Crippa

Interprete che alterna disinvoltamente ruoli brillanti a ruoli drammatici, recitando testi classici, anche sul versante leggero. Giovanni Crippa debutta allo Stabile di Genova in Equus (1975-76) nella parte di Alan Strang, con la regia di M. Sciaccaluga; è quindi con G. De Lullo ne La dodicesima notte di Shakespeare e Tre sorelle di Cechov. Ha un importante ruolo da protagonista ne I promessi sposi alla prova di G. Testori con la regia di A.R. Shammah (1984), con la quale lavora in altri spettacoli. È un intenso Cid di Corneille, diretto da G. Albertazzi. Nel 1985 inizia a lavorare, nella parte di Astrov in Zio Vanja , con G. Patroni Griffi, con cui recita in tre testi di Pirandello per lo Stabile di Trieste (1987-89) e in alcuni testi brillanti, da Le false confidenze di Marivaux a Fior di pisello di Bourdet. Cura la regia di L’Angel di F. Loi (Spoleto 1993). Dal 1995 è al Teatro di Roma con L. Ronconi ( Quer pasticciaccio brutto de via Merulana , Davila Roa , I fratelli Karamazov , Questa sera si recita a soggetto ) e in Tieste di Seneca con la regia di R. Cappuccio. Ha partecipato a diversi sceneggiati televisivi, tra cui Manon di S. Bolchi.

Cotta

Elena Cotta è moglie di C. Alighiero, con il quale ha fatto `ditta’; tra i suoi ruoli favoriti, oltre al personaggio androgino e lunare interpretato nell’ Amleto di Bacchelli (1976), figurano quello della vecchia Doris in Disse mamma non andare di C. Keatley, la Sheila di Sinceramente bugiardi di A. Ayckbourn e la protagonista di La sconcertante signora Savage di J. Patrick, andata in scena nel 1997.

Crovi

Secondario, rispetto all’impegno narrativo ed editoriale, è stato l’interesse di Raffaele Crovi per il teatro. Il suo intervento più interessante, in cui più felicemente appare la sua posizione di `cristiano illuminato’, è la commedia Quello Stolfo de Ferrara , andata in scena al Teatro Verdi di Milano per la regia di Velia Mantegazza nel febbraio 1983. L’opera è una riproposizione in chiave contemporanea delle antiche storie cavalleresche: Orlando è il signore della guerra, Astolfo l’uomo comune, che ha la capacità di convivere con tutti, le Arpie sono una trasposizione delle Brigate rosse. Col titolo Il viaggio di Astolfo lo spettacolo è stato riproposto – sempre con la regia di V. Mantegazza e musiche di F. Battiato – a Neerpelt, in Belgio, nel 1985. In precedenza, nel 1977, presso il Teatro del Giglio di Lucca, C. aveva portato sulle scene la riduzione di Uomini e no di Vittorini (in collaborazione con Enrico Vaime). Nel 1981, nell’ambito della rassegna `Formello ’81’ a Roma, è andato in scena L’orto drogato, nell’interpretazione di G. Lavia.

Channing

Si è diplomata in danza e recitazione nel Vermont, al Bennington College. Nel 1941 ottiene un ruolo di sostituta a Broadway ( Let’s Face It ) ma niente succede, se non la distribuzione di una piccola parte, l’anno seguente 1942, in Proof Through The Night . C. passa tre anni nel circuito dei night club perfezionando il suo mirabile quanto bizzarro modo di cantare e, nel ’46 ha un vero ruolo nella rivista Land An Ear a Hollywood. Dopo averla vista in Land An Ear a Broadway gli autori di Gentlemen Prefer Blondes sono unanimi: la bionda svaporata protagonista Laelei sarà C. o nessuno. Lei ottiene il suo primo vero trionfo. Nel ’54 sostituisce con successo Rosalind Russel in Wonderful Town e nel ’55 partecipa a un fiasco The Vamp . Delusa, riprende la strada dei night club e il suo spettacolo ha un tale successo che viene trasformato in un regolare `one woman show’ e arriva a Broadway, con trionfo, nel 1961. Hello, Dolly! che è e resterà il più grande successo della C. è del 1964. Hello, Dolly , a Broadway, ha quasi tremila repliche. Contemporaneamente due compagnie di giro percorrono gli Usa e i paesi di lingua anglosassone, poi anche altri. Londra totalizza ottocento repliche. C. riprenderà Hello, Dolly! nel ’78 e poi ancora negli anni ’90, instancabile e indomabile tra standing ovations e singhiozzi di gioia del suo pubblico adorante: è ormai, probabilmente, la massima star del genere musical. Hello, Dolly! ha avuto una versione all-negro con Pearl Bailey (1967) e una cinematografica con Barbra Streisand (1969). Nel 1974 la C. è protagonista di un revival di Gentlemen Prefer Blondes (che porta il sottotitolo Gentlemen Still Prefer Blondes con cinque nuove canzoni: un anno di giro e trecentoventi repliche a Broadway). Uno straordinario concerto, nell’87 Jerry’s Girl , purtroppo con poche repliche a Broadway (le canzoni di Jerry Herman dai suoi musical più celebri). Molti night club, molta televisione, uno show con Mary Martion nell’87 intitolato correttamente Legends! ; nel 1990 un memorabile concerto al Desert Inn, Las Vegas, e nel ’92 una tournée con Rita Moreno: Two Ladies Of Broadway . Pochissimo cinema con una deliziosa apparizione in Millie (1967), due soli dischi di canzoni e invece tutti i dischi dei suoi musical.

Costanzo

Maurizio Costanzo inizia l’attività giornalistica collaborando con diverse testate, da “Ore 12” a “Paese Sera”, ed esordisce come autore radiofonico nei primi anni ’60 con la trasmissione Canzoni e nuvole, condotta da Nunzio Filogamo. Nel 1965 è autore delle trasmissioni televisive Cabaret delle 22 e Aria condizionata. In quegli anni si dedica al cabaret in un piccolo teatro romano, il Cab 37, ed è autore di alcune commedie, scritte tra il 1970 e il 1975: Il marito adottivo; Cielo, mio marito!; Vuoti a rendere. Raggiunge grande popolarità dapprima con la trasmissione radiofonica `Buon pomeriggio (1969), poi con Bontà loro (Rai 1976). Nel 1984 crea, per l’emittenza privata, il Maurizio Costanzo show (nel 1984 in versione itinerante in alcuni teatri d’Italia) che troverà sede stabile al teatro Parioli di Roma, diretto dallo stesso C. Sempre molto attivo, indiscusso protagonista della scena televisiva (autore di numerose trasmissioni di successo, dal 1998 è nominato direttore di Canale 5), ‘eminenza grigia’ della comunicazione politica, C. continua l’attività teatrale con la promozione di cabarettisti italiani dal palcoscenico del Parioli e (dal 1996) con la direzione del festival teatrale di Benevento.

Cobelli

Personaggio eclettico e bouleversantGiancarlo Cobelli attraversa gli ultimi cinquant’anni dello spettacolo italiano affiancando all’esperienza teatrale quella televisiva e segnalandosi al pubblico e alla critica per il suo gusto graffiante e parodistico, sovrapponendo la smorfia al sorriso disincantato e talvolta grottesco. Formatosi dal punto di vista artistico alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, a partire dal 1952, secondo l’insegnamento di Strehler e Decroux rispettivamente per la recitazione e per il mimo, ancora studente lascia un segno significativo in La pazza di Chaillot di Giraudoux, nel Revisore di Gogol’ e in Il dito nell’occhio (1953), allestito dalla compagnia Parenti-Fo-Durano. Nel 1957 il suo nervoso talento è protagonista dell’Histoire du soldat di Stravinskij, messo in scena per la regia di Strehler alla Piccola Scala. Pressoché contemporaneo è il debutto televisivo, con la partecipazione a numerosi programmi della tv dei ragazzi, che, con la creazione del personaggio di Pippotto, garantisce al carattere funambolesco dell’attore grande popolarità.

La gestualità beffarda dell’artista, cifra espressiva di una fisicità amplificata dai toni spesso irriverenti, esplode tuttavia nel 1959 in Cabaret ’59, presentato al teatro Gerolamo di Milano. Lo spettacolo, del quale Giancarlo Cobelli è unico interprete, preparato in collaborazione con Giancarlo Fusco, sancisce il debutto ufficiale dell’attore, che espone se stesso in un ‘recital anti-recital’, in cui la vigorosa inventiva comica, senza mai cadere nello stereotipo, evoca esplicitamente la lezione dello `Chat noir’. Il successo dello spettacolo è replicato nel dicembre dello stesso anno in Cabaret 1960 : la forma del cabaret diviene spazio privilegiato per annullare il diaframma fra sperimentazione e spettacolo, campo di battaglia nel quale il regista riesce a far esplodere le tensioni maudites della sua arte. La versatilità dell’artista è sottolineata a metà degli anni ’60 dal continuo passaggio dalla scena alla regia e alla scrittura, e dalla sovrapposizione di generi e forme: dal cabaret Cabaret n. 3 di C., Fusco, Arbasino e Mauri (1963) alla commedia musicale: Un cannone per Mariù di G. Fusco e F. Carpi (1961) e soprattutto La caserma delle fate (1964) di cui, oltre a essere protagonista e regista, fu anche autore in collaborazione con Badessi. La fine degli anni ’60 e gli anni ’70 sono dominati dalla regia attraverso la quale Giancarlo Cobelli, in un continuo processo di costruzione e decostruzione rompendo ogni possibile struttura narrativa, svolge da uno spettacolo all’altro quella che per lui è l’utopia del teatro: Gli uccelli di Aristofane (1968), Woyzec k di Büchner (1969), Antonio e Cleopatra di Shakespeare (nelle due versioni del 1972 e 1974), La pazza di Chaillot di Giraudoux (1972), La figlia di I orio di D’Annunzio (1973), L’impresario delle Smirne di Goldoni (1974), L’Aminta di Tasso, nell’elaborazione dello stesso C. e di Giancarlo Palermo (1974), e il collage Soprannaturale, potere, violenza, erotismo in Shakespeare (1975) rappresentano le tappe più significative di tale itinerario.

Bruciato ogni naturalismo, il mimo Woyzeck urla nell’agonia del corpo la fine di ogni apparenza e nota patetica, così come i personaggi shakespeariani, transitando da un testo all’altro in un’unica messa in scena, sanciscono la perenne e incontrollabile transitorietà del tempo: demistificante «pessimismo che sfocia nell’utopia» (Groppali). I classici reinventati attraverso citazioni spesso contaminate offrono così la possibilità di una ‘ribellione travestita’ al mero estetismo dell’ufficialità. Un percorso quello di Giancarlo Cobelli proseguito su registri analoghi nel corso degli anni successivi, sino ad arrivare a Un patriota per me di J. Osborne (Roma, Teatro dell’Angelo 1991), mai rappresentato in Italia e ulteriore segno della spinta trasgressiva sottesa alla linea registica e drammaturgica dell’artista. Nello stesso anno realizza Il dialogo nella palude di M. Yourcenar e, per i due spettacoli, ottiene il premio Ubu per la migliore regia 1991. Fra gli spettacoli successivi da ricordare almeno l’aspro, spoglio, feroce Troilo e Cressida di Shakespeare e per la Scala, Iphigénie en Tauride di Gluck (1992), L’angelo di fuoco di Prokof’ev (1994, ripreso nel 1999) e Il Turco in Italia di Rossini (1997).

