Fabrizi

Rielaborando attraverso le sue straordinarie doti di caratterista comico i modi popolari di una Roma tanto cinica quanto bonaria, Aldo Fabrizi debuttò nel 1931 al cinema Corso di Roma interpretando due caricature di sua composizione: Bruneri o Cannella? e Nel duemila. Affinò quindi le sue innate doti d’improvvisatore traendo spunto dalla conversazione col pubblico per dar vita a numerosi monologhi sull’attualità, e giunse al successo rappresentando nel teatro di rivista le sue più celebri macchiette, dal vetturino al pugile, dal postino al tranviere. Proprio a quest’ultimo personaggio – oltre che alla sua indisponente schiettezza – Aldo Fabrizi dovette il suo primo ancorché tardivo successo cinematografico in Avanti c’è posto! (1942), in cui l’ormai provato talento comico mostrava già i segni dell’inevitabile drammaticità che generalmente gli compete. Le avvisaglie di una nuova poetica cinematografica erano già avvertibili in questo film, cui succedette nel 1945, con Roma città aperta di Rossellini, la piena affermazione sia della tematica neorealista sia della statura attorale di Aldo Fabrizi, nella parte del prete partigiano don Morosini, al fianco di Anna Magnani. Durante le lunghe pause di lavorazione del film F., a ulteriore riprova della sua impellente passione creativa, interpretò al Salone Margherita e al Quirino una serie di commedie di ambiente romano originate dall’osservazione della povera e agitata cronaca di quel periodo: Buon Natale! , Salvo complicazioni, Poveri noi! e Tordinona lo videro nuovamente nelle vesti di autore, affiancato in un secondo tempo da M. Mattoli e M. Marchesi nella stesura delle successive Volemose bene e Come si dice in inglese. Al termine di queste rappresentazioni riprendeva però il via, a discapito del teatro e dopo il successo nel capolavoro di Rossellini, la sua carriera sul grande schermo, da cui trasse continui riconoscimenti da parte del pubblico italiano e internazionale (come nel caso della trilogia della famiglia Passaguai, di cui fu anche regista tra il 1951 e il ’52) e alterne soddisfazioni artistiche: dal bellissimo Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli al serrato susseguirsi di produzioni commerciali con Tino Scotti, Totò e Peppino De Filippo. Solo nel 1963 tornò al teatro, ma per interpretare il suo ruolo più amato, il boia Mastro Titta nella commedia musicale Rugantino di Garinei e Giovannini. Soggettista, sceneggiatore, produttore e regista oltre che attore e comico in tutti i ruoli e le accezioni che il termine comporta, Aldo Fabrizi fu conscio della propria grandezza tanto da saper elevare i toni più grevi di una Roma plebea all’altissimo livello della sua arte.

Libertini

A Sesto Fiorentino, con la compagnia de I Piccoli Principi Alessandro Libertini ha creato nell’ambito del teatro-ragazzi un originale percorso, grazie a un indubbio fascino personale, tra arte figurativa, teatro di animazione e performance di intelligente e forte suggestione. Presentati ad alcuni tra i festival italiani più importanti, non solo di teatro-ragazzi e di figura, i suoi spettacoli noti sono Così mi piace , del 1984, rilettura in chiave narcisistica della commedia shakespeariana, che poi infatti l’anno seguente sfocia in Narciso amore mio ; del 1994 è invece il più recente A partire da Miles.

Strindberg

Figlio di Carl Oskar, che lavorava nelle spedizioni marittime, e di Ulrika Eleonora Nozling, figlia di un sarto ed ex donna di servizio. Degli anni che vanno dal 1849 al 1867, un ampio resoconto si trova in Il figlio di una serva (1886). Nel 1867 August Strindberg prende la maturità. Tra il 1868 e il 1872 decide di scrivere per il teatro. Nascono così i primi lavori: Ermione, A Roma, Il libero pensatore, Il bandito. Nell’estate del 1872 si cimenta col dramma storico e libertario: Maestro Olof . Nel 1875 incontra Madame la Baronne de W., ovvero Siri von Essen, moglie separata del barone Gustaf Wrangler; se ne innamora immediatamente e l’anno successivo la sposa.

