Brachetti

Trasformista per vocazione, Arturo Brachetti ha imparato il mestiere dalla biografia di Fregoli, ma ad aiutarlo è stato un sacerdote conosciuto durante gli anni trascorsi in seminario dai salesiani per volontà del padre. Dopo i successi ottenuti in Francia (diciottenne a Parigi, è già la vedette di famosi locali come il Paradis Latin e perfino l’Olympia), Germania, Gran Bretagna e Austria, approda in Italia nel varietà tv (1984). Dell’anno successivo è lo scatenato Varietà di Scaparro, del 1986 Amami, Arturo di cui è autore assieme a F. Crivelli. Nel 1990 è la volta di I Massabilli di Aymée, quindi Madama Butterfly in cui recita una parte `en travesti’ al fianco di U. Tognazzi. Ottiene uno strepitoso successo col musical Fregoli nella stagione 1994-1995, in cui cambia una trentina di ruoli, mutando costume in tempi rapidissimi. Da allora lavora con la Compagnia della Rancia. Lo spettacolo più recente, con la regia di S. Marconi, è Brachetti in Technicolor , in cui interpreta 100 personaggi di 100 anni di cinema. Tra le sue regie c’è quella dello spettacolo I corti con Aldo Giovanni e Giacomo (1996).

Bennett

Michael Bennett è noto soprattutto per essere stato l’autore-ispiratore e coreografo di A Chorus Line , seimilacentotrentasei repliche e, al momento della chiusura, il maggior numero di repliche di uno spettacolo a Broadway. Michael Bennett aveva studiato danza e coreografia, quando tentò la sua strada debuttando nella compagnia di giro di West Side Story , Usa e Europa, nel 1959-60. È nel gruppo dei ballerini per Subways Are For Sleeping (1961), Here’s Love (1963) e Bajour (1964). Debutta come coreografo nel 1966 con il disastroso A Joyful Noise (dodici repliche) e prosegue con un altro insuccesso nel 1967 Henry, Sweet Henry. Finalmente, nel 1968, arriva il successo: Promises, Promises di Burt Bacharach su libretto di Neil Simon (milleduecentottantuno repliche a Broadway, più cinquecentosessanta a Londra). Seguono: sempre nel 1969, Coco, unico musical interpretato da Katharine Hepburn; Company di Stephen Sondheim nel ’70; sempre di Sondheim Folies , nel ’71 (e qui collabora anche alla regia); nel 1973 Seesaw , di cui è anche autore del libretto, naturalmente coreografo e anche regista: raggiunge così il controllo totale su uno show. Ma non basta. Michael Bennett coltiva da tempo l’idea di Chorus Line : l’articolo fu premesso più in là perché lo spettacolo fosse il primo nell’elenco dei teatri che, a New York, vanno per titolo in ordine alfabetico. Dunque Bennett riunì un gruppo di ballerini di fila e li fece parlare, per varie serate in una specie di confessione generale. Il materiale registrato che ne risultò fu messo in ordine da James Kirkwood a Nicholas Dante, Edward Kleban scrisse le parole delle canzoni e Marvin Hamlisch le musiche. Regia e coreografia di Michael Bennett, che rimase proprietario dell’idea e dei diritti risultanti. A Chorus Line, va in scena il 25 maggio del ’75 (chiuderà il 27 aprile del ’90) e come ognuno sa, fu un colossale successo e continua ad esserlo in tutti i paesi del mondo in cui è stato prodotto. Quanto a Michael Bennett, mette in scena lo sfortunato Ballroom : solo centosedici repliche dal 4 dicembre 1978 al 24 marzo 1979, protagonisti Vincent Gardenia e Dorothy Loudon. È dal 1981 il suo ultimo spettacolo, quel Dreamgirls che va in scena il 20 dicembre a New York, Imperial Theatre, per restarci quattro anni e millecinquecentoventidue repliche, consacrando la giovane attrice-cantante Jennifer Holliday. Dopo un lungo tour nella provincia americana, Dreamgirls tornerà a Broadway per un periodo di cinque mesi e chiuderà più o meno al momento della morte del suo ispiratore, nell’estate del 1987.

Tragelehn

Allievo di Brecht e di H. Weigel al Berliner Ensemble, Bernd Tragelehn studia all’Akademie der Künste della Rdt. Quindi lavora come regista indipendente e traduttore di testi teatrali (soprattutto Shakespeare). Tra le sue prime regie vanno ricordate quella di L’eccezione e la regola (1957) a Wittenberg; di Die Korrektur (1959) di H. Müller e di Die Umsiedlerin oder Das Leben auf dem Lande (1961), le cui rappresentazioni vengono interrotte dalla censura politica. Dal 1972 al 1975 realizza messe in scena al Berliner Ensemble in collaborazione con E. Schleef: Katzgraben di E. Strittmatters, Risveglio di primavera di Wedekind, La signorina Julie di Strindberg. Anche in quest’ultimo caso lo spettacolo, dopo dieci rappresentazioni, viene sospeso provocando violente polemiche di natura politica; da allora smette di realizzare regie nella Rdt. Nel 1979 debutta con successo sulle scene della Germania occidentale, a Bochum, con Misura per misura.

Nel 1980 viene assunto come regista stabile allo Schauspiel di Francoforte dove dirige il Tartufo di Molière, ma viene licenziato l’anno seguente in seguito a un’occupazione del teatro da parte di simpatizzanti della Raf. Negli anni ’80 realizza alcune impressionanti regie di testi di Müller tra cui Quartett (1982) a Bochum, Macbeth (1983) a Düsseldorf, Filottete (1984) a Monaco. Nel 1986 è chiamato a lavorare allo Schauspielhaus di Bochum da F.P. Steckel ma si licenzia dopo pochi mesi. Nel 1987 è assunto da V. Canaris come direttore artistico allo Schauspielhaus di Düsseldorf. Tra le altre messe in scena vi realizza La tempesta in una propria traduzione. Nel 1989 torna a Berlino dove rappresenta ancora testi di Müller quali Germania morte a Berlino (1990) alla Freie Volksbühne e Vita di Gundling Federico di Prussia Sonno sogno urlo di Lessing (1991) al Maxim Gor’kij Theater. Nel 1990, assieme a Schleef, gli viene conferito il premio Fritz Kortner. Nel 1997 ha messo in scena, con la collaborazione del drammaturgo S. Schnabel e l’interpretazione di J. Bierbichler nel ruolo di protagonista, Vita di Galilei al Berliner Ensemble.

De Filippo

Eduardo De Filippo nasce da una relazione amorosa tra Eduardo Scarpetta e Luisa De Filippo, nipote della sua legittima moglie. Debutta a quattro anni come giapponesino in La geisha di E. Scarpetta. Sarà Peppiniello in Miseria e nobiltà . Nel 1920 viene chiamato alle armi e presta servizio militare nel corpo dei bersaglieri a Roma. Comincia nel frattempo a scrivere i primi sketch e un atto unico: Farmacia di turno. Nel 1922 scrive la prima commedia in tre atti, Uomo e galantuomo, il cui titolo originario è Ho fatto il guaio? Riparerò. Nel 1923, insieme al fratello Peppino, rientra nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Avverte le prime insoddisfazioni nei riguardi di un certo repertorio e si interessa maggiormente al teatro di S. Di Giacomo, di R. Bracco e R. Viviani. Tra il 1924 e il 1925 comincia a scrivere Ditegli sempre di sì e Chi è cchiù felice ‘e me?, che troveranno la via del palcoscenico solo qualche anno più tardi. Nel 1929 fa parte della Compagnia Molinari, cui collaborano anche Titina e Peppino. L’anno successivo diventa coautore della rivista Pulcinella principe in sogno di M. Mangini, con l’atto unico Sik-sik, l’artefice magico (scritto con lo pseudonimo Tricot). Il successo è clamoroso e nel 1931 decide con i fratelli di dar vita alla Compagnia del teatro umoristico ‘I De Filippo’, che si esibisce in avanspettacoli presso il cine-teatro Kursaal (oggi Filangieri). Negli stessi anni intensifica la scrittura degli atti unici, tra i quali Natale in casa Cupiello (1931, successivamente sviluppato in tre atti). Nell’autunno del 1932 avviene il debutto della Compagnia al Sannazzaro, con la commedia Chi è cchiù felice ‘e me?. Anche Pirandello si interessa ai De Filippo, offrendo loro la versione napoletana di Liolà . La collaborazione con il grande scrittore siciliano ha un seguito: sempre in edizione napoletana viene infatti rappresentato Il berretto a sonagli e, qualche anno dopo, L’abito nuovo , scritto da Eduardo e tratto dalla novella omonima di Pirandello, che assistette alle prove senza tuttavia poter intervenire alla prima, a causa dell’improvvisa scomparsa avvenuta nel 1936.

La compagnia ‘I De Filippo’ gira tutta Italia, sovvenzionata anche dai proventi dell’attività cinematografica, intrapresa a partire dal 1932 con i film Tre uomini in frack , Il cappello a tre punte (1935, regia di M. Camerini) e Quei due (1935, regia di G. Righelli). Nel 1938 i successi dei De Filippo diventano unanimi in tutta Italia; le commedie preferite sono: Sik-Sik , Ditegli sempre di sì , Chi è cchiù felice ‘e me?, Gennariello e Natale in casa Cupiello. Nel 1940 l’Italia entra in guerra; le difficoltà per `I De Filippo’ sono tante. De F. scrive, nel 1942, Io, l’erede . Nel 1944 i rapporti tra Eduardo e Peppino si deteriorano, fino allo scioglimento della Compagnia del teatro umoristico. Nel 1945 scrive Napoli milionaria , e dà vita alla Compagnia di Eduardo, che rappresenta Questi fantasmi nel 1946, senza un grande successo di pubblico; in pochissimo tempo Eduardo la rimpiazza con Filumena Marturano : un trionfo e, per Titina, un grande successo personale. La commedia viene recitata anche dinanzi a Pio XII. Dopo Filumena Marturano , nascono altri capolavori: Le bugie con le gambe lunghe (1947), La grande magia (1948), Le voci di dentro (1948), La paura numero uno (1951). Si arriva agli anni ’50. Eduardo, intanto, per ricostruire il teatro San Ferdinando svolge un’intensa attività cinematografica. Così ad Assunta Spina , interpretata da Anna Magnani, fa seguire Fantasmi a Roma , L’oro di Napoli , Napoli milionaria , Filumena Marturano , Il marchese di Ruvolito , Ragazza da marito , Napoletani a Milano. Nel 1954 regolarizza l’unione coniugale con Thea Prandi, dalla quale ha avuti i figli Luca e Luisella. Dopo la morte della Prandi, si legherà a Isabella Quarantotti. Nel 1958, a Mosca, con la regia di R. Simonov viene rappresentata Filumena Marturano ; nel 1962, Il sindaco del rione Sanità . Le ingiustizie della situazione teatrale italiana vengono riproposte in L’arte della commedia (1964), che dai critici è ravvicinata a L’improptu di Molière e al Teatro comico di Goldoni. Tra il 1965 e il 1970 scrive Il cilindro , Il contratto e Il monumento. Nel 1972 riceve dall’Accademia dei Lincei il premio Feltrinelli; nel 1973 rappresenta Gli esami non finiscono mai e, nello stesso anno, all’Old Vic di Londra viene rappresentata Sabato, domenica e lunedì , con la regia di F. Zeffirelli e l’interpretazione di L. Olivier. Il 1977 è un anno particolarmente importante: sposa I. Quarantotti, presenta al Festival dei due mondi di Spoleto Napoli milionaria , adattata a libretto d’opera per Nino Rota e, dopo un’anteprima presso il Teatro di Norwich, la sua Filumena Marturano trionfa, messa in scena al Lyric di Londra, nell’interpretazione di J. Plowright. Il 15 luglio riceve la laurea in lettere honoris causa all’università di Birmingham, per i suoi meriti di drammaturgo, attore e regista.

Nel novembre del 1980, nell’aula magna dell’università degli Studi di Roma, gli viene conferita la laurea in lettere honoris causa, insieme all’accademico francese H. Gouthier, mentre nel settembre del 1981, a Palazzo Madama, la Repubblica Italiana lo onora con la nomina di senatore a vita. Il primo intervento in senato avviene il 23 marzo 1982 ed è proprio sui fanciulli abbandonati: Eduardo ritorna alle origini. Il teatro di Eduardo spazia su cinquant’anni di storia italiana (1920-1973), attraverso una serie di protagonisti nei quali si riflette lo stesso autore, «col suo difficile rapporto con quel contesto sociale su cui egli innesta la propria ricerca drammaturgica, oltre che la tecnica espressiva che attinge, in un evolversi continuo, alla farsa, alla comicità di carattere, all’umorismo, ben diverso da quello pirandelliano, attento a scomporre, piuttosto che a comporre o a rapportare, la natura storica dell’uomo. Per intenderci, i sofismi pirandelliani in Eduardo si concretizzano, diventano realtà sofferta, non più a livello di pensiero o di logica, ma a livello di vita. Eduardo rende lineare tutto ciò che in Pirandello si doppia; la sua maschera non è nuda, ma strettamente legata alla storia del personaggio; alla stessa maniera, la finzione diventa `trucco’ premeditato. Eduardo sa che il mondo è il luogo dove l’errore umano maggiormente si esplica, dove la verità viene facilmente offesa; da questo mondo egli ha tratto il suo repertorio, l’umor comico, che spesso si trasforma in accusa e in invettiva. Dinanzi alle colpe, agli errori, all’ingiustizia, Eduardo assume un atteggiamento di denuncia con mezzi ora tipicamente teatrali (la magia, il gioco, il trucco), ora con un’analisi approfondita dei caratteri e quindi dei personaggi che ne sono invischiati. La vita, per Eduardo, cambia continuamente volto; è necessario, quindi, adattarsi alle sue trasformazioni, che sono sempre contemporanee all’uomo. Proprio l’uso di questa contemporaneità e il modo di trasferirla sulla scena, hanno sempre reso attuale e `rivoluzionario’ il suo teatro.

Perriera

Esponente dell’avanguardia letteraria, Michele Perriera è stato tra i fondatori del Gruppo ’63. A Palermo nel 1971 ha fatto nascere il Teatro Tèates, che dirige: è un centro che si rifà alla lezione di Artaud, conciliandola con la vocazione narrativa e l’attenzione alla parola. Alla base dei testi di Perriera c’è la passione per la ricerca, che si sviluppa in una scrittura dalla forte tensione. Perriera attraversa diversi generi: dal dramma storico alla commedia, fino al monologo, creando un ponte tra l’amore per i classici e la sete di ricerca. Fra le opere: Signor X (1962), Lo scivolo (1963), Fischia, fischia, ancora (1963), La chiave del carretto (1965), No, io non… (1965), Tu, tu e tu… relax! (1965), L’edificio (1968), Morte per vanto (1973), Anticamera (1992). Come regista si è formato alla scuola del maestro norvegese Arne Svenneby.

