Witkiewicz

Figlio del pittore e critico d’arte Stanislaw Witkiewicz, Stanislaw Ignacy Witkiewicz studia all’Accademia di belle arti a Cracovia. Partecipa in qualità di disegnatore alla spedizione a Ceylon e in Australia del celebre antropologo polacco Bronislaw Malinowski (1914); durante la prima guerra mondiale presta servizio nell’esercito russo col grado di colonnello della guardia. Tra il 1918 e il ’22 partecipa alle attività dei `Formisti’, un gruppo di poeti e pittori residente a Cracovia. Witkiewicz si è accostato alla forma teatrale da teorico dell’estetica, in un quadro culturale di reazione antiromantica e antinaturalistica.

Negli anni tra il 1918 e il ’34 scrive trentacinque pièce teatrali (di cui più della metà è andata perduta), strettamente legate alle formulazioni teoriche contenute negli scritti critici Nuove forme in pittura e i fraintendimenti che ne conseguono (1919), Schizzi estetici (1922), Introduzione alla teoria della forma pura in teatro (1923). Per Witkiewicz la civiltà è entrata in una fase di livellamento e meccanizzazione capace di assicurare la felicità alle masse, ma anche la fine dell’arte, della religione, della filosofia. Nel campo dell’arte drammatica Witkiewicz ravvisa una delle vie d’uscita da questa situazione in un’opera il cui senso venga definito solo dalla struttura interiore, puramente scenica, e non dall’esigenza di una psicologia coerente o di un’azione conforme a principi vitali.

Witkiewicz fa un uso formalizzato e `metafisico‘ del teatro: nei suoi drammi rinuncia a qualsiasi verosimiglianza, volendo suscitare con la straordinarietà degli eventi rappresentati impressioni oniriche, stati di allucinazione. Il significato di un’opera teatrale per Witkiewicz non è conferito dal contenuto testuale, ma è veicolato dai suoni, dalle decorazioni, dai gesti compiuti sulla scena. Il comportamento dei personaggi è imprevedibile e crudele, le trame delle pièce si basano sulle loro ricerche sentimental-erotiche e su intrighi amorosi, sull’esibita volontà di rivoluzionare l’arte, la filosofia, la religione, di sperimentare il `mistero dell’esistenza’ e di crearsi una vita artificiale. Il dilemma della scelta tra realtà e apparenza è risolto teatralizzando la vita, nel modulo del teatro nel teatro e nella segmentazione del discorso dei personaggi. L’azione spesso ricorda un’improvvisazione collettiva, una rappresentazione carnevalesca.

Ricorrenti i temi della decadenza, dello snaturamento e della formalizzazione dell’esistenza, gli interrogativi sul ruolo dell’arte e degli artisti nella civiltà del futuro: i personaggi delle commedie di Witkiewicz svolgono un ininterrotto discorso sul teatro. Solo alcuni i drammi che poterono essere pubblicati e messi in scena durante la vita dell’autore. In Metafisica del vitello a due teste (1921, rappresentato nel 1928), Tumor Cervelletti (1921), L’indipendenza dei triangoli (1921), Le bellocce e i bertuccioni (1922, rappresentato nel 1967) l’azione ha forma circolare, privando di ogni motivazione le peripezie dei personaggi: chi è stato ucciso nel primo atto torna sulla scena nel secondo. Tra le opere rappresentate tra le due guerre sono da ricordare Mister P. ovvero la balzanità tropicale (1926); La nuova liberazione (pubblicato nel 1922-23, rappresentato nel 1925), storia di un’iniziazione alla `sensazione metafisica’; Nel palazzetto (rappresentato nel 1923), piccolo capolavoro del grottesco derivante dalla contrapposizione tra realtà teatrale e realtà vissuta; La gallinella d’acqua (rappresentato nel 1922), dove i gesti più tragici si ripetono senza riuscire a incidere sulla realtà, in un grand-guignol insieme da incubo e ridicolo; Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (pubblicato nel 1923, rappresentato nel 1933), tentativo di trovare un’alternativa artificiale, immaginaria, al reiterarsi inconcludente di situazioni reali; Gian Matteo Carlo Rabbia (rappresentato nel 1925); Il folle e la monaca (pubblicato nel 1925, rappresentato nel 1926), esemplificazione del postulato che vuole che la follia sia il tratto distintivo della creatività artistica.

Dopo la seconda guerra mondiale e la parentesi della censura staliniana sono stati pubblicati e rappresentati per la prima volta alcuni tra i drammi più importanti di Witkiewicz: Loro (1963), dove a un regime tirannico che teorizza e pratica il livellamento sociale e la barbarie culturale si oppone un artista spinto alla connivenza col crimine dall’agnosticismo morale; La madre (1964), quadro di un universo in cui il genere umano è oramai allo sfacelo, «l’arte è moribonda, la religione è finita e la filosofia divora le proprie interiora»; La locomotiva impazzita (1965); Gyubal Wahazar (1966), il cui protagonista intende dedicarsi alla salvezza dell’umanità imponendo una propria personale dittatura; La sonata di Belzebù (pubblicato nel 1938, rappresentato nel 1966); nonché l’ultima opera dello scrittore, Ciabattini (1957), espressione di quel catastrofismo che non fu estraneo alla scelta di togliersi la vita al momento dell’aggressione sovietica alla Polonia (1939). Sulla scena le proposte della `forma pura’ si pongono a cavallo fra il Théâtre Alfred Jarry e Artaud: affine a quest’ultimo il pensiero rivolto a un’«oltranza che superi le contingenze della vita» (G. Poli).