Giancarlo Cobelli si spegne il 16 marzo 2012, all’età di 82 anni. 

Chase

Dopo alcuni copioni di poco conto, Mary Chase fece rappresentare nel 1944 una delle commedie di maggior successo (1775 repliche) dell’intera storia di Broadway, Harvey . Il personaggio del titolo è un coniglio alto quasi due metri e invisibile a tutti tranne che al protagonista, un americano medio che nell’alcol e in questa sua fantasia trova il modo di sfuggire a una sgradita realtà. Un altro suo successo, ma di minori proporzioni, fu Mrs McThing (1952).

clown

Il c. è una delle figure fondamentali della pista del circo. Sebbene la definizione sia stata poi allargata a comprendere tutti quegli artisti che, in vari contesti, basano le loro rappresentazioni sulla comicità e sull’istrionismo da giullare (Dario Fo, Roberto Benigni, Jerry Lewis, solo per fare qualche esempio), nel circo la clownerie si è manifestata in tipologie sufficientemente connotabili, con interessanti sviluppi avvenuti proprio nel ‘900. Il secolo si apre con le due più importanti figure di c. già abbastanza definite: il c. bianco, il cui trucco sembra sia stato ispirato dal Pierrot portato al successo dai Debureau, e l’augusto o `rosso’ (in Italia detto anche `toni’), discendente invece dalle prime figure comiche della pista, che avevano il compito di spezzare la tensione degli spettacoli equestri con contorsioni, salti a terra e spettacolari cadute. È però negli anni ’10, con il duo Footit & Chocolat, che si definisce il rapporto conflittuale fra bianco e augusto, che fa la storia del c. di questo secolo. La coppia permette un contrasto fra i due artisti, che può essere di tipo fisico (alto-basso, grasso-magro), psicologico (astuto-ingenuo), morale (onesto-canaglia) o sociale (maestro-servitore, ricco-povero). La maschera dell’augusto è di solito in sintonia con il suo carattere, mentre la varietà di tipi contrasta con la ripetitività della maschera del bianco, in costume elegante. All’inizio del secolo i tandem di c. si formano, sciolgono e ricompongono a seconda delle esigenze di scritture. Fra le coppie più note: Tonitoff e Antonet, Antonet e Grock, Alex e Porto, Antonet e Beby, Manetti e Rhum, Pipo e Rhum e i livornesi Dario e Bario. A volte l’augusto tenta la via del solista trasformandosi di fatto in `eccentrico’, termine che più che un vero e proprio genere designa il distacco dalle tipologie più classiche; fra questi raggiungono la fama Grock e Charlie Rivel. Sono poi i Fratellini (i c. più amati da artisti e intellettuali della Belle Époque), dopo la Prima guerra mondiale, a lanciare la formazione a tre, con un c. bianco e due augusti, che avrà numerosissimi emuli e finirà per soppiantare quasi del tutto il `duo’. Curioso come, nonostante il successo di alcuni c. e la giovialità dei loro caratteri anche nella vita privata, la percezione della figura impressa nell’immaginario collettivo è ancora quella del `c. triste’, per i motivi ben descritti da Jean Starobinski nel suo Ritratto dell’artista da saltimbanco . Comunque, con il trio Fratellini si afferma una comicità più rilassata, non dovuta solo al contrasto (spesso stridente) tra bianco e augusto, ma alla validità delle situazioni rappresentate, come nella tradizione della commedia dell’arte. Nasce in pratica il concetto di `entrata comica’, che rimane fino a oggi il più diffuso nelle piste dei circhi di tutta Europa. A lato di questi numeri, che possono durare sino a trenta-quaranta minuti, si delinea la figura dell’augusto `di serata’ o `di ripresa’, specializzato nell’esecuzione di piccole esibizioni, spesso effettuate ai margini della pista per permettere agli inservienti di preparare l’attrezzeria per i numeri seguenti. Fa eccezione l’America dove, negli immensi spazi dei circhi a tre piste, i c. devono presentare una comicità più spicciola e immediata, composta essenzialmente da piccole gag visuali (come nel caso di Lou Jacobs). L’America è però anche patria delle maggiori figure comiche razziali, come il `tramp’ o il `black face’, i cui esponenti raggiungono momenti di qualità artistica rilevanti (W.C. Fields, O. Griebling, E. Kelly). Nel dopoguerra le `entrate comiche’ italiane più conosciute vedono protagonisti i Rastelli, i Caroli e in seguito i Colombaioni (che però trovano ben presto un loro particolare itinerario teatrale), mentre si distinguono ben pochi c. di ripresa di valore assoluto (come Fumagalli). Buoni livelli vengono raggiunti da alcune formazioni iberiche (gli Aragon, i Rudi Llata). Salvo queste rare eccezioni, gli anni ’50 e ’60 vedono un’involuzione della clownerie, con gli artisti che si limitano a replicare in maniera sterile il repertorio classico, finendo per sclerotizzare la disciplina. È Federico Fellini, grande appassionato di circo, a illustrare la crisi del personaggio nel suo I clowns (1970), surreale ma nitida fotografia dell’ambiente circense di quegli anni, ove il c. sembra destinato a sparire del tutto. La salvaguardia e il recupero di tale figura sono principalmente dovuti a tre fattori: l’affermazione di giovani talenti provenienti dalla scuola del Circo di Mosca (come Oleg Popov), che rivitalizzano la disciplina studiandone a fondo i repertori e le tecniche (con la possibilità, offerta dal circo statale, di disporre di autori teatrali per i soggetti delle nuove `entrate’); la rivisitazione nostalgica del vecchio repertorio da parte di nuovi operatori circensi, spesso provenienti dall’esterno, come Bernhard Paul del Roncalli o Pierre Etaix (con Annie Fratellini); e soprattutto la nascita di una figura assolutamente nuova nel panorama circense, quella del `mimo comico’, proveniente il più delle volte dal teatro di strada (David Shiner), ma anche dal teatro di pantomima (Enghibarov o Dimitri). Questi solisti propongono una comicità di assoluta rottura rispetto al repertorio classico della clownerie, introducendo moderne tecniche di linguaggio del corpo e il coinvolgimento degli spettatori, escludendo quasi del tutto i dialoghi. All’interno degli spettacoli di `nuovo circo’ tali artisti possono anche assumere la funzione di filo conduttore dello spettacolo o di io narrante, come René Bazinet in Saltimbanco del Cirque du Soleil, Christian Taguet nel Baroque e Bernard Kudlak nel Plume ; possono inoltre tentare il recupero della figura dell’eccentrico stile Grock ed esibirsi prevalentemente in spazi teatrali. Data la loro particolare formazione, si spingono a volte su sentieri di sperimentazione, non sempre con risultati positivi. Questo movimento di rigenerazione porta però anche alcuni esponenti di famiglie di tradizione a cimentarsi con successo in significative innovazioni (David Larible e Bello Nock), mentre altri figli d’arte continuano a mantenere le tradizioni familiari (Pipo Sosman, Tino Fratellini). Sul principio degli anni ’90 si rinfresca anche la tradizione del comico di varietà che, con una sapiente commistione fra c. e mimo di circo, riesce a proporre una comicità dal sapore alquanto originale (come il tedesco Harald `Hacki’ Ginda). Recentemente sono nati anche gruppi di mimi che riprendono in parte la formazione tradizionale del bianco e degli augusti, sia pure con un’impostazione del tutto originale; anche questi sembrano però destinati più alle tavole del palcoscenico che alla segatura della pista. Cosa del resto abituale per numerosi altri artisti comici, che hanno scelto di utilizzare tecniche circensi o della clownerie classica per montare moderni spettacoli teatrali ( Le Cirque imaginaire di Jean-Baptiste Thierry e Victoria Chaplin, Buffo di Howard Buten, fino a Leo Bassi o Jango Edwards).

Cenci

Con Alessandro Benvenuti e Paolo Nativi, Athina Cenci fonda nel 1972 il gruppo cabarettistico dei Giancattivi che debutta lo stesso anno con Il teatrino , al quale faranno seguito: Nove volte su dieci più una (1974), Italia 60 (1976), Pastikke (1977). Nel 1978 la formazione approda alla tv, dove esordisce nei varietà Black out e La sberla. Nel 1983 interpreta Marta e il Cireneo, scritta da A. Benvenuti (coprotagonista) e Ugo Chiti. Esauritasi l’esperienza dei Giancattivi, la Cenci arriva al successo con Emilio, un programma tra il varietà e la sit-com, nel 1989. Successivamente conduce su Telemontecarlo il talk show Tre donne intorno al cor (1992), insieme a Alba Parietti e Susanna Agnelli; nel 1993 affianca Claudio Bisio in Cielito lindo e partecipa allo sceneggiato Delitti privati.

