altro, come se avesse a che fare con semplici passi di danza e non con un frammento di vita: il piglio un poco dittatoriale – in lei sofferto e gentile – è quello tipico di molti coreografi. E coreografa alla potenza si è rivelata nel saper gestire il respiro scenico dell’universo dei suoi interpreti a cui è toccato ricostruire le anomalie del vivere sociale, l’irrisolta battaglia tra i sessi, lo sgretolamento dei valori più saldi della generazione successiva all’Olocausto, in un corollario di vizi e virtù umane del popolo tedesco ma non solo, esposte non senza una potente patina di divertimento e di ironia. Basti pensare alla creazione di quegli assolo, che restano a futura memoria nell’iconografia del suo teatrodanza, in cui l’invenzione gestuale è tanto minima quanto freschissima (in Nelken , Luzt Förster traduce con l’alfabeto dei sordomuti la canzone Someday he’ll come along e Anne-Marie Benati se ne sta sola, senza vestiti ma con un paio di mutande bianche e una fisarmonica al collo, nel campo di garofani che accoglie la pièce), o a quei trionfali `passi à la Bausch’, ritmati e a larghe volute, con i quali ha tanto spesso spedito (come in 1980 , morbido ma agrodolce party dal sapore hollywoodiano) i suoi fedelissimi tra il pubblico, in una manovra di avvicinamento alla non-fiction sempre più insistita e fisica. Nell’arco creativo che corre da 1980 a Palermo, Palermo , lo spettacolo sontuoso e degradato, allestito nel 1991 sul campo degli scempi siciliani (si assiste al crollo di un muro che inevitabilmente evoca quello di Berlino) la B. ha indubbiamente creato il suo teatrodanza maggiore. E si è concessa poche libertà d’autore: il vezzo molto tedesco di definire Stücke , ossia `pezzi’, tutte le sue opere collettive, come schegge romantiche della sua fantasia musicale, e l’altro vezzo del viaggio goethiano, esotico e ricognitore, tuttora inarrestabile. La creazione a getto continuo di scenografie vive e naturali (di Rolf Borzik, prima, e di Peter Pabst, poi) ha contribuito a alimentare la trasognata spettacolarità degli Stücke sempre vestiti della prediletta costumista Marion Cito.

L’acquario con veri pesci fluttuanti e la serra di piante grasse di Two Cigarettes in the Dark (1984), la terra che dall’alto cade nella fossa `romana’ di Viktor , lo spettacolo creato nel 1986 e dedicato alla città caput mundi ; il deserto punteggiato di grandi tronchi spinosi e ingombranti di Ahnen (1987) come l’acqua che ostacolava le disperate corse di Arien e il prato profumato di 1980 , hanno di volta in volta preservato la sua inventiva dal pericolo di reiterare la formula-cliché deflagrata e a frammenti del suo teatrodanza. Nello spettacolo Danzon (1996) la scena proiettata e a `cartoline illustrate’ di Peter Pabst indica un momentaneo allontanamento dagli elementi vivi della natura a lei cara: tra pesci tropicali che scorrono in immagini filmiche torna a danzare, con le sue braccia morbide e tormentate, la stessa B., sublime e decorativa mentre saluta il pubblico alzando una mano. Due episodi cinematografici, come la partecipazione, nei panni di una contessa non vedente nel film E la nave va di Federico Fellini e la confezione del lungometraggio Die Klage der Kaiserin (1989), in cui l’influenza felliniana e l’impianto visionario non giungono però a comporsi in un ritmo narrativo efficace e serrato, non la distolgono dal proseguire il suo viaggio goethiano alla scoperta di paesi e città del mondo. Dopo Roma e Palermo, le nuove tappe sono Madrid ( Tanzabend II , 1991), Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona. Nascono il californiano Nur Du (1996), il cinese Der Fensterputzer (1997), concepito nel momento della cessione di Hong Kong alla Cina e il portoghese Masurca Fogo (1998): tre spettacoli ‘leggeri’, più corti e rapidi di quelli storici degli anni Ottanta (spesso condotti oltre il limite delle tre ore), con ritmi incalzanti e musiche a collage, sempre festose. La nuova risorsa della coreografa di Wuppertal è infatti la riscoperta della danza pura – il tango di Nur Du , il folklore rivisitato di Danzon, le ammalianti passerelle di Masurca Fogo – nell’utilizzo di danzatori sempre nuovi ai quali sembra però assai più difficile poter sottoporre i `questionari’ del suo metodo, così adatto a generazioni di ballerini a lei coetanei ma forse sprecato per le generazioni danzanti telematiche e cibernetiche, alle quali non a caso assegna sempre più spesso ruoli muti e di puro movimento nel confronto ancora strettissimo con i grandi e riconoscibili interpreti del Wuppertaler Tanztheater che non l’hanno abbandonata (oltre a Minarik e a Mercy, l’attrice Mechthild Grossmann).

Nato negli anni Settanta, come il cinema neorealista a cui fu strettamente legato, sullo sfondo di una cultura tedesca disposta a mettersi in crisi, il teatrodanza di Pina Bausch si deve considerare un edificio storico che funge da spartiacque: esiste infatti un teatrodanza precedente alla B. e di origine tedesca, che non ha mai ottenuto il successo e il riconoscimento di quello bausciano, mentre la coreografa ha fatto tesoro sia dell’insegnamento di Jooss che di quello di Tudor (il maestro del balletto psicologico ), andando a influenzare le arti limitrofe, come il teatro a cui ha svelato la portata dell’eredità di danza e balletto, nel segno di un neo-espressionismo che non ha certo esaurito la sua funzione estetico-artistica-sociale, anche se fatica a superare le modalità compositive spledidamente cristallizzate dalla coreografa. Esemplare resta il suo lascito coreutico in opere come Le sacre du printemps e Café Müller , in cui la tecnica coniuga i fondamenti della danza libera nell’utilizzo espressivo soprattutto degli arti superiori. Nel teatrodanza della B. il corpo del danzatore necessita di una formazione accademica – frequente l’uso di figure tipiche del balletto ( arabesque, attitude ) e di pirouettes – anche se nel suo irrinunciabile avvicinamento alla vita la coreografa rompe continuamente la prigionia dei codici o vi fa ritorno per paradosso, in episodi, spesso ironici, di riflessione sulla danza stessa e sulla fatica di danzare, che costituiscono uno dei leitmotive non secondari della sua coreografia ‘totale’.