Serreau

Fra i pochi uomini di teatro francesi che abbiano conosciuto bene Brecht, Jean-Marie Serreau è considerato l’`anello mancante’ fra il teatro critico brechtiano e il Nouveau Théâtre. Dopo aver collaborato con Charles Dullin, Maurice Delarue e Pierre-Aimé Touchard, nel 1949 fonda una compagnia con la quale monta L’eccezione e la regola di Brecht (è il primo che porta l’autore tedesco alla Comédie-Française con Vita di Galilei) e poi testi di Kafka e Jarry. L’anno seguente allestisce Adamov (La Grande et petite manoeuvre) con scene di Jacques Noël.

Tra il 1950 e il 1954 è direttore del Théâtre de Babylone, dove rappresenta Aspettando Godot di Beckett. Firma la regia di alcune opere di Ionesco e di Adamov, ma soprattutto fa conoscere al pubblico nuovi autori: nel 1957 mette in scena Les Coréens di M. Vinaver; nel 1958, durante la guerra d’Algeria, osa presentare Le Cadavre encerclé di Kateb Yacine; nel 1960 La diga sul Pacifico di Marguerite Duras e Biedermann e gli incendiari di Max Frisch. Nei primi anni ’70 si rivolge nuovamente al teatro francofono allestendo La tragédie du roi Christophe di Aimé Césaire, insistendo, per quest’ultimo, sugli aspetti connessi alla ritualità voodoo; ma S. non si limita a indagare culture diverse da quelle europee scegliendo testi di autori quasi sconosciuti nel vecchio continente: affida, per esempio, ad attori antillesi e africani la recitazione di Jean Genet. Fino alla fine (nel 1971 assume la direzione del Théâtre de la Tempête a Vincennes), Serreau è impegnato a dar voce al teatro della marginalità.

Schiller

Leon Schiller debutta come critico in “The Mask”, rivista di E.G. Craig nel 1908. Nel 1913 organizza a Varsavia una mostra di pittura e bozzetti scenici. Direttore letterario e regista del Teatr Polski (1917-21), della Towarzystwo Teatrow Stolecznych (Compagnia dei Teatri della Capitale) a Varsavia (1920-21), regista dei teatri Reduta e Ateneum a Varsavia, Miejski a Lodz, dei teatri cittadini di Leopoli prima della guerra, è fatto prigioniero ad Auschwitz nel 1940 e a Murnau nel 1944. Dopo la guerra ha diretto i teatri Wojska Polskiego (dell’esercito polacco) a Lodz e Polski a Varsavia, ha fondato e diretto la rivista “Pamietnik Teatralny” (Memorie teatrali) è stato tra i fondatori dell’Istituto internazionale di teatro e ha fatto parte del comitato di redazione di “La Revue Théâtrale”. Nella sua attività è possibile distinguere un primo periodo, legato alle messe in scena dei drammi monumentali del romanticismo (Mickiewicz, Slowacki) e del modernismo polacco (Wyspianski, Micinski), nonché dei classici del repertorio internazionale (Shakespeare, Hasek), un altro, più legato all’attualità politica e sociale (Zeittheater) e un terzo incentrato sulla messa in scena di opere (Moniuszko) e sulla composizione di rappresentazioni musicali basate su testi e spartiti della letteratura popolare o antico-polacca. Definito `poeta della scena’, Schiller – che introdusse in Polonia le teorie sceniche e le tecniche di recitazione di Craig, Appia e Mejerchol’d – si è distinto per la varietà e l’espressività delle sue messe in scena, capaci di unire con armonia parola, gesto (celebre la sua direzione delle scene di massa), musica, luci e scenografia.

Sellars

Peter Sellars è unanimamente riconosciuto come uno dei maggiori registi contemporanei. Giunto al successo molto giovane, anche grazie alle sue scelte decisamente anticonformiste e iconoclaste, Sellars è fautore di uno stile registico radicale, innovativo e al tempo stesso estremamente rigoroso. Particolarmente attento ai nuovi linguaggi, ai conflitti e alle contraddizioni della contemporaneità, Sellars ha affrontato testi e opere classiche e nuove creazioni, lavorando nella prosa, nell’opera lirica, nel cinema e nel video. Laureato ad Harvard, Sellars ha approfondito la propria formazione in Cina, Giappone e India, ha diretto la Boston Shakespeare Company e, nel 1983, è nominato direttore dell’American National Theatre di Washington.

Sul finire degli anni ’80, Sellars si segnala grazie a lavori come Nixon in China (1987), spettacolo con musiche di John Adams e coreografie di Mark Morris, o come la trilogia di Mozart-Da Ponte: nel 1989, con la direzione musicale di Craig Smith, suo costante collaboratore, Sellars scandalizza e colpisce il pubblico ambientando Don Giovanni tra i neri del Bronx; Le nozze di Figaro in un convulso grattacielo di New York e Così fan tutte in una specie di postribolo. Le opere, divertenti e coinvolgenti, sono ospitate dai maggiori festival internazionali, come Salisburgo e Glyndebourne.

 

Sellars ha diretto, tra l’altro, Giulio Cesare in Egitto da G. F. Haendel (1990), La morte di Klinghoffer spettacolo tratto dalla cronaca del sequestro dell’Achille Lauro, San Francesco d’Assisi di Olivier Messiaen (1992, direzione musicale di Esa-Pekka Salonen), I Persiani di Eschilo, in una lettura che richiamava, senza esitazioni, la situazione della Guerra del Golfo. Nel cinema, oltre ad aver lavorato con J.L. Godard, Sellars ha diretto, nel 1993, The cabinet of dr. Ramirez, film muto ispirato a Il gabinetto del dottor Calligari, con John Cusack, Peter Gallagher e Michail Barišnikov. Sempre fedele alla sua immagine giovanile e irriverente da punk, Sellars è professore ospite alla Ucla e dirige il festival di Los Angeles, appuntamento interculturale e interdisciplinare di altissimo livello.

 

 

 

 

 

 

Bourseiller

Antoine Bourseiller esordisce giovanissimo, a metà degli anni ’50. Vincitore del Concours des jeunes compagnies nel 1960, dirige, fino al 1965, lo Studio des Champs-Élysées. Uno dei primi spettacoli è dedicato a Pirandello (Come tu mi vuoi, 1960), autore che Bourseiller riprenderà più tardi alla Comédie-Française (Sei personaggi in cerca d’autore, 1978). Fra i testi messi in scena nei primi anni ’60, si ricordano quelli di Ionesco, Billetdoux, Jean Vauthier, Barbey d’Aurevilly e, segno di un interesse per la musica che andrà crescendo negli anni, l’opera in due atti di Gian Carlo Menotti La Medium (Opéra di Parigi e Marsiglia, 1963). Nel 1965-66, al Théâtre de Poche-Montparnasse, Bourseiller fa conoscere al pubblico francese LeRoi Jones e Mrozek.

Nel 1973, al festival di Avignone, presenta Onirocri (musica di Jean Prodomidès). Tra il 1966 e il 1975 è a Marsiglia, al Centre Dramatique National du Sud-Est, dove cura la regia di Il balcone di Jean Genet. La torre di Hugo von Hofmannsthal è il fiore all’occhiello della sua triennale esperienza al Théâtre Récamier (1975-1978). Dopo il 1980 B. si dedica soprattutto all’allestimento dell’opera, dapprima al Teatro d’Orléans, poi, tra il 1986 e il 1996, all’Opéra-Théâtre di Nancy: Wozzeck, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, L’angelo di fuoco, Lohengrin, Don Giovanni, ma anche i meno conosciuti King Priam di Tippett, Billy Budd di Britten, Kátya Kabanová di Janácek.

Fulchignoni

Dopo la laurea in medicina Enrico Fulchignoni è dapprima libero docente di Psicologia generale all’università di Roma, poi si dedica al teatro fondando e dirigendo nel 1937 il Teatro sperimentale di Messina. Nel 1939 passò al Teatro sperimentale di Firenze, dove curò la messa in scena di Dentro di noi di Siro Angeli. Per primo realizzò Piccola città di T. Wilder (1939) e fu assistente di Renato Simoni per Il campiello e Il ventaglio di Goldoni e per Aminta di Tasso e Adelchi di Manzoni. Insegnò recitazione al Centro sperimentale di cinematografia (1941-42) e dal 1940 curò anche alcune regie liriche. Nel cinema esordì collaborando con F. Cerchio al documentario Ragazze sotto la tenda (1941) e nel 1942 diresse il suo primo lungometraggio: I due Foscari . È stato direttore della Film section dell’Unesco a Parigi dal 1949, redattore e collaboratore di alcune riviste (“Fiera Letteraria”, “Dramma”, “Scenario”, “Rivista italiana del dramma”), curatore di numerose pubblicazioni e scrittore di alcuni atti unici (Il digiunatore, A ognuno la sua croce, Matteo Falcone, Les Grenouilles ).

Corso

Arturo Corso inizia a quattro anni nella compagnia dei Piccoli dello stato fascista; a sette entra nel coro delle voci bianche della Fenice. La carriera teatrale inizia a Milano con Franco Enriquez, che lo aveva visto tra i mimi di Venezia, e lo porta in compagnia con la Moriconi; poi, nel 1968, l’incontro con Dario Fo. Da allora Corso si lega indissolubilmente o quasi al genio dello sberleffo. Lavora in Real Politique di U. Simonetta, poi smette di fare l’attore e passa alla regia. Lo troviamo al fianco di Fo in tutti i suoi maggiori spettacoli; ad Avignone, per la prima volta in Europa, allestisce il Mistero buffo con quattordici attori. Al Teatro nazionale di Gand cura la regia di Amleto. Contemporaneamente porta avanti la direzione artistica del Derby di Milano, contribuendo a far conoscere i migliori talenti comici degli ultimi anni. Sceglie Marco Columbro come protagonista di Arlecchino scegli il tuo padrone, che debutta al festival di Nancy. Di Corso ricordiamo inoltre alcune regie liriche, sempre al fianco di Fo, come L’italiana in Algeri (1994). Autonomamente allestisce molti lavori di U. Simonetta.

Marconcini

Dario Marconcini dopo essersi formato attraverso diverse esperienze come il teatro universitario di Pisa, il Teatro di Livorno e la Filodrammatica di Pontedera negli anni ’60 fonda, sempre a Pontedera, il Piccolo Teatro in cui tiene anche corsi di recitazione. A metà degli anni ’70 è nel gruppo che fonda il Centro di sperimentazione teatrale di Pontedera che si dedica alla ricerca di forme di teatro dimenticate come il teatro delle marionette napoletane o i `pazzarielli’ della tradizione di strada. Dagli anni ’80 al Centro di Pontedera coordina la scuola di teatro che cerca di saldare la tradizione con la ricerca e che ha avuto tra i suoi docenti M. Fabbri, J. Stuhr, R. Cieslak. Nel 1984 comincia la sua collaborazione con Paolo Billi con il quale, a Buti (in provincia di Pisa), comincia una ricerca sulle possibilità di contaminazione tra il patrimonio della tradizione popolare di canto in ottava – il maggio – e alcune forme di sperimentazione teatrale contemporanee. In questo ambito ha curato in coppia con Billi la messa in scena di numerosi spettacoli tra i quali: Gerusalemme liberata (1987) con T. Servillo, P. Casale e la Compagnia del Maggio, Medea (1988) opera in Maggio di P. Frediani e Madre Courage (1988) di Brecht con M. D’Amburgo, M. Salviati e la Compagnia del Maggio. Dal 1987 è direttore artistico del Teatro Francesco di Bartolo di Buti, per il quale cura le stagioni, la rassegna `Piccoli Fuochi’ e le produzioni. Tra le sue regie ricordiamo: Scene da Peer Gynt (1989) con la Compagnia del Maggio di Buti; In Tauride (1991) da Euripide, Goethe, Fassbinder; Santa Oliva (1992), opera in Maggio presentata al Festival di Volterra; Madelon (1993) da Viaggio al termine della notte di Céline e ancora con il Maggio Letture dall’Inferno di Dante (1995). Recentemente ha allestito: Textes pour rien (1996), Mise en espace da Beckett e Justine (1998) cronache da De Sade. Al cinema è apparso in due film, Confortorio (1992) e Tiburzi (1997) di P. Benvenuti, che ha anche filmato alcuni spettacoli della Compagnia del Maggio.

Santagata

Prima di fondare una delle compagnie più interessanti del teatro di ricerca italiano, Alfonso Santagata è stato allievo alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha lavorato per anni con D. Fo e C. Cecchi. Con quest’ultimo in particolare ha recitato in L’uomo la bestia e la virtù di Pirandello, nel Borghese gentiluomo e nel Don Giovanni di Molière. Dieci anni di palcoscenico, un’istintiva e magnetica caratura di interprete, e la preziosa `scuola’ di Cecchi che rielabora in termini moderni la tradizione, consentono a Santagata il grande salto dell’autonomia creativa che comincia nel 1979, quando fonda con Claudio Morganti la compagnia Katzenmacher. Con lo stesso titolo dell’associazione culturale debutta il primo, commovente e abrasivo spettacolo della coppia che fin dall’inizio del sodalizio esplora e rielabora la marginalità e la devianza, raggiungendo, attraverso autori come Büchner, Cervantes, Dostoevskij, Beckett, con riscritture e elaborati work in progress autonomi e originali, vertici di alto valore poetico e comunicativo.

La consacrazione avviene nel 1984, dopo Büchner Mon Amour (1981) e En Passant (1983), con il premio Ubu e il Premio della critica per Il calapranzi di Pinter diretto da Cecchi. Mucciana City (1984), Hauser Hauser (1986) e Dopo (1987) precedono il lavoro con i detenuti della casa circondariale di Lodi ( Andata e ritorno, del 1987), esperienza-spettacolo da cui è tratto il video Un giorno qualsiasi (Rai di Milano). A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, la coppia, di cui Santagata è spesso anche autore e regista oltre che attore, è ormai conosciuta in Italia e all’estero e Nanni Moretti lo vorrà nel cast di Palombella Rossa. Dopo Saavedra ispirato a Cervantes, Pa Ublié, Omsk , Redmun, Finale di partita di Beckett e Il guardiano di Pinter (quest’ultimo del 1992), la coppia decide di sciogliersi.