Cireni

Figlio di un fantino, Abelardo, viene consegnato all’età di otto anni nelle mani di Francesco Pulaiot, proprietario di un piccolo circo che, in capo a quattro anni, gli trasmette le tecniche base dell’acrobazia equestre e aerea. Lavora al Circo Travaglia e al Circo Toscano di Augusto Frediani, dove comincia a esercitarsi come clown. Emigra a Pietroburgo e viene scritturato nel circo di Scipione Ciniselli, dove definisce la propria maschera: trucco leggerissimo, un piccolo berretto circolare, giacca e pantaloni di qualche misura più larghi, camicia bianca, cravattina a fiocco e scarpe smisurate. In Russia ottiene un grande successo, diviene amico dello scrittore Aleksandr Kuprin e consulente clown di Leonid Andreev per Quello che prende gli schiaffi (1914). È spesso invitato dallo zar per divertire il figlio Alessio, malato di emofilia. Allo scoppio della rivoluzione, nonostante le amicizie altolocate, gli vengono confiscati tutti i beni. Riesce a scappare in America, dove si industria come controfigura in alcuni film comici. Tornato in Europa, si esibisce da Beketow e da Krone. È ammirato da numerose personalità dello spettacolo del suo tempo, fra le quali T. Pavlova, che scrive la presentazione del libro di memorie dedicatogli da Franco Bernini nel 1929.

coreografia

Esiste infatti una coreografia del teatro musicale colto e leggero, una coreografia cinematografica e televisiva, una video-coreografia per quei prodotti di danza pensati per lo schermo e persino una coreografia delle sfilate di moda. Ma si è diffusa soprattutto una pratica coreografica sottintesa e desunta dai modelli più alti della coreografia del secolo, a disposizione di più discipline dello spettacolo e fatta propria, specie nell’ultimo quarto del secolo, da registi, drammaturghi, artisti a vario titolo dello spettacolo dal vivo. Ciò significa che l’arte di creare e strutturare balletti e danze nello spazio, o più semplicemente di muovere corpi danzanti (o semplicemente agenti) nello spazio teatrale o in qualsiasi altro ambiente adibito allo spettacolo, ha esteso e decuplicato le sue funzioni originarie. Tale fenomeno dipende dalla crescente importanza attribuita al movimento e all’immagine in movimento, ma anche da una sopravvenuta consapevolezza: chi conosce le regole dell’organizzazione della danza nello spazio e nel tempo (tempo scandito o dettato da una musica, anche se quest’ultima, a differenza di quanto si pensa, non è necessaria alla coreografia, come non lo è ormai neppure alla danza) è molto più che un artigiano o un maître de ballet – che sa mettere in sequenza dei passi di danza o di balletto (o una loro commistione, come capita nella danza contemporanea). È invece e a tutti gli effetti un artista, un pensatore, talvolta un filosofo del movimento che nella scrittura coreografica (il termine `scrittura’ ci rimanda direttamente all’etimologia del termine, dal greco choréia : scrivere la danza) rivela la propria estetica e Weltanschauung . Al pari del regista nell’ambito teatrale, il coreografo ha assunto un ruolo preminente nel teatro della danza. Al punto che se l’Ottocento si può a buon diritto definire il secolo dei grandi ballerini e soprattutto delle grandi ballerine (romantiche), il Novecento – e ancora più nella sua seconda metà -coincide con l’affermazione dei coreografi. Ciò non significa che nei secoli precedenti l’arte d’impaginare balletti nello spazio fosse poco sviluppata, artigianale, o marginale rispetto alla cultura del proprio tempo, al contrario. Basti pensare, per il Settecento, ai balletti d’azione di Jean-Georges Noverre, considerato `lo Shakespeare della danza’ oppure, tra Sette e Ottocento, ai coreodrammi del `sommo’ Salvatore Viganò, stimato come artista massimo della sua epoca. E ancora alla geniale novità dei balletti tardoromantici di Marius Petipa, vero deus-ex-machina della coreografia del secolo scorso. Ma è nel Novecento che questa si libera, per così dire, del suo dialogo privilegiato con la danza e il balletto e della necessità di metterne in luce le conquiste e i traguardi tecnici per diventare un pensiero progressivamente autonomo dalla danza stessa, cioè dalla materia prima di cui si compone. Ed è per questo che il primo saggio coreografico davvero `nuovo’ del Novecento non può che coincidere con il Sacre di Vaslav Nijinskij (1913), ispirato dalla musica di Stravinskij, dalla rievocazione di una Russia tribale e feroce, guidato dalla necessità di una trasfigurazione estetica dei ballerini e di conseguenza della loro danza. Senza contare che Nijinskij affrontò la partitura musicale in modo affatto nuovo – quasi dalcroziano – riuscendo a produrre una propria partitura gestuale e dinamica a dialogo con quella musicale, cosa che, come noto, non piacque a Stravinskij stesso che alla rivoluzionaria coreografia di Nijinskij preferì la più tranquilla e `musicale’ versione di Léonide Massine (1920), sino a riconoscere l’iniziale errore di valutazione ma solo in tarda età. Quanto all’organizzazione spaziale dei vari gruppi di danzatori del Sacre , è interessante notare come cerchi e file, in una geometria neo-primitiva che rimanda alle danze tribali (poi descritte da Curt Sachs) non si discosta troppo dalla semplicità compositiva adottata dai pionieri della danza libera e moderna (Isadora Duncan, Loie Fuller, le Wiesenthal sino a Martha Graham). Ma a questo genere di semplicità – eletta a paradigma di una coreografia che impagina nello spazio una danza per lo più solistica (è l’individuo danzante con il suo carico psicofisico e autobiografico a dominare la scena del primo Novecento, in netta contrapposizione ai numerosi gruppi di ballerini accademici)- va detto che dà un suo contributo forse non ancora del tutto esplorato soprattutto Mary Wigman. Dai suoi assoli – a partire dalla Hexentanz (1914) – trapela una complessità compositiva nel rapporto tra spazio, gesto, dinamica a cui neppure la Graham dei pur nitidi assolo d’inizio carriera può ancora aspirare. Tuttavia, non è certo nell’ambito di quella che potremmo definire la `micro-coreografia’ solistica delle avanguardie storiche dominate da grandi, grandissimi danzatori più che da coreografi – che si rintracciano le prove di un pensiero coreografico affrancato dal passato, cioè dalla danza stessa. Ecco perchè è grande l’importanza storica della coreografia citazionista e al tempo stesso liberty di Michail Fokine: l’autore della Morte del cigno (1907), prima, e delle Sylphides (1909) poi, dimostra come la storia possa divenire oggetto di analisi e recupero in una presa di distanza dalla danza del passato che contempla al tempo stesso una sua rivalutazione. Basti pensare ai disegni floreali nello spazio delle Sylphides, e a come, sulla musica di Chopin, le creature alate, che ricordano la Silfide romantica, vi acquistino lo spessore di un sogno amorevolmente ridestato. Come è noto sia Fokine che Nijinskij appartennero alla cerchia artistica di Diaghilev e dei Ballets Russes: le operazioni sinergetiche del grande impresario teatrale, attorno al quale si radunano i maggiori artisti europei e provenienti dalla Russia degli anni anni Dieci e Venti stabiliscono nuovi primati. Innanzitutto sono coreografie brevi (accostate in serate a due o tre balletti: i cosiddetti programmi mix-bill come vengono definiti oggi), destinate spesso a pochi interpreti e nelle quali l’importanza del movimento è commisurata al valore delle musiche, delle scenografie e dei costumi. Proprio le scene e i costumi, che talvolta occupano in modo voluminoso lo spazio (come in Parade , 1917, scene e costumi di Picasso), condizionano il movimento e la danza più di quanto non fosse accaduto in passato. Certo questo condizionamento è possibile e soprattutto riuscito, quando la danza esce dalla prigione del codice accademico e accetta di arricchirsi o confrontarsi con altre tipologie coreutiche (il folklore, il ballo di sala) o con gesti e movimenti di tipo quotidiano, atletico, teatrale e così via. È proprio a questa necessaria apertura di orizzonti che dà il suo contributo fondamentale la cosiddetta coreografia neoclassica, espressione dell’ultima fase creativa dei Ballets Russes (Nijinska e soprattutto Balanchine). Un genere che dagli anni Trenta in poi perderà progressivamente i requisiti sinergetici originali – eredità e sigla diaghileviana – per privilegiare soprattutto il rapporto tra musica e danza, tra coreografo e compositore. Tutta la coreografia neoclassica – a partire dalla paradigmatica produzione americana del suo principale fautore, George Balanchine – si distingue dall’immagine: spoglia e essenziale. Scene e costumi quasi scompaiono o tornano a valorizzare solo il corpo (con calzamaglie o costumi di balletto) in uno spazio che assume una valenza virtuale. Non a caso è proprio da Balanchine che il regista Robert Wilson assicura di aver ricevuto le suggestioni più forti in merito all’invenzione di uno spazio insieme fisico e mentale. Nella mutata prospettiva psicologica, drammatica, simbolica o semplicemente narrativa della coreografia cosiddetta moderna, l’impaginazione del movimento nello spazio subisce nuove trasformazioni. Come tipologia legata alla danza moderna (Graham, Humphrey, ma anche Limón, Ailey) può essere considerata sviluppo, precisazione ed estensione di quella che abbiamo definito la micro-coreografia dei pionieri d’inizio secolo. Ogni coreografo mantiene una propria individuale scrittura scenica anche se in linea generale si rintracciano dei comuni denominatori: come lo spazio, che acquista un peso specifico e una solidità plastica, e in esso l’uso di taluni `punti forti’ (precisati ad esempio da Doris Humphrey: in The Art of Making Dances l’artista americana detta il manifesto della coreografia moderna) che valorizzano i personaggi e concentrano l’attenzione dello spettatore. Di conseguenza lo spazio perde il suo carattere `neutro’ per diventare un campo di forze contrastanti entro il quale deve evidenziarsi il carattere oppositivo della danza con le sue spinte e tensioni in conflitto ( contraction e release per la Graham, fall e recovery per la Humphrey). Non sarà dunque casuale il ricorso alla scultura, più che non alla bidimensionale pittura, come elemento scenografico privilegiato; si pensi alle nobilissime invenzioni del giapponese Isamu Noguchi per il teatro di danza della Graham. Quanto alla coreografia moderna che si avvale del linguaggio ballettistico, è in genere assai più `bidimensionale’, anche se spesso non si organizza più solo nello spazio teatrale: palasport, arene e stadi accolgono, in una rinnovata festa danzata a carattere rituale, grandi masse di ballerini (Béjart) che si muovono per lo più all’unisono. La coralità è il requisito di maggiore attrattiva, oltre alla presenza e bellezza dei corpi danzanti e, come nel balletto tardoromantico, i protagonisti/solisti vi si riservano uno spazio centrale. Comune a tutta la coreografia anni Cinquanta e Sessanta, il problema dello spazio viene affrontato in modi affatto nuovi dai coreografi della cosiddetta New Dance americana (Nikolais, Taylor, soprattutto Cunningham): un’era che polverizza le certezze della danza moderna, proietta l’individuo danzante nel cosmo, alle prese con la tecnologia, la scienza e il necessario ripensamento del suo stesso cammino nell’arte del movimento. Rompere la prospettiva rinascimentale, disperdere i corpi dei ballerini in uno spazio senza più poli d’attrazione, spezzare il rapporto frontale tra danzatori e pubblico (Cunningham), sono però esigenze che non nascono solo dalla necessità di portare lo spettacolo coreutico fuori dei teatri, in gallerie d’arte, strade, piazze e musei. La coreografia si rinnova acquisendo dei nuovi strumenti concettuali e operativi tali da sospendere non solo il normale rapporto d’intesa tra musica e danza (come accade in Cunningham) ma anche tra il coreografo e la sua opera (nell’utilizzo delle chance operations o operazioni casuali che Cuinningham mutua da John Cage). Si avvicina l’epoca della collaborazione tra il coreografo e il computer (che ancora Cunningham sarà il primo ad utilizzare) e nel frattempo anche la coreografia, come un tempo era stato per la danza (“ogni uomo è un danzatore”, aveva detto Rudolf von Laban), si accinge a diventare accessibile. Il merito delle innovazioni coreografiche che hanno inaugurato la seconda metà del nostro secolo (inclusa la trasformazione del coreografo in demiurgo della scena, come Nikolais, autore anche delle sue musiche tecnologiche e delle sue luci) è di aver iniziato un processo, tuttora in corso, di divulgazione della materia, per fornire gli strumenti atti a trasformare (almeno idealmente) ogni uomo in un coreografo. Non stupisce dunque che la successiva coreografia postmoderna abbia mosso i suoi primi passi (anni Sessanta) in un ambito di radicale sperimentazione. È ancora l’America a dominare la scena: performance, improvvisazioni, azioni motorie persino pericolose (le scalate ai grattacieli di New York di Trisha Brown), esercizi dinamici talvolta troppo semplici per essere definiti danze (e men che meno coreografie) vivificano un panorama in cui si tenta di azzerare ogni possibile conoscenza e ogni qualità coreutica (per esempio il virtuosismo dei danzatori) per ridefinire in primo luogo lo status del danzatore. Ma alle prese con la necessità di comporre nello spazio anche i postmoderni torneranno a ricollegare la danza alla musica (sia pure con nuove modalità, come nel caso dei minimalisti) e entrambe alla scenografia (tanto spesso affidata a illustri artisti visivi). Le maggiori novità nell’ultimo quarto del secolo giungono pertanto dalle modalità compositive della coreografia neoespressionista (`Tanztheater’) in cui la deflagrazione cunninghamiana dello spazio coincide con una lacerazione e frammentazione di gesti, azioni, musiche, parole e danza a cui solo il montaggio (coreografico) riesce a dare ritmo, forma e struttura. Indispensabile a questo genere di coreografia totalizzante è l’apporto delle improvvisazioni degli stessi danzatori. Una materia viva, instabile, provocatoria, capace di mutare il corso di una coreografia predefinita, di cui serviranno sia i coreografi dell’espressione (Bausch) che quelli della forma (Forsythe) nella piena consapevolezza che l’arte di comporre danze nello spazio è una scrittura significativa e trasparente, leggibile (dallo spettatore) come un racconto nello spazio, a patto che il coreografo vi riversi un pensiero, non necessariamente il suo pensiero. Anche perché a differenza della danza, la coreografia può mentire, illudere, valorizzare o screditare la danza, in un rapporto con quest’ultima che non è mai davvero simbiotico.