Il 9 giugno del 1881 va finalmente in scena al Nya Teater la prima versione di Maestro Olof , che riscuote un vero e proprio successo. Nel novembre 1882 viene rappresentata La moglie di Bengt . Nel 1887 nascono i primi contrasti con la moglie; si fa strada la gelosia e l’odio tra i sessi. Scrive ancora racconti ( Vivisezione ), un romanzo ( Gente di Hemsö , 1888) e i suoi primi capolavori teatrali: Il padre (1887), La signorina Julie (1888), I creditori (1889), Paria (1889) e La più forte (1889). Nel 1893, dopo un veglione, per la strada una ragazza austriaca gli dà un bacio: si tratta di Frida Uhl, ventunenne. Si sono conosciuti in gennaio, a maggio si sposano. Continua la fortuna per l’autore di teatro: da Parigi arriva il successo della Signorina Julie , testo che viene messo in scena al Théâtre Libre; Autodifesa di un folle viene tradotto in tedesco; a dicembre va in scena a Parigi Il padre.

Nel 1896 inizia il Diario occulto . In questo periodo S. attraversa una crisi mistica e medita di rifugiarsi presso i benedettini di Solesmes. Legge la Divina Commedia e il Faust . Il viaggio di Dante gli ispira un nuovo testo drammatico, Verso Damasco, il prototipo di quel ‘dramma a tappe’ che egli riproporrà successivamente e che ispirerà la grande drammaturgia espressionista. Nel frattempo perfeziona anche il dramma onirico, iniziato con L’avvento (1898), e che raggiungerà il momento più maturo con Rappresentazione di un sogno (1900). Nel 1899 compie cinquant’anni, scrive la commedia C’è delitto e delitto e tre drammi storici, fra cui Gustavo Vasa .

Si arriva così al 1900. Strindberg lavora spasmodicamente per il teatro, scrive Pasqua e La danza della morte . In autunno fa la conoscenza della terza donna della sua vita: Harriet Bosse, ventiduenne, attrice, meravigliosa protagonista di Dama in Verso Damasco. Strindberg se ne innamora e dedica a lei la parte di Eleonora in Pasqua e quella di Svanevit nella commedia fiabesca omonima. La sposa il 6 maggio 1901, e ne avrà una figlia. Nel 1906, per la prima volta, va in scena a Stoccolma La signorina Julie, con grandissimo successo. Intanto continua a lavorare per l’Intima Teater, un locale di centosessanta posti inaugurato il 26 novembre 1907, insieme all’attore-regista August Falck. Scrive: Aria di tempesta , Il luogo dell’incendio , La sonata dei fantasmi, Il pellicano, Il guanto nero. Il modello del `Teatro intimo’ è quello del Kammerspielhaus di Max Reinhardt; qui Strindberg potrà fare ancora certi suoi esperimenti con un tipo di drammaturgia essenziale, carica di motivi simbolici, ricca di visioni parossistiche e di stati di allucinazione.

Nel 1909 scrive il suo testamento spirituale, La strada maestra . L’apparizione di Strindberg nella drammaturgia europea, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, avviene in un momento in cui si sente l’urgenza di grandi cambiamenti, che coinvolgevano soprattutto la forma e il linguaggio, oltre che i generi. Occorreva creare delle mitologie moderne; Strindberg, oltre a inventarle, riuscì a trasferirle in un mondo allegorico e simbolico, mai scandagliato prima della sua comparsa. Egli aveva intuito la crisi della tragedia, aveva capito che la nuova società ricercava rimedi a tutto; intervenendo sull’una e sull’altra, Strindberg crea le basi del teatro moderno. Grazie a lui, il genere drammatico si evolve sino a una sorta di procedimento simbiotico, tanto da far convivere la crisi del dramma con la crisi della coscienza e da far corrispondere la rottura delle forme tradizionali con la frattura del pensiero. Il dramma perde così la lucidità, la razionalità, presenti ancora in Ibsen, per diventare riflesso di coscienza, luogo in cui realtà e sogno coincidono, allegoria e simboli convivono.