La parola chiave in Witkiewicz è `insaziabilità‘ (titolo di un suo romanzo), estasi frustrata, verbigerazione, discorso straripante: l’autore-narratore si moltiplica in una moltitudine di personaggi, e a un minimo di azione scenica corrisponde un massimo di espansione verbale. Dal secondo dopoguerra a oggi i drammi di Witkiewicz, in cui non è difficile ravvisare un precursore del teatro di avanguardia, godono di un’inesausta fortuna scenica. Tra le messe in scena di maggior valore sono sicuramente da annoverare quelle di Il calamaro, ovvero la Weltanschauung ircanica (1956), Nel palazzetto (1961), Il folle e la monaca (1963), La gallinella d’acqua (1967) e Le bellocce e i bertuccioni (1972) ad opera di Tadeusz Kantor.

Vitrac

Poeta, giornalista, regista, ma non teorico. Roger Vitrac viene considerato una figura di secondo piano del surrealismo, ancorché un precursore del `Théâtre Nouveau’. Il suo lavoro è difficile da classificare perché le sue rare rappresentazioni in teatri d’avanguardia hanno offerto spettacoli insoliti, talvolta scandalosi, ma in ogni caso in anticipo sui tempi. Nel 1922, durante una manifestazione dadaista, Vitrac incontra L. Aragon e A. Breton e con essi il surrealismo (A. Breton, tuttavia, per le sue tendenze anarcoidi, lo mette all’indice una prima volta nel 1925). Del 1923 sono Les Mystères de l’amour (un `drame surréaliste’ ambientato nell’universo intemporale del sogno, fatti salvi i riferimenti a Mussolini e a Lloyd George); nel 1926 con A. Artaud e R. Aron, fonda il Théâtre Alfred Jarry (che, curiosamente, nasce in contemporanea al Cartel di L. Jouvet, C. Dullin, G. Baty e G. Pitoëff): «Il nostro tema sarà: l’attualità intesa in tutti i suoi sensi; come mezzo: l’umorismo in tutte le sue forme; come scopo: il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità inebetita allo scoppio del pianto». Agli inizi di giugno del 1927 sono messi in scena i primi spettacoli del Théâtre Alfred-Jarry, Humoristiques e Cruautés de la nuit .

I programmi successivi ricordano ancora, per commistione di generi e per audacia, i manifesti dadaisti: sono esposti i quadri concepiti dai tre fondatori, è rappresentato il terzo atto di Partage du midi di Claudel (senza che l’autore ne abbia dato l’autorizzazione); è proiettato, nel 1928, un film di Pudovkin che era stato censurato (La madre). Sempre nel 1928 sono messi in scena Il sogno di Strindberg e, soprattutto, Victor ou les Enfants au pouvoir, uno dei primi grandi tentativi di regia moderna e insieme l’ultimo spettacolo del Théâtre Alfred-Jarry. Teso a trascrivere «la vita come essa è», a sondare la difficilissima estetica del quotidiano, questo «dramma borghese in tre atti» (che si svolge a Parigi nel 1909, in un appartamento, dalle otto di sera a mezzanotte) raggiunge una tesissima drammaticità per l’isocronia della storia, della fabula e della rappresentazione, resa ancor più stridente dal linguaggio assolutamente anarchico utilizzato (in polemica non soltanto col linguaggio convenzionale, ma anche con quello quotidiano) e dal paradosso rappresentato dalla fisicità dei personaggi (Victor, bambino-gigante che cresce sempre più sulla scena; I. Mortemart, sorta di sfinge `modern’style’, incarnazione del destino o della morte che attende in abito da sera).

Se è possibile assimilare Vitrac alla corrente che va da E. Lear a A. Jarry, da E. Satie a B. Vian e a R. Queneau, egli annuncia sicuramente, con trent’anni di anticipo, ciò che E. Ionesco porta alle estreme conseguenze. Victor viene pubblicato nel 1929 e riceve una consacrazione postuma, nel 1962, da parte di J. Anouilh, che considera Vitrac «padre del teatro moderno». Tra le altre pièces di Vitrac, Le Coup de Trafalgar (1934, Théâtre de l’Atelier per il Rideau de Paris); Le Camelot (1936, Théâtre de l’Atelier); Les Demoiselles du large (1938, Théâtre de l’Oeuvre); Le Loup-Garou (1940, Théâtre des Noctambules, scene di R. Rouleau); Le Sabre de mon père (1951, Théâtre de Paris); Médor (1966, Théâtre du Studio des Champs-Elysées, in contemporanea con L’Air du Large di René de Obaldia); Entrée libre (1967, Théâtre Daniel-Sorano). L’ultima pièce di V., Le condamné, esce postuma nel 1964.