Bertini

Una delle prime grandi dive del cinema italiano, Francesca Bertini esordisce giovanissima in teatro: sembra già nel 1899 al Teatro Nuovo nella compagnia di Serafino Renzi con il nome di Franceschina Favati o, secondo altri, nel 1904, sempre al Nuovo, come Cecchina (Checchina) Francesca Bertini, ma la sua carriera è tutta cinematografica. Ugualmente incerto l’esordio sul grande schermo che, per l’attrice, risalirebbe al 1908, con La dea del mare , mentre per altri (Prolo, Falena) al 1910 con Il Trovatore . Prima apparizione certa della B. è con Il pappagallo della zia Berta (1912, Prod. Celio), ma in L’histoire d’un Pierrot (1913, Prod. Celio, regia di Negroni) si evidenzia la maschera tragica che avrebbe reso celebre Francesca Bertini Il passaggio dell’attrice alla casa di produzione Caesar dell’avvocato Barattolo, ne fa una diva: grazie a una potente campagna pubblicitaria che la attira all’attenzione del pubblico e della stampa. Francesca Bertini si impone come stella in film come Nelly la gigolette (1914) e, soprattutto, Assunta Spina dal testo di Salvatore Di Giacomo (1915, regia di Gustavo Serena). Già dal 1916 la recitazione della B. si caratterizza in stilizzazioni dalla forte impronta decadente tipica del dannunzianesimo del tempo (ad esempio Fedora , 1916). In seguito ai suoi successi nel 1918 viene fondata la Bertini Film, casa di produzione che, però, non ebbe grande fortuna. La B. assume, quindi, il ruolo di donna bella, fatale ed ambigua in pellicole come La donna nuda (1918), La piovra , Serpe , I sette peccati capitali (1920-21), che furono però degli insuccessi commerciali e che portarono al mancato rinnovo del contratto della B. con la Caesar di Barattolo. Dopo aver sposato il conte Paolo Cartier, la B. lavora in Germania, Francia e Spagna (fino agli anni Cinquanta in La dama dalle camelie , Tosca) e le sue apparizione cinematografiche si fanno sempre più rare (compare, ad esempio, in Novecento , 1976, di B. Bertolucci).

Benni

La vena surreale e l’istintiva predisposizione a cogliere il lato assurdo della vita diventano nell’opera di Stefano Benni i ponti per aggredire, malinconicamente, le contraddizioni della realtà contemporanea. L’approdo al teatro, dopo quello alla narrativa, risulta dunque un naturale sbocco della sua creatività, fortemente incline alla `socializzazione’. Gli spettacoli da ricordare sono Gran Caffè Italia (in collaborazione con M. Moretti e M. Mirabella, Spoltore, 1986), Le visioni di Mortimer. Ovvero: la passione secondo Gualandi (scritto assieme a Paolo Rossi e Riccardo Piferi, 1989); La signorina Papillon (nel paese dei brutti sogni) , diretto dallo stesso Benni a Roma nel 1992; Corpo insegnante (in collaborazione con Lucia Poli) Roma, 1992; Ballate!, con regia di Roberto Tarasco (Settimo Torinese, 1992); La moglie dell’eroe , regia di L. Poli (Roma, 1994); La misteriosa scomparsa di W ., regia di Ruggero Cara (Milano, 1994); L’isola degli Osvaldi , adattamento da Stranalandia e regia di G. Gallione (Genova, 1995); Amlieto. Il principe non si sposa, sempre con la regia di Gallione (Longiano, 1996). Lucia Poli, all’interno dello spettacolo Bestiacce, Bestioline ha incluso il monologo Topastra (Abano Terme 1996). Del 1997 è, infine, Blues in sedici.

Banfi

Primo nome d’arte fu Lino (diminutivo di Pasquale) Zaga (cognome accorciato). Su indicazione di Totò, che riteneva malaugurante un cognome mutilato, Zaga venne sostituito da Banfi, pescato a caso in un registro di alunni da un insegnante nonché impresario d’avanspettacolo e marito di soubrette. Nato ad Andria e cresciuto a Canosa, sempre in provincia di Bari, Lino Banfi ha affidato e affida le risorse della sua comicità irruente e immediata a quel dialetto pugliese che divarica e stravolge le vocali, ereditando così un linguaggio portato al successo, sullo schermo e in palcoscenico, negli anni ’40-50 dal caratterista Guglielmo Inglese. Esordì come cantante di feste musicali e attore di fotoromanzi (vinse in gioventù un concorso di bellezza e fotogenia…). Poi, a diciotto anni, nel 1954, tentò senza fortuna, a Milano, l’avventura in teatro di varietà. Patì fame vera, se (lo scrive nel volume autobiografico Alla grande! , 1991) all’epoca si fece ricoverare in ospedale per farsi togliere le tonsille, pur di procurarsi per qualche giorno un letto e un pasto. Si trasferì a Roma nel ’57 e qui cominciò la carriera di comico di spettacoli di varietà: quattordici anni di avanspettacolo, in compagnie di `scavalcamontagne’, cioè sempre in disagiate tournée: formazioni composte da comico, soubrette, ‘spalla’ solista (cantante o virtuoso di qualche strumento, tromba o armonica o batteria) e infine ‘dodici belle gambe dodici’, il balletto. Per molti anni, impegnato solo negli ‘spezzati’: cioè nelle recite di fine settimana, il venerdì e il sabato tre rappresentazioni incastrate tra le proiezioni di un film, e la domenica ben quattro recite. Lino Banfi rievocherà efficacemente quel mondo interpretando, nella stagione 1993-94, la rivista Arcobaleno , scritta con Dino e Gustavo Verde e allestita dal coreografo Gino Landi; nel cast, Angiolina Quinterno e Gian (Gianfabio Bosco), anch’egli vecchia gloria, in coppia con Ric (Riccardo Miniggio), dell’avanspettacolo. Di notevole intensità è la sua interpretazione di Vespro della Beata Vergine di Antonio Tarantino diretto da Chérif (1995). Dopo il teatro e il cabaret, B. è diventato un personaggio della televisione, nel ruolo di conduttore di programmi di vasta audience, da Risatissima (1985) a Stasera Lino (1988), a Il Caso Sanremo (1990), con Renzo Arbore. Ha girato molti film `serial’, un mix di comicità e sexy, avendo come partner Edwige Fenech e altre maggiorate. Nel film Vieni avanti, cretino! (incipit delle scenette con i fratelli De Rege), diretto da Luciano Salce, ha rievocato con l’affetto della memoria la sua milizia sulle passerelle dell’avanspettacolo.

Beltrami

Studia danza classica con Rosella Hightower e moderna con Alwin Nikolais e alla Martha Graham School, approfondendo lo studio della tecnica di Merce Cunningham. Dal 1985 si dedica all’ insegnamento e alla coreografia, sperimentando il rapporto espressivo tra voce e movimento in lavori come Fuga in valzer (1986), Dressoir (1987), Sopra un picco in Darien (1988), cui seguono alcune creazioni ispirate ad una rilettura del teatro danza spagnolo come El amor brujo (1989), Diablo , Storia Flamenca (1990), Blu Diablo (1995). Crea inoltre Hiatu Meju (1997) per gli allievi danzatori della Scuola d’arte drammatica `P. Grassi’ di Milano.

Belasco

Figlio d’arte, iniziò la carriera a San Francisco come attore e direttore di scena, spostandosi poi nel 1882 a Broadway (dove dal 1910 un teatro porta il suo nome). Scrisse, quasi sempre in collaborazione con altri e spesso adattando opere narrative, una settantina di copioni, ma ebbe soprattutto il merito di adattare le tecniche della messinscena naturalistica europea ai melodrammi sentimentali, che costituivano il grosso dei suoi repertori, e di utilizzare fra i primi la luce elettrica per la creazione di atmosfere. Fra i suoi successi d’autore, oggi del tutto dimenticati, si possono citare La ragazza che mi sono lasciato alle spalle (The Girl I Left Behind Me, 1893), La prediletta degli dei (The Darling of the Gods, 1902), La strada più facile (The Easiest Way, 1909), The Return of Peter Grimm (1911), nonché Madame Butterfly (1900) e The Girl of the Golden West (1905), che sopravvivono per aver ispirato i libretti di due opere di Puccini.