Santagata resta direttore artistico della compagnia Katzenmacher e prosegue la propria ricerca con un gruppo di giovani attori, tra cui Massimiliano Speziani e Giuseppe Battiston, entrambi premio Ubu 1997 per la singolare interpretazione in Petito strenge del 1996. Il lavoro che con Terra sventrata e Polveri (1994), Tamburnait e King Lear (1996) coniuga, attraverso una ricerca shakespeariana, la vocazione alla trasmissione del mestiere dell’attore con la produzione artistica vera e propria, si indirizza nelle ultime stagioni verso la rivisitazione della farsa (Petito) e del teatro di Jarry (Ubu scornacchiato del 1997 e Ubu `u pazz del 1998), prodromi di una esplorazione a venire sugli archetipi della tragedia.

Oida

Dopo aver studiato filosofia all’università di Kelo Yoshi Oida inizia a interessarsi al teatro tradizionale del suo paese: frequenta le scuole Nô, Kyogen, Buyo (danza Kabuki), studia il Gidayu sotto la guida del maestro Juzo Tsuruzawa (diventa narratore del teatro delle marionette, il Bunraku). Intraprende così una fortunata carriera d’attore in Giappone nel teatro moderno, in televisione e al cinema. Nel 1968 accetta l’invito di J.L. Barrault e si trasferisce in Francia, dove comincia la sua straordinaria collaborazione con Peter Brook. Con il suo lavoro si integra perfettamente con le attività del Centre international de recherches théâtrales (Cirt) e appare in molte produzioni atipiche e non convenzionali. Ricordiamo una Pièce expérimentale sur La tempête (1968), da Shakespeare; Orghast (1971) di T. Hughes, messo in scena da Brook a Persepoli (Iran); La conférence des oiseaux (1973) a New York, Les Iks (1975) per C. Turnbull, il Mahabharata (1985) con Brook al festival di Avignone e la versione de La tempête (1990) con debutto a Zurigo. Nel 1993 a Parigi è L’homme qui in una pièce adattata da O. Sachs, sempre con la regia di Brook. Fin dal 1975 però O. ha affiancato alle sue collaborazioni un’intensa attività teatrale con una sua personale compagnia, con cui ha battuto i sentieri di quasi tutti i generi, sempre all’insegna della ricerca. Della Yoshi and Company si ricordano Hannya Shingyo (1975) , Le sac ridicule (1978), adattamento da Molière, Ame Tsuchi (1978) sulla mitologia giapponese di M. Takahashi, Le livre des morts tibétain (1982), La Divine Comédie (1982), Über den Berg kommen (1983), una pièce del teatro nô di K. Komachi a Monaco, La marche du caméléon (1988) ispirata al folklore africano, L’histoire de Kantan (1989) da un testo nô, Madame de Sade (1995) di Y. Mishima. Sempre nel 1995 lavora con P. Greenaway al film The Pillow Book. Nel 1997 O. ha messo in scena Fin de partie di Beckett in Olanda, Molly Swoeney di B. Friel e La femme de sable , tratto dal romanzo di Kobo Abe. Nel 1992 viene nominato cavaliere dell’Ordine delle arti e delle lettere dal ministero francese della cultura e della comunicazione. O. dirige dal 1975 laboratori di formazione sulla tradizione giapponese e vanta diverse pubblicazioni di rilievo tradotte in diverse lingue, come L’acteur flottant e L’acteur invisible .

Bosetti

Nato sopra l’allora Teatro Duse fatto costruire dal nonno impresario, Giulio Bosetti si iscrive a Scienze politiche e all’Accademia d’arte drammatica ‘S. D’Amico’, scegliendo in seguito la carriera teatrale. L’esordio avviene nella stagione 1950-51 con La Moscheta di Ruzante, con la regia di G. De Bosio. Dopo una breve esperienza al Piccolo Teatro di Milano con Strehler, affianca Gassman nell’ Oreste di Alfieri, quindi si sposta tra gli stabili di Genova, Trieste (che dirigerà dal 1967 per cinque anni) e Torino. Forma la prima compagnia nel ’64 per Le notti bianche da Dostoevskij con G. Lazzarini, debutta come regista teatrale nel 1970 ( Zio Vanja di Cechov) e allestisce opere liriche (Lucia di Lammermoor , Tokyo, 1974). Forma quindi la Cooperativa Teatro Mobile e, negli anni 1980, la Compagnia Giulio Bosetti. Tra gli autori interpretati, Brecht (Un uomo è un uomo), Sofocle (Edipo Re), Shakespeare (Vita e morte di Re Giovanni ), Pirandello. Ha diretto lo Stabile del Veneto ‘Carlo Goldoni’ dal 1992 fino all’estate del ’97. È stato attore goldoniano in Le massere, La bottega del caffé e Il bugiardo (con regia di G. De Bosio), La famiglia dell’antiquario (regia di M. Sciaccaluga); dopo aver affrontato Molière in Don Giovanni, Tartufo e L’avaro è stato quindi protagonista del Malato immaginario con la regia di J. Lassalle; ha inoltre interpretato Spettri di Ibsen e Se i no xe mati no li volemo di G. Rocca, di cui ha curato anche la regia, così come per Le ultime lune di F. Bordon, ritorno e addio al teatro di M. Mastroianni. Dalla stagione 1997-1998 è direttore artistico del Teatro Carcano di Milano, per il quale ha progettato la versione teatrale, assieme a Tullio Kezich, di Un amore di Buzzati, mentre si appresta a interpretare Aspettando Godot di Beckett. Se la prestanza giovanile l’ha dirottato sui classici, la maturità ha favorito una naturale predisposizione ai contemporanei, da Ionesco (Il re muore, La lezione e un insuperato Béranger di Assassino senza movente) a Kafka (Il processo) a Svevo (La coscienza di Zeno e Zeno o la cura del fumo) e soprattutto all’amato Pirandello del quale era stato il Figlio nei Sei personaggi in cerca d’autore (1953, regia G. De Bosio), al Teatro dell’Università di Padova. Dell’autore agrigentino, per tappe successive affronta Ma non è una cosa seria (1957, Stabile di Trieste), Vestire gli ignudi (Taormina, 1958), La morsa (con Giulia Lazzarini e Antonio Salines, 1966, Teatro Club di Catania) e finalmente Romei Daddi di Non si sa come e il Martino Lori di Tutto per bene , un’interpretazione giocata sui mezzi toni dell’introversione senza nessuna concessione all’effetto facile, banco di prova dopo alcune sofferte maturate riprese dei Sei personaggi (ora nel ruolo del Padre) per l’ Enrico IV (1989) regia M. Sciaccaluga.

Giovampietro

Renzo Giovampietro frequenta l’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove in occasione di un saggio viene notato da Paolo Stoppa che, a sua volta, lo segnala a Visconti. Sotto la direzione del grande regista, nel 1945, interpreta la parte del messaggero in Antigone di Anouilh. L’anno successivo è il ragazzo in Pick-up Girl di E. Shelley, per la regia di Strehler, che nel 1948 gli affida il ruolo dell’attor giovane in Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni e nel 1950 quello di Sebastiano ne La dodicesima notte di Shakespeare. Nei primi anni ’50 fa parte della prima cooperativa teatrale italiana, interpretando, con Sergio Tofano, Madre Coraggio e i suoi figli di Brecht (primo allestimento italiano, nel 1952, al Teatro dei Satiri) e La mandragola di Machiavelli, entrambi per la regia di Lucignani. Nel 1955 recita in Valentina , commedia musicale di Marchesi e Metz, e in seguito si dedica a un repertorio a lui più congeniale, partecipando a Veglia d’armi di Fabbri e a Le notti dell’anima di Vasile, per la regia di O. Costa (1957). Collabora con il Teatro Stabile di Genova interpretando Kirilov ne I demoni di Fabbri da Dostoevskij (1954) e Lucio in Misura per misura di Shakespeare (1958), per la regia di Squarzina. Dal 1961 si avvicina agli autori greci e latini, dando vita a un teatro `didattico’ per la divulgazione del mondo etico e ideale dell’antichità: cura personalmente le messe in scena di Processo per magia da Apuleio, I discorsi di Lisia e Il governo di Verre da Cicerone (che nel 1963 gli valgono il Premio Idi), Atene anno zero dagli oratori attici (1963) e Agamennone di Alfieri (1965). Altri suoi allestimenti di impegno civile sono Azione scenica sull’opera e la figura di Don Milani (1970) e Processo a Socrate , elaborazione drammaturgica dei Dialoghi di Platone scritta con G. Prosperi (1984). Del 1987 è il Processo ideale a Giacomo Leopardi . Due anni dopo è regista e interprete del testo di R. De Monticelli Signori, il teatro deve essere rauco ; nel 1991 recita in La scoperta dell’America di C. Pascarella, con la compagnia Attori e Tecnici, e cura la regia del suo Incompatibilità elettive: Croce e Pirandello , scritto insieme a E. Moscarelli. Più di recente, ha diretto e curato scene e costumi di un altro suo lavoro (questa volta scritto insieme a M. Prosperi), I discorsi di Lisia (1994).

Przybyszewski

Accanto a Wyspianski, Stanislaw Przybyszewski è una delle figure più importanti del Modernismo polacco (Mloda Polska). Effettua studi di architettura, medicina e biologia a Berlino, dove viene a contatto con l’opera di Nietzsche, sotto la cui influenza scrive Zur Psychologie des Individuums. Chopin und Nietzsche (1892). A Berlino conosce Ola Hansson, e Strindberg, che si riferirà a lui come a «quel geniale polacco», e il pittore norvegese Edward Munch, la cui più celebre opera gli ispirerà il romanzo Il grido (Krzyk, 1917). Nella scrittura teatrale Przybyszewski debutta nel 1897 col dramma Per fortuna (Das grosse Glück, versione polacca: Dla szczescia, 1898).

Nel 1898 si trasferisce a Cracovia e inizia a dirigere la rivista “Zycie”, dove pubblica – oltre ai propri drammi Il vello d’oro (Zlote runo) e Ospiti (Goscie, 1901) – anche due opere di Wyspianski, La Varsavienne e Anatema . La sua attività di drammaturgo prosegue con La madre (Matka) e Neve (Snieg, 1903), Fiaba eterna (Odwieczna basnia) e La promessa nuziale (Sluby, 1906), quella di teorico del teatro ha inizio nel 1905 con uno studio Sul dramma e la scena (O dramacie i scenie), vera poetica di un teatro che sia espressione e riproduzione immediata – priva di nessi logici – di sentimenti, sogni, visioni, impressioni, dove il dramma non sia altro che «una sorta di stenogramma che l’attore stesso, se è artista, deve decifrare e a misura della sua individualità riprodurre o ricreare».

Tra i drammi successivamente pubblicati e rappresentati, Il festino della vita (Gody zycia, 1909), L’abisso (Topiel, 1912), La città (Miasto, 1927), Il vendicatore (Msciciel, 1927). Al centro delle pièces di P. sono i tragici esiti del conflitto tra le pulsioni erotiche e le convenzioni morali: in Neve in una progressione maeterlinckiana la protagonista va incontro al suo destino, il suicidio causato dalla perdita dell’amore del marito, mentre gli Ospiti non sono altro che i rimorsi di coscienza. Se nella tragedia classica l’individuo era un giocattolo nelle mani degli dei, nel dramma moderno per Przybyszewski l’uomo è in balìa dei propri istinti. Le influenze di Maeterlinck, Ibsen e Strindberg permisero a Przybyszewski di introdurre nel dramma polacco importanti novità, quali la sostituzione dell’intreccio con l’analisi psicologica dei personaggi, il ricorso alla funzione drammaturgica del dialogo, l’impiego dell’esposizione strutturata degli antefatti al posto dell’azione.

Convinto assertore della poetica simbolica, Przybyszewski intese concretizzare le proiezioni di rimorsi, presentimenti, stati d’animo secondo un principio di verosimiglianza realistica, in persone autentiche: in Per fortuna Zdzarski rappresenta la coscienza. L’importanza di Przybyszewski è soprattutto legata all’impatto esercitato dalle sue idee e dalla sua concreta attività organizzativa culturale sulla società polacca dei primi del secolo: come drammaturgo ha goduto di un certo successo soprattutto in Russia, grazie alle inscenizzazioni e agli adattamenti cinematografici di Vs. Mejerchol’d, ma è stato ben presto dimenticato a favore di Wyspianski.

García

Artista geniale, trasgressivo e inquieto, di famiglia spagnola originaria di Salamanca, Victor Garcìa studia medicina e belle arti (pittura, scultura, architettura) a Buenos Aires. Qui scopre il teatro: segue corsi di danza e mimo, fonda il Mimo Teatro e realizza il primo spettacolo nel 1957, tratto da García Lorca. Viaggia e lavora in Sudamerica, quindi, nel 1960, approda in Europa, a Barcellona e poi a Parigi, dove nel ’62 si iscrive all’Université International du Théâtre e allestisce Le petit retable de Don Cristobal di García Lorca, premiato come miglior lavoro. Seguono La rosa de papella di Valle-Inclán (compagnia Serrau-Perinetti; Pavillon de Marsan, 1964), Ubu re di Jarry (1965), El gran teatro del mundo di Calderón (Biennale di Parigi, 1966). Immediati i consensi ai suoi spettacoli, che scuotono per violenza iconoclasta e potenza visionaria. In Il cimitero delle automobili di F. Arrabal (1967) è esplicita la sua volontà di dissacrazione del luogo teatrale: carcasse di auto e ferraglie invadono la scena, mentre è sconvolto il senso dello spazio ed esaltata la parola. La ricerca di un’architettura scenica estrema e di una teatralità assoluta, che inducano nel pubblico un senso di svuotamento, culminano in due spettacoli-scandalo di J. Genet: Les bonnes con la compagnia spagnola di Nuria Espert (1969) e Le balcon (1970), dove nel teatro sventrato con la dinamite si erge una colonna («vertebrale») di ventisette metri. La sagesse ou la parabole du festin di P. Claudel riceve il Prix du meilleur spectacle Claudel (Parigi, Théâtre de la Cité Universitaire, 1969); la collaborazione con N. Espert prosegue con Yerma di García Lorca (Madrid 1972, presentato anche alla biennale di Venezia) e Divine parole di Valle-Inclán (1976). Con la compagnia Ruth Escobar di San Paolo allestisce per la Biennale di Venezia gli Autos sacramentales di Calderón (1974): ma la grande varietà di stili, l’idea di teatro come azione pubblica e l’inclinazione autodistruttiva isolano e sradicano G. dalla scena teatrale mondiale. Nell’ultimo spettacolo, Gilgamesh (Théâtre National de Chaillot, 1979), una compagnia di attori di origine araba, in uno spazio che ha inghiottito la platea e squarciato il suolo, recitano, in `panarabo’, appollaiati su piloni: quasi in un atto finale di emarginazione, al quale farà eco una risposta emarginante di critica e pubblico.

