Fracci

Milano aveva la Scala e la Scala le ballerine della Scala. Il vivaio che rese possibile la fioritura romantica e tardoromantica nel mondo. Le ballerine se ne stavano lassù, dove c’erano il timpano del Piermarini e le vetrate della Sala Trieste. In primavera si affacciavano, belle e irraggiungibili, simbolo di una città che correva indaffarata dietro il suo `boom’. Nell’immediato dopoguerra il ballo non era una moda ma un modo. Per sbarcare il lunario e forse fare fortuna. La pensava così anche Fracci Luigi, manovratore, che passava e ripassava lì sotto con il suo tranvai e la sua campanella. Un giorno prese per mano la Carlina, Carla Fracci, e le mostrò gli ‘angeli reclusi’ del timpano. Non fu una cosa semplice, e solo il Caso, condito di bonomia tutta meneghina, assicurò all’aspirante `spinazitt’ un posto alla sbarra della Sala Trieste: «prendee anca questa», concesse la direttrice Mazzucchelli, «la ghà un bel faccin». È il 1946, per la Fraccina iniziano giorni e anni che non passano mai. Tanta danza, un po’ di francese, un po’ di aritmetica, un po’ di noia. Il coretto di Bohème : voglio la tromba e il cavallin. Finché un giorno, dall’alto del regno degli `angeli reclusi’, vede arrivare una creatura bellissima. È Margot Fonteyn, che la innamora e la motiva. Diventerà suo idolo, suo modello, sua madre spirituale. Sui primi degli anni ’80 un griffatissimo Romeo e Giulietta le accostava ancora sulla scena del Metropolitan di New York; Margot era Madonna Capuleti. Il Caso dunque consegna alla Carlina, che voleva fare la parrucchiera e rimpiangeva i prati della periferia, quella coscienza di sé che l’avrebbe trasformata in emblema della danza. Quella classica. Per farla rimanere in carica dagli anni ’50 a oggi. E oltre. Unico punto di riferimento di un Paese che se da un lato, Scala a parte, sottovalutava come inferiore la tradizione operistica, dall’altro aveva totalmente scordato la danza, cui pure aveva dato i natali. I pochi allievi delle pochissime scuole private guardavano a Carla Fracci come all’unica. E non potendone imitare il resto le scippavano il look: allora come ora fatto di pizzi, veli, abiti, calze e scarpe rigorosamente bianchi; capelli raccolti da preziosi pettini e collo ornato da lunghe collane ambrate e di corallo. Alla Scala il 5 marzo del ’55 è il giorno del passo d’addio dei diplomandi.

Ancora il Caso vuole che la data sia la stessa di una Sonnambula che metteva assieme Maria Callas, Leonard Bernstein e Luchino Visconti. C’è tutta Milano che non può non vedere quella ballerinetta alle prese con Le spectre de la rose , accanto a Mario Pistoni. L’anno successivo, sempre il Caso fa ammalare Violette Verdy e consegna a Carla il ruolo protagonista della Cenerentola di Rodrigues. Nello stesso anno Massine le affida Mario e il mago , libretto di Visconti e musica di Mannino. Il teatro la nomina solista e, nel 1958, prima ballerina. Il caso Fracci esplode a Nervi ’57 dove, accanto a Yvette Chauviré, Alicia Markova e Margarethe Schanne, Carla è la Cerrito nel famoso Pas de quatre di Dolin-Pugni. Nel 1958 John Cranko costruisce su di lei il personaggio di Giulietta, nel Romeo e Giulietta che il complesso scaligero tiene a battesimo al Teatro Verde dell’isola di San Giorgio a Venezia. Intanto, sempre in Sala Trieste (che non c’è più), la Carlina incontra l’aiuto di Visconti Beppe Menegatti (che sposerà nel 1964), figura che non tarda a rivelarsi professionalmente indispensabile. Con lui e Antonio Gades, in una Spoleto di quegli anni, nasce la coreografia sulla Pavane pour une infante défunte (Ravel) dove la Fracci, tutta veli e remote suggestioni, diventa la Fracci. Quindi arriva la prima Giselle , il suo cavallo di battaglia. Arriva Erik Bruhn, il ballerino danese `maestro’ di Nureyev che costituirà con la Fracci l’altra coppia, speculare a quella Fonteyn-Nureyev. Con Bruhn Carla va in America e, divenuta `guest artist’ alla Scala, si lega al complesso più famoso del mondo, l’American Ballet Theatre. Da questo momento in poi è impossibile anche solo riassumere tappe, nomi, circostanze, allori. Il reperorio si allarga a dismisura. Prima, dopo e in mezzo ai tre titoli cajkovskiani ( Lago dei cigni , Bella addormentata , Schiaccianoci ) e ai tre grandi balli di Prokof’ev ( Romeo e Giulietta , Cenerentola , Il fiore di pietra ) si allineano quasi tutti i balletti romantici ( La Sylphide , La gitana , La Péri ), Secondo Impero ( Coppélia ), tardoromantici ( Il talismano ), i balli grandi manzottiani ( Excelsior ), i gioielli diaghileviani ( Sylphides , Shéhérazade , Après-midi d’un faune , Petruska ), i titoli di Petit ( Le loup , Les demoiselles de la nuit , il recentissimo Chéri ), di Béjart ( Bolero , L’heure exquise , da Beckett, di TorinoDanza ’98), di Tetley e di Tudor. Intanto i partner si chiamano Gilpin, Babilée, Nureyev (un lungo sodalizio), Vassiliev, Barišnikov, Bortoluzzi, Miskovitch, Dupont, Bujones, Cragun, Vu-An. I più giovani Liepa, Ezralow, Bocca, Fournial, Iancu, Bolle e Murru: compensazione tecnico-artistica del tempo che passa. E intanto ancora Carla recita: è Ariele nella Tempesta , Titania nel Sogno di una notte di mezza estate , Luna in Nozze di sangue .