Cassano

Diplomata alla scuola di ballo del Teatro Colón di Buenos Aires, entra nell’omonima compagnia ricoprendo subito ruoli solisti e di prima ballerina nei principali titoli del repertorio accademico. Dotata di una tecnica di alto virtuosismo e di belle linee classiche, si segnala all’attenzione del pubblico internazionale danzando come partner di Julio Bocca in numerosi balletti, tra i quali Don Chisciotte e Il lago dei cigni.

Catullo

Nota soprattutto per le sue interpretazioni radiofoniche, Lucia Catullo lavorò anche per la televisione e si fece conoscere dal grande pubblico con la soap opera Matilde. Negli anni ’70 in teatro lavorò soprattutto con gli Associati: ricordiamo Sacco e Vanzetti e Il caso Oppenheimer.

Cronyn

Buon caratterista nel teatro e nel cinema, Hume Cronyn si trasferì negli Usa dove sposò, nel 1942, l’attrice inglese Jessica Tandy (19091994), con la quale formò una delle coppie più apprezzate dei palcoscenici americani per il garbo, la tecnica e il senso dell’umorismo. Recitarono insieme, spesso con la regia di Cronyn, testi come Letto matrimoniale di De Hartog, I fisici di Dürrenmatt, Un equilibrio delicato di Albee. Furono anche fra i primi ad alternare le recite a Broadway con quelle nei teatri regionali, dove potevano affrontare un repertorio impegnativo con adeguati tempi di preparazione. Senza il marito, la Tandy fu Ofelia accanto a Gielgud e, con particolare successo, la prima Blanche Dubois di Un tram chiamato desiderio .

Campton

Scrittore prolifico, David Campton ha scritto per il teatro, la radio e la televisione. I suoi `short plays’ sono raccolti in: L’eccentrico punto di vista (The Lunatic View, 1957); Notti femminili (Ladies Nights: Four Plays For Women, 1967); Riso e paura (Laughter and Fear: Nine One-Act Plays, 1969); Ancora sul palcoscenico (On Stage Again, 1969), che comprende quattordici sketch e due monologhi. Negli anni ’80 ha scritto Chi è l’eroe, allora (Who’s the Hero, Then, 1981) e Carte, tazze e palla di cristallo (Card, Cups and Crystall Ball, 1986). La misura breve è la più congeniale a C., quella che gli permette di offrirci una vasta gamma di ben delineati caratteri umani. Lo stile e i contenuti lo avvicinano al teatro dell’assurdo di Pinter, ma con una forte coscienza sociale e un esplicito interesse alla problematica politica.

Ceriani

Dopo il diploma all’Accademia, debutta in Vita di Galilei con la regia di Strehler. Rimane al Piccolo Teatro e interpreta numerosi altri spettacoli: Enrico IV , Assassinio nella cattedrale , Il gioco dei potenti , Il signor di Pourceaugnac (regia di E. De Filippo). Fonda, insieme a Mauro Carbonoli, la prima cooperativa teatrale italiana: il Teatro Insieme (1968-72), dove sarà D’Artagnan in I tre moschettieri con la regia di R. Planchon. Recita in L’amante militare e Il teatro comico di Goldoni e ne Il revisore di Gogol’. Successivamente lavora agli Stabili di Torino e Genova. Fa parte della compagnia del Teatro Uomo (1977-78): Nella giungla delle città di Brecht, Tito Andronico , La madre . Ritorna al Piccolo, dove è diretto da Strehler in Arlecchino servitore di due padroni (nel ruolo di Florindo) e nel Re Lear . Con la regia di L. Puggelli è nel Conte di Carmagnola e nel Libro di Ipazia , ed è diretto da G. Lavia in Amleto e Spettri .

Carpi

Fiorenzo Carpi si diploma nel 1945 al conservatorio di Milano, allievo di Arrigo Pedrollo e Giorgio Federico Ghedini; fra le sue innumerevoli composizioni si segnala La porta divisoria, opera ispirata a La metamorfosi di Kafka, su libretto di Giorgio Strehler. Dal 1947 diventa musicista stabile presso il Piccolo Teatro, dove compone le musiche di scena di quasi tutti gli spettacoli di Strehler; il suo primo lavoro è per Il soldato Tanaka di Georg Kaiser, ancora al teatro Olimpia, due mesi prima dell’inaugurazione della sala di via Rovello. C. ricorda che a segnalarlo a Strehler fu il critico Giulio Confalonieri, che conosceva e apprezzava il suo lavoro. Collabora, inoltre, con altri registi e attori tra i quali Vittorio Gassman, Guido Salvini, Patrice Chéreau, Eduardo De Filippo, Lamberto Puggelli, Carlo Battistoni. Quando nasce il teatro-cabaret lavora stabilmente con i suoi interpreti più rappresentativi: Dario Fo (compone le musiche e le canzoni di quasi tutti i suoi testi teatrali), il gruppo dei `Gobbi’ (Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci e poi Luciano Salce), Franco Parenti, Giustino Durano, ecc. Vastissima la sua produzione musicale per il cinema: Leoni al sole di Caprioli, Incompreso e Mio Dio, come sono caduta in basso! di Luigi Comencini, Zazie nel metrò e Vita privata di Louis Malle, Senza famiglia nullatenenti cercano affetto di Gassman, Un’orchidea rosso sangue di Chéreau, Notte italiana di Carlo Mazzacurati, per citare solo qualche esempio. Ha scritto alcune delle più belle canzoni italiane: Ma mi e Le mantellate (con Strehler), La luna è una lampadina e Stringimi forte i polsi (con Fo). Ha lavorato molto anche in televisione: Le avventure di Pinocchio di Comencini, la censurata Canzonissima di Fo, Chi l’ha visto? , ecc. Partecipa anche agli esordi della pubblicità (il mitico Carosello ) con le musiche per due réclame celebri: il dentifricio Colgate e l’aperitivo Campari. Secondo C., per scrivere musica per il teatro, un musicista deve conoscere bene la storia della musica: dai trovatori del Medioevo fino al repertorio contemporaneo, al jazz e al rock; essere umile, sì che la sua musica non sopravanzi l’immagine; utilizzare un certo spirito critico e anche un po’ di ironia, in quanto la musica che soltanto venti o trent’anni fa veniva usata come sottofondo all’azione scenica, oggi ha conquistato una precisa funzione `critica’, di commento alla scena.

Châtel

Dopo aver studiato danza moderna alla Folkwang Schule di Essen si trasferisce in Olanda, dove alla metà degli anni ’70 fonda il suo gruppo, uno dei primi di genere contemporaneo del Paese. Qui elabora una originale ricerca coreografica che, partita dagli stilemi della danza espressionista, si è in seguito soffermata sull’analisi rigorosa e puntuale dei movimenti dei danzatori, scomposti in minime sequenze spaziali e temporali e contrapposti a immaginari ostacoli esterni, come macchine del vento ( Typhoon ), pareti di terra ( Foeld ) o di vetro ( Staunch ).

Clerc

Florence Clerc ha frequentato la scuola dell’Opéra di Parigi, dove è stata scritturata nel 1967; intrapresa una brillante carriera, nel 1975 è diventata étoile. Dotata di tecnica sicura, ballerina non priva di fascino, ha interpretato con successo i maggiori classici, da La fille mal gardée a La bella addormentata , a Giselle , danzato anche alla Scala. Attiva anche al Maggio musicale fiorentino, è stata qui protagonista di La dame aux camélias di Poliakov. Ha sposato il ballerino Charles Jude, di cui è stata a lungo partner.

Cirino

Diplomatosi all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’, Bruno Cirino si forma come attore, dopo alcune partecipazioni in spettacoli di Zeffirelli (Romeo e Giulietta), De Lullo (Il giuoco delle parti) e Patroni Griffi (Napoli notte e giorno), sotto la guida di Eduardo De Filippo (Il contratto, 1967), dimostrandosi dotato di ottima tecnica. Negli anni ’70 fonda la cooperativa teatrale Teatroggi con la quale mette in scena, nella borgata romana di Centocelle, due testi agit-prop di Dacia Maraini, Gli anni del fascismo (1971) e Viva l’Italia (1972), curando anche la regia. La sua successiva carriera si muove in bilico tra l’impegno, con lavori come Marat-Sade di P. Weiss o Il diavolo e il buon Dio di Sartre per la regia di A. Trionfo, e la rivisitazione dei classici della tradizione (Georges Dandin di Molière, 1979) e del Novecento (La lezione e Le sedie di Ionesco).