Keaton

La carriera di Buster Keaton sulle scene del vaudeville inizia a soli cinque anni, quando comincia a prender parte al numero comico acrobatico dei genitori Joe e Myra, che presto viene chiamato ‘The Three Keaton’. La prima dote per la quale si distingue è la resistenza alle botte prese dal padre, che lo scaraventa a destra e a sinistra, e che viene persino denunciato da varie associazioni di tutela dei diritti dei bambini. Ma il suo vero apporto di novità al vaudeville è l’introduzione della figura del ‘bambino terribile’, mentre gli altri innumerevoli infanti che calcano le scene del tempo sono presentati con connotazioni delicate e innocenti. Si distingue anche per la sua creatività: gli si attribuisce la gag dell’autostrangolamento con una mano dietro il sipario, poi copiata da centinaia di comici. Altra sua caratteristica è l’imitazione degli artisti in cartellone, fra le quali quella di Houdini alle prese con la liberazione dalla camicia di forza; è proprio il celebre illusionista ad affibbiargli il nomignolo ‘buster’, turbolento.

I Keaton, con la formazione allargata sino a cinque elementi, ottengono un grande successo, con scritture nei migliori teatri dell’epoca, fra cui l’Hammerstein Theatre (che diventerà il Palace) e buoni contratti anche in Inghilterra. Buster Keaton diventa poi celebre per l’attività cinematografica, che afferma la sua maschera di flemmatico. L’avvento del sonoro manda in crisi la sua carriera; Buster Keaton sfrutta il suo bagaglio di esperienze, anche teatrali, per diventare un buon gag maker per le stesse case di produzione che sino a pochi anni addietro lo avevano pagato profumatamente. In compagnia della moglie Eleanor, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, fa diverse apparizioni come clown mimo al Cirque Medrano di Parigi dove, per un equivoco sorto con il direttore sull’entità del compenso, rischia persino di finire in carcere; è poi scritturato in diversi teatri di varietà europei, e per tre mesi anche in Italia. Punto di riferimento importante per lo sviluppo della clownerie nel Novecento, con la sua figura stralunata di pierrot moderno alienato dal mondo che lo circonda, nel 1965 Buster Keaton incarnerà anche le angosce di Samuel Beckett nel cortometraggio da lui sceneggiato, Film, con la regia di Alan Schneider.

Sanjust

Conclusi gli studi classici, Filippo Sanjust scopre la propria vocazione per lo spettacolo con un’occasionale collaborazione al film Beatrice Cenci di R. Freda (1956), esordendo in teatro come costumista a fianco di Visconti (Don Carlos, Londra, Covent Garden, 1958) ed imponendosi grazie ad allestimenti realistici, scaturiti dal minuzioso studio storico e stilistico che caratterizza la linea espressiva del regista (per il Duca d’Alba di Donizetti, Festival dei di Spoleto, 1959, vengono riattivate le ottocentesche scenografie originali; per Le nozze di Figaro, Roma, Teatro dell’Opera, 1964, si ricorre ad una splendida ricostruzione storica). Pur senza rinnegare lo stile viscontiano, lavorando accanto a E. De Filippo (Barbiere di Siviglia, Roma, Teatro dell’Opera, 1965 ), G. R. Sellner ( Nabucco, Berlino, Deutsches Opera, 1979) e V. Puecher (Il giovane Lord di Henze, Roma, Teatro dell’Opera, 1965), preferisce una scenografia più pittorica, quasi bidimensionale, che raffina con i Bassaridi di Henze (Francoforte, 1966), Il trovatore (regia di A. Anderson, Londra, Covent Garden, stagione 1977-78) e I maestri cantori di Norimberga (regia di W. Eichner, Roma, Teatro dell’Opera, 1979). Per il Flauto magico di Mozart (Francoforte, 1968) cura anche la regia, come per Armida (Palermo, Teatro Massimo, 1974) e Tancredi (Roma, Teatro dell’Opera, 1978 ).

Besson

Alla fine della Seconda guerra mondiale durante una tournée nella Germania occupata dalle truppe francesi collabora con il regista Jean-Marie Serreau. Assieme allestiscono a Parigi L’eccezione e la regola di Brecht (1949). L’incontro, avvenuto nel 1948, con Brecht segna la carriera di Benno Besson; nel 1949 lo raggiunge al Berliner Ensemble per iniziare con il drammaturgo tedesco una collaborazione che si interrompe solo alla morte di quest’ultimo, nel 1956. Tra gli allestimenti di questo periodo: Il processo di Giovanna d’Arco a Rouen 1431 di A. Seghers, adattato da Brecht (1952); Don Giovanni di Molière, in un adattamento di Brecht (1952, ripreso nel 1954); L’anima buona di Sezuan e I giorni della Comune di Brecht (1956). Benno Besson aderisce all’idea di teatro proposta da Brecht, a cui è vicino soprattutto nell’analisi della condizione umana, ma vi aggiunge il gusto per gli effetti spettacolari e la curata eleganza della messa in scena. Il confronto con il maestro tedesco continua negli anni successivi – Un uomo è un uomo (1958); L’opera da tre soldi (1959); Santa Giovanna dei macelli (Stoccarda, 1961); Turandot (Zurigo, 1969); L’anima buona di Sezuan (Roma, 1973); Il cerchio di gesso del Caucaso (Avignone, 1978); Un uomo è un uomo (Zurigo, 1988) – ma il regista affronta nel frattempo anche altri autori: Don Giovanni di Molière (Palermo, 1964); Horizons testo collettivo scritto da operai (andato in scena alla Volksbühne di Berlino nel 1969; nello stesso anno B. ne assume la direzione); Re cervo di C. Gozzi (1971); Amleto di Shakespeare (Berlino, 1971; ripreso al festival d’Avignone nel 1977); Edipo tiranno di Sofocle (nell’adattamento di E. Sanguineti, Reggio Emilia, 1980); Il drago di E. Švarc, nella versione francese dello stesso B. (1986, alla Comédie di Ginevra, di cui B. è direttore artistico dal 1982 al 1989); Il flauto magico di Mozart (Ginevra, 1988); Tuttosà e Chebestia di C. Serreau (Genova, 1993); Amleto di Shakespeare (Genova, 1994); Tartufo di Molière (Losanna, 1995); Moi di E. Labiche (Genova, 1995).

Evreinov

Nikolaj Nikolaevic Evreinov studia diritto e musica, poi debutta in teatro con una serie di commedie: L’origine della felicità e Stepik e Manjurocka (1905), Il bel despota e La guerra (1906), La nonna (1907) e Una tale donna (1908). A partire dal 1907 dirige il Teatro Antico, dove vengono ricostruite sacre rappresentazioni medioevali francesi e spettacoli del secolo d’oro spagnolo. Lavora come regista prima al teatro di Vera Komissarzevskaja in Salomè di Wilde (1909) e Francesca da Rimini di D’Annunzio (1909), poi al teatro ‘Lo specchio curvo’, dedicato alla caricatura e al grottesco, per cui scrive fra il 1911 e il ’15 una serie di arlecchinate (La gaia morte , Il revisore , su motivi gogoliani, da lui stesso definito ‘buffonata da regista’, La scuola delle stelle, La cucina del riso ) e di `monodrammi’, genere da lui inventato, dove il protagonista rappresenta il mondo come lo percepisce in un dato momento della sua esistenza: Una Colombina dei nostri giorni , Tra le quinte dell’anima, Le rappresentazioni dell’amore e la trilogia Ciò che più importa, La nave dei giusti e Il teatro della guerra eterna. Evreinov è anche autore di saggi dove sostiene la teoria di un teatro fortemente soggettivo e orientato al recupero di una libera teatralità: Introduzione al monodramma (1912), Il teatro come tale (1912), Il teatro per sé (1915-17). Emigrato a Parigi nel 1925, continua la sua opera di commediografo (scrive anche canovacci per balletti), regista (dirige un teatro in lingua russa), saggista e storico del teatro (Le théâtre en Russie sovietique, 1946; Histoire du théâtre russe, 1947).

Landi

Diplomatosi in regia all’Accademia d’arte drammatica nel 1944, Mario Landi si dedicò al teatro rivolgendosi a un repertorio che rappresentava il dramma della guerra (nel 1945 Gioventù malata di Bruckner e La frontiera di L. Trieste, nel 1946 Cronaca di L. Trieste). Trasferitosi nel 1946, frequentò il circolo culturale Diogene di Milano dove affrontò in particolar modo testi italiani (Capuana, Pirandello, Moravia, Squarzina, Jovine, Chiesa, Cicognani, De Benedetti, Viola, P. Levi, Sollima). Sin dal 1952 si dedicò esclusivamente alla televisione (fu, nel 1954, uno dei primi registi di originali tv), dirigendo un centinaio di commedie e molti sceneggiati dal 1955 al 1979 (famosi i sedici episodi tratti dalle Inchieste del commissario Maigret di G. Simenon, interpretati da G. Cervi). Nel cinema esordì nel 1949 con un film musicale e continuò firmando qualche film di consumo e collaborando ad alcune sceneggiature.

Vachtangov

Dopo aver frequentato la scuola teatrale di A. Adasev, dove insegna L. Sulerzickij, collaboratore di Stanislavskij, nel 1911 Evgenij Bogratjonovic Vachtangov viene assunto al Teatro d’Arte di Mosca e diventa uno dei più accesi sostenitori del `sistema’ di educazione dell’attore che Stanislavskij sta mettendo a punto. Nel 1912, per volere di Stanislavskij, viene fondato il Primo Studio, dove un gruppo di giovani, fra cui appunto Vachtangov, senza il peso di prove e spettacoli, può liberamente sperimentare i nuovi principi. Anima dello Studio è L. Sulerzickij, che impone agli allievi una ferrea disciplina e imposta il lavoro su basi rigidamente etiche: alla bravura antepone la correttezza e la generosità, alle doti artistiche quelle umane. Il lavoro si svolge in un’atmosfera severa e appassionata. In una stanza dell’appartamento in cui si svolgono le lezioni viene allestito un minuscolo palcoscenico, con il pubblico a pochi metri dagli attori.

I primi spettacoli (Il grillo nel focolare, tratto da un racconto di Dickens; Il diluvio di Berger; La dodicesima notte di Shakespeare) vedono Vachtangov impegnato più come attore che come regista e le sue interpretazoni si segnalano per intelligenza e originalità. A partire dal 1913 guida un gruppo di studenti che gli si rivolgono per consigli e per lezioni, spinti dalla comune passione per il teatro. Nonostante la diffidenza di Stanislavskij, sostenitore della professionalità e nemico di ogni dilettantismo, Vachtangov si lancia con entusiasmo nell’impresa, dimostrando una straordinaria vocazione pedagogica. I testi scelti per le prime esercitazioni, che diventano poi spettacoli, sono edificanti parabole come Il miracolo di sant’Antonio di Maeterlinck o raffinate ricerche sul ritmo e sul grottesco come Le nozze di Cechov.

Dopo la rivoluzione d’Ottobre aderisce con slancio al nuovo regime e aumenta fortemente la sua attività pedagogica, in vari gruppi studenteschi e operai. Contemporaneamente, continua brillantemente la sua collaborazione con il Primo Studio, dove firma la regia di alcuni tra i più riusciti spettacoli del gruppo come Hedda Gabler di Ibsen (1920), trionfo del `metodo’ psicologico stanislavskiano, con la partecipazione straordinaria nel ruolo della protagonista di Ol’ga Knipper-Cechova, e Erik XIV di Strindberg (1921), dove riesce a trasmettere tutta l’angosciosa insicurezza degli anni rivoluzionari, grazie anche all’interpretazione allucinata che del sovrano dà Michail Cechov, nipote del grande scrittore. Con il maturare della sua prassi registica, si allontana dalla stretta osservanza del `sistema’: ai rigidi dettami del metodo psicologico sostituisce una più libera ricerca di teatralità, una più espressiva indagine sulla gestualità.

Chiamato dallo Studio teatrale ebraico Habima, dirige nel 1921 Il Dibbuk di An-ski in cui decide di utilizzare il testo in lingua ebraica antica, del tutto incomprensibile alla maggioranza del pubblico. Sempre per questo lavoro adotta per gli attori trucchi violenti e ritmi gestuali talora lenti talora sfrenati per esprimere l’intensa drammaticità della vicenda, che alterna misticismo e violenta polemica sociale. In questo periodo elabora nel suo Studio una messinscena di Principessa Turandot di Gozzi. Anche in questo spettacolo la prima preoccupazione è la libertà creativa dell’intero gruppo. Le scene sono costruite con materiali di recupero, i costumi fatti di stracci e oggetti casuali, la recitazione basata sull’improvvisazione, sulla libera espressione dell’indole di ciascun attore. L’effetto è sconvolgente: Gozzi sembra un autore contemporaneo, tanta è la scioltezza con cui viene letta l’antica fiaba. Gli interpreti utilizzano la loro acerba tecnica per esaltare l’invenzione e la fantasia e gli scenografi e costumisti si allontanano da ogni canone costituito.

Lo stesso Stanislavskij, così lontano, nella sua impostazione, da quel tipo di lavoro, applaude e si dichiara entusiasta. Con Vachtangov nasce una nuova linea di ricerca, che ha le sue radici nel `sistema’ e tuttavia si nutre di antiche tradizioni come quelle della Commedia dell’Arte. Minato da un male incurabile, Vachtangov muore poche settimane dopo la trionfale prima rappresentazione della sua Turandot, che rimane il suo testamento teatrale e la più perfetta e libera realizzazione del suo lungo cammino di regista.

Mauclair

Jacques Mauclair è direttore del teatro Rive-Gauche dal 1971 al 1975; nel 1976 diventa direttore del teatro Marais. Dagli anni ’50 il suo nome è legato agli autori del Nouveau Théâtre, in particolare a Adamov – è regista di Comme nous avons été (1953) e di Ping-Pong (1955); recita in Il professor Taranne (1953), sotto la direzione di Planchon – e a Ionesco mette in scena Vittime del dovere (1953); Le sedie (1956) e Il re muore (1962); nel 1959 si avvicina al teatro di Brecht: Maurice Sarrasin, direttore del Teatro Grenier di Tolosa, lo invita ad allestire Madre Coraggio. Nel suo repertorio compaiono anche testi classici: Elettra (1977); L’avaro (1989, per cui gli è assegnato il premio Molière); La scuola delle mogli (1992). Nel 1982 riscrive un classico: Le Misanthrope chez Molière ou l’impromptu du Marais (ne è anche regista e attore). Negli ultimi anni ha curato la regia e ha interpretato diversi testi di Eduardo de Filippo: Antonio Barracano (1993); Natale a casa Cupiello (1995); Sik-Sik (1997).