Baghetti

Dopo il tirocinio in diverse filodrammatiche, fece parte, in qualità di generico, di formazioni di primaria importanza (la Mauri al Teatro Manzoni di Roma, la Paladini Iggius, la Reinach-Pieri, la Tovagliari-Carloni-Pezzinga). Nel 1907 fu accanto a Teresa Mariani diretto da Vittorio Zampieri, poi da Oreste Calabresi, che fu il suo maestro. Nel 1912 recitò con la Reiter-Carini. Nel 1915 Ermete Novelli lo volle nella compagnia Fert e nel 1917 entrò in ditta con Carini-Gentilli-Dondini allo Stabile di Genova. Nel 1919 iniziò la sua attività di capocomico accanto a Giuseppe Sichel, Ermengilda Zucchini Majone e Giannina Chiantoni, formando una compagnia specializzata nella pochade francese che B. condusse fino al 1933 con alterna fortuna. In seguito lavorò con Antonio Gandusio (1934), Febo Mari (1937), Elsa Merlini e Sandro Ruffini (1939). Tra le sue migliori interpretazioni ricordiamo Madame Sans-Gêne di V. Sardou, Piccolo caffè di T. Bernard, L’asino di Buridano di R. de Flers e A. de Caillavet, Così è (se vi pare) di L. Pirandello.

Bale

Figlio del noto domatore Trevor, negli anni ’70 Elvin Bale riporta in auge l’estetica del numero acrobatico ad alto rischio. È uno dei pochi artisti circensi americani ad esibirsi in Russia prima della perestrojka. Per lunghi anni si esibisce nella pista centrale di Ringling Bros. and Barnum & Bailey. In Italia è ingaggiato al Circo Americano. Al festival del Circo di Montecarlo conquista nel 1976 il Clown d’oro e nel 1979 quello d’argento. Fra i suoi numeri più apprezzati quello del trapezio con le prese ai talloni, della ruota della morte e dell’uomo proiettile, nello stile degli Zacchini. Nel 1986, un incidente durante lo svolgersi di quest’ultimo esercizio, lo costringe sulla sedia a rotelle ed al ritiro dalla carriera.

Bruhn

Erik Bruhn studiò dal 1937 presso la scuola del Balletto Reale Danese, per entrare in seguito nella compagnia (1947) della quale divenne solista due anni dopo. Fra i più importanti complessi dei quali fu ospite, l’American Ballet Theatre, il National Ballet of Canada, il New York City Ballet, il Royal Ballet di Londra, l’Harkness Ballet e il Ruth Page Ballet: in queste compagnie ottenne i più brillanti successi della sua carriera. Dal 1967 al ’71 è stato direttore del Balletto Reale Svedese, poi anche direttore associato del National Ballet of Canada per la cui compagnia allestì La Sylphide (1965), uno dei suoi cavalli di battaglia, Il lago dei cigni (1966) e Coppélia (1975); più tardi ne divenne direttore artistico (1983-86).

La fama di Erik Bruhn è dovuta soprattutto alla purezza e allo stile della sua tecnica; suo merito principale, la riproduzione dei classici del repertorio, con particolare riguardo a quelli appartenenti al coreografo August Bournonville (1805-1879), autentico patrimonio danese nel campo del balletto, del quale B. fu interprete tra i più accurati e attendibili. Se ne ebbe testimonianza nel 1966, al Teatro dell’Opera di Roma, quando realizzò La Sylphide di Bournonville, interpreti C. Fracci e R. Nureyev. Nel repertorio moderno si distinse soprattutto nel ruolo di Jean in Signorina Giulia di Birgit Cullberg, e nel Don José della Carmen di Roland Petit. Pochi altri balletti di rilievo del repertorio contemporaneo affrontati da B. sono degni di nota, mentre si continuano a ricordare le sue prestazioni di danseur noble, fra le quali eccelle l’Albrecht di Giselle, fortunatamente consegnato al video accanto alla Fracci. Ha collaborato con Lilian Moore al libro Bournonville and Ballet Technique (Londra 1961).

Biagi

Studia con Maria Molina e Ugo Dell’ Ara, per entrare nel 1958 al Teatro alla Scala e due anni dopo al Ballet du XXème siècle di Maurice Béjart. Nei sei anni di permanenza nella compagnia danza in numerose creazioni, dedicandosi lui stesso alla coreografia ( Jazz Impressions 1964, Walpurgis Nacht 1965). Direttore del balletto dell’Opéra di Lione dal 1969 al 1977, crea molte opere di impianto corale, su tematiche epiche e universali, come Alexander Nevskij (1970), Settima sinfonia di Beethoven (1971), La Passion selon St. Jean (1974), La Divina Commedia (1976). Direttore dell’Aterballetto nel 1977-78, nel 1979 fonda la compagnia Danza Prospettiva, per la quale continua a concepire opere ricche di enfasi ( Leonardo o il potere dell’uomo , 1981). Direttore del Corpo di ballo del Massimo di Palermo nel 1983-84, poi associato al Nuovo Balletto di Roma, collabora anche con altre formazioni ( La Marchesa von O . per Oriella Dorella e il Teatro San Calimero, 1996).

Balletto Reale Svedese

La fondazione della compagnia Balletto Reale Svedese risale al 1773, quando fu inaugurato il nuovo teatro dell’Opera di Stoccolma. L’incarico di maître de ballet fu affidato al francese Louis Gallodier, ruolo ricoperto in seguito anche da Filippo Taglioni (1818). Nella seconda metà dell’Ottocento, la compagnia ebbe un certo declino con qualche cenno di ripresa nel 1913, quando M. Fokine allestì a Stoccolma alcuni suoi balletti. Un vero impulso alla compagnia è venuto però solo negli anni ’50, quando è stata diretta da A. Tudor (1950-53). Il repertorio comprende coreografie di L. Massine e J. Kylián, della svedese B. Cullberg di J. Limón e J. Robbins. Attualmente è diretto da Frank Andersen.

Busch

Dopo aver studiato canto e recitazione Ernst Busch viene assunto nel 1921 dal Teatro comunale di Kiel. Dal 1924 al 1926 lavora a Francoforte, l’anno seguente alla Landesbühne della Pomerania e, fra il 1927 e il 1932, alla Volksbühne di Berlino, con Erwin Piscator, nella messa in scena di opere quali Oplà, siamo vivi! di E. Toller (1927) e Judas di R. Schenk (1928). Lavora anche nell’ambito del cabaret, in particolare su canzoni di H. Eisler, e nel cinema. Nel 1933 emigra dapprima in Olanda, poi in Belgio e a Londra; vive e lavora per due anni nell’Unione Sovietica e nel 1937 si reca in Spagna come combattente nella guerra civile. Nel 1938 è in Belgio, ma due anni dopo è fatto prigioniero in un campo di concentramento francese e dal 1942 al 1945 nelle carceri tedesche, accusato di istigazione all’alto tradimento per aver diffuso, attraverso l’esecuzione di canzoni, il comunismo in Europa. Alla fine la sua pena viene ridotta a una detenzione di quattro anni. Nel 1946 riprende il suo lavoro di attore a Berlino, allo Hebbel Theater e al Theater am Schiffbauerdamm; dopo il 1951 recita al Deutsches Theater nel ruolo di Mefistofele nel Faust , al Berliner Ensemble in ruoli come quello di Semën Lapkin in La madre , di Koch in Madre Coraggio e di Azdak in Il cerchio di gesso del Caucaso.