La sua migliore interpretazione resta l’Idiota diretto da Aldo Trionfo (1977), che stempera la sua vena mattatoriale con un alone di crudo sarcasmo. Altri lavori di rilievo: I confessori di V. Di Mattia (1978), Uscita d’emergenza di M. Santanelli, allestito con la cooperativa teatrale `Gli ipocriti’ (1980), e Liolà di Pirandello (1981). In campo cinematografico sono da segnalare le sue partecipazioni a Allonsanfan di P. e V. Taviani (1974) e Libera, amore mio di M. Bolognini (1975). Ha svolto parallelamente un’intensa attività televisiva, prestando la sua profonda carica di umanità a sceneggiati come Dedicato a un bambino (1970), Dedicato a un medico (1973), Il diario di un maestro (1973).

Cossa

Roberto Cossa abbandona l’università per dedicarsi al teatro nonostante l’ostilità della famiglia e frequenta una scuola di recitazione diretta da una delle ultime collaboratrici di Stanislavskij. All’età di ventiquattro anni, non senza grande rammarico, abbandona ogni velleità attorale per intraprendere la carriera giornalistica, collaborando ad alcune riviste letterarie come critico teatrale. Scopre la propria vocazione d’autore lavorando per il teatro di marionette del poeta Juan Enrique Acuna. Il primo dei suoi testi a debuttare sulle scene è Il nostro week-end (1964). Influenzato da Cechov, Miller, Saroyan e dal cinema americano, si dedica completamente alla scrittura drammatica che non può non risentire della congiuntura storica e politica argentina. Il grande successo popolare e il riconoscimento della critica arrivano con la commedia ‘nera’ La nonna (1977), popolata di personaggi mostruosi che vivono sul confine tra il grottesco e l’assurdo. Tra le opere successive si citano: Nessuno ricorda F. Chopin e Il vecchio e il servo.

Colonnello

Debutta in teatro nel 1956 al Maggio musicale fiorentino con La traviata di Verdi. Lavora quindi nei più importanti teatri italiani ed esteri, firmando le scene e i costumi per l’opera, il balletto, la prosa, la televisione. È stato direttore degli allestimenti scenici dell’Opera di Roma. Alla Scala cura la messinscena per Mefistofele di Boito (1957, regia di T. Pavlova), Francesca da Rimini di Zandonai (1959), Il barbiere di Siviglia di Paisiello (alla Piccola Scala, 1960, con la regia di E. De Filippo). Del 1961 sono La scala di seta di Rossini (Piccola Scala), Il mercante di Venezia di Castelnuovo-Tedesco (Maggio musicale, regia di M. Wallmann) e Beatrice di Tenda di Bellini, presentata alla Scala con la regia di F. Enriquez. Ispiratosi alla tradizione barocca, C. ama nei suoi progetti scenici prendere spunto dall’archeologia classica. Il suo stile scenografico è caratterizzato da una forte impostazione architettonica e un rigoroso impianto geometrico; nei bozzetti fa uso di una sorprendente abilità prospettica. In questi ultimi anni si è dedicato anche alla regia di opere liriche; tra i suoi allestimenti, Tosca – (Genova 1989) e Manon Lescaut (Torre del Lago 1996).

Cei

Pina Cei iniziò a recitare nella compagnia di Raffaele Niccoli. Dopo qualche anno di apprendistato si guadagò il ruolo di prim’attrice, ma nella sua carriera si distingue, nella maturità, soprattutto come caratterista. Ha recitato al fianco di Ruggero Ruggeri e Emma Gramatica; ha lavorato nel 1945 con la Borboni, Randone e Carnabuci e nel 1948 con Besozzi e Scandurra. Nel dopoguerra entrò a far parte della compagnia stabile della Soffitta di Bologna, dove si impegnò in un repertorio di classici, da Ibsen a Gogol’. Tra le sue interpretazioni più celebri, Costanza nella Trilogia della villeggiatura di Goldoni al Piccolo Teatro, Carlotta nel Giardino dei ciliegi di Cechov diretta da Strehler, Maria Maddalena nel Processo a Gesù di D. Fabbri. Ha collaborato con la Compagnia dei Quattro ( La barraca ). Nel 1986 è stata la contessa di Roussillon in Tutto è bene quel che finisce bene di Shakespeare, per la regia di A. Trionfo.

Cranes

Attivi dagli anni ’80, eseguono un numero – quasi un balletto aereo – che è forse il più acclamato dalla critica internazionale dei nostri tempi. Formato dal capo troupe Wilen Golovko, ma creato da Pëtr Maestrenko, il numero è ispirato a una canzone russa dell’immediato dopoguerra, che narra delle anime dei soldati morti che risalgono al cielo sotto forma di cicogne. Il numero è diviso sostanzialmente in tre parti. La prima narra l’ascesa al cielo delle anime dei soldati morti. La seconda, più tipicamente circense, prevede esercizi di elevatissima precisione tecnica: il triplo in piroetta, il doppio in plancia e altri esercizi del tutto originali rispetto alla precedente tradizione, e resi possibili dalla concezione architettonica assolutamente innovativa degli attrezzi usati. La terza è un’apoteosi di corpi in volo, accompagnati dalle note della “Cavalcata delle valchirie” di Wagner. I C. hanno vinto il Clown d’oro al festival di Montecarlo nel 1995.

Carreri

Grafica pubblicitaria, nel 1973, al Teatro Tascabile di Bergamo, assiste per la prima volta a uno spettacolo dell’Odin Teatret, La casa del padre ; l’anno dopo è già una delle attrici del gruppo norvegese, con il quale condivide un rigido training fisico finalizzato a un’autodisciplina interiore: condizione necessaria alla crescita individuale di ogni singolo attore. Numerose le produzioni alle quali partecipa come attrice: Johann Sebastian Bach (1974), Il libro delle danze (1974), Vieni! E il giorno sarà nostro (1976), Anabasis (1977), Il Milione (1978), Ceneri di Brecht (1979), Il Vangelo secondo Oxyrhyncus (1985), Judith (1987), Kaosmos (1993), Theatrum Mundi (1995), Mythos (1996). Presenta la sua biografia professionale nella dimostrazione di lavoro Orme sulla neve tra il 1996 e il ’97; tiene inoltre seminari in tutto il mondo, e due volte all’anno dirige la `Odin Week’ a Holstebro.

Caruso

Entrato nel 1957 in qualità di direttore di scena al Piccolo Teatro di Palermo, Pino Caruso comincia pian piano a fare piccoli ruoli (da Il giuoco delle parti a Il burbero benefico , spettacolo del 1961 in cui viene promosso `attor giovane’) e nel 1962 entra nella compagnia di Emma Gramatica (tournée dei Sei personaggi in cerca d’autore ) per passare poi allo Stabile di Catania (1963-65) dove scopre la sua vena comica. L’anno dopo, infatti, viene scritturato dal Bagaglino di Roma, dove rimane per due anni come autore e protagonista della ‘Terza parte della serata’, recitando tutte le sere e contribuendo alla fortuna del locale. Con la tournée teatrale nel 1997 di Pane al pane e Pino al Pino si fa notare e si impone come comico popolare; le porte della tv si aprono grazie a Castellano e Pipolo che lo chiamano a Che domenica amici (1968), primo di una lunga serie di programmi che lo rendono noto al grande pubblico. L’esperienza televisiva continua negli anni (vanno citati almeno Dove sta Zazà , 1973 e Due come noi in coppia con Ornella Vanoni, nel 1978-79), alternata al teatro, in tutte le sue forme: dall’operetta con La vedova allegra (1970 e 1986) e Il paese dei campanelli (1972) alla prosa. È protagonista di Don Giovanni involontario di Brancati (Stabile di Catania, 1970), La lezione e Delirio a due di Ionesco (Stabile di Palermo, 1980). Sfruttando una vena di autore che mescola satira di costume e autoironia, ha scritto e interpretato due monologhi sull’Italia degli anni ’90, Conversazione di un uomo comune (ha debuttato nel 1991, per poi essere ripreso e attualizzato dal 1994 al ’98 con la regia di Franca Valeri) e La questione settentrionale (1992-93). Del 1998 è lo spettacolo Retablo di Vincenzo Consolo, interpretato assieme a Lina Sastri con la regia di Maurizio Scaparro. Numerose le partecipazioni cinematografiche: da Gli infermieri della mutua , accanto a Peppino (1969) a Malizia (1973), da La donna della domenica di Luigi Comencini (1975) a Sedotto e abbandonato , scritto, diretto e interpretato da C. stesso (1977).

Campiglio

Maria Vittoria Campiglio si forma nell’ambito della danza moderna ed espressionista con Elena Vedres e Trudy Kressel, studiando in seguito con Françoise e Dominique Dupuy. Fondato nel 1979 il gruppo `Charà’ firma, da allora, tutti gli spettacoli, spesso collaborando con artisti di altre discipline come Donato Sartori (Performances, 1980), i musicisti Stefano Ricatti (Percorsi, 1983) e Teresa Rampazzi (Breath, 1987).

Conjunto folclorico de Cuba

Fondata nel 1963 Conjunto folclorico de Cuba rappresenta la realtà storica della cultura coreutica indigena dell’isola caraibica e la prima compagnia nazionale di folclore di Cuba. Composta da un centinaio di danzatori e con un repertorio costruito con la collaborazione di studiosi di folclore e etnologi propone oltre alle danze folk, lavori ispirati a leggende afrocaraibiche.

Chicago Opera Ballet

La Chicago Opera Ballet nel dicembre 1955 ha preso il nome di Ruth Page Ballet, cambiando poi più volte denominazione nel corso degli anni, ma sempre sotto la direzione della Page, che vi ha allestito adattamenti di opere e operette come Camille, Il pipistrello e Carmen. Ha ospitato l’esordio americano di Rudolf Nureyev (1962) nel pas de deux di Don Chisciotte, con Sonia Arova. La compagnia si è sciolta nel 1970. La Page ha continuato, però, a occuparsi dei balli d’opera fino al 1979, quando è nato il Chicago City Ballet che, sotto la guida di Maria Tallchief, oltre a interpretare balletti del coreografo residente, Paul Mejia (Cenerentola, Romeo e Giulietta), ha continuato a danzare nelle opere. Anche questo gruppo si è sciolto nel 1987, per riorganizzarsi come Ballet Chicago l’anno dopo, sotto la guida di Daniel Duell, con un repertorio di brani di Balanchine, Martins e dello stesso Duell (Octet à tête, 1990).