Cerami

Di grande talento come autore sia di romanzi (Un borghese piccolo piccolo, 1976; Tutti cattivi, 1981; Ragazzo di vetro, 1983; La lepre, 1988) sia di racconti (L’ipocrita, 1991; La gente, 1993; Fattacci, 1997), si avvicina al teatro attraverso la mediazione del cinema. Come sceneggiatore, infatti, Vincenzo Cerami collabora con Pasolini (Uccellacci e uccellini, 1966), Amelio (Porte aperte, 1990), Monicelli (cui si deve la trasposizione del romanzo d’esordio di Cerami), Bellocchio e G. Bertolucci; ma è soprattutto scrivendo per Benigni che raggiunge il successo: Johnny Stecchino (1991), Il mostro (1994) e La vita è bella (1997). Come autore di teatro la sua attività, solo apparentemente più marginale, inizia negli anni ’80 sia con l’adattamento per le scene del romanzo di Volponi Il sipario ducale (allestito al festival di Arles col titolo L’enclave des Papes) sia con una stretta collaborazione con il centro di drammaturgia di Fiesole: in questo ambito nascono Le tre melarance , libera rielaborazione della fiaba di Gozzi, Casa fondata nel 1878 , una sorta di saga mitico-aziendale, e Sua maestà (1986), che ripropone con sguardo contemporaneo il tema del sovrano deposto, del suo buffone e dell’isola deserta. Negli anni ’90 ha trovato un interprete ideale in Lello Arena e un musicista congeniale in Nicola Piovani; sono nate così Le cantate del fiore e del buffo, Il Signor Novecento, Canti di scena e La casa al mare. Acuti e istruttivi commenti su come scrivere per il teatro e per il cinema sono disseminati nel felice libretto di istruzioni Consigli a un giovane scrittore (1996).

Havel

Václav Havel si accosta alla scena dapprima come tecnico delle luci presso il teatro Na Zábradlí (Alla balaustra) di Praga, di cui diviene in seguito segretario, consulente per il repertorio e poi drammaturgo stabile. I primi drammi risalgono agli inizi degli anni ’60: Festa in giardino (1963) e Memorandum (1965) tentano di smascherare, coi toni della satira, il linguaggio disumanizzante e i meccanismi del potere. A partire dal 1968, con l’occupazione russa di Praga, Václav Havel e le sue opere vengono bandite dai teatri e dalle librerie della Cecoslovacchia. Aperto oppositore degli abusi del regime, Václav Havel (che si è sempre rifiutato di lasciare il proprio Paese) viene ripetutamente imprigionato: nel 1977, in seguito alla formazione del movimento dissidente `Charta 77′ per la difesa dei diritti umani; dall’ottobre 1979 al febbraio 1983, quando scrive delle condizioni di vita in carcere nelle Lettere ad Olga (portate in scena nel 1989 a New York); infine nel gennaio 1989, a causa della sua adesione alle manifestazioni per il ventesimo anniversario della morte di Jan Palach, un giovane studente datosi fuoco per protestare contro il regime sovietico. Il 29 dicembre 1989, con le prime elezioni libere dopo la caduta del regime comunista, diventa presidente della Cecoslovacchia, accettando di rimanere in carica fino all’elezione di un nuovo parlamento. Il teatro di Václav Havel «pensa e fa pensare», cercando di coinvolgere lo spettatore, la sua immaginazione e la sua esperienza personale, con tematiche dal chiaro impegno civile. Fra i drammi successivi di Václav Havel sono da citare La difficoltà di concentrarsi (1968), I cospiratori (1971), L’udienza (1975), Largo desolato (1985), Tentazione (1987).

Tieri

Profondo conoscitore del mondo dei sentimenti, che indagò con freddo distacco, Vincenzo Tieri fu però anche il creatore di alcuni sorprendenti personaggi femminili, giudicati con durezza e crudeltà. Si ricordano in questo senso Giovanna, protagonista di Taide (1932), Barbara de L’ape regina (1941) e Giulia de La battaglia del Trasimeno (1942). Nel dopoguerra si dedicò alla regia di gialli sentimentali: Processo a porte chiuse, Interno 14 e Domani parte mia moglie.