Planchon

Originario della regione della Loira, negli anni ’50 Roger Planchon fonda a Lione il Théâtre de la Comédie, dove sono rappresentati testi di Courteline, Feydeau, Frédérique, Marlowe, Shakespeare, Adamov, Kleist, Ionesco, Calderón, Vitrac, ma soprattutto Brecht (che costituisce per Planchon un paradigma) e Michel Vinaver (Aujourd’hui ou les Coréens). Dal 1957 dirige il Théâtre de la Cité a Villeurbanne, dove stringe un sodalizio artistico con René Allio. Esordisce con l’ardita trilogia shakespeariana Enrico IV-Il principe-Falstaff ; prosegue con opere di Molière (George Dandin, del quale sconvolge le convenzioni, presentando un protagonista molto giovane, che ripropone più tardi in versione cinematografica; Tartufo ); mette in scena A. Dumas (I tre moschettieri che arricchisce di trovate brillanti ai limiti della cinematografia), Musset (On ne saurait penser à tout ) e Gogol (Le anime morte nell’adattamento di Adamov). Nel 1972 Planchon sarà condirettore del Théâtre National Populaire, dapprima con Chéreau (1971-1981), poi con Lavaudant tra il 1986 e il 1996, data in cui quest’ultimo lascerà il TNP per dirigere l’Odéon di Parigi. Nel suo repertorio, oltre ai contemporanei (Pinter, Ionesco), sono sempre presenti gli amati classici (Shakespeare, Molière, Racine, Corneille) rivisitati in chiave politica e didattica. Di Dumas rappresenta il poco conosciuto melodramma La Tour de Nesle (Nizza 1996). Le sue pièces sono talora intimiste (La Remise), talaltra a sfondo storico (Bleus, Blancs, Rouges ou Les Libertins, ripresa più tardi col titolo Les Libertins, Le radeau de la meduse) Da segnalare la decennale collaborazione artistica con Ezio Frigerio.

Ricci

Dopo le adolescenziali esperienze filodrammatiche incoraggiate dal padre, insegnante di recitazione all’Accademia dei Fidenti, Renzo Ricci ottenne la prima scrittura nella compagnia Borelli-Piperno, quando non aveva ancora 17 anni, per poi passare con Gandusio, che non metteva in scena solo pochade ma novità rischiose, come L’uomo che incontrò se stesso di Antonelli e Acidalia di Niccodemi, che al giovanissimo fiorentino valse l’incoraggiante `bravo Ricci’ dell’autorevole M. Praga. In seguito fu con Betrone, con E. Gramatica-Pilotto, con Talli, Zacconi, per formare poi compagnia con la moglie Margherita Bagni (1925-1928), allestendo testi di Paolieri, Ferrigni, Bernstein, Sardou, Deval. Passò quindi con le sorelle Gramatica e, dopo una parentesi nella mitica Za-Bum, capeggiò la Nuova compagnia della commedia (1933) che allineava i nomi di Cervi, Melnati, L. Adani, N. Gorini, E. Magni, cimentandosi in Pirandello, Coward, Guitry, Birabeau, Bourdet.

Più che della lezione verista di Zacconi aveva fatto tesoro della spiritualità di Ruggeri e di estrosi guizzi alla Benassi, costantemente alla ricerca di una modernità interpretativa, espressa appieno negli anni della maturità. Apprezzato per il disincanto che prestava ai protagonisti della commedia borghese, conseguì i vertici interpretativi nel frequentatissimo Shakespeare e sull’opposto versante nelle `maschere nude’ di Pirandello. Nel secondo dopoguerra ha dato vita con l’inseparabile E. Magni a una compagnia che, quasi sempre con le sue regie, ha allestito testi di O’Neill, Shaw, Anouilh, de Hartog, Rattigan, Odets, Maulnier. Ha partecipato inoltre agli spettacoli classici estivi di Boboli, Fiesole, Venezia, Vicenza, Verona, Siracusa con le regie di Reinhardt, Salvini, Simoni, Visconti. Memorabili restano le sue interpretazioni nel torbido Sottoscala di Dyer (accanto a Stoppa), nella Lulù di Wedekind (accanto a Carraro-Cortese) e infine nel Giardino dei ciliegi di Cechov (il vecchio Firs) e nel Balcon di Genet (il Plenipotenziario), entrambi con la regia di Strehler che tanti anni prima lo aveva voluto protagonista di Riccardo III al Piccolo Teatro. Fino all’ultimo restò fedele alla religione del `teatro di parola’, praticamente ignorando il cinema che lo ripagò di pari moneta.

Chaikin

Joseph Chaikin debuttò sulle scene nel 1958 e l’anno dopo entrò a far parte del Living Theatre, partecipando ad alcuni dei più importanti spettacoli del gruppo prima dell’esilio Questa sera si recita a soggetto, Many Loves di Williams, The Connection di Gelber e, nella parte di Galy Gay, Un uomo è un uomo di Brecht. Nel 1964 fondò a New York l’Open Theatre, una compagnia sperimentale che si proponeva di creare e rappresentare, nell’ambito del nascente movimento di Off-Off-Broadway, testi di autori nuovi, da elaborare attraverso esercizi di improvvisazione. A fondamento del suo metodo, teorizzato nel volume The Presence of the Actor (La presenza dell’attore, 1972), era la scelta di mettere in rilievo la figura dell’attore, la cui indipendenza dal personaggio veniva accentuata dal fatto che si prevedeva dovesse trasformarsi a vista durante la rappresentazione. Il successo di America Hurrah! di Van Itallie (1966) stabilì la sua reputazione in America e poi in Europa e fu confermato dagli spettacoli successivi – Viet Rock (1966), The Serpent (1968), Terminal (1969), The Mutation Show (1971) – ma finì per stravolgere in parte le intenzioni originarie trasformando quello che voleva essere soprattutto un laboratorio per attori in una macchina per produrre spettacoli. C. decise allora, nel 1974, di porre fine all’esperienza dell’Open Theatre e negli anni successivi svolse attività di regista non solo a New York, ma a San Francisco, a Los Angeles e perfino a Tel Aviv, dove riallestì all’Habimah Il Dibbuk , di An-ski, vale a dire il testo più famoso della drammaturgia ebraica.

De Bosio

Gianfranco De Bosio inizia la sua attività a Padova, al teatro universitario. Nel 1949 riesce ad aprire un locale, Il Ruzante, dove realizza i suoi primi esperimenti di regista con un vasto repertorio che va da Eschilo a Calderón, da Goldoni a Ruzante, da Pirandello a Brecht. B. Brunelli lo aveva introdotto al mondo di Ruzante, ma determinante è la conoscenza e la collaborazione con L. Zorzi. Nel 1950 rappresenta per la prima volta La Moscheta, nel dialetto originale, con G. Bosetti (scene di M. Scandella, testo critico di L. Zorzi); nel 1956 la ripresenta al festival di Venezia con C. Baseggio, E. Vazzoler, G. Bosetti, A. Battistella e G. Cavalieri. Nel 1958 assume la direzione del Teatro stabile di Torino; nel 1960 allestisce ancora La Moscheta, con una memorabile interpretazione di Franco Parenti, che dirigerà, ottenendo il medesimo risultato, in I Dialoghi del Ruzante (1965) e La Betia (1969). L’itinerario ruzantiano è fonte per lui di continue sperimentazioni e consensi, soprattutto da parte della critica. Scopre infatti, come nessuno prima di lui è riuscito a fare, la modernità di un autore dal linguaggio all’apparenza impossibile da portare in scena. Nel momento in cui realizza I Dialoghi esce per la prima volta in Italia, presso Einaudi, l’opera completa di Ruzante; contemporaneamente, I Dialoghi sono invitati a rappresentare l’Italia al festival del Théâtre des Nations. A Torino dirige ancora Franco Parenti in La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (1961); e realizza anche testi d’impegno civile e politico, come Le mani sporche di Sartre (1964) e Se questo è un uomo di Levi (1966). Nel 1968 assume la sovrintendenza dell’ente lirico della città di Verona, dove promuove un vasto rinnovamento, chiamando all’Arena registi come Vilar, Squarzina e Ronconi. È questo un anno importante, durante il quale si verificano grandi cambiamenti nel campo del teatro e della regia soprattutto: la scena conquista un posto primario. L’attività di D. e B.è senza sosta; pur continuando il suo lavoro nella lirica (allestisce la tetralogia wagneriana e numerose opere di Verdi, tra le quali due significative messinscene dell’ Aida ), non abbandona mai l’approfondimento del teatro ruzantiano, di cui è il regista princeps , ma lavora anche su Goldoni – Le donne gelose (1985), Le donne de casa soa (1986), Le baruffe chiozzotte (1988), La bottega del caffè (1989) – e su Molière – L’avaro con G. Bosetti (1992). Particolarmente significativo anche l’incontro con l’opera di Svevo, evidenziato dal memorabile allestimento di Un marito con A. Tieri e G. Lojodice (1983, adattamento di T. Kezich). Definito per molti anni «regista ruzantiano per eccellenza», Gianfranco De Bosio è riuscito ad allargare la sua ricerca non solo ai classici, ma anche a opere novecentesche, soprattutto nei dieci anni trascorsi allo Stabile di Torino. Ha lavorato anche per la Rai, riscuotendo un successo internazionale nel 1974 con Mosè . È stato sovrintendente all’Arena di Verona fino al 1998.

Castri

L’esperienza teatrale di Massimo Castri comincia a Firenze, negli anni ’60, in gruppi amatoriali di cabaret. Entrato successivamente in contatto con alcuni registi d’avanguardia (C. Quartucci, A. Calenda, R. Guicciardini, G. Cobelli), partecipa all’esperienza della Comunità teatrale Emilia-Romagna, una cooperativa di attori fondata a Modena nel 1968 con lo scopo di ricercare un nuovo modello espressivo. Sono di questi anni la partecipazione agli spettacoli Gli uccelli di Aristofane e Woyzeck di Büchner, entrambi diretti da Cobelli. Nel 1972 firma la sua prima regia con I costruttori d’imperi di B. Vian. Nel ’73 pubblica da Einaudi la sua tesi di laurea (Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud ) in cui si riflette l’inquietudine della nuova generazione, impegnata a ripensare il senso e le prospettive del teatro all’interno della realtà sociale. Fin dalle prime regie mostra un particolare rigore metodologico, sia nello studio dei testi sia nelle soluzioni sceniche. Nel 1973 scrive e mette in scena Fate tacere quell’uomo! (ricostruzione della vicenda di Arnaldo da Brescia), È arrivato Pietro Gori anarchico pericoloso e gentile, Il bianco, l’Augusto e il direttore; firma la regia di La tempesta di Shakespeare e di Un uomo è un uomo di Brecht. Intanto si lega con la Loggetta di Brescia, che dal 1975 si chiamerà Centro Teatrale Bresciano. Qui realizza i suoi primi allestimenti pirandelliani (1977-79): Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi, Così è (se vi pare) è la trilogia con cui si apre un processo teso a ridare contemporaneità alla drammaturgia pirandelliana e a indagare le componenti del dramma borghese in essa presenti. Pirandello viene assunto come testimonianza di una crisi che investe in egual misura la scena e la società, utile a rappresentare, dietro le apparenze del modello romantico ottocentesco, la mutata condizione dell’uomo.

A partire da questo momento il lavoro di Massimo Castri sembra procedere per cicli. Dopo Pirandello arriva Ibsen, di cui vengono studiati e rappresentati Rosmersholm (1980) e Hedda Gabler (1980-81). Tra analisi del testo e del sottotesto, tra lettura simbolica e psicoanalitica, tra scomposizione e ricomposizione della vicenda e dei personaggi, il regista sottrae il dramma a una lettura univoca e approda a una pluralità di elementi interpretativi a cui affidare la comprensione dell’intera opera drammatica. Con lo stesso intento analitico Massimo Castri affronta la lettura metateatrale della tragedia, allestendo nel 1978 Edipo di Seneca e nel 1983 Le Trachinie di Sofocle. Nel 1990 avvia in Toscana la collaborazione con i giovani dell’Atelier costa ovest per la realizzazione del `progetto Euripide’, offrendo nel medesimo giorno (29 giugno) due spettacoli diversi in luoghi diversi: Elettra a Campiglia Marittima e Oreste a Rosignano Marittimo, entrambi con la propria drammaturgia e la collaborazione registica di Cristina Pezzoli. Nel 1992 mette in scena per VenetoTeatro I rusteghi di Goldoni, cui segue, per il comune di Milano, La disputa di Marivaux. Gli anni tra il 1993 e il ’95 sono dedicati alla tragedia greca (Elettra , Ifigenia in Tauride , Ecuba , Oreste) e nel 1996 C. approda a uno dei suoi capolavori, la messinscena della Trilogia della villeggiatura di Goldoni per il Metastasio di Prato.

Randisi

Stefano Randisi si forma come attore al Teatro Daggide di Palermo. Partecipa come interprete a tutti gli spettacoli, tra cui Ubu re di Jarry nei panni di Re Venceslao e dello Zar Alessio. Questa esperienza caratterizza il suo lavoro teatrale di ricerca che si indirizza verso il teatro d’attore, l’improvvisazione e l’idea della drammaturgia collettiva indirizzata alla scrittura scenica. Insieme con Enzo Vetrano recita nello spettacolo di Leo De Berardinis, The connection di J. Gelber per la cooperativa Nuova Scena di Bologna di cui diventa socio, e all’interno della quale nel 1983 forma una compagnia. Prosegue il suo sodalizio con Enzo Vetrano: insieme allestiscono molte rappresentazioni, tra le tante, la trilogia dedicata alla Sicilia, loro terra d’origine: Principe di Palagonia , Mata Hari a Palermo , (premio Palermo per il Teatro 1988, L’isola dei beati (1988). Dirige Vetrano e Nestor Garay, in Giardino d’autunno di D. Raznovich (1989-1991). È aiuto regista di Nanni Loy in Scacco matto di V. Franceschi. Prosegue inoltre la collaborazione con Leo De Berardinis in L’impero della ghisa (1991), ne I giganti della montagna di Pirandello, con il quale vince il premio Ubu come spettacolo dell’anno 1993. È assistente alla regia di Leo De Berardinis in IV e V atto dell’ Otello di Shakespeare. Con Vetrano dirige e interpreta Diablogues (1994) e Beethoven nel campo di barbabietole (1996) di R. Dubbillard. Sempre in coppia con Vetrano, e in collaborazione con il musicista Giovanni Tamborrino, due spettacoli di musica contemporanea: Operette Morali di Leopardi e Gordon Pym di E.A. Poe. E ancora elabora e dirige La martogliata e L’arte di Giufà di Nino Martoglio. E attore e coregista dello spettacolo Mondo di carta dalle novelle di Pirandello. Ha avuto esperienze cinematografiche e televisive.

