Duse

Figlia d’arte, in palcoscenico fin dalla più tenera età nella compagnia di guitti cui si erano associati i genitori, Eleonora Duse tardò a rivelare le eccezionali doti interpretative che le avrebbero fruttato l’appellativo di ‘divina’ per antonomasia. Quindicenne Giulietta shakespeariana a Verona nei giorni in cui moriva la madre, fu scritturata l’anno dopo da L. Pezzana che, di fronte alla sua personcina minuta e agli acerbi mezzi espressivi, le consigliò addirittura di abbandonare ‘l’arte’. Non ebbe miglior fortuna con la Dondini-Drago, ma qualche tempo dopo attrasse la curiosità di G. Emanuel, che la volle al Teatro dei Fiorentini di Napoli accanto a G. Pezzana. Fu delicata Desdemona e tenera Ofelia, ma conseguì il primo successo nella drammatica personificazione di Teresa Raquin di Zola. Rotto il rapporto sentimentale con il giornalista M. Cafiero, si trasferì a Torino, dove le scarse accoglienze di pubblico la indussero a meditare il ritiro dalle scene. Avendo avuto occasione di apprezzare l’eccezionale bravura di S. Bernhardt, decise di sfidarla nella Principessa di Bagdad di Dumas figlio, vincendo la prova temeraria.

Nel 1881 sposò l’attore Tebaldo Marchetti (in arte Checchi), da cui ebbe la figlia Enrichetta. Ma quattro anni dopo, durante una tournée sudamericana, confessò al marito, rimasto da allora in Argentina, il suo amore per il compagno d’arte Flavio Andò, con il quale nel 1887 costituì la Compagnia della città di Roma. Al successo artistico non corrispose quello di coppia e l’inquieta, tormentata, vibratile attrice tentò di placare la tensione attraverso ambiziose letture, l’apprendimento delle lingue straniere, lo studio approfondito di classici e moderni suggeritogli dal poeta e commediografo Arrigo Boito. Ma ‘l’anno di sogno’ fu compromesso dalle sempre più frequenti tournée estere, mentre un profondo mutamento avveniva nel suo animo e nei suoi programmi di lavoro, inducendola a rinnegare il precedente repertorio (Dumas, Sardou, Giacosa) e a rompere sia con il postromanticismo sia con il verismo, per accostarsi al teatro di poesia. La spinta decisiva venne dall’incontro con D’Annunzio, dal suo impegno di scrivere per il teatro, dalla trionfale accoglienza parigina al Sogno di un mattino di primavera . Tra una leggendaria Signora dalle camelie e un’osannata Adriana Lecouvreur, impose La Gioconda, La gloria , La città morta . Ma la parentesi artistica e umana con l’Imaginifico praticamente s’infranse allorché, avendo ella cercato di protrarre l’esordio di La figlia di Iorio (1904), si vide sostituita da E. Gramatica. Da allora si dedicò soprattutto a Ibsen e a un frenetico vagabondaggio per tutta Europa, finché nel 1909, dopo una Locandiera a Vienna, annunciò il ritiro dalle scene. Per una dozzina d’anni (con l’eccezione del film Cenere dal romanzo della Deledda), si ritirò nell’eremo di Asolo, risospinta in palcoscenico soltanto dalle sopravvenute difficoltà finanziarie. Ripropose Ibsen, D’Annunzio, Praga; fu a Londra, Vienna e negli Usa, dove lo spropositato carico di fatiche le fu fatale.