Scaldati

Franco Scaldati inizia come attore lavorando con gruppi spontanei palermitani e continua da sempre un importante che unisce teatro e impegno sociale nel quartiere della Kalsa di Palermo. Intensissima l’attività di autore, che lo porta, tra il 1972 e il ’73, a firmare Attore con la o chiusa per sempre . Un esordio che è una sorta di reazione al teatro della perfetta dizione e alla scena governata da modalità registiche verso le quali lui e i suoi attori sono insofferenti. Seguono molti altri testi-spettacoli, lavori in cui la scrittura non nasce mai sola, ma sempre insieme al lavoro di palcoscenico e di forti motivazioni etiche: Il pozzo dei pazzi, spettacolo fortunato e eclatante per la forza visionaria e una lingua ricca di impasti dialettali e immagini sceniche. Lo spettacolo, dopo aver debuttato al Piccolo Teatro di Palermo, nel 1974, prodotto dalla cooperativa I draghi, è stato ripreso, sempre con la regia dell’autore nel 1980 e con grande successo – che l’ha imposto alla ribalta nazionale – con la regia di E. De Capitani (1989).

Seguono Lucio (regia A. Ardizzone, 1978 e, con maggiore eco, quella di Cherif nel 1990), Mano mancusa (1978), Il cavaliere sole , Occhi (1987), Totò e Vicè (che ha debuttato alle Orestiadi di Gibellina nel 1993, ripreso negli anni successivi), Assassina, Ofelia e una dolce pupa tra i cuscini . A Sant’Arcangelo nel 1995 mette in scena Femmine dell’ombra, da cui nascerà poi il laboratorio permanente di Palermo fondato da Antonella Di Salvo, impegnato a rappresentare esclusivamente testi della compagnia. Seguono Sul muro c’è l’ombra di una farfalla, Si aprono i tuoi occhi ed è l’aurora. Nel 1997 La locanda invisibile e Ombre folli che debutta a Sant’Arcangelo con una strepitosa interpretazione di Antonella Di Salvo. Nel ’98 Scaldati riscrive La tempesta di Shakespeare che viene allestita con la regia di Cherif, mentre all’Albergheria apre una nuova sezione di teatro per ragazzi. Notevole le sue prove d’attore, oltre che dei suoi testi, anche nelle partecipazioni straordinarie (La sposa di Messina di Schiller a Gibellina, regia di E. De Capitani).

Leonard

Dopo aver lavorato per la Granada Television, Hugh Leonard debutta in teatro all’inizio degli anni ’60 affiancandosi alla nuova generazione di autori irlandesi, tra cui Friel e Murphy. Nel 1962 scrive Stephen D un adattamento da Joyce in cui il convenzionale tema irlandese dell’emigrazione è reso in toni drammatici. Nel 1966 è l’unico drammaturgo insieme a Eugene McCabe a celebrare il `massacro di Pasqua’ del 1916 con il testo Insurrezione (Insurrection) commissionatogli dalla televisione Irlandese. A Londra nel 1968 scrive una comedia di maniera dal titolo L’uomo alla Pari (The Au Pair Man) in cui sviluppa a livello metaforico il tema politico delle relazioni Inghilterra-Irlanda. Nel 1970 di ritorno da Londra si stabilisce nella nativa Dalkey, vicino a Dublino, e si dedica alla satira della vita sociale e politica della borghesia irlandese con i testi Il motel di Patrick Pearse (The Patrick Pearse Motel, 1971), Il tempo che fu (Time Was, 1976), e Uccidere (Kill, 1982) guadagnandosi la fama di cronista e satiro dei nuovi ricchi d’Irlanda. Tra gli altri suoi lavori si ricordano Da , 1973, e Una vita (A Life, 1979) testi che trascendono problematiche locali o nazionali e si caratterizzano come più umani e personali; e ancora La maschera di Moriarty (The Mask of Moriarty, 1985) farsa incentrata su Sherlock Holmes e il suo rivale Moriarty; e infine Trasloco (Moving, 1990), commedia scritta dopo diversi anni di silenzio sul doppio trasloco di una famiglia di Dublino, nel 1957 e nel 1987, senza che alcuno dei personaggi sia invecchiato, per un ironico ritratto del progresso sociale.