Kayssler

Friedrich Kayssler iniziò la carriera nel 1895 al Deutsches Theater diretto da Otto Brahm; venne poi scritturato a Görlitz e a Breslavia. Tornò quindi a Berlino, divenendo uno degli attori più importanti della prima metà del secolo. Dopo aver lavorato con Max Reinhardt nell’ambito del cabaret, con la sua regia ottenne il primo grande successo come protagonista del Principe di Homburg di Kleist (Deutsches Theater, 1907); sempre diretto da Reinhardt, fu anche il protagonista del Faust (prima e seconda parte, 1909-1911), e gli succedette alla direzione della Volksbühne, dove scritturò come regista l’ancora sconosciuto J. Fehling. Qui lavorò spesso assieme alla moglie, l’attrice Helene Fedmehr, dirigendo e interpretando opere come Verso Damasco di Strindberg (1922); dal 1923 fu attivo anche in altri teatri, a Vienna e Monaco. Nel 1933 iniziò a collaborare con G. Gründgens al Teatro Nazionale di Berlino. Scrisse anche drammi (Simplicius, 1905; Jan il magnifico, 1917; La lettera, 1927) e interpretò numerosi film. Un raffinato senso dell’umorismo improntava la sua arte; di fronte al suo lavoro di attore – è stato scritto – ci si chiedeva cosa fosse l’essenza del teatro, poiché era difficile stabilire dove iniziasse l’arte, tanto questa, in lui, si era fatta natura.

Melazzi

Giorgio Melazzi si diploma alla scuola del Piccolo Teatro di Milano nel 1973 e nello stesso anno firma la regia di Ubu Roi di A. Jarry. Inizia contemporaneamente un lungo sodalizio con Franco Parenti, che lo dirige in Willibald e Oloferne di J. Nestroy (1974), La Betia del Ruzante (1975), La palla al piede di G. Feydeau (1976), Gran Can Can di F. Lemaitre (1981). Lavora inoltre con A. R. Shammah ( L’Ambleto , 1972; Macbetto , 1974; e L’Arialda di G. Testori, La doppia incostanza di Marivaux, Il malato immaginario di Molière), G. Lavia, M. Scaparro, M. Béjart (per cui è il lettore di Nietzsche in Dionysos , 1983). Dopo l’esperienza nel teatro classico, dal 1985 scrive e interpreta i suoi spettacoli (premiati in varie rassegne di Nuova Drammaturgia), dapprima commedie comiche di impianto tradizionale, quindi soggetti e meccanismi più innovativi dove si delinea ed emerge la sua vena amaro-ironica-surreale: Dopolavoro `Vincere!’ (1985), La pietra al collo (1987), L’arte della pizza (1987), Banana Konferenz (1991). Nel 1992 è coautore e cointerprete con Lella Costa del fortunato spettacolo Due ; del 1995 è il monologo Blues dei Cento Appunti . Partecipa a numerose commedie e varietà televisivi (gli ultimi: Scatafascio con Paolo Rossi, Zelig Facciamo Cabaret ) e radiofonici, al film Strane storie di A. Baldoni (1996); lavora intensamente nel doppiaggio (sue le voci di Richard Dreyfuss, Phil Collins, John Savage).

Calenda

Laureato in Filosofia del diritto con una tesi sul concetto di giustizia nell’ Orestea di Eschilo, Antonio Calenda fonda nel 1965 il Teatro Sperimentale Centouno con G. Proietti e V. Gazzolo; con loro ci sono F. Benedetti e P. Degli Esposti, che lo seguono poi allo Stabile dell’Aquila del quale diventa direttore. Fra le produzioni di quegli anni, Operetta di Gombrowicz, La cortigiana dell’Aretino, uno spettacolo di Laudi con Elsa Merlini e Lear di E. Bond del quale, allo Stabile di Genova, mette in scena anche Il mare (1974-75). È drammaturgo per i fratelli Maggio e con P.B. Bertoli (Cinecittà, Le ragazze di Lisistrata), ma soprattutto regista. Tra gli autori più frequentati, Shakespeare (Coriolano, Come vi piace, Riccardo III, Sogno di una notte di mezza estate), Brecht (Madre Coraggio), il Beckett di Aspettando Godot con Pupella Maggio, i contemporanei A. Campanile (L’inventore del cavallo, Centocinquanta la gallina canta, Alta distensione, Un’indimenticabile serata, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, quest’ultimo in tournée nel 1998), Brusati e la farsa napoletana. Tra le messinscene: Enrico IV di Pirandello e Svenimenti di Cechov, con un grande Albertazzi, nel 1981 e nel 1989; Uno sguardo dal ponte di Miller nel 1984; Tradimenti di Pinter nel 1991; l’ Edipo a Colono di Sofocle nel 1996; nel ’97 Irma la dolce, dal musical di Breffort, e Le due sorelle di Bassetti. Ha curato anche regie liriche per opere di Massenet, Spontini, Rossini, Honegger (Jeanne d’Arc au bûcher). Dal 1995 è direttore dello Stabile del Friuli-Venezia Giulia e promuove il primo Festival della drammaturgia contemporanea con testi di Valduga, Manfridi, Archibugi, Maraini, Ruccello, Costanzo, Paolini, Tarantino, Bassetti, Magris e Cavosi, di cui mette in scena Il maresciallo Butterfly (premio G. Fava 1995).

Cieslak

Dopo aver effettuato i propri studi alla Pwst di Cracovia (Scuola statale superiore di teatro), Ryszard Cieslak debutta come attore nel 1962 al Teatro delle tredici file di Opole, successivamente Teatr Laboratorium. A soli quattro anni dalla conclusione degli studi, la sua partecipazione alla messa in scena ad opera di Jerzy Grotowski di Il Principe costante di Calderón nella versione di Juliusz Slowacki (1965) viene salutata come un grande evento teatrale. Ryszard Cieslak è stato apprezzato per la sua capacità di rendere palese l’accezione iniziatica della percezione del mondo propria dei drammaturghi romantici e la scioccante drasticità del loro modo di vivere e sentire la realtà, nonché per la sua volontà di evidenziare la testualità e la fisicità di ciò che veniva considerato come metafora. Nelle sue interpretazioni Ryszard Cieslak è stato in grado di trasmettere il senso tragico dell’opprimente responsabilità che l’eroe romantico si addossa in nome della nazione, dell’umanità e del mondo, un peso destinato a condurlo alla follia come alla santità. La creazione di C. concentrava in sé il passaggio dalla disperazione al martirio, alla sottomissione, alla purificazione, «al sacrificio di se stesso nella sincerità degli impulsi e degli istinti».

Per Ryszard Cieslak nell’affrancarsi dalla paura il corpo diviene completamente disponibile e ricettivo: nel finale di alcuni monologhi il tremito delle gambe dell’attore, naturalmente indotto dal plesso solare, non veniva riprodotto artificialmente, ma nasceva spontaneo, in quanto il ruolo riusciva sempre a coinvolgere i centri di energia dell’organismo. Nella creazione del personaggio Ryszard Cieslak è passato dal rappresentare un prototipo di attore intellettule, dove il cervello condiziona e ostacola il corpo, al ricreare un uomo nella completezza della sua sensibilità. Tra i ruoli che successivamente hanno contribuito ad aumentare la fama del Ryszard Cieslak attore vi sono stati quello dell’Oscuro nell’ Apocalypsis cum figuris di Grotowski (1968), e soprattutto quello di Dhritarashtra nel Mahabharata di Peter Brook (1985), dove nella cecità del re – «un uomo potente, profondo e nobile che ha dovuto farsi strada tra le tenebre» (Brook) – Ryszard Cieslak ha riversato l’esperienza di un’intera vita di teatro.

Come regista Ryszard Cieslak debutta nell’ambito del Teatr Laboratorium di Breslavia nel 1981 con Thanatos polacca e, dopo aver abbandonato la Polonia per protesta contro l’introduzione della legge marziale nel dicembre 1981, continua la propria attività all’estero, in Italia (Aleph, Pontedera 1983), Danimarca (Il tempo dei lupi, Århus 1984; Peer Gynt, Århus 1986), Spagna (Notte oscura, Albacete 1984), Francia (Mio povero Fedia, Parigi 1986), Stati Uniti (Mercoledì delle ceneri, New York 1989).

Allio

Allio  René comincia a imporsi verso il 1950, nel quadro della giovane produzione francese (Les condamnés di M. Deguy, Parigi, Théâtre des Noctambules 1950; Victimes du devoir di Ionesco, allestito al Quartiere Latino, 1953), affermandosi al Théâtre de la Cité di Villeurbanne come collaboratore di Roger Planchon (Henri IV – Le prince – Falstaff da Shakespeare, 1957; L’anima buona di Sezuan di Brecht, 1958; Bérénice di Racine, 1966). La concezione architettonica dello spazio, il ricorso alle proiezioni a quadri fissi e sequenze filmate, l’impiego di proiettori a vista e girevoli, il gusto del materiale grezzo per attrezzeria e costumi sono gli elementi che definiscono i tratti dominanti del suo stile (descritto in tre saggi, Le travail au Théâtre de la Cité, saisons 1955-1959, Le travail au Théâtre de la Cité, saison 1959-1960 e Le théâtre comme instrument, 1963), che ha una delle maggiori esemplificazioni nel Tartufo di Molière (1962), in cui enormi quadri monocromi in bianco e nero incombono come tetre visioni sugli attori. Proficui anche i rapporti con il coreografo Roland Petit (Notre-Dame de Paris , Parigi, Opéra 1962; L’Arlésienne , Marsiglia 1974 e Firenze 1986; Les intermittences du coeur , Montecarlo 1974; Les quatre saisons , Venezia 1984) e – sebbene si tratti di collaborazioni occasionali – con alcuni registi italiani, come Luigi Squarzina (Don Giovanni di Mozart, Scala 1966) e Raffaele Maiello (Marat/Sade di Weiss, Piccolo Teatro 1967). Personalità artistica poliedrica (ha partecipato alla riforma e alla progettazione di vari teatri: Aubervilliers, Hammamet), si è dedicato anche alla regia (Attila di Verdi, Nancy 1982) e già dagli anni ’60, con Una vecchia signora indegna (La vieille dame indigne , 1965) all’attività cinematografica (il suo ultimo lavoro è la pellicola Transit , 1991).

Littlewood

Formatasi alla Royal academy of dramatic art (Rada), Joan Maudie Littlewood sviluppa e mantiene per tutta la carriera un atteggiamento fortemente polemico nei confronti dell’establishment teatrale del West End londinese. Si trasferisce a Manchester dove lavora dapprima per la radio e successivamente – insieme al marito Ewan McColl, cantante, attore e drammaturgo – dà origine al Teatro Azione di Manchester (1932), gruppo impegnato nella ricerca e sperimentazione teatrale, all’avanguardia nel filone agit-prop. Nel 1935 il gruppo diviene una compagnia itinerante (Theatre Union) che offre un repertorio di classici poco rappresentati in allestimenti apertamente `impegnati’, che mantengono gli elementi dell’agit-prop, sostituiscono l’immediatezza degli spettacoli di strada con l’improvvisazione e uniscono il commento politico alla musica e alle canzoni. Dopo la guerra Littlewood organizza, sempre a Manchester, un altro gruppo di lavoro (Theatre Workshop) e nel 1953, dopo anni di spettacoli di strada e di precarietà, ottiene una sede per la sua compagnia in una vecchia struttura nell’East End londinese. Qui porta avanti un programma di rivisitazione dei classici, uno sui testi di Brecht (Il buon soldato Schweik, Madre Coraggio in cui Littlewood è allo stesso tempo attrice e regista), ed uno sulla promozione della nuova drammaturgia (tra gli altri si ricordano L’ostaggio di B. Behan, Sapore di miele di S. Delaney e il musical di F. Norman Le cose non sono più come una volta (Fings Ain’t Wot They Used T’Be). Il festival di Edinburgo nel 1955 la invita a mettere in scena due sue produzioni di successo, Arden di Feversham e Volpone di Ben Jonson. Dopo un lungo soggiorno in Tunisia, nel 1963 torna a Londra per curare la regia di uno dei suoi più famosi lavori, Oh, che bella guerra (Oh, What a Lovely War): una satira documentata sulla Prima guerra mondiale, allestita all’interno di un party con concerto sul mare. Alla fine degli anni ’60, nonostante le fortunate regie di Il diario della signora Wilson (Mrs Wilson’s Diary) e La storia di Marie Lloyd (The Marie Lloyd Story, 1967) e l’indiscussa influenza esercitata su registi, compagnie e movimenti teatrali, Littlewood perde l’entusiasmo e l’energia che l’avevano guidata in tutte le sue imprese, riducendo drasticamente la sua attività. Produce il suo ultimo spettacolo (So You Want To Be in Pictures?) nella sede di Stratford nell’East End di Londra nel 1973 e si congeda dal pubblico nel 1994 con la sua autobiografia Joan’s Book .

Bergman

Ingmar Bergman fece il suo apprendistato nelle filodrammatiche e ottenne un piccolo successo di scandalo mettendo in scena in un teatrino sperimentale La sonata dei fantasmi di Strindberg, testo al quale tornò più volte nel corso della sua carriera. All’inizio degli anni ’40 divenne aiuto regista stabile al Teatro Lirico di Stoccolma e nel 1943 firmò la sua prima regia professionale. L’anno dopo scrisse la sua prima sceneggiatura e nel 1945 diresse il suo primo film. Il cinema lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo, ma al teatro rimase sempre fedele, potendo alternare il lavoro per lo schermo a quello per la scena anche perché realizzò in patria quasi tutti i suoi film ed ebbe generalmente modo di valersi degli stessi attori che interpretavano i suoi spettacoli. La sua carriera di direttore di teatri iniziò in provincia: prima a Helsingborg, poi dal 1946 al 1950 a Göteborg dove allestì, fra l’altro un Caligola apprezzato per la sua insolita fisicità, infine dal l952 al 1958 a Malmö. Fu qui che si affermò definitivamente come regista strindberghiano, mettendo in scena Erik XIV, La sposa con la corona , Il sogno (altro testo al quale tornò spesso) e di nuovo La sonata dei fantasmi, ma affrontando anche altri autori a lui particolarmente cari, da Molière a Ibsen, e realizzando a grande spettacolo La vedova allegra . Nel 1963 gli fu affidata la direzione del Dramaten di Stoccolma, la più prestigiosa scena svedese, che riformò migliorando le paghe degli attori e introducendo il principio delle prove aperte. Vi rimase per tre anni con memorabili allestimenti di Hedda Gabler, Il gabbiano, Woyzeck e Chi ha paura di Virginia Woolf? , e vi sarebbe tornato, come regista ospite, negli anni Settanta per allestire soprattutto Strindberg: ancora Il sogno e La sonata dei fantasmi , nonché un adattamento di Verso Damasco, in edizioni portate con successo anche fuori dalla Svezia.