Coppola

Luca Coppola ha firmato la regia di pochi spettacoli, fra i quali Elettra o la caduta delle maschere (1986), Dialogo nella palude di Marguerite Yourcenar (1987), che gli aveva riservato l’esclusiva delle traduzioni dei suoi testi, e Dialogo di Natalia Ginzburg (1987). Delle grandi scrittrici femminili contemporanee era appassionato frequentatore, a cominciare da Elsa Morante. Stava lavorando alla messinscena della Pasifae di Henry de Montherlant, quando fu ucciso in circostanze misteriose su una spiaggia della Sicilia occidentale, assieme a Giancarlo Prati, anch’egli attore e traduttore. La vivacità e la curiosità intellettuali avevano fatto conoscere Coppola, nonostante la giovanissima età, al di là e prima di quei pochi spettacoli. Era stato assistente di Giancarlo Cobelli e Carlo Cecchi, e aveva conosciuto il lavoro di Luca Ronconi attraverso il sodalizio con Prati, interprete di quasi tutti gli spettacoli del regista romano (a partire dal Candelaio di Giordano Bruno nel 1968). Insieme avevano firmato la traduzione di Tutto il teatro di Yourcenar. Coppola aveva scritto diversi saggi di argomento letterario e teatrale, apparsi tra l’altro sulla rivista “Paragone” diretta da Cesare Garboli.

Carloni

Pietro Carloni nacque in una modesta famiglia teatrale napoletana (nove tra fratelli e sorelle, tutti attori). Nel 1921, lavorando per la compagnia dialettale di Francesco Carlinci, dove era scritturato con il padre e la sorella, conobbe Titina De Filippo, che sposò l’anno dopo. Da quel momento i due divennero una coppia inseparabile, nella vita e sulla scena, affrontando spesso gravi ristrettezze economiche. Lavorarono insieme nell’avanspettacolo e nella rivista al Teatro nuovo di Napoli, nella sceneggiata napoletana con la compagnia di Cafiero Fumo e poi con la compagnia `Teatro umoristico’ dei tre fratelli De Filippo, di cui Pietro seguì tutte le tappe artistiche (negli anni ’50 si trasferirono da Napoli a Roma); pur di star vicino alla sua compagna accettò anche parti minori, sacrificando le sue aspirazioni artistiche. Con la malattia della moglie, Pietro iniziò una carriera autonoma con la compagnia di rivista di Macario e con Franca Valeri. Partecipò ad alcuni film di Totò e Peppino.

Coward

Noël Pierce Coward ha esordito con Ti lascerò questo (I’ll Leave It To You, 1919) e La giovane idea (The Young Idea, 1922). Il successo del suo teatro, cui Coward ha contribuito anche come perfetto interprete, è iniziato con Vortice (The Vortex, 1924, rappresentato al Teatro Valli di Reggio Emilia nel 1990, regia di M. Bellei), cui sono seguiti Angeli caduti (Fallen Angels, 1925) e La febbre del fieno (Hay Fever, 1925), dove i Buss, una famiglia di artisti, invitano per il week-end un gruppo di amici e li ossessionano con le loro manie (andato in scena a Roma, Teatro Ghione 1992, regia di S. Blasi). In Vite private (Private Lives, 1930) due divorziati s’incontrano durante la luna di miele con i rispettivi nuovi coniugi e decidono di rimettersi insieme: una soluzione che si ripeterà in L’allegra verità (Present Laughter, 1942). Pur legato alla formula della commedia brillante e sofisticata, come Partita a quattro (Design for Living, 1932), Coward ha saputo rendere bene anche l’atmosfera crepuscolare in Vita tranquilla (Still Life, 1936), entrambi tradotti in film, il primo da Ernst Lubitsch (1933), il secondo da David Lean con Breve incontro (Brief Encounter, 1945). Anche Spirito allegro (Blithe Spirit, 1941) ha avuto una versione cinematografica (1945, regia di Lean). Coward resta sostanzialmente fedele alla commedia da salotto, di cui ha attualizzato i contenuti con una carica di superiore spregiudicatezza. Ne esce un quadro disincantato della borghesia inglese tra le due guerre. Ma il dialogo, dove la comicità scaturisce dal contrasto tra la banalità delle battute e il contesto in cui vengono pronunciate, e l’uso sapiente delle pause ne fanno per certi versi un precursore di Pinter.

Chadwich

Diplomatasi presso la Royal Ballet School di Londra, Fiona Chadwich entra a far parte del corpo di ballo del Royal Ballet nel 1970, esibendosi in seguito anche con altre compagnie. Nominata solista e prima ballerina, si esibisce come protagonista in diversi balletti (L’uccello di fuoco, 1980; Isadora, 1981).

Confalone

Marina Confalone frequenta a Napoli negli anni ’70 la scuola di Eduardo De Filippo e partecipa a numerosi spettacoli del Teatro di Eduardo (Natale in casa Cupiello, Gli esami non finiscono mai, L’arte della commedia, Gennareniello). Approda quindi al Granteatro di Carlo Cecchi, dove dà vita a grandi interpretazioni: la serva in L’uomo, la bestia e la virtù di Pirandello, Maggie in Il compleanno di Pinter (premio Ubu 1980 come migliore attrice non protagonista), Pulcinella in Lu curaggiu de nu pumpiere napulitano di Scarpetta. Attrice irrequieta e personalissima, che coniuga alla consapevolezza contemporanea l’intimo sodalizio con il personaggio, reso con il distacco e lo straniamento di tradizione napoletana, è stata paragonata a un autentico fenomeno teatrale capace di costruire maschere vocali e gestuali. Nel 1983 G. Bertolucci scrive e dirige per lei il monologo Raccionepecui , in un meridionalese inventato dagli esiti comici e violenti. Per L’isola di Sancho di M. Santarelli, regia di G. De Bosio, riceve il premio Idi nel 1984. Seguono Amanda Amaranda di P. Shaffer, regia di A. Calenda (1988); Mamma , ultimo testo di A. Ruccello, con il quale firma la sua prima regia (1988); Due di noi di M. Frayn, regia di G. Solari, che nel 1991 la dirige anche nel testo di cui è autrice La musica in fondo al mare ; Ritter, Dene, Voss di T. Bernhard, regia di C. Cecchi (1993). Nel 1998 debutta in Le farse di P. De Filippo, accanto a S. Orlando e per la sua regia. Oltre agli intermezzi televisivi (da L’altro varietà di A. Falqui a Dio vede e provvede ), numerose le partecipazioni cinematografiche e i premi come attrice non protagonista: per Così parlò Bellavista di L. De Crescenzo (1984), Arriva la bufera di D. Lucchetti, (1992), La seconda volta (1995) e La parola amore esiste (1997) di M. Calopresti.

Contardi

Laura Contardi studia con Giuseppina Campolonghi e a Parigi con Y. Chauviré e G. Thesmar, per poi avviare un’intensa carriera danzando come prima ballerina con i Balletti di Montecarlo (1985-87), l’English National Ballet (1987-89), la Deutsche Oper di Berlino (1990) e l’Aterballetto (1993). Dal 1996 all’Opera di Dresda, partecipa con successo a creazioni di J. Neumeier (Pomeriggio di un fauno) e T. Schilling (Le affinità elettive).

Casorati

Il primo impegno teatrale di C. fu La vestale di Spontini, allestita per il Maggio musicale fiorentino del 1933. In quel periodo l’artista era giunto, dal purismo volumetrico degli anni Venti, dominato da una dialettica di scansioni e contrasti prospettici, a una maggiore emotività dello spazio architettonico; in seguito, l’elemento descrittivo dei bozzetti verrà sempre più semplificato dall’artista. Nelle scenografie per il balletto La follia di Orlando di Petrassi (Scala 1947) C. realizzò una composizione di grandi pannelli dipinti, collocati in un ampio spazio: un progetto che egli definì, in uno scritto sul proprio lavoro teatrale, «le scene che ho dipinto con maggiore convinzione»; puntualizzava anche come il balletto fosse la forma teatrale che più lo entusiasmava, per la relazione «meno utilitaristica» tra musica e pittura, e perché lo scenografo vi si trovava «meno costretto a quelle concessioni realistiche» dalle quali, col tempo, tendeva ad allontanarsi. Le scenografie per Norma di Bellini, sempre per il Maggio musicale (1935), segnano un momento particolarmente riuscito: per la dinamica visiva, colta nel variare delle soluzioni prospettiche da un atto all’altro; i colori perlacei delle scene, che stemperavano il rigore geometrico in effetti di risonanze emotive; i costumi, racchiusi in una volumetria che riduceva al minimo i dettagli dei movimenti, e che voleva realizzati «con stoffe opache e rigide, mai con seta, raso o velluto e soprattutto mai con stoffe leggere e trasparenti», né «troppo variopinti e tormentati da dettagli». Didone e Enea di Purcell, del 1949, con la nota ultima scena composta nel fondo dalla struttura alternata di mura e vele, dove si levava la prua altissima di una nave rossa, e dieci anni dopo l’ Elektra di R. Strauss nell’edizione diretta da Mitropulos, col forte cromatismo espressionista, concludono la sua collaborazione al Maggio fiorentino. Tra gli altri lavori ricordiamo le scenografie per la Scala: La donna serpente di Casella (1942), dove all’unità del tono grigio pietra dello spazio architettonico, che risuscita la memoria di Appia, fa da contrasto il rosso spettacolare dei drappeggi; Fidelio di Beethoven (1949) e Il principe di legno di Bartók (1951).

Catalano

Formatosi come mimo, negli anni Antonio Catalano ha sviluppato una personale sintesi tra gesto e parola, rivelandosi come uno dei più interessanti protagonisti del teatro di ricerca. Ha fondato e lavorato con Alfieri Società Teatrale (ex Teatro del Magopovero) lavorando in Pietre (1986), testo e regia di L. Nattino, Balena (1988) di L. Nattino, spettacolo di cui ha curato la regia, e più recentemente in Nella nebbia (1994) di D. Mamet e nel suo testo (scritto insieme a Nattino) Moby Dick (1995). Ha recitato nell’allestimento di De Berardinis de I giganti della montagna (1996) e, nella stagione 1997-98, insieme agli attori del Living Theatre, ha interpretato da protagonista il Chisciotte di Nattino. Da alcuni anni svolge un’attività seminariale di formazione dei giovani attori.

Certini

Alessandro Certini studia danza moderna a Firenze con Traut Faggioni e Katie Duck, tecniche postmoderne e `contact improvisation’ a Londra e Amsterdam. Dal 1979 al 1986 danza con il Group/o di Katie Duck; nel 1989 è con Virgilio Sieni in Duetto. Nello stesso anno fonda `Company Blu’ con Charlotte Zerbey, con la quale crea tra l’altro Don Chisciotte (1992), Le curve dei pensieri (1994), il progetto triennale Alveare (1995-97) e Silenzi (1998). Per questi lavori collabora con musicisti come Tristan Honsinger e Antonello Salis, sulla cui musica dal vivo elabora una coreografia astratta che lascia grande spazio all’improvvisazione degli interpreti.