Partecipa a film e filmati: è la Karsavina nel Nijinskij di Herbert Ross, Giuseppina Strepponi nel Verdi televisivo di Castellani, Marguerite Gauthier ne La storia vera della signora delle camelie di Bolognini. Riprende quasi tutte le divine Otto e Novecento nel telefilm Le ballerine con Peter Ustinov. Carla Fracci è la prima che abbandona il Ballo della Scala nel nome di libertà e pluralità espressiva; la prima che fa un figlio, operazione assolutamente bandita dall’etereo mondo delle `classiche’ dell’epoca; la prima che porta la danza nei teatri di periferia e negli chapiteaux. L’unica dotata di una voce calda e sensuale e di una naturale attitudine alla recitazione. Possiede una musicalità (è lontana parente di Verdi) che permette a Riccardo Muti di affidarle molti 7 dicembre scaligeri. È intelligente, determinata, istintivamente colta. Altrimenti come avrebbe potuto sostenere le parti che Beppe, suo marito, le ha cucito e continua a cucirle freneticamente addosso? La `Duse della danza’, la `Sarah Bernhardt’, il `monstre sacré’, liberty dalle corone umbertine e bambola di Kokoschka della Secessione viennese, Carla è Léa, “maternità impura di donna senza figli”, Rosina solare, Gelsomina surreale, Mila appassionata, metamorfosi di Orlando, Medea insanguinata, Zelda Fitzgerald che raccoglie e getta le lacrime con una mano che è la stessa che accompagna la curva del ventre gravido di una Filumena Marturano di segno espressionista. E anche la stessa che batte il suo dorso contro il palmo dell’altra mentre danza rapita e dolente l’ Ave Maria di Schubert: una danza Duncan. I meravigliosi assoli di Isadora li hanno e li stanno ricostruendo per lei i filologi Kenneth Archer e Millicent Hodson: si chiamano Patetica , Internazionale , Morte di Åse Ma chi è veramente Carla Fracci? Una che accosta a una fisicità evanescente e smaterializzata straordinarie doti di `tragédienne’, che ha vinto con fatica ogni ostacolo per identificarsi nella tecnica ferrea e apollinea di matrice Blasis-Cecchetti. Una che la vedi e pare un sogno, ma è anche una donna volitiva, caparbia, costante: «Il successo, che fatica! Noi qui, alle otto, siamo tutti in piedi». La danzatrice che ha ripetuto cento volte gli stessi ruoli sempre ricreandoli da dentro, facendoli più suoi perché potessero essere anche più nostri. Una creatura che con la stella c’è nata, e il Caso gliel’ha fatta scoprire. Lasciandole il compito di spogliarsi, potenziarsi e rimanere fedele a se stessa. Donna padana e artista planetaria.