Nel 1976, accusato ingiustamente di evasione fiscale, scelse di emigrare e andò a lavorare al Rezidenztheater di Monaco dove ripropose alcuni dei suoi autori prediletti e nel 1981 presentò in una sola sera ben tre spettacoli: Casa di bambola, La signorina Giulia e le sue Scene da un matrimonio, nate negli anni Settanta come sceneggiato televisivo e poi filmate. Dopo nove anni di esilio, tornò al Dramaten nel 1985 e aggiunse all’elenco delle sue regie più importanti un discusso Amleto, un potente Re Lear, e alcuni testi contemporanei come Lungo viaggio verso la notte di O’Neill, Madame de Sade di Mishima, Iwona principessa di Borgogna di Gombrowicz e Il tempo e la stanza di B. Strauss. Gli autori che ricorrono più frequentemente nella sua teatrografia sono tuttavia Ibsen e Strindberg, non soltanto per ovvie affinità di scandinavo ma perché trovava nei loro drammi lo spazio per uno stile registico fondato sull’introspezione psicologica, e quindi sul lavoro di scavo richiesto agli attori. Nel corso della sua carriera, mise in scena quasi esclusivamente opere di alto livello drammaturgico che cercò di valorizzare e di rendere rilevanti per il pubblico del suo tempo mettendone in rilievo quelli che riteneva i significati di fondo anche attraverso interventi, spesso radicali, sui testi. Era il suo modo di essere fedele al dramma da allestire e obbediva a un rigore estetico al limite dell’ascetismo che lo portava a evitare sia l’effetto visivo fine a se stesso (anche se i suoi spettacoli offrirono spesso immagini di straordinaria efficacia) sia il trompe-l’oeil realistico. L’obiettivo era un teatro in grado di ristabilire quello stretto rapporto fra dramma, attori e spettatori che solo poteva a suo avviso restituire un senso a questa arte. Per il teatro scrisse anche alcuni copioni, fra i quali l’atto unico Pittura su legno (Tr&aulm;malning, 1954) che fu poi alla base di uno dei suoi film più famosi, Il settimo sigillo . Ma non solo per questo è lecito affermare che fra il suo teatro e il suo cinema non esisteva soluzione di continuità.

Jarman

Dopo aver cominciato a esporre appena tredicenne, Derek Jarman nel 1960 esordisce in teatro firmando le scene del Giulio Cesare di Shakespeare alla Canford School. Nel 1967 allestisce Il figliuol prodigo di Prokof’ev, che gli consente di partecipare alla V Biennale parigina dei giovani artisti; da allora lavora a produzioni internazionali con nomi come Nureyev, Gielgud e Bussotti (Jazz Calendar di R.R. Bennett, coreografia di F. Ashton, Covent Garden 1968; Don Giovanni di Mozart, regia di J. Gielguld, Coliseum 1968; Blim at school di P. Tegel, regia di N. Wright, Royal Court 1969), fino alle più recenti collaborazioni con I. Kellegren (Il segreto dell’universo di J. Gems, 1982), L. Blair (Aspettando Godot, Queen’s Theatre 1992) e Ken Russell (The Rake’s Progress di Stravinskij, Firenze, Maggio musicale 1982), con il quale collabora anche ad alcuni film ( I diavoli , 1970; Messia selvaggio , 1972). La mescolanza di stili ed epoche diverse nelle scenografie, la propensione al travestimento, l’insistenza sui costumi anche più frivoli diventano simbolici nelle produzioni che dirige lui stesso, confondendo la linea di demarcazione tra le vicende personali (l’omosessualità e la sieropositività) e la realtà urbana, e legittimando le interpretazioni a tinte forti di eventi e personaggi, nel cinema (Caravaggio, 1986) e in teatro (Les bonnes di Genet, Londra 1992).

Rouleau

Raymond Rouleau debutta in teatro a Bruxelles, ma si forma a Parigi sotto la guida di Jules Delacre, fondatore nel 1922 del Théâtre du Marais. Nel 1925 crea, assieme a Boris Balachov, il Groupe Libre, di cui assume la direzione dal 1926 al 1928. In questi anni con la sua compagnia mette in scena Rien qu’un homme di Max Deauville, con le scenografie di René Magritte. Dal momento che l’ambiente di Bruxelles si dimostra ostile alle sue sperimentazioni, R. decide di trasferirsi a Parigi, dove recita con Charles Dullin. Nel 1928 scrive una pièce, L’admirable visite , che firma con lo pseudonimo di Olaf Boot. Nel 1931 il suo spettacolo, Mal de jeunesse , ottiene un discreto successo. Si occupa di cinema, opera e televisione sia come attore sia come regista, ma è a teatro che raccoglie i maggiori successi: A porte chiuse di Sartre (1941); Un tram chiamato desiderio di T. Williams (1949); Cyrano di Rostand; Il crogiuolo di A. Miller (1954, con Y. Montand e S. Signoret); La gatta sul tetto che scotta di T. Williams (1956, con J. Moreau). Ha diretto due teatri parigini: il Théâtre de l’Oeuvre e il Théâtre Édouard VII.

Ruccello

Annibale Ruccello – forse il più significativo e certamente il più originale esponente della cosiddetta `nuova drammaturgia napoletana’ – cominciò con L’osteria del melograno, uno spettacolo basato sulle favole della tradizione campana. Ma, giusto in quanto drammaturgo, ebbe il raro pregio d’essere un uomo del suo tempo: e, cioè, volle costantemente, e strenuamente, coltivare la memoria delle proprie radici senza per questo rinunciare all’indagine – insieme accorata e lucidissima – sul presente. Tanto è vero che Le cinque rose di Jennifer, lo spettacolo che nel 1980 impose Ruccello all’interesse e alla stima del pubblico e della critica nazionali, sembrò un’autentica cartina di tornasole dei mutamenti sociali intervenuti a Napoli in quegli anni: sicché, non per pura coincidenza l’autore decise di offrirne, dopo il terremoto, un nuovo allestimento, cambiando i costumi e la colonna sonora. In breve, Jennifer, il travestito protagonista di quell’atto unico, si faceva simbolo di una scrittura drammaturgica che assumeva Napoli in quanto `corpo storico’, visto e sentito (anche nel senso di partito ) nel suo divenire e trasformarsi senza alcuna preclusione ideologica e, ciò che più conta, senza timore di `sporcarsi’ con le sue contraddizioni. E insomma, Le cinque rose di Jennifer fu la prima ed eclatante prova di una scrittura che `non parlava’ di Napoli, ma, puramente e semplicemente, era Napoli.

D’altronde, non era una coincidenza nemmeno il fatto che Ruccello, e sempre ai fini descritti, assumesse di frequente, nei suoi lavori, la struttura narrativa del `giallo’ e le atmosfere e i toni del `noir’: avvenne anche in Notturno di donna con ospiti e, soprattutto, in Week-end , storia della zitella Ida che non si sapeva se fosse appena una povera donna ubriacata dalla solitudine o una `riedizione’ della Cianciulli. E questo sino alla definitiva consacrazione di R. con il premio Idi assegnato nell’85 a Ferdinando: uno straordinario mélange di ricalchi coltissimi, e insieme ironici, ancora dalla `lingua’ della tradizione campana e dal romanzo storico alla De Roberto fino a Genet e passando, naturalmente, per l’adoratissimo e mai dimenticato Marcel Proust. Ma, per concludere, torna alla mente soprattutto l’ultimo e lancinante `messaggio’ di Annibale, il monologo Anna Cappelli che Benedetta Buccellato portò in scena al Teatro Nuovo di Napoli nel maggio del 1987, otto mesi dopo la tragica e prematura morte dell’autore. Siamo di fronte all’ennesimo `spaccato’ di una condizione esistenziale `perduta’. E anche nell’atto unico in questione, però, rifulge la capacità rara della scrittura di Ruccello: giusto quella di spiazzare il contesto dato attraverso una fitta serie di elementi formali da vero e proprio thrilling. Chi potrà mai dire, al riguardo, se realmente Anna Cappelli ha ucciso l’amante che voleva lasciarla e ne ha fatto a pezzi e mangiato a poco a poco il cadavere? È certo soltanto che lei, alla fine, si darà fuoco insieme con tutta la casa. E forse quell’atroce delitto (un sogno, un incubo?) traduce unicamente gl’iperbolici soprassalti della coscienza dinanzi al crudele stillicidio dei giorni.

Ricci

Marginalmente interessato ad alcuni aspetti del teatro, nel 1959 Mario Ricci si trasferisce a Parigi, dove come corniciaio lavora nell’atelier di Rona Weingarten e dove frequenta gli artisti della rive gauche. Nel 1961 è a Stoccolma, a lavorare al Marionetteatern di Michael Meschke. È di ritorno a Roma nel 1962 e, agli inizi del 1963, allestisce in casa del critico d’arte Nello Ponente il suo primo spettacolo: Movimento numero uno per marionetta sola . Seguono altri spettacoli di marionette e oggetti che Ricci rappresenta in case private o gallerie d’arte. È il 1964 quando trasforma un’ex stalla in un piccolo teatro: Orsoline 15 (medesimo nome avrà il gruppo di sperimentazione contemporaneamente fondato). La ricerca teatrale, fortemente influenzata dall’arte visiva, comincia attraverso la sperimentazione di materiali d’animazione: la scenografia non è più involucro dell’azione, ma viene integrata nell’episodio scenico. Atteggiamento che lo pone perfettamente in linea con i precetti del Bauhaus e del Gruppo ’63, ai quali egli appunto si riferisce. L’evoluzione del percorso artistico-creativo di R. è contrassegnata dall’introduzione del binomio gioco-rito, che porta con sé la rivalutazione del discorso poetico: nascono spettacoli come I viaggi di Gulliver (1966), Edgar Allan Poe (1967), James Joyce (1968), Re Lear (1970), Moby Dick (1971), Il lungo viaggio di Ulisse (1972), Amleto Majakovskij (1977). In seguito la sperimentazione si arricchisce di un nuovo elemento, la parola, alla cui introduzione è naturale conseguenza l’apparizione dell’attore sulla scena, parificato a tutti gli altri materiali scenici e drammaturgici. Questa via è l’unico itinerario possibile all’autore verso il recupero del mito, componente fondamentale del teatro di R., ravvisabile anche dagli stessi titoli degli allestimenti: Aiace per Sofocle (1978), Elettra (1980), Iperione a Diotima (1981), Pentesilea (1983). Nel 1989 conclude un ciclo di lavori con Cinque serate futuriste e Serate col teatro di boulevard. Nel 1991 è in scena con Il teatro a Roma dal Settecento al Belli.

Langhoff

Figlio di rifugiati tedeschi in Svizzera, Matthias Langhoff rientra in Germania nel dopoguerra, quando il padre è nominato direttore del Deutsches Theater di Berlino Est. Inizia la sua attività come assistente al Berliner Ensemble con Hanns Eisler, collaboratore di Brecht, e qui conosce Manfred Karge, con il quale stabilirà un lungo sodalizio artistico. Tra il 1962 e il 1969 Langhoff e Karge allestiscono tra l’altro Das kleine Mahagonny di Brecht e Sette contro Tebe di Eschilo. Nel 1969 Langhoff lascia il Berliner per la Volksbühne di Berlino Est, dove mette in scena lavori di Ostrovskij (La foresta, 1969 e Zurigo 1976), Shakespeare, Schiller, Ibsen, Goethe e Müller. Dopo aver lavorato ad Amburgo, Ginevra e Rotterdam, nel 1980 (per cinque anni) è regista allo Schauspielhaus di Bochum, dove dirige Caro Georg di T. Brasch, Il giardino dei ciliegi di Cechov e testi di Heiner Müller.

Sul finire degli anni ’80, torna in Svizzera: dal 1989 al 1991, dirige il Théâtre Vidy, centro drammatico nazionale di Losanna, dove firma regia e scenografia di Macbeth (1990, portato anche al Théâtre National de Chaillot) e di La duchessa d’Amalfi di Webster. Premiato e applaudito da pubblico e critica, Langhoff è una delle figure più significative del panorama registico europeo. Particolarmente attento a un teatro che, pur partendo da solide strutture classiche, sappia mettere in discussione le tradizionali convenzioni teatrali, lo stile di Langhoff si segnala per l’estrema concretezza registica, per una visione globale che sviluppa la narrazione non solo attraverso l’abituale strumento della parola, ma anche su idee scenografiche originali, nelle quali si articolano suoni e e immagini. Condirettore del Berliner Ensemble, incarico che ricopre per due anni (1993-95), L. lavora frequentemente in Francia: al festival d’Avignone, dove è presente con Riccardo III di Shakespeare (1995), alla Comédie-Française ( Danza di morte di Strindberg nel 1996), al Théâtre National de Bretagne di Rennes, di cui è consulente artistico dal 1996. Accostatosi alla tragedia greca, L. affronta Le baccanti di Euripide a Epidauro (1998) e conclude una trilogia classica, iniziatasi con Filottete di H. Müller (1994), proseguita con L’île du Salut (tratto da Nella colonia penale di Kafka, 1996), con Donne di Troia (Femmes de Troie), da Euripide, al Teatro di Rennes (1998).

Pavolini

Figlio del filologo Paolo Emilio Pavolini, Corrado Pavolini fondò nel 1919 con Primo Conti la rivista d’avanguardia “Il Centone” e nel 1922 “Lo Spettatore”. Dal 1925 al 1932 fu redattore de “Il Tevere”, diretto da Telesio Interlandi. Ha svolto un’intensa attività di regista radiofonico e teatrale all’Accademia d’arte drammatica di Firenze, di sceneggiatore cinematografico, oltre che di critico drammatico su “L’Italia letteraria” e su “Epoca”. A fianco di R. Simoni ha lavorato come regista, curando poi la messinscena di numerosi spettacoli per le compagnie di primo piano, fra cui quella di L. Adani, M. Benassi, E. Zareschi. Fra gli spettacoli da lui diretti, rilevanti sono L’annuncio a Maria di Claudel nel 1950 con la compagnia Torrieri-Carraro e Delitto all’isola delle capre di U. Betti recitato dalla compagnia Zareschi-Randone. Tra le sue opere si ricordano La croce del sud (1927, in collaborazione con Interlandi), La donna del poeta (1936), Il deserto tentato ( 1937), La figlia del diavolo (atto unico, 1954), Ciro (in collaborazione con Stefano Landi). Nel 1952-53 ha curato per l’editore Casini un ampio repertorio di testi scenici, Tutto il teatro di tutti i tempi. Con la sua traduzione è arrivata in Italia, nel 1950, l’opera teatrale di André Gide.