Barnes

Peter Barnes approda al palcoscenico alla fine degli anni’70, in ritardo rispetto ai contemporanei Orton e Pinter, con commedie politicamente impegnate nell’intento di produrre un teatro che abbia un impatto diretto sulla realtà. Debutta nel 1965 con Sclerosi (Sclerosis), farsa convenzionale sul colonialismo britannico, ma il suo particolare stile comico, che combina un umorismo macabro ad effetti gotici e ad aspre parodie punteggiate da violenti scarti, si dispiega nel suo secondo testo La classe dirigente (The Ruling Class, 1968), ritratto parodico dell’alta società inglese influenzato da Orton che ottiene un forte successo.

Nei lavori successivi seleziona tematiche morali e storiche per le sue `black comedies’: la successione spagnola in Gli stregati (The Bewitched, 1974), l’olocausto in Riso (Laughter, 1978), la peste in Nasi rossi (Red Noses, 1985). Ribaltando l’assunto bergsoniano secondo cui la base della commedia è la percezione dell’incongruo, nei suoi lavori l’incongruo nega la validità del riso per generare la percezione.

Iconoclasta e provocatore, Barnes individua come suoi modelli: il teatro giacobino, Ben Jonson, l’espressionismo tedesco e Frank Wedekind. Con la fusione degli opposti a livello tematico come in Declini e glorie (Sunsets and Glories, 1990) ambientato nel Medioevo, e la giustapposizione di tecnique formali discordanti, il teatro di B. è spesso un vero e proprio catalogo di violenze e torture messe in scena come forme di protesta contro lo status quo; periodi storici oscuri fanno da sfondo a società dove gli dei sono interscambiabili con i diavoli e dove l’ultima indegnità è trattare la sofferenza con ironia: tra i suoi personaggi solo gli inumani, gli imbecilli o i folli sopravvivono.

Baliani

Formatosi nell’ambito dell’animazione teatrale e del teatro-ragazzi, Marco Baliani fonda nel 1975 il gruppo Ruotalibera insieme a Tiziana Luccattini e Maria Maglietta con cui produce fra l’altro Rosa e celeste (1983) e Oz (1986). Nel 1991 costituisce con M. Maglietta (sua moglie e stretta collaboratrice), la compagnia Trickster-Bricconi Divini e realizza due anni dopo Piccoli Angeli (premio Stregagatto) in cui la poetica delle piccole cose s’intreccia con un sguardo attento alla dolente marginalità dei vinti. A partire dal 1988 inizia ad approfondire la ricerca sulla narrazione orale e realizza come attore-narratore Storie (1989), Kohlhaas da Kleist (in collaborazione con Remo Rostagno, 1990), spettacolo esemplare sia sul piano attorale che drammaturgico, Frollo (1993) e Tracce (1996), sorta di conferenza narrativa sui temi dello stupore e dell’incantamento. La ricerca sulla narrazione porta B. regista a sviluppare anche negli spettacoli con più attori – fra gli altri il bellissimo Corvi di luna da Calvino (1989), Memoria del fuoco da Galeano (1992), Peer Gynt di Ibsen (1995), Migranti , collage di storie sul Mediterraneo (1996), Gioventù senza Dio di Horváth (1997) – un impianto drammatico epico-corale e una metodologia di lavoro attorale centrata sull’ascolto e sulla costituzione di un ensemble unitario, capace non tanto di interpretare quanto di fare esperienza e contribuire creativamente, attraverso l’azione fisica e il racconto, alla `mappa drammaturgica’ fatta di situazioni, azioni, canti, movimenti coreutici, narrazioni che costuisce gli spettacoli del regista-drammaturgo. All’attività registica B. unisce per lungo tempo quella di formatore dapprima in ambito educativo – proprio dal lavoro di animazione narrativa con gli insegnanti nasce la pubblicazione Pensieri di un raccontatore di storie – e poi prevalentemente in quello teatrale con la realizzazione del progetto formativo (1996, 1997, 1998) I porti del Mediterraneo , affidatogli dall’Ente Teatrale Italiano, e condotto con un gruppo internazionale di giovani attori. Conessi a una poetica della memoria e a una costante riflessione sulla crisi del tessuto politico e civile sono Antigone delle città (1991 e 1992), azione teatrale corale nelle piazze di Bologna per l’anniversario della strage, la trilogia realizzata nei forti del Trentino sulle vicende della Grande guerra, tra cui Come gocce di una fiumana (1994), e il racconto autobiografico della generazione extraparlamentare del delitto Moro in Corpo di stato (nato come progetto televisivo ideato e curato da Felice Cappa per Rai due, trasmesso in diretta il 9 maggio 1998, regia teatrale Maria Maglietta, regia televisiva Eric Colombardo).

bharata natyam

Danzato in origine dalle sacerdotesse dei templi ( devadasi ) e sviluppatosi in connessione col culto shivaita, godette presto del favore delle corti ed è giunta ad oggi senza soluzione di continuità. Con tutti gli stili di danza del Sud, condivide la forma geometrica romboidale della postura fondamentale (gambe flesse, ginocchia aperte, del tutto assente negli stili del Nord) e la bipartizione in nritta (danza pura) e nritya (danza espressiva). La prima, più strettamente legata ai tala (strutture ritmiche basilari della musica indiana), fa appello al virtuosismo di passi e gesti, in un crescendo ritmico sempre più complesso e serrato. La nritya si basa su un linguaggio complesso ed altamente stilizzato, in cui entro l’inquadramento ritmico dei tala , si svolge l’ abhinaya (recitazione), ossia una traduzione gestuale ed espressiva di un testo. Codificata puntigliosamente dagli antichi trattati (soprattutto il Natya Sastra e l’ Abhinaya Darpana ) la recitazione in tutto il teatro indiano è arte totale, che coinvolge corpo ( angika ), voce ( vacika ), costume e trucco ( aharya ) e l’elemento psicologico o il contenuto interiore ( satvika ). Nel b.n., secondo gli antichi trattati, «i piedi tengono il ritmo, le mani raccontano la storia, il volto esprime le impressioni e le reazioni alla storia raccontata dalle mani», mentre il testo è affidato alla voce del cantante, che siede a lato della scena con gli strumentisti (al minimo, un tamburo e uno strumento a corde, in genere anche un flauto e cembali). Le mani raccontano grazie agli hasta , un vero e proprio vocabolario gestuale, ma non meno stilizzate sono le espressioni del volto. Attualmente, uno spettacolo di b.n. è strutturato in una serie di brani, i primi più chiaramente devozionali e i successivi alternativamente di danza pura e narrativa.

Bigonzetti

Formatosi alla Scuola dell’Opera di Roma, dopo aver danzato in quella compagnia nel 1982 Mauro Bigonzetti entra nell’Aterballetto, dove si impone per l’energica personalità e la brillantezza tecnica. Nel 1990 debutta nella coreografia con Sei in movimento , cui fanno seguito molte produzioni per Aterballetto (Pitture per Archi, 1992), Teatro alla Scala (Foreaction, 1993), Opera di Roma (Coppélia, 1994) e Balletto di Toscana, per il quale crea Turnpike (1991), Mediterranea (1993), Pression (1994), Voyeur (1995), Il mandarino meraviglioso e Don Giovanni (1996). Intensa è l’attività di coreografo ospite di compagnie internazionali, per cui allestisce X.N.tricities (English National Ballet, 1993), Interferences (Ballet du Capitole, 1995), Sinfonia Entrelazada (Julio Bocca Ballet Argentino, 1996), Kasimir’s colours (1996) e Quattro danze per Nino (1998) per lo Stuttgart Ballet; nel 1997 assume inoltre la direzione artistica dell’Aterballetto e produce Songs, Persephassa e Comoedia prima parte di una trilogia ispirata alla Divina Commedia (1998). È autore di una danza ricca di energia, dinamica e di complessa e spettacolare costruzione, nella quale sviluppa creativamente il linguaggio neoclassico.