Rosso di San Secondo

Proveniente da una nobile famiglia – il padre Francesco era un conte, la madre Emilia Genova una donna che riassumeva in sé l’austerità di tante mamme siciliane, Pier Maria Rosso di San Secondo rimase nella sua terra d’origine fino al raggiungimento della maturità classica. Roma divenne la sua meta, come fu meta di un altro grande, Pirandello, a cui per primo R. si rivolse quando vi giunse con una lettera d’accompagnamento datagli dal padre. Fu Pirandello che, dopo aver presentato con un’ampia introduzione il romanzo La fuga , propose Marionette, che passione! a V. Talli. Siamo nel settembre del 1917 e, prima di questa data, si segnalano, nella sua vita, alcuni viaggi e testi narrativi. Verso il 1907 si recò in Olanda, quindi in Germania. Scrisse una bellissima novella, lodata da Bonaventura Tecchi, La signora Liesbeth ; e compose, nello stesso periodo, Mare del Nord, Serenata, Una cena in presenza di Jean Steen, raccolte sotto il titolo Elegie a Maryke , e ancora Il poeta Ludwig Hansteken , che troveremo in Ponentino . Intanto la Compagnia drammatica italiana, diretta da Alfredo Sainati, nel 1908, aveva rappresentato al Teatro Carignano di Torino il primo lavoro di Rosso di San Secondo, andato perduto, La sirena incantata.

Dopo il 1917, quando apparve il romanzo La fuga, al quale seguì la rappresentazione di Marionette, che passione!, il lavoro divenne ancora più febbrile; nel 1918 fu pubblicata La morsa , nel 1919 andarono in scena Amara e La bella addormentata , mentre trova pubblicazione un altro romanzo: La mia esistenza d’acquario. Altre sue commedie sono: L’ospite desiderato (1921); Lazzarina tra i coltelli (1923); La roccia e i monumenti (1923); Una cosa di carne (1923); Il delirio dell’oste Bassà (1924); La scala (1925); Febbre (1926); Tra vestiti che ballano (1926); Lo spirito della morte (1931). Nel 1939 una malattia lo costrinse a letto per molto tempo mentre stava componendo Il ratto di Proserpina , che nel 1940 avrebbe dovuto essere rappresentata da A.G. Bragaglia, che ne aveva già preparato l’allestimento. Lo scoppio della guerra ne impedì la rappresentazione. Nel 1942-1943 Rosso di San Secondo compose a Lido di Camaiore Mercoledì, luna piena . Un anno prima di morire poté assistere a una nuova edizione scenica di La scala al Festival internazionale della prosa di Venezia, con la regia di Squarzina e con G. Santuccio e L. Brignone.

Il teatro di Rosso di San Secondo, affermatosi sotto l’equivoca formula del ‘grottesco’, contiene una carica così rivoluzionaria, una raffigurazione scenica così violenta, da farlo rapportare a quello di drammaturghi come Ibsen, Strindberg, Pirandello. È un teatro dell’attesa e dell’assurdo, che sembra anticipare autori come Ionesco e Beckett; la sua forza drammaturgica non è solo di carattere formale, ma anche linguistico. Opere come Marionette, che passione!, La bella addormentata, Lo spirito della morte sono degne di entrare in un vero e proprio repertorio del teatro italiano; sono commedie nelle quali i grandi temi esistenziali convivono con le famose `pause disperate’ o con la forte espressività coloristica. Rosso di San Secondo, pur non disdegnando la tradizione, fu certo un autore avanguardista.