Martone

Giovanissimo Mario Martone allestisce il suo primo lavoro, Faust , nel 1976 e, due anni dopo fonda il gruppo Falso Movimento (con Tomas Arana, Angelo Curti, Lino Fiorito, Licia Maglietta, Pasquale Mari, Daghi Rondanini e Andrea Renzi). Lavorano in sala come lo Spazio Libero di Napoli, il Teatro Studio di Caserta o in gallerie d’arte, la Lucio Amelio e Studio Morra a Napoli. Gli spettacoli d’esordio del gruppo dopo che M. aveva già messo in scena Avventure al di là di Thule sono L’incrinatura e Musica da camera : installazioni, studi d’ambiente dove la figura dell’attore vive come pura presenza umana senza servirsi del supporto della recitazione. La direzione è quella della ricerca di un nuovo alfabeto teatrale; lo spazio, la luce, le diaproiezioni e il suono sono utilizzati come linguaggio specifico della partitura, non un corpo a latere della drammaturgia, ma la sua scrittura scenica. Nel 1982 con Tango glaciale il gruppo si imporrà all’attenzione del pubblico e della critica. Lo spettacolo chiude un ciclo (iniziato con Dallas 1983, Rosso Texaco e Controllo totale ) il cui punto di riferimento era lo scenario metropolitano, i deliri e i comportamenti dell’individuo urbanizzato. Tango glaciale diviene il manifesto di quell’area della sperimentazione teatrale definita `nuova spettacolarità’, un sondare le possibilità dell’immaginario scenico contaminato dalla comunicazione elettronica, dove il gesto, la musica e le immagini riprodotte dal video costituiscono un’unica macchina della visione. È il linguaggio dei media che si affaccia nel teatro, non in termini di citazione ma di analisi dei meccanismi stessi della comunicazione, un’analisi di quel vuoto che i mezzi di comunicazione hanno creato nella società con il loro fagocitante potere.

Con Otello (1982) si assiste a una successiva maturazione del gruppo, spostando il proprio interesse verso la narrazione. Nasce così un nuovo rapporto con il teatro e la sua storia, dove i corpi degli attori e le storie dei personaggi si contrappongono ai fantasmi della scena tecnologica. Dopo Il desiderio preso per la coda (1985) da Picasso, Coltelli nel cuore (1985) da Brecht e Ritorno ad Alphaville (1986) da Godard, dall’incontro con Antonio Neiwiller e Toni Servillo nasce una nuova formazione nel 1986: Teatri Uniti, nella volontà di creare un insieme di persone che non fosse soltanto una compagnia di teatro, ma un insieme vivo capace di inventare da sé il modo di produrre un’opera. Tra le regie di M. con Teatri Uniti ci sono Filottete di Sofocle (1987), Rasoi di Enzo Moscato (1991) e quel Riccardo II di Shakespeare (1993), ormai definitivamente rivolto a una impostazione dello spettacolo ricontestualizzata nell’emisfero della prosa. M. riprende in video parte delle sue realizzazioni teatrali, e nel 1984 sperimenta il 16mm con il cortometraggio Nella città barocca , dedicato al Seicento napoletano. Ma è con Morte di un matematico napoletano (1992), suo primo film, a rivelarlo regista cinematografico di raffinato spessore formale, non ripetuto nelle prove che seguiranno, L’amore molesto (1985) e Teatro di guerra (1998), troppo impegnate queste a prestare il fianco alla retorica dell’immagine.

Nunn

Trevor Nunn completa gli studi al Downing College di Cambridge e nel 1962 vince una borsa di studio per ricoprire il ruolo di regista residente presso il Belgrade Theatre a Coventry. Qui le sue produzioni includono Il cerchio di gesso del Caucaso, Peer Gynt e una versione musical de Il giro del mondo in ottanta giorni . Nel 1964 entra a far parte della Royal Shakespeare Company (Rsc), all’interno della quale fa una carriera brillante diventando subito l’anno successivo regista associato e già nel 1968 direttore artistico. Nel 1982 dà il via alle produzioni shakespeariane presso la nuova sede della Rsc, il Barbican Theatre. Prima di lasciare il posto alla Rsc nel 1986, assiste all’apertura dello spazio da lui concepito, il Swan Theatre a Stratford Upon Avon e dirige una delle sue prime produzioni, The Fair Maid of the West. Tra le numerose regie comprensive di quasi tutti i testi shakespeariani, si ricordano quelle per i musical di Andrew Lloyd Webber (Cats , Aspects of Love, Sunset Boulevard). Alla fine del ’97 ha preso il posto di Richard Eyre, assumendo il ruolo di direttore artistico presso il Royal National Theatre di Londra, occupandosi della regia di Mutabilitie , il lavoro più recente dell’irlandese Frank McGuiness.

Sciaccaluga

Dalla stagione 1975-76 Marco Sciaccaluga è regista stabile al Teatro di Genova, per il quale ha realizzato fra gli altri: Equus di P. Shaffer, Il complice di Dürrenmatt, Le intellettuali di Molière, E lei per conquistar si sottomette di O. Goldsmith, I due gemelli rivali di G. Farquhar, La brocca rotta di Kleist, Il padre di Strindberg, Rosmersholm di Ibsen, L’onesto Jago di C. Augias, Suzanna Andler di M. Duras, il dittico goldoniano La putta onorata e La buona moglie , L’egoista di Bertolazzi, Inverni di C. Repetti (da S. D’Arzo), Arden di Feversham di anonimo elisabettiano, I fisici di Dürrenmatt, Re Cervo di C. Gozzi, Roberto Zucco di Koltès, La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht. Recita in Amleto di Shakespeare e in Io di Labiche, diretti da Benno Besson (stagioni 1994-95 e 1995-96) e ne La dodicesima notte di Shakespeare, diretto da Franco Branciaroli. Ha diretto, sempre per lo Stabile di Genova, Lapin Lapin di C. Serreau (1994-95) e Ivanov di Cechov (1995-96). Dirige e recita Un mese in campagna di Turgenev (1996-97). Ha diretto due spettacoli per il Teatro Stabile di Trieste e numerose produzioni per compagnie private (G. Mauri, C. Giuffrè, G. Bosetti, A. Tieri, M. Bellei). Nella stagione 1990-91 ha diretto al Teatro nazionale di Rotterdam Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Nell’ultima stagione ha firmato la regia di Rumori fuori scena di M. Frayn, il fortunato spettacolo con Zuzzurro e Gaspare.

Cappuccio

Fautore della rinascita drammaturgica dei dialetti regionali, i dialetti di grande carica espressiva ed emozionale. Ritenendo la lingua italiana desintonizzata rispetto alle finalità sceniche del teatro, Ruggero Cappuccio nella sua scrittura rivaluta l’immediatezza delle lingue storiche, il gioco linguistico puramente sonoro tutto versato sul piano dell’emozione, prima ancora che su quello della comprensione. Fondatore nel 1988 del Teatro Segreto, un organismo in cui attori, musicisti e scenografi collaborano al lavoro dell’autore-regista, in una sintesi interattiva per la realizzazione di progetti teatrali autonomi. Laureatosi in lettere con una tesi su Edmund Kean, l’artista napoletano ha vinto nel 1993 il premio Idi selezione autori nuovi, con Delirio marginale. Messa in scena con la regia dell’autore, l’opera viene presentata in prima nazionale al Teatro Argot di Roma, segnando la prima tappa del suo crescente successo. Nello stesso anno l’Istituto del dramma italiano gli assegna la Medaglia d’oro per Delirio marginale. Ma le porte della notorietà si aprono nel 1994 quando Ruggero Cappuccio, con Shakespeare Re di Napoli (autore e regista), presentato al festival di Santarcangelo, vince il premio Fondi e il Biglietto d’oro Agis. Lo spettacolo – settanta minuti di irreale bisticcio tra Zoroastro e Desiderio, due comici vaganti perdutisi di vista e poi ritrovati durante la festa del carnevale – si conclude in un delirio mortale (tema tanto caro al Bardo). Una sorta di giallo letterario risolto nella nuova drammaturgia che, attraverso il napoletano seicentesco, rievoca i centocinquantaquattro sonetti che Shakespeare, in occasione della sua venuta a Napoli, aveva dedicato al giovane attore Desiderio: una scrittura scenica basata principalmente sulla musicalità della lingua. Nel 1996 Ruggero Cappuccio scrive e mette in scena Nel Tempo di un Tango , seguito da una scrittura scenica intorno al Re Lear di Shakespeare presentata in uno spettacolo-evento diretto dallo stesso regista, da Alfonso Santagata e Leo de Berardinis. Nel 1996 la grazia della miscellanea linguistica (francese, spagnolo, arabo e greco) confluita nella ricerca fonica dell’autore napoletano trova la sua massima espressione in Desideri mortali , un oratorio profano ispirato al mondo poetico di Tomasi di Lampedusa. In questo spettacolo di struggente bellezza l’impasto linguistico, con la sua forte carica di vita e di morte, pare uscito dal mare, luogo e metafora di spazi mentali infiniti nel cui orizzonte immaginario e ingannevole il protagonista, imbastendo un gioco di identificazioni e confronti con i personaggi chiave della sua vita e quelli della sua opera letteraria, ricerca la propria identità. La messinscena rappresenta un momento essenziale del lavoro di gruppo di attori, musicisti, costumisti e progettisti-luce che C. svolge da oltre dieci anni attraverso la sua compagnia. Nel 1998 Luca Ronconi lo chiama al Teatro stabile di Roma per la riscrittura e la direzione del Tieste di Seneca e Le Bacchidi di Plauto. Il suo ultimo spettacolo, Il sorriso di San Giovanni , ha inaugurato Orestiadi , il festival di Gibellina (1998).

Mattolini

Dopo un apprendistato nei gruppi teatrali di base di Firenze (1969-74), un periodo da organizzatore culturale nell’Arci (1972-77) e il lavoro nella Coop. cinematografica Lunga gittata (1977-79), nel 1980 Marco Mattolini debutta nella regia teatrale con la prima riduzione de Il bacio della donna ragno di Manuel Puig. Nella stagione 1981-82 mette in scena due spettacoli con Mario Scaccia protagonista: Nerone di Terron e La scuola delle mogli di Molière; e assume la direzione artistica del Teatro delle Muse di Roma. Nel 1982-83 assieme a Hugo Pratt e Alberto Ongaro riduce per il teatro e cura la regia di Corto Maltese con Athina Cenci e Alessandro Benvenuti con i quali allestisce anche nella stagione estiva il musical di Chiti e Benvenuti Marta e il Cireneo . Il 1984 è l’anno del debutto cinematografico con Il mistero del Morca . Successivamente progetta e conduce alcune manifestazioni-spettacolo e nel 1986 allestisce un inedito di Fassbinder, Come gocce su pietre roventi e un inedito di Vinaver Nina è un’altra cosa . Un altro testo inedito, Mistero del mazzo di rose di Puig, In assenza del signor Goethe di Hacks e Faust ’67 di Landolfi sono del 1987. Seguono Hurlyburly di David Rabe (1989); Dossier Trovatore di E. Vaime e S. Marchini (1990); Una giornata dalla mamma di C. De Turkheim e B. Gaccio, Ti ricordi il teatro di A. Stanisci e Lorenzo (1991); Ragazze , tratto da American Psyco , tratte dal romanzo di Brett-Ellis, Sunshine di W. Mastrosimone, Gli alibi del cuore di F. Maraschi e Il fu Mattia Pascal di Kezich da Pirandello (1992); Una notte incantata d’estate da Shakespeare, La donna gigante , Firenze per non dimenticare Firenze e Le amiche del diavolo (1993); Mugugni (Kvetch) di Berkoff (1994); 2005, ultimo atto di G. Imparato, Uno, nessuno e centomila di Manfridi da Pirandello, La Traviata di Lisbona di T. Mcnally e La strana coppia di Simon (1995); Due di noi di M. Frayn, Il Magnifico e il Barbiere di M. Messeri (1996); Letto a tre piazze – di R. Clark e S. Bobrick e Via dei Serpenti di P. Misiti (1997). Come autore e conduttore per la televisione ha realizzato film, sit-com, talk show.

Servillo

Fondatore nel 1977 del Teatro Studio di Caserta con cui ha diretto e interpretato Propaganda (1979), Norma (1982), Guernica (1985), Billy il bugiardo (1989). Nel 1986 Toni Servillo ha iniziato a collaborare con il gruppo Falso Movimento interpretando Ritorno di Mario Martone e mettendo in scena E… su testi di Eduardo De Filippo. Nel 1987 è stato tra i fondatori dei Teatri Uniti, continuando da attore e regista il lavoro sul tessuto poetico della lingua teatrale napoletana attraverso spettacoli quali Partitura (1988) di Enzo Moscato, Ha da passa’ a nuttata (1989), dall’opera di Eduardo De Filippo, Rasoi (1991) di Ezio Moscato, Zingari (1993) di Raffaele Viviani, di cui ha anche curato la regia, sapiente architettura teatrale e poetica.

Affrontando successivamente il testo di Molière nel 1995 ha messo in scena Il misantropo con intelligenza e particolare inventiva. In questo spettacolo Servillo compariva anche in veste di protagonista, un Alceste che prende le distanze dal teatro museificato fuggendo dal `carcere della rappresentazione’, verso la felice imprevedibilità del mondo. Nel 1997 al teatro Sao Joao di Oporto presenta Da Pirandello a Eduardo versione portoghese de L’uomo dal fiore in bocca (nel quale si allontana dalla dittatura psicologica del testo restituendo, contro gli schemi tradizionali, un’ottica surreale e visionaria) presentata insieme a Sik-Sik , l’artefice magico di Eduardo De Filippo. È stato inoltre protagonista in Eliogabalo (1991) diretto da Memé Perlini, nell’opera di Franco Battiato Il cavaliere dell’intelletto (1994) e, con Mariangela Melato, in Tango Barbaro (1995) diretto da Elio De Capitani. Artista versatile e aperto a nuove esperienze, Servillo si è cimentato con successo nel cinema diretto da Mario Martone in Morte di un matematico napoletano (1992), in La salita, episodio de I vesuviani (1997) e in Teatro di guerra (1998). Nel 1998-99 è impegnato nella regia di Le false confidenze di Marivaux.