tragedia

Nel 1911 l’esercito italiano organizza la sua prima spedizione aerobellica contro l’esercito turco sul fronte libico: l’evento fu a lungo preparato e lungamente commentato sui giornali dell’epoca. Nello stesso anno Ettore Petrolini debuttò con la celebre parodia dell’Amleto scritta in coppia con il poeta Libero Bovio, rischiando l’arresto con l’accusa di vilipendio alle patrie lettere (l’Amleto originale era stato attribuito dai gendarmi presenti in sala a Vittorio Alfieri). In questa singolare ma non casuale coincidenza si condensa il rapporto del secolo Ventesimo con la tragedia teatrale. Tutto il Novecento è segnato da una relazione che si potrebbe definire ‘industriale’ con la morte e con la tragedia: la crudezza dei conflitti bellici internazionali (che hanno appunto il loro prologo con la guerra italo-turca), il regime fascista, nazista e stalinista, le guerre coloniali e, infine, il diffondersi, sul finire del secolo, del cosiddetto principio della ‘pulizia etnica’ hanno imposto al mondo occidentale un radicale ripensamento del valore di ciò che era considerato `tragico’ nella tradizione culturale e teatrale dalle epoche greca e romana fino a tutto il secolo Diciannovesimo.

In buona sostanza si può riassumere il senso tragico tradizionale nella contrapposizione fra un individuo e un’entità sociale, divina o spirituale collettiva. Da Eschilo a Shakespeare a Manzoni la tragedia assume stilisticamente i connotati di questo conflitto in cui, almeno da un lato, l’elemento individuale è assolutamente indispensabile. La storia sociale del Novecento consta sostanzialmente nell’impossibilità di questo conflitto: il ruolo dell’individuo, le specificità che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile sono negati dalla riproducibilità industriale della morte di fronte alla quale non si è esseri individuali ma numeri di una massa più o meno indistinta. La coscienza o la percezione di questa mutata realtà è ciò che caratterizza e segna profondamente la sopravvivenza del senso tragico, a teatro, nel Novecento. Essa, infatti, avviene soprattutto attraverso la rielaborazione di tragedie classiche: vuoi sotto forma parodistica vuoi sotto forma di riscrittura tout-court.

Il caso del processo intentato da Gabriele D’Annunzio contro Eduardo Scarpetta, autore di una parodia della Figlia di Iorio, rappresenta il primo sintomo di una situazione nuova e inedita sulla quale si apre il Novecento. L’ Amleto di Petrolini-Bovio è invece il segno dell’avvenuto cambiamento e l’esempio più significativo di tutto quanto accadde dopo. Petrolini, irridendo le `disgrazie’ del principe danese, irride tanto la pochezza del dubbio di un uomo di fronte ai tormenti di una società intera, quanto l’abitudine del teatro tradizionale di rappresentare Amleto come l’eroe irraggiungibile di un conflitto immenso. Mentre nella realtà Amleto veniva percepito dal pubblico come un ometto turbato da un dubbio da due soldi: com’è possibile rovinarsi la vita chiedendosi se è lecito uccidere un patrigno se con una bomba aerea o un cannone ben puntato si può eliminare un’intera comunità di patrigni? La parodia shakespeariana di Petrolini va nel solco, assai fecondo del Novecento, aperto da Ubu re di Jarry e perseguito poi da Ionesco nel suo Macbeth e portato alle estreme conseguenze da Beckett con Catastrofe, la più alta tragedia autenticamente novecentesca e, contemporaneamente, la più terribile parodia della tragedia classica.

L’altro fenomeno, quello delle riscritture dei classici, si offre come maggiormente interlocutorio nei confronti della tradizione: da Anouilh a Testori, molti autori teatrali del Novecento si sono interrogati sulla possibilità di dare nuove vitalità e attualità al conflitto individuo/entità superiore. Ma, in ogni caso, si tratta di domande e risposte sommamente (quando non esclusivamente) legate alla contemporaneità che le produsse. Analogo rilievo andrebbe fatto a quanti tentarono di riprodurre senza particolari aggiornamenti i meccanismi della tragedia classica (T.S. Eliot); o, ancora, a quanti pensarono di contestualizzare all’interno delle vicende della seconda guerra mondiale il tradizionale conflitto (Sartre o Fabbri). Solo a Samuel Beckett può essere attribuito il merito di aver tentato un superamento consapevole della classicità mediante l’invenzione del `tragicomico’, ossia di un effetto contrastante, tragico e comico allo stesso tempo, prodotto dalla rappresentazione di tragedie individuali comicamente piccole (`relative’) se riferite alla complessità del mondo.