Tairov

Aleksandr Jakovlevic Tairov lavora prima come attore dal 1905 al ’13, anche sotto la direzione di Mejerchol’d (è il mendicante in Suor Beatrice di Maeterlinck e la maschera azzurra in La baracca dei saltimbanchi di Blok, entrambi del 1906), poi nel 1913 viene chiamato dal regista Marzanov al Teatro Libero, dove dirige la pantomima Il velo di Pierette di Schnitzler e il montaggio La blusa gialla. Nel 1914 con Alisa Koonen (che diventerà la maggior interprete delle sue regie e sua moglie) e un gruppo di giovani attori fonda il Teatro da Camera, inaugurato con Sakuntala del poeta indiano Kalidasa. Dopo alcuni spettacoli molto vicini al teatro `convenzionale’ mejercholdiano (Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, ripresa di Il velo di Pierette di Schnitzler), trova uno stile personalissimo con la tragedia lirica Tamiri il Citaredo di I. Annenskij, dove per la prima volta collabora con la scenografa cubista A. Ekster.

Negli anni prerivoluzionari il Teatro da Camera diventa una sorta di crogiuolo della pittura d’avanguardia: Larionov e la Goncarova firmano la scenografia di Il ventaglio di Goldoni (1915), Lentulov quella di Le allegre comari di Windsor (1916), la Ekster quella di Salomè di Wilde (1917), Jakulov quella di Lo scambio di Claudel. Con particolare attenzione T. segue la preparazione dei suoi attori, a cui chiede da un lato una gestualità ieratica per le tragedie, dall’altro una acrobatica, sciolta plasticità per le pantomime e le commedie musicali. Il repertorio del suo teatro, infatti, negli anni immediatamente post-rivoluzionari, segue essenzialmente due linee: l’arlecchinata (riviste, operette, capricci) e la tragedia, sia classica sia contemporanea. Esempi della prima linea: Re Arlecchino di R. Lothar (1917), Principessa Brambilla su temi di Hoffmann (1920), Giroflé-Girofla di Lecocq (1922), L’opera da tre soldi di Brecht-Weill (1930), spettacoli costruiti con un ritmo perfetto, pieni di vita, di eccentriche invenzioni, di trovate sgargianti.

Alla seconda linea appartengono la già citata Salomè di Wilde (1917), Adriana Lecouvreur di Scribe (1919), L’annuncio a Maria di Claudel (1920), Romeo e Giulietta di Shakespeare (1921), dove T. fa un uso elettrizzante della scena a piattaforme della Ekster, Fedra di Racine (1922), L’uragano di Ostrovskij (1924), Santa Giovanna di Shaw (1924), la trilogia di O’Neill (La scimmia villosa, Desiderio sotto gli olmi, Tutti i figli di Dio hanno le ali, 1929). Accusato d’indifferenza politica, costretto da pressioni da parte dei burocrati di partito, si rivolge tardi al repertorio sovietico, inizialmente senza trovare il tono giusto per le regie: Natal’ja Tarpova di S. Semenov (1929), La sonata patetica di N. Kulis, Soldati ignoti di N. Pervomajskij (1932). Finalmente con Una tragedia ottimistica di V. Visnevskij (1933, stupenda scena elicoidale di Ryndin) ottiene un incondizionato successo, trasmettendo un autentico pathos rivoluzionario all’intera compagnia.

Dopo il 1934, con il peggiorare delle condizioni politiche e il rafforzarsi dello stalinismo, la situazione di Tairov si fa sempre più difficile: dopo qualche spettacolo duramente attaccato dalla critica militante, è costretto a ripiegare su modesti testi propagandistici o su grigie riduzioni di classici (Madame Bovary da Flaubert, 1940). Dopo la guerra il suo teatro sopravvive con la messinscena di Il gabbiano di Cechov (1944) e di Il vecchio di Gor’kij (1946), prima di chiudersi un anno prima della morte del suo regista. Particolare interesse suscita ancora oggi Appunti di un regista (1921), dove T. esprime il suo credo sul teatro e sull’arte dell’attore: un testo che ha esercitato un notevole influsso sul pensiero teatrale delle avanguardie europee.