Bart

Dopo aver frequentato la scuola di ballo dell’Opéra di Parigi, Bart  Patrice nel 1963 è entrato a far parte della compagnia. Nel 1969, anno in cui vince anche il premio R. Blum ed è medaglia d’oro al concorso di Mosca, diventa primo ballerino; nel 1977, dopo l’interpretazione di Il lago dei cigni , è promosso étoile. Dotato di splendida tecnica, eccellente nei ruoli classici, ha brillato anche in lavori di Lifar (Constellation), Petit (Mouvances), MacMillan (Métabolose), dimostrandosi ottimo danzatore di carattere. La sua profonda conoscenza del repertorio classico, da Coppélia a La vivandière , gli ha permesso di diventare maître de ballet all’Opéra prima ancora del suo ritiro dalle scene (1989). Del balletto dell’Opéra diventerà anche direttore associato (1990) e collaborerà con Nureyev a rimontare storici balletti (La bayadère , 1993). Da allora si dedicherà, in vari grandi teatri (Scala compresa), a rimontare i capolavori del passato.

Ballets Russes

Incoraggiato dal successo delle esposizioni parigine di pittori russi, di musica russa e di opere liriche russe, Diaghilev decideva di portare nella capitale francese una compagnia costituita di ballerini scelti fra i migliori elementi dei due teatri: il Bol’šoj moscovita e il Marijinskij pietroburghese. L’esordio avveniva la sera del 18 maggio 1909 al Théâtre du Châtelet con il seguente programma (che doveva ripetere poi molte altre volte): Le Pavillon d’Armide, le Danze Polovesiane da Il principe Igor di Borodin e Le Festin con musiche di autori vari. Un avvenimento per la singolarità e l’eccezionalità del procedimento teatrale: tre balletti anziché un ‘ballo grande’ che occupasse l’intera serata, alla maniera ottocentesca. Diaghilev si rese subito conto che di lì era nato il balletto moderno. Il gioco era fatto e con esso la compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev con spettacoli anche a Londra e poi a Montecarlo ove si stabilì. La prima guerra mondiale tagliò Diaghilev fuori dalla Russia ma le tournée europee continuarono e la compagnia poté effettuare anche un viaggio negli Usa (1916-17). Anni duri, difficili per ragioni finanziarie ma Diaghilev riusciva a riemergere ogni volta e a riottenere scritture per la sua compagnia. I più grandi artisti del momento da Cocteau a Picasso, da Stravinskij a Fokine, da Massine a Balanchine, dai due fratelli Bronislava Nijinska e il fragile Vaslav Nijinskij riuscirono, nella completa fusione delle espressioni, a creare qualcosa di memorabile e di duraturo che viaggiò per i cammini del mondo e che, con il passare del tempo, non si disperse ma si rinforzò grazie alla forza, alla bontà dell’ispirazione.

Si potrebbero classificare con i nomi dei vari coreografi le fasi della compagnia: Fokine (1909-12 e 1914); Nijinskij (1913); Massine (1915-1920 e 1925-1928); Nijinska (1922-1926); Balanchine (1926-1929). Quindi anche un periodo russo, un altro francese, ancora un altro delle avanguardie storiche con il quale prematuramente si chiuse un ciclo utile al rinnovamento della danza d’arte, alla perfetta fusione degli elementi artistici arrivando così al vagheggiato balletto moderno. Fra i ballerini si leggono i nomi di Pavlova, Karsavina, Nijinskij, Nijinska, Mordkin, Bolm, Spessivtseva, Danilova, Dolin, Lifar, Balanchine. Alcuni ballerini hanno fatto fuggevoli apparizioni legati ad una sola stagione ma ugualmente prestigiosi: Ida Rubinstein, Lopokova, Nikitina, Nemcinova, Zvereff, Massine, Vilzak ed anche il nostro illustre Cecchetti in qualità di mimo, inoltre due `sergenti di ferro’ Ninette de Valois e Marie Rambert passate poi alla guida di due singole compagnie, in questo caso come dire due filoni distinti nell’ampio panorama del balletto classico che si rinnova e della danza moderna che fa (con la Rambert) un non certo timido capolino. Due figure s’impongono: Sergej Grigoriev, direttore artistico e Enrico Cecchetti, maître de ballet. Ci sono poi i quadri della musica e della pittura scenografica ricchi di artisti che dovevano, in seguito, con il loro solo nome riempire le cronache e le critiche di una buona metà del secolo ventesimo: fra i primi Stravinskij, Debussy, Ravel, R. Strauss, Satie, Falla, Respighi, Prokof’ev, Poulenc, Milhaud, tutti compositori di partiture espressamente scritte per il balletto e per Diaghilev; fra i secondi i due maghi della scenografia ballettistica Benois e Bakst, poi Golovine, Roerich, Serov, Sert, Larionov, Goncarova, Balla, Picasso, Braque, Derain, Matisse, Gris, Laurencin, Utrillo, M. Ernst, Mirò, de Chirico, Rousault. Basterebbe scorrere il libro di Grigoriev: The Diaghilev Ballet 1909-1929 (Londra, 1953) per rendersi conto dell’imponenza e della rarità dell’impresa, secondo lo stesso Grigoriev per un totale di sessantotto produzioni molte delle quali ancora oggi in circuito nel mondo intero. Citiamo per lo meno: Le spectre de la rose , Les Sylphides , Petruška , Daphnis et Chloé , Josephslegende , L’après-midi d’un faune , Jeux , Le sacre du printemps , Parade , La boutique fantasque , Il cappello a tre punte (Le tricorne), Pulcinella , Les noces , Les biches , Apollon Musagète , Le fils prodigue ma l’elenco completo delle produzioni è riscontrabile sia nel numero di gennaio 1972 della rivista “Les Saisons de la danse” che nel catalogo della Mostra del centenario diaghileviano Ricordo di Diaghilev al Museo Teatrale alla Scala di Milano e al Teatro La Fenice di Venezia (marzo-aprile 1972).

Brogi

Dopo aver interrotto gli studi, si afferma presto in teatro, cinema e televisione (diventa popolare con lo sceneggiato Eneide nel ruolo del protagonista). Si è dichiarato «allievo di Diderot, autore del Paradosso dell’attore , più che di Stanislavskij». Se gli anni ’50 e ’60 lo vedono diviso tra Shakespeare e Goldoni (anche nel ruolo di Arlecchino), diretto da Squarzina, Strehler, Zeffirelli e Fo ( Gli arcangeli non giocano a flipper , Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri ), le sue interpretazioni recenti più note vanno da Il bacio della donna ragno di M. Puig (regia di M. Mattolini, 1980) a Jago per l’ Otello di Gassman nella stagione 1981-82. È Baal di Brecht, con la regia di R. Guicciardini, nel 1986 e poi torna a Shakespeare con Misura per misura nel 1987, con la regia di J. Miller. Tra le interpretazioni dell’ultimo decennio: D’Annunzio ( La città morta , con Alida Valli, e La nave , nel 1989, regia di A. Trionfo); Shakespeare ( Falstaff ), Moravia ( Il diavolo non può salvare il mondo , regia di G. Zampieri), J. Grack ( Il re pescatore , regia di K. Zanussi, al festival di San Miniato), G. Bufalino ( Le menzogne della notte con la regia di G. Ferro).

