Bernhardt

Personalità istrionica, donna appassionata, capace di slanci generosi e di ardenti furori, il nome di Sarah Bernhardt riempì le cronache di oltre mezzo secolo e appartenne subito al mito. Capace di mille eccentricità, più di ogni altra attrice al mondo – e con largo anticipo sulle star di Hollywood – fu la prima a dover essere considerata `diva’. Eccellente promotrice di se stessa, a suo modo fu genio della pubblicità e dell’immaginazione, capace di farsi fotografare in un catafalco tutto di seta, così come di stupire salendo in pallone aerostatico. Vaste platee di tutto il mondo subirono il suo fascino e le sue pose ancor prima della Belle Époque, e quando già si era consumata la Prima guerra mondiale. Nata da madre ebrea olandese, fu soprattutto l’incontro con i testi di Dumas padre ad aprirle le porte incantate del teatro (aveva frequentato il Conservatorio parigino e debuttato in varie sale: Comédie-Française, Odéon, Gymnase); si innamorò di Racine – sempre rimasto suo autore preferito – che la salvò dalla dissipazione nelle alcove parigine. Ora milionaria, ora indebitata fino al collo (aprì e chiuse teatri; nel 1893 acquistò il Renaissance e sei anni dopo un’altra sala, cui diede il suo nome), trascorse l’esistenza ammaliando con il fascino indiscreto che la sua vitalità le dava. Nemmeno l’amputazione di una gamba in seguito a un incidente (1914) le impedì di lasciare le scene. Osannata dai critici e amata dal pubblico (ma forse senza vero entusiasmo), il suo repertorio – il primo successo fu in Il viandante di F. Coppée, 1869 – andò dai classici (Racine, Voltaire, Beaumarchais, De Musset) a Scribe e Sardou, il quale scrisse per lei drammi ( Fedora , Tosca , Cleopatra ) ricchi di `scene madri’, che furono il suo forte. Affrontò anche D’Annunzio ( La città morta ); lei stessa, oltre a un libro di memorie ( La mia doppia vita ), scrisse tre drammi di notevole fattura. Se poco rilevanti furono le sue interpretazioni shakespeariane (Ofelia, Lady Macbeth), andò incontro a grandi e popolari successi quando, anche in numerose tournée, indossò gli abiti maschili in Amleto ; più ancora, poi, ebbe trionfi quando, a cinquantasei anni, tornò a indossarli per l’ Aiglon di E. Rostand. Si accostò anche al cinema, ma con risultati insoddisfacenti; si trovava su un set (quello di La veggente , su soggetto di S. Guitry) quando, come Molière, si accasciò a terra: di lì a qualche giorno sarebbe morta, il suo nome entrando nella leggenda.

vaudeville

Negli Stati Uniti il termine vaudeville non ha niente a che vedere con l’originaria accezione francese di canzone scherzosa o commedia comica cantata. È piuttosto sinonimo di teatro di varietà, ma il vaudeville rappresenta forse il genere che più di ogni altro segna nel Novecento il passaggio dallo spettacolo dal vivo a quello riprodotto. Fino ai primi anni del secolo il varietà offre rappresentazioni a poco prezzo per i componenti della classe operaia, che negli stessi locali possono trovare alcolici e persino compagnia femminile. Ma l’impresario Tony Pastor crea il vaudeville `sano’, ripulendo spettacoli ed edifici teatrali da ogni allusione al sesso e da qualsiasi altra gratuita scurrilità. I direttori dei circuiti impongono all’artista modifiche o tagli del numero per far sì che le esibizioni mantengano un carattere di spettacolo pulito e riservato al più ampio pubblico possibile.

Da allora si forma il ‘mixed-audience’, il pubblico misto, essenziale fondamento sul quale è costruita la grande fortuna del vaudeville, che allarga la propria utenza e diviene in pratica il primo `mass media’ dell’era industriale, il primo mezzo mediante il quale si diffondono in tutti gli Usa le stesse canzoncine e si affermano gli stessi volti noti. Il meccanismo imprenditoriale in America è più articolato che altrove e il sistema di scrittura coinvolge quattro differenti operatori: l’artista, l’agente, il responsabile del circuito e il responsabile del teatro. Con questo sistema ben presto si formano dei trust, che controllano per intero l’immenso mercato americano. I circuiti più importanti sono il Proctor, il Moss e il Keith-Albee; quest’ultimo, in particolare, è il più potente e arriva a gestire, nel momento di massima espansione, oltre settecento teatri.