Cinieri

Fin dagli inizi il percorso artistico di Cosimo Cinieri è segnato dalla ricerca e dalla sperimentazione teatrale: si prova così nelle forme più diverse di spettacolo, spaziando dal `teatro di strada’ ai `grandi palcoscenici’. Nel solo 1965 si susseguono spettacoli come Aspettando Godot, Finale di partita, Atto senza parole, Zip, Lip, Vap, di Scabia, La fantesca di Della Porta, Libere stanze di Lerici, tutti per la regia di Quartucci. Dal 1968 al ’72 realizza una serie di messe in scena di cui è anche autore; si ricordano titoli come Onan (1968), Domenico del mare (1968), Chez Mignot (1969), Alleluja Requiem (1970), San Sebastiano (1971, teatro di strada, in collaborazione con la coppia De Berardinis-Peragallo), Vietnam (1972).

Nel 1974 è sulle scene del Teatro Manzoni di Milano con Sade: libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina di Bene, con il quale lavora anche nell’ Otello (1979). Dal 1978 dirige, con Irma Palazzo, la Compagnia Cinieri-Palazzo, percorrendo tre strade parallele di ricerca: la teatralizzazione della poesia, la reinvenzione dei classici, la drammaturgia breve, con allestimenti come La Beat Generation. Show in versi (1978), Cosimo Cinieri è/o Macbeth di Shakespeare (1982-83) e un repertorio di trenta atti unici dei più vari autori (Pinter, Schnitzler, Strindberg, E. De Filippo, García Lorca, Ionesco, Feydeau, Pirandello, Cechov e altri), che vanno in scena dal 1985 al 1989. Nell’ultimo decennio poesia e musica sono le protagoniste assolute degli spettacoli di C., come appare già dai titoli: Canzoniere italiano. Poesia in concerto (1991), García Lorca in flamenco (1993), `Luoghi della memoria’ dei Sepolcri (1994), Giocar di versi. Café della voce (1996-97). Nell’ultima stagione interpreta La mandragola (regia di Missiroli) e Giovanna d’Arco. Donna armata di L. Fontana. Alla sua attività teatrale alterna partecipazioni in produzioni cinematografiche, televisive e radiofoniche; è voce recitante in opere musicali e si dedica, inoltre, a stage di recitazione e psicotecnica.

Crippa

Protagonista della scena internazionale, Maddalena Crippa interpreta con originalità e rigore stilistico personaggi-chiave, nel corso di una carriera condotta al fianco di importanti registi, alternando ruoli da popolana a ruoli da aristocratica o spregiudicata sciantosa. Inizia a recitare a diciotto anni al Piccolo Teatro ne Il campiello di Goldoni (1975), diretta da Strehler nel ruolo di Lucietta, partecipando poi a una lunga tournée: Parigi, Berlino, Mosca, Varsavia. Un altro ruolo fondamentale è Lady Macbeth, con la regia di E. Marcucci (1980); è protagonista, diretta da Ronconi, in La commedia della seduzione di A. Schnitzler; contemporaneamente è Leonide e Focino in Il trionfo dell’amore di Marivaux, per la regia di A. Vitez (1985). M. Castri la dirige in Fedra di D’Annunzio, dove interpreta il ruolo della protagonista (1988 e ’93). È una sensuale Tamora nella versione del Tito Andronico di Shakespeare di P. Stein, Nora in Casa di bambola di Ibsen, la nobile Cornelia e la governante Rosa – parti in cui si alterna con Elisabetta Pozzi – nell’ Attesa di R. Binosi per la regia di Cristina Pezzoli. Partecipa al festival di Salisburgo dal 1994 al 1997, recitando in lingua tedesca la parte della lussuria (Buhlschaft) nello Jedermann di Hofmannsthal. Con la regia di Stein, di cui è compagna, è Elena in Zio Vanja di Cechov, che debutta a Mosca (1996) e vince il premio come miglior spettacolo al festival di Edimburgo. La troviamo protagonista nel Pierrot lunaire di Schönberg con la regia di W. Le Moli e in due recital, Canzoni italiane del 1919-39 e Canzonette vagabonde degli anni ’20-40, in cui canta brani italiani e tedeschi. Vince il premio Maschera d’argento come miglior attrice nel 1994.

CRT Artificio

Fondato nel 1984 e ancor’oggi diretto da Franco Laera CRT Artificio è mirato alla produzione di progetti internazionali. L’attività del gruppo è diretta all’individuazione e promozione di artisti che si prefiggono la ricerca e il rinnovamento del linguaggio teatrale. Il CRT Artificio ha prodotto gli spettacoli di Tadeusz Kantor e del suo Cricot 2 e ha anche riscoperto e valorizzato il patrimonio artistico della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e figli, formando il gruppo che ora ne continua autonomamente l’attività. Inoltre produce gli spettacoli di Moni Ovadia. Accando al CRT Franco Laera assieme a Yasunori Gunji ha fondato la Change Performing Arts che ha prodotto e distribuito spettacoli di Robert Wilson, Philip Glass, Antonio Gades, Peter Greenway, Lev Dodin e molti altri artisti internazionali.

Cordelli

Sostenitore di un `teatro della scrittura scenica’, in cui, come ha detto Enzo Siciliano, «la parola si piega al gesto», crea il primo dei suoi testi, Siberina , nel 1984; secondo una prassi consueta, si tratta in effetti di una riscrittura, in questo caso di Diderot. La pièce è stata allestita al Teatro Trianon di Roma nel 1985, con la regia di Gianfranco Varetto. Di argomento storico è la commedia Antipasqua e Lena (1987), ispirata a Lenz e Büchner. Petroliere (1985) e Pessimi custodi (1988) sono gli unici due testi frutto di invenzioni puramente autonome. Frère Jacques – realizzata tra il 1989 e il ’91 – è una riscrittura di Dostoevskij ( La mite ) e Landolfi ( La muta ). Arancio è un’altra commedia storica, basata su Campagna di Francia di Goethe; è stata messa in scena con regia e musica di Alessandro Berdini a Roma, presso il Teatro del Vascello, nel 1997. C. è critico teatrale del “Corriere della sera”.

Cabaret Voltaire

Le radici di Cabaret Voltaire si possono ricondurre alla poetica del dadaismo, movimento di rottura e rinnovamento delle logiche artistiche tradizionali che elesse nel 1916 a Zurigo, ad opera del regista teatrale H. Ball, uno spazio che si chiamava appunto Cabaret Voltaire – in cui si tenevano mostre d’arte russa e francese, danze, letture poetiche, esecuzioni di musiche africane – a quartier generale del gruppo. Fin dalla scelta di un nome così significativo è dichiarato l’atteggiamento di Cabaret Voltaire, che si sostanzia nel rifiuto della cultura e della morale corrente a vantaggio di un gioco dissacratorio espresso nel teatro, nel cinema, nella danza e nella musica. Fondato nel 1975 da Edoardo Fadini e dai componenti della sua famiglia (moglie, figli e nipoti), il gruppo si arricchisce successivamente della collaborazione di Gianni Varalli, Ruggero Bianchi, Roberto Alonge, Gigi Livia e numerosi altri studiosi e storici del teatro, comunemente legati dalla passione per la ricerca e operanti all’interno dell’università di Torino. È da sottolineare infatti la costante collaborazione di Cabaret Voltaire con l’istituzione universitaria che, nel corso degli anni, in occasione dell’arrivo in Italia di spettacoli e artisti stranieri su invito del gruppo torinese, ha organizzato conferenze e dibattiti sempre seguiti con grande interesse. Nato quasi fisiologicamente dal vecchio gruppo ‘Unione culturale’ (fondato sempre da Fadini nel 1962), che ha fatto conoscere al nord Carmelo Bene ( Pinocchio ; Torino, Teatro Alfieri 1963), Falso Movimento, I Magazzini Criminali e altri outsider della scena italiana, oltre ad aver portato per la prima volta fuori dagli Usa l’American Cinema.

La caratteristica fondamentale di Cabaret Voltaire si configura, in ambito produttivo, nel lavoro interattivo di artisti provenienti da differenti aree multidisciplinari, che firmano la realizzazione di messe in scena collettive. La ricerca e la sperimentazione di nuovi linguaggi porta Cabaret Voltaire a concepire lo spazio scenico come oggetto di scrittura e la recitazione come mera comunicazione di suoni. L’anarchia linguistica, la musicalità delle parole, il suono come elemento naturale costituiscono quindi le componenti significanti della poetica del gruppo. La prima messa in scena, L’inferno di Dante (1976), nata da un laboratorio con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Napoli, fu allestita sotto un immenso tendone da circo. Con Ecce Homo Machina del 1981 (stroncato dalla critica come «una delle battaglie teatrali» e «un’altra pugnalata di Cabaret Voltaire»), in cui la negazione di parola e musica si risolve a favore di una recitazione incomprensibile e di una sonorità archetipa, ha inizio una lunga serie di scandali, che spesso culminarono con la sospensione temporanea degli spettacoli. Dopo l’irruzione della polizia alla Fenice di Venezia durante la rappresentazione di Ecce Homo Machina, lo spettacolo fu interrotto (poi ripreso) con l’accusa di «attentare all’udito degli astanti e agli stucchi del teatro». In quella occasione Maurizio Scaparro e il sovrintendente Trezzini convocarono Fadini e gli `consigliarono’ di far abbassare il livello del suono.

Ancora scandalo, ma anche ovazioni per la performance di John Cage (recitava Joyce) al teatro Alfieri di Torino, durante la quale il pubblico si divise: metà cantava l’ Inno alla gioia di Beethoven e l’altra invece non finiva più di applaudire. Dopo quaranta giorni di una lunga serie di concerti e letture sceniche, che toccarono luoghi storici come il Big Club, la tournée di Cage si concluse decretando il successo italiano dell’artista. Una delle ultime grandi operazioni di Cabaret Voltaire è stata (1987-92) la riedizione del festival di Chieri, durante il quale vennero ribadite le dieci tesi dell’avanguardia italiana promosse dal convegno di Ivrea del 1967. Di quella occasione è significativo ricordare una frase pronunciata dal regista napoletano Mario Martone: «siamo soldati in una notte di nebbia con i fucili carichi, senza sapere a chi sparare». Utopia americana (1992) è l’ultimo titolo di una lunga stagione (gennaio-giugno) di manifestazioni organizzate da Cabaret Voltaire; alla serata inaugurale, al Regio di Torino, erano presenti duemilaquattrocento spettatori che applaudivano Philip Glass al pianoforte e Allen Ginsberg che recitava l’originalissimo Smoke. Ancora una volta, il lavoro di Cabaret Voltaire suscitò grande scandalo alla prima di Peter Schumann di Cristoforo Colombo e il nuovo ordine mondiale , spettacolo itinerante diviso in due parti: una (la conquista dell’America da parte di un Colombo nano, che distribuiva cibo agli spettatori) sulla riva del Po; l’altra su un fronte unico sull’acqua, dove si simulava l’impiccagione di uomini e animali, simbolo della distruzione ambientale ed economica operata dai conquistatori. La polizia intervenne ancora una volta, avvertita che sulle sponde del Po si stava officiando una messa nera. Dopo lo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 1993, tutto il lavoro di Cabaret Voltaire, oggi rinchiuso in centoquaranta casse, sarà ricostruito e documentato dal Centro studi teatrali di Torino.