Bulgakov

Laureatosi in medicina a Kiev, Michail Afanas’evic Bulgakov inizia la sua attività letteraria negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre (a cui aderisce con molte perplessità) con articoli, feuilletton, brevi racconti satirici sulla nuova realtà ancora molto confusa. Trasferitosi a Mosca, abbandona la medicina per dedicarsi interamente alla letteratura: pur continuando l’attività pubblicistica, scrive il primo romanzo, La guardia bianca (1924), sul drammatico periodo che precede la presa di potere dei bolscevichi a Kiev nel 1918. Del romanzo, su richiesta di Stanislavskij, fa una riduzione teatrale, I giorni dei Turbin (1926), messa in scena al Teatro d’Arte tra molte difficoltà dovute a continui veti della censura, irritata dal tono troppo nostalgico dei protagonisti nei confronti del regime zarista.

L’enorme successo dello spettacolo spinge Bulgakov a continuare l’attività drammaturgica: del 1926 è la commedia L’appartamento di Zoja (Teatro Vachtangov), satira dei ‘nuovi ricchi’ del periodo della NEP (Nuova Politica Economica), del 1927 è La fuga, dramma sull’esodo dei controrivoluzionari verso Costantinopoli, del 1928 L’isola purpurea, contro lo strapotere dei censori teatrali. La reazione dei burocrati di partito è immediata, violenta: uno dopo l’altro i testi di Bulgakov vengono vietati e tolti dal repertorio dei teatri. Nel 1930 Bulgakov scrive una lettera direttamente a Stalin, dove fa presente la sua disperata situazione di ‘emigrato interno’, l’impossibilità di proseguire il suo lavoro di scrittore. Ottiene un posto di collaboratore al Teatro d’Arte, dove lavora dal 1930 fino alla morte come consulente letterario e aiuto regista. All’interno del Teatro d’Arte continua la sua attività di drammaturgo in due direzioni: da un lato riduzioni teatrali di opere letterarie (Anime morte di Gogol’, Don Chisciotte di Cervantes, Guerra e pace di Tolstoj), dall’altro opere originali la cui messa in scena tuttavia avviene molti anni dopo la morte dell’autore (La cabala dei bigotti, le cui prove durano per anni, finché lo spettacolo, mutilato, va in scena nel 1936 per poche repliche e viene subito vietato; Gli ultimi giorni, sulla morte di Puskin 1934-35; Ivan Vasil’evic 1935-36; Beatitudine 1934; Adamo ed Eva 1936).

Beriozoff

Nicholas Beriozoff ha studiato a Praga e ha danzato a Kaunas fra il 1930 e il 1935 e con il Ballet de Monte-Carlo di R. Blum (1935-1938) e i Ballets Russes de Monte-Carlo (1938-1944). Ha svolto attività di maître de ballet presso l’International Ballet, il Metropolitan Ballet, il Teatro alla Scala, il London Festival Ballet, il Grand Ballet du Marquis de Cuevas, a Stoccarda (dove ha preceduto John Cranko), a Helsinki, Zurigo e Napoli. Considerato maître rappresentante la vecchia scuola, come coreografo ha soprattutto allestito classici del repertorio ottocentesco (Esmeralda, Schiaccianoci), i balletti di M. Fokine appartenuti al repertorio di Diaghilev, e ha creato nuove versioni di Undine (musica di Henze, 1965), Romeo e Giulietta (1966), Cenerentola (1967, entrambi su musica di Prokof’ev). Sposato con la ballerina Doris Catana, è padre della ballerina Svetlana Beriosova.

Bregni

Dal 1961 lavora con D. Torrieri al Teatro Solis di Montevideo, ma è la collaborazione con il regista L. Puggelli a dar vita ad allestimenti prestigiosi, d’opera (come gli scaligeri Attila di Verdi, 1974; Andrea Cheniér di Giordano, regia di Puggelli e Diaz, 1982-83) e di prosa ( Il gallo di T. Kezich da V. Brancati, Catania, 1989; In portineria di Verga, Catania, 1990; Il libro di Ipazia di M. Luzi, Milano, 1995). È aperto a sollecitazioni eterogenee, come nei Pagliacci di Leoncavallo (1968), in cui risolve l’allestimento con una fila di casette naif, oppure ne La condanna di Lucullo di P. Dessau, (Milano, Scala, 1973) in cui sfrutta la concretezza di ripiani, scale e sfondi realistici. Di recente collabora con G. de Monticelli ( Nathan il saggio di Lessing, 1992; Enrico V di Shakespeare, 1993) e con L. Squarzina ( Sul lago dorato di E. Thompson, Milano 1988; Liolà di Luigi Pirandello, Benevento 1990). Con G. Mauri presenta un Riccardo II di Shakespeare (Trieste, Teatro Politeama, 1991) ammorbidendo con flessuosi sipari di velluto la rigidezza di una tavola di legno al centro della scena. Gli ultimi lavori sono per R. Graziosi: L’ospite d’onore di R. Battaglini e Giorni felici nella camera bianca sopra il mercato dei fiori di R. d’Onghia (Milano, Teatro Studio, 1995).

Bolle

Dopo gli studi alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala, Roberto Bolle nel 1994 entra nel suo corpo di ballo interpretando immediatamente le parti protagonistiche in Romeo e Giulietta di Kenneth Mac Millan e La Bella Addormentata di Rudolf Nureyev, cui segue nel 1996 il ruolo principale in Les Six Danses de Chabrier di Roland Petit. Nominato primo ballerino nel 1997, danza parti da danseur noble nel repertorio classico (Giselle) e moderno (Apollo); nello stesso anno affianca Altinai Assylmuratova ne Il lago dei cigni dell’English National Ballet.

Barbette

Barbette afferma nella pista del circo il genere del travestito guadagnandosi grande notorietà come `Reginetta americana dell’aria’. Frequenta i maggiori circuiti di varietà di tutto il mondo. Negli anni ’20 ottiene un enorme successo a Parigi, suscitando le attenzioni degli intellettuali. Al termine della carriera diventa ideatore e creatore di numeri aerei per John Ringling North, Orson Welles e la Disney. Muore suicida per un’overdose di sonniferi.

Buazzelli

Diplomato all’Accademia d’arte drammatica ‘S. D’Amico’ nel 1947 insieme a Marina Bonfigli, Nino Manfredi e Giancarlo Sbragia, Tino Buazzelli debutta in teatro con la compagnia Maltagliati-Gassman ed è subito con i suoi venticinque anni un padre ‘perfetto’ in Tutti miei figli di Miller e passa poi al Piccolo Teatro della città di Roma (1948-1952) dove, diretto da Orazio Costa, emerge in una serie di interpretazioni corpose da Sei personaggi in cerca d’autore (il Padre) e Così è (se vi pare) (il Prefetto) di Pirandello a I giorni della vita di Saroyan, Don Giovanni di Molière (Sganarello) a fianco di Crast e della Falk, Oreste di Alfieri (Egisto), Giovanna di Lorena di Anderson, Lotta fino all’alba e Spiritismo nell’antica casa di Betti, Venezia salva di Bontempelli, Invito al castello di Anouihl, Le colonne della società di Ibsen. Strehler lo chiama al Piccolo dove interpreta N. N. di Leopoldo Trieste diretto da Guerrieri, Elisabetta d’Inghilterra di Bruckner, Sacrilegio massimo di Stefano Landi Pirandello e ancora il Padre nei Sei personaggi accanto a Lilla Brignone. Con la Falk, De Lullo, Valli e la Albani (è il duca Alessandro nel Lorenzaccio di De Musset diretto da Luigi Squarzina), recita, poi in Una donna dal cuore troppo piccolo di Crommelynck e nella riproposta di Spiritismo nell’ antica casa.