Negli Stati Uniti vi sono più teatri di varietà pro capite che altrove. Si va dai `Continuous’, dove artisti a buon prezzo si alternano per tutta la giornata, ai `Big-time’, meta agognata di ogni artista, con spettacoli programmati, posti prenotati e stelle superpagate. Persino il presidente Woodrow Wilson nel 1915 dichiara: «Quando voglio rilassarmi mi piace assistere a un buon spettacolo di varietà. Se vedi un brutto numero puoi essere ragionevolmente sicuro che il prossimo sarà migliore; mentre a un cattivo lavoro teatrale non c’è nessuna via di scampo». I gusti del pubblico arrivano a influenzare non solo la composizione degli spettacoli, ma la stessa architettura degli edifici teatrali, che diventano luoghi di aggregazione oltre che di divertimento. Il più importante teatro di vaudeville d’America è il Palace di New York, la bandiera del circuito Keith-Albee; la sua architettura elegante è disegnata da Kirchoff e Rose nel 1913, tenendo anche conto delle condizioni economiche dei potenziali spettatori: non si vuole né allontanare gli esponenti delle classi ricche offrendo loro sale di bassa categoria, né intimidire le classi meno abbienti con un lusso eccessivamente sfarzoso. Anche per la posizione che occupa nel centro di Manhattan, il Palace diventa il più prestigioso dei teatri di vaudeville, tanto che la misura del successo di un artista è `plays the Palace’, esibirsi al Palace (il Palace nel 1932 viene convertito in cinema e solo nel 1950 torna a ospitare spettacoli dal vivo). Fra uno stato e l’altro dell’esteso continente americano vi sono notevoli differenze di gusto, e i responsabili dei circuiti passano la maggior parte del loro tempo a studiare spettacoli che piacciano ai visitatori di ogni luogo. Fino ai primi anni del secolo molte sale presentano uno spettacolo che comprende sino a ventidue numeri, ma in seguito lo standard diventa quello dei teatri di Keith-Albee, con da otto a tredici numeri a sera.

Oscar Hammerstein, che chiama il pubblico `the Big Black Giant’, il grande gigante nero, rimane famoso per invitare a esibirsi nei propri spettacoli chiunque, per un motivo o per l’altro, assurga a notorietà per un periodo di tempo anche breve: protagonisti di scandali rosa, superstiti di disastri quali terremoti e alluvioni e ogni altra stramberia del genere; l’importante è attirare l’attenzione del pubblico. Del resto i numeri che si esibiscono all’epoca sono alquanto bizzarri: rigurgitatori di rane, lettori del pensiero, divinatori mentali, cani ammaestrati con relative pulci anch’esse addomesticate, escapatologisti, enterologisti, fenomeni della natura, maiali sapienti autori delle proprie autobiografie, calcolatori umani, donne barbute e ignifughe, e ancora, accanto a questi stravaganti personaggi, acrobati, giocolieri, ballerini di tip tap, comici dal roseo futuro cinematografico, e spesso vere attrici provenienti dai teatri di `gran prosa’, cantanti lirici e musicisti di chiara fama internazionale.

Si verificano accoppiamenti azzardati, come quello di Sarah Bernhardt con il clown Grock, sulla stessa scena nello stesso spettacolo. Poi il pubblico si abitua allo spettacolo veloce per eccellenza, il cinematografo, e il vaudeville è il genere che più di ogni altro dona al cinema i maggiori spunti, oltre che stelle di prima grandezza. Nonostante Albee cerchi in un primo momento di opporsi allo strapotere del cinema ingaggiando numerosi divi di Hollywood nei suoi teatri di vaudeville, presto si accorge che è tutto inutile e tenta di avere accesso egli stesso nella stanza del potere della nuova miniera d’oro dello spettacolo: forte degli oltre settecento teatri che controlla, nel 1926 costituisce una società con Cecil B. De Mille per entrare nella produzione cinematografica. Ma anche questo tentativo non ha esito positivo e infine, nel 1928, il suo glorioso circuito viene acquisito dalla Radio Corporation of America, che forma così la Rko Radio Pictures, e ogni teatro comincia quasi esclusivamente a proiettare pellicole.

Il cinema degli esordi prende in prestito dal vaudeville anche il sistema pubblicitario, con una cartellonistica alquanto vistosa, e ingloba i periodici nati solo in funzione di tali forme di spettacolo: “Billboard”, che significa `manifesto’, nato nel 1894 per reclamizzare appunto i cartelloni degli spettacoli del momento, cioè vaudeville, circo e luna park, oggi si dedica quasi esclusivamente al mondo della musica leggera; “Variety”, il cui nome sottintende le stesse strategie del citato concorrente, è oggi un mensile dedicato principalmente ai prodotti audiovisivi di cinema e televisione. Un elenco dei più importanti artisti del vaudeville risulterebbe in ogni modo incompleto; è bene comunque ricordare che le scene del vaudeville furono calcate, fra gli altri, da Fred e Adele Astaire, i fratelli Marx, Charlie Chaplin, Fanny Brice, Bob Hope, Al Jolson, oltre che dal celebre Harry Houdini e, in maniera estemporanea, da Ethel Barrymore, Mause Adams e dalla citata divina Sarah Bernhardt.