Cervi

Attraverso il padre, critico teatrale, Gino Cervi entrò fin da bambino a contatto con il mondo delle scene. Dopo un breve intermezzo da filodrammatico, esordì a ventitré anni come attor giovane ne La vergine folle di H. Bataille a fianco di Alda Borelli. L’anno successivo si trasferì al Teatro d’Arte di Roma diretto da Pirandello e iniziò un tirocinio che si concluse nel 1935 quando, oltre a interpretare il suo primo film (Aldebaran di A. Blasetti), diventò primattore nella compagnia Tofano-Maltagliati. Fu il momento in cui, affrontando personaggi quali Memmo del pirandelliano Ma non è una cosa seria o Paolo di La maschera e il volto di Chiarelli, si dimostrò più che mai attento a quanto di più stimolante offrisse il repertorio contemporaneo; e questo muovendosi nella direzione di una recitazione asciutta, stringata, moderna, nell’ambito di una scena italiana ancora incline a subire fascini mattatoriali. Fu proprio questa scelta espressiva che più avanti gli permise di affrontare, con esiti non trascurabili, alcuni grandi testi shakespeariani, fra i quali un Otello lontano dalla tradizione di commossa drammaticità, nonché Le allegre comari di Windsor , dove diede al personaggio di Falstaff la sua calda comunicativa; il tutto con quella saporita dizione d’impronta emiliana e quella larghezza di gesto che furono sue prerogative.

Gli anni dell’immediato dopoguerra, quando si era già ampiamente affermato anche al cinema (basti pensare al successo di Quattro passi fra le nuvole , regia di Blasetti, 1942), lo videro proseguire su una strada pronta a cogliere i fermenti, le indicazioni del `nuovo’ teatro; fra i lavori di cui fu protagonista, I parenti terribili di Cocteau (regia di Visconti), La guerra di Troia non si farà di Giraudoux (regia di Salvini), Brava gente di Shaw. Nel 1953 apparve in Cyrano di Rostand, rimasto forse il suo risultato più compiuto: proprio i suoi toni pacati, uniti a una sapiente tecnica, riuscirono a spogliare il personaggio di quell’aureola di retorica in cui la tradizione lo aveva fissato, restituendolo in maniera più viva e autenticamente sofferta. Toni pacati che riaffioreranno ne Il cardinal Lambertini di Testoni, che portò anche al cinema e in Tv. Nel frattempo era arrivato anche il grande successo popolare con Don Camillo (1952), film tratto dal romanzo di Guareschi in cui, in coppia con Fernandel, interpretava il personaggio di Peppone, la cui bonarietà ringhiante gli calzava a pennello. Più tardi, a partire dal 1968, cominciò per la televisione la lunga serie del Commissario Maigret di Simenon (41 puntate), affiancato da Andreina Pagnani. Era un Maigret di socchiuso umorismo, piuttosto in pantofole e con un eccesso di pipa, al quale C. non faceva altro che portare il suo alto mestiere, quella carica di simpatia che spontaneamente emanava; la stessa che sempre era riuscito a creare intorno ai suoi personaggi, in maniera tale che gli riusciva difficile, anche se non impossibile, assumere ruoli di cattivo.

Crovetto

L’attore più `pendolare’ dello spettacolo italiano, in grado di passare, nella stessa stagione, da Strehler alle riviste di strip-tease, una serie infinita di andata-ritorno dalla prosa al varietà, dall’avanspettacolo al teatrino hard, dal cinema all’operetta. Sempre spendendo in dosi massicce le sue doti di straripante comunicativa. Partecipa, nella stagione 1956-57, a Il resto mancia , di scena all’Olimpia di Milano: rivista di Simonetta e Zucconi, con Lisetta Nava «allegrissima» e Gino Bramieri «prorompente». Una rivista «che diverte senza volgarità», con un ragguardevole cast di realizzatori: Valerio Brocca (coreografie), Sebastiano Soldati (scene), Aldo Buonocore (musiche), Eros Macchi (regia). Attività ininterrotta, invernale in compagnie di rivista e estiva in esibizioni estemporanee, dalla presentazione di spogliarelli (è un formidabile raccontatore di barzellette) a festival di operette (assiduo `caratterista’ dal 1975 nelle stagioni del festival di Trieste). Nel 1964 viene chiamato da Giorgio Strehler per un ruolo importante ne Le baruffe chiozzotte di Goldoni (tra gli altri interpreti di prosa, da Corrado Pani a Lina Volonghi, Carla Gravina ecc., un altro attore pescato su ribalte minori: Tino Scotti). Grande successo, riconfermato trent’anni dopo nella ripresa dello spettacolo per una tournée internazionale. In rivista è stato accanto a Macario, alle sorelle Nava, a Tino Scotti, a Walter Chiari, a Ugo Tognazzi; e accanto a Tognazzi è stato anche ne L’avaro di Molière. Ha partecipato a spettacoli firmati da Missiroli, Garinei, Proietti; ha vinto il premio Biancamano per il film La vita agra di Carlo Lizzani (1963). In tv è stato tra le vecchie glorie (da Calindri a Durano) interpreti di Villa Arzilla , venti episodi di fiction all’italiana, regia e soggetto di Gigi Proietti (1990-91). È accanto a Johnny Dorelli, Gloria Guida, Paola Quattrini in Se devi dire una bugia dilla grossa di Cooney-Fiastri, regista Pietro Garinei.

Cheli

Vinicio Cheli si diploma nel 1973 alla Scuola di scenografia dell’Accademia di belle arti di Firenze e dal 1974 al 1979 lavora al Maggio musicale fiorentino collaborando a tutte le produzioni. Dal 1979 al 1989 partecipa alle realizzazioni del Piccolo di Milano dove è collaboratore alle luci di Strehler. Intanto inizia a lavorare per il Rossini Opera Festival (dal 1987) e per il festival di Salisburgo (dal 1989) dove produce diversi spettacoli. Nel 1990 collabora all’inaugurazione dell’Opéra-Bastille e l’anno seguente è al Festival di Aix-en-Provence con Castor e Pollux . Nel 1992 lavora all’allestimento dell’ultimo balletto di Nureyev Bayadera . Collabora poi con Ronconi (Falstaff, 1993; Otello, 1994) e con Grüber (Erwartung, 1995; Otello, 1996). Nel 1998 lavora agli allestimenti di Parsifal (per la Nationale Reis Opera), Aida (per la riapertura del Teatro Massimo di Palermo), Lucrezia Borgia (con Hugo de Ana per la Scala), Lucia di Lammermoor (al Metropolitan di New York). Insegna illuminotecnica alla Nuova Accademia di belle arti di Milano e alla Scuola professionale della Scala.

Carnabuci

Frequentò la scuola di Luigi Rasi a Firenze ed esordì con la compagnia Carini-Gentilli nel 1920. Negli anni fra il 1926 e il 1928 lavorò nella compagnia di Luigi Pirandello e nella compagnia Italianissima, nel 1928-29 in quella diretta da Sem Benelli e nel 1930 con Tat’jana Pavlova. Interpretò sempre parti di grande rilievo al fianco di attori come E. Gramatica, I. Almirante, A. Rossi, L. Picasso, M. Melato, R. Ruggeri, P. Borboni e S. Tofano. Si ricorda un fortunato Zio Vanja a fianco di Diana Torrieri nel 1943. Lavorò con registi come Nemirovic-Dancenko ( I valori della vita , 1931), Copeau, Pacuvio, Reinhardt, Visconti ( Troilo e Cressida , 1949), Salvini e Strehler. Il suo repertorio comprendeva i tragici greci, D’Annunzio, Shakespeare, Cechov, Ibsen, Betti, O’Neill, Eliot. Prese parte anche ad alcuni film.

Caron

Guy Caron è noto per aver fondato nel 1980 l’Ecole nationale du cirque di Montreal, e per aver poi stabilito i principi artistici alla base della nascita del Cirque du Soleil. Artista di strada negli anni ’70, si specializza alla scuola del Circo di Budapest, per poi cercare di creare una realtà circense a Montreal. Nel 1984 è chiamato a creare il primo spettacolo del Cirque du Soleil: sostiene di voler unire il teatro al circo tradizionale, di ispirarsi alle troupe orientali, con l’idea che il circo deve evolvere con la propria epoca, a prescindere da archetipi del passato. Staccatosi dal Cirque du Soleil, negli anni ’90 ha diretto alcuni spettacoli al circo svizzero Knie e al Big Apple Circus di New York, oltre alla pantomima acquatica Crescend’O al Cirque d’Hiver di Parigi.

Cavalieri

Tra i migliori attori goldoniani del secolo. Dopo aver esordito diciannovenne nella compagnia Zoncada-Masi-Capodaglio, Gino Cavalieri passò quasi subito alla scena dialettale; lavorò per oltre un decennio con G. Giachetti, in varie formazioni, e nel 1931 all’Odeon di Milano formò la sua prima compagnia, presto scioltasi. Dopo aver recitato con T. Pavlova in parti comiche decise di ritornare in Veneto, che da quel momento abbandonò solo raramente; a Venezia creò una sua compagnia, alla quale si aggiunsero E. Baldanello (1939) e, nel dopoguerra, il fratello Gianni. La sua pittoresca vena di attor comico ebbe modo di brillare in spettacoli quali Le baruffe chiozzotte messe in scena da Simoni (1935), La putta onorata per la regia di Strehler (1950) e Il Saltuzza del Calmo allestito, ancora nel ’50, da Baseggio; altre memorabili interpretazioni furono quella de La casa nova (regia di Lodovici), di L’avaro (ancora con Baseggio) e il Carlo Gozzi di Simoni con la regia di E. Sabbatini, sempre nei primi anni ’50. C. portò le sue grandi doti di attor comico nel cinema (in particolare, Nina, non far la stupida , 1937) e si cimentò anche nella scrittura di lavori teatrali (Un giorno di sole , commedia messa in scena, a Padova e a Milano, da Baseggio nella stagione 1951-52).

Cuny

In campo cinematografico ha lavorato con Antonioni, Fellini e Malle. In teatro ha recitato con J.-L. Barrault e J. Marais in 800 mètres di A. Obey (1941). È stato inoltre indimenticato interprete di Claudel: L’annuncio a Maria (1944), L’histoire de Tobie et Sara (1947, rappresentata al primo festival d’Avignone con la regia di J. Vilar), La città (1955), Testa d’oro (1959, con la regia di Barrault); quest’ultima è considerata la sua migliore interpretazione. La sua ultima apparizione sulle scene è nel 1972 con La danse de mort , assieme a Maria Casarés.