Nel ’55 è con la Ricci-Magni-Proclemer-Albertazzi in Sud America nella Beatrice Cenci di Moravia e in Corruzione a Palazzo di Giustizia di Betti. Partecipa, a San Miniato (1956), a Veglia d’armi di Diego Fabbri, ancora diretto da Orazio Costa, ma fra le due direzioni, quella storico-spirituale di Costa e quella inventiva di Strehler, Buazzelli aderisce di più alla seconda ed eccolo tornare al Piccolo per sette anni in una serie di interpretazioni magistrali a cominciare da Peachum nella ripresa dell’ Opera da tre soldi (1958), a Platonov e altri di Cechov, alla Visita della vecchia signora di Dürrenmatt, a Ricordo di due lunedì di Miller, ai Brecht di Shweyck nella seconda guerra mondiale e Vita di Galileo nei quali conferisce una consistenza umana indimenticabile. Nel 1965 è allo Stabile di Genova per Arriva l’uomo del ghiaccio di O’Neill diretto da Squarzina, poi è Willie Loman di Morte di un commesso viaggiatore di Miller con Evi Maltagliati (ripreso nel ’75 con Gabriella Giacobbe) e affronta con grande successo, Il guardiano di Pinter («Buazzelli è sicuramente unico – scrive il critico del “Guardian” per le recite londinesi – una tale fusione di fisica e istrionica assurdità è irripetibile»); in polemica contro i registi demiurghi firma un rigoroso allestimento del Macbeth (da lui ridotto insieme ad Arnaldo Bagnasco) con le scene di Joseph Svoboda, dove interpreta, con la sua voce registrata anche le streghe. Segue Gnocchi una sua tragicommedia sulle vicissitudini di un arbitro, da lui scritte e interpretate. Sono anni, sulla scia della consacrazione milanese galileiana, ricchi di traguardi e proposte: I vecchi di San Gennaro di Viviani, diretto da Fenoglio (1966), Bouvard e Pécuchet , di Kezich da Flaubert con Glauco Mauri (1968), Mercadet, l’affarista di Terron da Balzac (1969) e Tutto per bene di Pirandello. Altra polemica (questa volta contro i critici), per La seconda parte della storia di Enrico IV con le piacevoli facezie di sir John Falstaff (1970, al Teatro romano di Verona), nella quale si dirige nella vigorosa descrizione scenica del grande personaggio shakespeariano.

Dal ’71 al ’73 è allo Stabile di Torino dove infonde cinismo e vigoria sorprendenti al Signor Puntila e il suo servo Matti di Brecht in coppia con Corrado Pani, in una edizione libera, rispetto al dettato brechtiano, firmata da Aldo Trionfo con un occhio al cabaret di Karl Valentin e alla rivista degli Schwarz. Sempre a Torino firma con Svoboda (che si dissocia all’ultimo momento) una dubbia edizione dei Sei personaggi ambientata in uno studio televisivo e riprende, diretto da Fritz Bennewitz Vita di Galileo. Fra le ultime interpretazioni (muore in una casa di cura a Roma di un male incurabile) Un nemico del popolo di Ibsen (regia Fenoglio, 1975), Mephistowalzer di Bajini (1977) e La bottega del caffè di Goldoni; ma un’interpretazione straordinaria, per misura, ironia e grazia surreale, l’aveva offerta nel ’73 con La rigenerazione di Svevo. Per la tv da ricordare il pirandelliano personaggio di Marsina stretta e la serie del detective Nero Wolfe.

Bertorelli

Toni Bertorelli debutta nel 1969 con il Bruto secondo di Alfieri, poco dopo collabora con lo Stabile di Torino, ma nello stesso anno inizia a lavorare con Carlo Cecchi: Il bagno di Majakoskij, Woyzeck di Büchner, con il quale resterà fino al 1980 interpretando numerosi classici: Molière (Don Giovanni ), Pirandello, Shakespeare, Brecht, Pinter (Il compleanno), caratterizzandoli con una recitazione originale e intensa. Seguiranno altre esperienze, con De Bosio, Caprioli, Sbragia. Interessante la sua parentesi sperimentale con M. Spreafico (1983, 1986, 1987). Nel 1990 incontra Luca De Filippo in Il piacere dell’onestà , e nel 1997 ne Tartufo di Molière con la regia di A. Pugliese. Lavora con Paolo Rossi e Giampiero Solari in Jubil&aulm;um di Tabori al Piccolo Teatro (1994). Cura la regia di Les femmes savantes di Molière (1996). Degna di nota è anche la sua attività cinematografica (con i registi: M. Martone, M. Bellocchio e M.T. Giordana).

Bompiani

Fondatore della omonima casa editrice, ha diretto dal 1953 la rivista teatrale “Sipario”. Si ricordano tra le sue opere Anche i grassi hanno l’onore (1950); Albertina (1948), interpretato con successo da Diana Torrieri, Tino Carraro e Lida Ferro; Teresa Angelica (1954) e Lamento d’Orfeo (1961), che rivelano nell’autore un acceso gusto di simmetrie morali. Nel dramma Paura di me , del 1953, sono rintracciabili temi di carattere sociale sempre inseriti in un linguaggio e in situazioni fortemente allegorici. Ma l’interesse prevalente di B. rimane quello legato alle tematiche moralistiche e alla condizione umana, vista come stato di colpa originaria, tanto da far parlare di `teatro del rimorso’, in cui l’angoscia dei personaggi è portata fino a un audace limite di delirio.

Brown

Frequenta il Jacob’s Pillow Festival e intanto si laurea in filosofia. Studia con Crask e Tudor, ma l’incontro decisivo è quello con Cunningham con il quale partecipa a una serie di happening (Black Mountain College, 1952), diventando ben presto una delle prime interpreti di spicco della sua compagnia. Fino al 1972, quando si ritira, collabora con Cunningham e Cage alla creazione di numerosi balletti. Continua la sua attività come insegnante e coreografa presso la State University di New York; come saggista, è testimone di una ricerca destinata a influenzare più generazioni di danzatori e coreografi.

