Anouilh

Una trentina di opere costituiscono il ricco bagaglio di questo fertile drammaturgo, che dal 1931, ha continuato ad avere successo di pubblico. Jean Anouilh si era accostato al teatro facendo, alla Comédie des Champs-Elysées, il segretario di Louis Jouvet, dal quale tuttavia si allontanò nel 1931 per aperte divergenze. Nello stesso anno, il felice debutto della sua prima commedia L’hermine segna la sua decisione di dedicarsi interamente alla scena. Alla fine degli anni ’30, Anouilh collabora, oltre che con Lugné-Poe, anche con Pitöeff, che curerà la regia de Le voyageur sans bagages (1937), il cui tema si apparenta al Siegfried di Giraudoux. Nel suo teatro Anouilh fa convergere temi e soggetti legati alla tradizione teatrale `alta’ (Sofocle, Shakespeare, Molière, Marivaux, Pirandello) con le esigenze commerciali della tradizione francese del teatro di boulevard: motivi mitici, inchieste poliziesche, toni mélo e accenti grotteschi convivono dunque in opere come Eurydice (1942) e Antigone (1943), scritte durante gli anni dell’occupazione tedesca; e in esempi successivi, come Roméo et Jeannette (1946), Médée (1953) o Ornifle ou le courant d’air (1955), ispirato al Don Giovanni di Molière e perfetta esemplificazione del ricorso sistematico alla dissonanza e alla devalorizzazione dei temi scelti.

Appare evidente come Anouilh si accosti ad un certo teatro fondato sulle ascendenze della tradizione francese del vaudeville, ma anche sulla vicinanza con autori come Giraudoux, con i quali condivide il gusto per il ripensamento del mito classico. Da queste influenze composite deriva il colore cangiante di un teatro in cui artificio e verità dei sentimenti si orchestra in un gioco di rimandi, la cui ascendenza è – secondo le esplicite dichiarazioni dell’autore – da Pirandello. Nel 1961-62, in occasione della pubblicazione delle opere di A. presso le edizioni della Table Ronde, l’autore stesso ha proceduto ad una suddivisione della sua produzione drammaturgica in cinque categorie di genere che sintetizzano perfettamente la compresenza di tendenze opposte: pièces noires e nouvelles pièces noires (opere ‘nere’ e ‘nuove opere nere’, tra cui rispettivamente, Le voyageur sans bagages, Eurydice e Médée ), pièces roses (opere ‘rosa’, tra cui Le bal des voleurs , 1938), pièces grinçantes (opere ‘stridenti’, tra cui Ornifle ), e, ancora, opere `brillanti’ e `in costume’ (tra cui Becket ou l’honneur de Dieux , 1955).

tragedia

Nel 1911 l’esercito italiano organizza la sua prima spedizione aerobellica contro l’esercito turco sul fronte libico: l’evento fu a lungo preparato e lungamente commentato sui giornali dell’epoca. Nello stesso anno Ettore Petrolini debuttò con la celebre parodia dell’Amleto scritta in coppia con il poeta Libero Bovio, rischiando l’arresto con l’accusa di vilipendio alle patrie lettere (l’Amleto originale era stato attribuito dai gendarmi presenti in sala a Vittorio Alfieri). In questa singolare ma non casuale coincidenza si condensa il rapporto del secolo Ventesimo con la tragedia teatrale. Tutto il Novecento è segnato da una relazione che si potrebbe definire ‘industriale’ con la morte e con la tragedia: la crudezza dei conflitti bellici internazionali (che hanno appunto il loro prologo con la guerra italo-turca), il regime fascista, nazista e stalinista, le guerre coloniali e, infine, il diffondersi, sul finire del secolo, del cosiddetto principio della ‘pulizia etnica’ hanno imposto al mondo occidentale un radicale ripensamento del valore di ciò che era considerato `tragico’ nella tradizione culturale e teatrale dalle epoche greca e romana fino a tutto il secolo Diciannovesimo.

In buona sostanza si può riassumere il senso tragico tradizionale nella contrapposizione fra un individuo e un’entità sociale, divina o spirituale collettiva. Da Eschilo a Shakespeare a Manzoni la tragedia assume stilisticamente i connotati di questo conflitto in cui, almeno da un lato, l’elemento individuale è assolutamente indispensabile. La storia sociale del Novecento consta sostanzialmente nell’impossibilità di questo conflitto: il ruolo dell’individuo, le specificità che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile sono negati dalla riproducibilità industriale della morte di fronte alla quale non si è esseri individuali ma numeri di una massa più o meno indistinta. La coscienza o la percezione di questa mutata realtà è ciò che caratterizza e segna profondamente la sopravvivenza del senso tragico, a teatro, nel Novecento. Essa, infatti, avviene soprattutto attraverso la rielaborazione di tragedie classiche: vuoi sotto forma parodistica vuoi sotto forma di riscrittura tout-court.

Il caso del processo intentato da Gabriele D’Annunzio contro Eduardo Scarpetta, autore di una parodia della Figlia di Iorio, rappresenta il primo sintomo di una situazione nuova e inedita sulla quale si apre il Novecento. L’ Amleto di Petrolini-Bovio è invece il segno dell’avvenuto cambiamento e l’esempio più significativo di tutto quanto accadde dopo. Petrolini, irridendo le `disgrazie’ del principe danese, irride tanto la pochezza del dubbio di un uomo di fronte ai tormenti di una società intera, quanto l’abitudine del teatro tradizionale di rappresentare Amleto come l’eroe irraggiungibile di un conflitto immenso. Mentre nella realtà Amleto veniva percepito dal pubblico come un ometto turbato da un dubbio da due soldi: com’è possibile rovinarsi la vita chiedendosi se è lecito uccidere un patrigno se con una bomba aerea o un cannone ben puntato si può eliminare un’intera comunità di patrigni? La parodia shakespeariana di Petrolini va nel solco, assai fecondo del Novecento, aperto da Ubu re di Jarry e perseguito poi da Ionesco nel suo Macbeth e portato alle estreme conseguenze da Beckett con Catastrofe, la più alta tragedia autenticamente novecentesca e, contemporaneamente, la più terribile parodia della tragedia classica.

L’altro fenomeno, quello delle riscritture dei classici, si offre come maggiormente interlocutorio nei confronti della tradizione: da Anouilh a Testori, molti autori teatrali del Novecento si sono interrogati sulla possibilità di dare nuove vitalità e attualità al conflitto individuo/entità superiore. Ma, in ogni caso, si tratta di domande e risposte sommamente (quando non esclusivamente) legate alla contemporaneità che le produsse. Analogo rilievo andrebbe fatto a quanti tentarono di riprodurre senza particolari aggiornamenti i meccanismi della tragedia classica (T.S. Eliot); o, ancora, a quanti pensarono di contestualizzare all’interno delle vicende della seconda guerra mondiale il tradizionale conflitto (Sartre o Fabbri). Solo a Samuel Beckett può essere attribuito il merito di aver tentato un superamento consapevole della classicità mediante l’invenzione del `tragicomico’, ossia di un effetto contrastante, tragico e comico allo stesso tempo, prodotto dalla rappresentazione di tragedie individuali comicamente piccole (`relative’) se riferite alla complessità del mondo.