Barsacq

André Barsacq è figura eclettica e versatile del panorama teatrale novecentesco. Debutta giovanissimo, nel 1928, accanto a C. Dullin ideando le scene e i costumi per Volpone di Ben Jonson. Dal 1930 assurge a fama internazionale e lavora con J. Copeau, per il quale firma scenografie e costumi del Mistero di Santa Uliva (1933) di anonimo e di Savonarola di R. Alessi nel 1935. L’anno successivo crea scene e costumi per il trionfale Perséphone , scritto da A. Gide e musicato da Stravinskij, all’Opéra di Parigi. Nel 1937 fonda la Compagnie des Quatre Saisons: esperienza cruciale che segna il passaggio di B. anche alla regia con Re Cervo di C. Gozzi. Dopo una significativa parentesi newyokese insieme alla sua compagnia (1937-1940), André Barsacq torna a Parigi nel 1940 in qualità di direttore dell’Atelier al posto di Dullin, carica che conserva fino alla morte. Riesce a coniugare l’impegno all’Atelier con esperienze teatrali diverse: è scenografo per Copeau nel 1943 ( Miracle du Pain Doré ), è regista per L’Invitation au Château di Anouilh (1944), autore quest’ultimo di cui André Barsacq si rivela l’interprete più fedele. Lavora anche in Italia dirigendo la compagnia di A. Pagnani (Chéri di Colette, 1951). È anche scenografo cinematografico per cineasti di vaglia quali J. Grémillon, M. L’Herbier (L’Argent , 1928; L’Honorable Catherine , 1942) e M. Ophuls (Yoshiwara , 1937). La regia cinematografica lo tenta una sola volta: Le rideau rouge (1953). Nel 1958, al fianco di Barrault, Grenier e altri, fonda il Nouveau Cartel. André Barsacq espone i suoi principi estetici in particolare in Lois scéniques , saggio del 1947, dove ritiene necessario porsi criticamente nei confronti della tradizione e ripensare ex-novo lo spazio scenico, progettandolo in modo che sala e scena siano coerentemente relazionate in una unità. Teorico del teatro quale mistero e evento magico, B. crea scene e costumi in modo che producano tale atmosfera, entrando in rapporto con il corpo vivo dell’attore. Quest’ultimo, in quanto officiante del mistero teatrale, viene spesso collocato da B. in posizione sopraelevata rispetto alla folla degli spettatori. B. si cimenta anche con la drammaturgia producendo L’Agrippa ou la Folle Journée (1947), messo in scena all’Atelier. Ispirata a una leggenda bretone, l’opera narra i guasti provocati da un ragazzo malvagio e opportunista.

Beatty

Conosciutissimo negli Usa, massimo esponente dello stile americano incentrato sulla sfida tra l’uomo e le belve, così come Alfred Court lo è di quello europeo, basato sulla dolcezza. Clyde Raymond Beatty inizia la sua carriera come cage-boy, addetto alle pulizie della gabbia. Nel 1925 è all’Hagenbeck-Wallace Circus dove comincia la sua ascesa che lo porterà ad essere ingaggiato da Ringling Bros. and Barnum & Bailey, fino a creare un proprio circo, il Clyde Beatty Circus. Negli anni della depressione, una sua pronta ripresa dopo un grave infortunio diventa un simbolo della rinascita americana e lo fa finire sulla copertina di “Time Magazine”. Nel 1930 crea uno dei numeri di belve più pericolosi di sempre mischiando 40 tra tigri e leoni di ambo i sessi nella stessa gabbia. B. entra in pista brandendo una sedia, una frusta e con una pistola nella fondina alla cintura, suscitando polemiche nelle associazioni animaliste dell’epoca. In realtà afferma di non credere all’indottrinamento degli animali, ma solo allo sviluppo delle loro naturali potenzialità. Dal 1933 diventa anche attore in film serial, ambientati in Africa, di una certa notorietà.

Brus

Artista nichilista e radicale dell’Azionismo viennese. Gunter Brus studia a Vienna all’Istituto di arti applicate e soggiorna per un anno e mezzo in Spagna nel 1960. Vede gli espressionisti americani alla Biennale di Venezia ed è impressionato da Kline. Ritornato in Austria dipinge lavori infornali, ma è soprattutto interessato all’immissione del proprio corpo nel processo pittorico. Conosce Otto Muhl. Prende le distanze dal Blutorgelmanifest `Manifesto dell’organo di sangue’ di Muhl, Nìtsch e Frohner. È un periodo di gravi problemi economici. Nel 1964 Brus compie la sua prima Action di Autopìttura: Ana (che viene ripresa dal cineasta sperimentale Kurt Kren). È il primo performer a usare il proprio corpo-medium come superficie pittorica.

Del 1965 è Malerei, Selbstbemalung, Selbstverstummelung (Pittura, autopittura, automutilazione), titolo che compendia il programma artistico di Brus. In Wiener Spazierengang (Passeggiata viennese), Brus, con il corpo completamente dipinto di bianco diviso in due metà da una striscia nera, passeggia per l’Innerstadt, nel cuore storico di Vienna. Nel 1968 partecipa a Kunst und Revolution all’università viennese e ne esce uno scandalo alimentato dalla stampa locale. Brus viene condannato a sei mesi di reclusione per «Vilipendio dei simboli della Nazione e offese al pudore e alla morale». Sfugge alla condanna trasferendosi a Berlino. Del 1970 è Zerreissprobei (Prova di lacerazione) in cui l’artista porta a estreme conseguenze la pratica autolesionistica.

Bagouet

Dopo una formazione classica avvenuta presso importanti compagnie quali il Ballet du Grand Théâtre di Ginevra, il complesso di F. Blaska e il Ballet du XXème siècle, a partire dal 1974 ha voluto riprendere gli studi per sete di nuove esperienze. È stato così accanto alla Carlson e P. Goss e in America presso J. Muller e M. Black, nonché al Merce Cunningham Studio. Ha poi danzato nelle compagnie di J. Russillo e A. Béranger. Nel 1981 ha creato a Parigi, per il G.R.C.O.P. 62, Les Voyageurs su musica di M. Marais. Stabilitosi a Montpellier, vi ha fondato una compagnia che nel 1984 è diventata il Centre Choréographique National de Montpellier-Languedoc Roussilon. Da allora è iniziata per lui una stagione assai fervida che lo ha portato a maturare uno stile molto personale, rigoroso e moderno ma al tempo stesso elegante e aulico. Grazie ai suoi interessanti lavori, B. ha contribuito anche alla diffusione di una rinnovata sensibilità verso la danza di impronta barocca. Pur non narrative – anzi, assolutamente astratte – le sue coreografie sono state suscitatrici di atmosfere liriche e sentimentali. Da ricordare i lavori per l’opera-ballet Daìphnis et Almacidure , Insaiisies , Valse serts d’amour e soprattutto Le Saut de l’Ange con Christian Boltanski, da cui verrà tratto anche un film ( Dix anges ). Su incarico di Nureyev, ha creato per il Balletto dell’Opéra di Parigi Fantasia semplice (1986). Altri lavori: Jours étranges , Petit pièce de Berlin , Necesito e Les honneurs du pied .

Ballets Suédois

Sotto la direzione di de Maré i Ballets Suédois hanno saputo, ancora più dei Ballets Russes di Diaghilev, coinvolgere in unici progetti artistico-coreografici i migliori creatori dell’epoca. Alcuni degli spettacoli sono considerati fra i principali eventi nella storia dell’arte e della cultura d’avanguardia degli anni ’20. Börlin e de Maré hanno saputo creare spettacoli totali che uniscono danza, teatro plastico, pantomima ritmica da una parte e recuperano, dall’altra, alcuni aspetti del folclore svedese. Uno stile ironico, antinaturalistico che prefigura il teatro dell’assurdo sta per esempio alla base di Les mariés de la Tour Eiffel (1921), che unisce la concezione generale di Jean Cocteau alla musica di Georges Auric, Arthur Honeger, Darius Milhaud, Germaine Tailleferre e Francis Poulenc, le scene di Irène Lagut, costumi e maschere di Jean Hugo. La collaborazione con Fernand Léger dà luogo a due balletti di impianto cubista come Skating Rink (1922) e La création du monde (1923). Del 1924 è La giara di Pirandello con scene e costumi di G. De Chirico. L’ultimo spettacolo della compagnia – che si è esibita fino al 1925 – è anche quello che più lascia il segno nella storia dell’avanguardia dada: Relâche , balletto istantaneista in due atti e un intervallo cinematografico, che va in scena nel 1924 con le scene di Francis Picabia e la musica di Erik Satie. Come intervallo venne proiettato il celeberrimo Entr’acte di René Clair.