Foà

Di origine ebraica dopo le prime esperienze con il teatro universitario Arnoldo Foà s’iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, dal quale però verrà espulso nel 1938 a causa delle leggi razziali. Continua comunque a lavorare in quel periodo come doppiatore utilizzando un nome d’arte. Dopo il secondo conflitto mondiale comincia la sua ascesa con La brava gente (1945) di I. Shaw e poi con Delitto e castigo e La luna è tramontata , regia di Visconti. Forte delle esperienze fatte con Luigi Cimara e Sarah Ferrati viene scritturato al Piccolo di Milano per interpretare una parte nel Giulio Cesare (1953-54). Con l’avvento degli anni Cinquanta, come molti, intraprende l’avventura del cinema che fioriva, e interpreta tra altri titoli minori Altri tempi (1951), Il processo (1962), Il sorriso del grande tentatore (1973). Mette poi in scena in qualità di regista teatrale una commedia da lui stesso scritta dal titolo Signori, buonasera e lavora contemporaneamente con Visconti e Squarzina. In seguito torna a collaborare con il Piccolo chiamato per La lanzichenecca (1964-65) e dopo pochi mesi fonda la sua prima compagnia. Interpreta Lazzaro di Pirandello, Paura di me (1965) di V. Bompiani, Ruy Blas (1966) di V. Hugo, Zio Vanja (1968) e Golem di Fersen è del 1969. Nel corso degli anni il suo discorso teatrale si arricchisce di sempre nuovi strumenti ed elementi e si orienta sempre più sulla drammaturgia e approfondisce le sue competenze e qualità di regista: esempi di questo intenso periodo sono Al testimone con Lea Padovani e Warner Bentivegna, Diana e la Tuda di Pirandello, La corda a tre capi da lui stesso scritto e diretto.

Pea

Dopo una avventurosa gioventù trascorsa in Egitto, Enrico Pea fece ritorno in Versilia nel 1914 e si dedicò con passione al teatro, scrivendo testi e prodigandosi per il rilancio dei `maggi’ toscani e del Teatro Politeama di Viareggio. Tra i drammi – che si affiancano alla nutrita serie di racconti, liriche, poemetti e romanzi – ottenne riscontri soprattutto Giuda (allestimento curato dallo stesso autore nel 1918), che scandalizzò il pubblico per i suoi spunti anarcoidi. Prime piogge d’ottobre (1919), Rosa di Sion (1922), Parole di scimmie e di poeti (1922), La passione di Cristo (1923), L’anello del parente folle (1931) videro invece prevalere progressivamente un sincero sentimento religioso, che stemperò, fino a cancellarlo, il giovanile ribellismo.

Pistoletto

Appartenente alla corrente dell’Arte Povera, nata in Italia verso la fine degli anni ’60, l’arte di Michelangelo Pistoletto dopo una parentesi pittorica e scultorea incentrata sulla riflessione degli spazi e sul trompe l’oil, si contraddistingue soprattutto per l’uso di specchi, tagliati o legati con corde, che lo porterà in parte a condividere l’esperienza minimalista degli anni ’70. Nel 1977 realizza le scenografie per Neither di Beckett, rappresentato in giugno al Teatro dell’Opera di Roma e riproposto l’anno seguente al Metamusik Festival October, presso la Nationalgalerie di Berlino; nel settembre 1978 realizza ad Avignana Trittico ’78.- I Trombonauti con M. Pioppi, E. Rava e gli abitanti di Corniglia; il 15 agosto del 1979 in una piazza di Corniglia viene rappresentata l’ Opera Ah, scritta e diretta dallo stesso Pistoletto, con musiche di E. Rava interpretate dai cantanti lirici S. Tkahashi e D. Zattera e dagli abitanti di Corniglia. Sempre con gli abitanti di Corniglia e con i membri della sua famiglia P. realizza Anno Uno , rappresentata nel marzo 1981 al Teatro Quirino di Roma e nel 1994 al Marstall di Monaco. Quest’ultima è la più nota opera teatrale di Pistoletto, al quale appartengono i testi, la regia e le scenografie: in essa gli abitanti di Corniglia diventano la città stessa, trasformati dal progetto scenografico di P. in cariatidi che sorreggono sul capo l’architettura della città e ne raccontano la storia in termini epici.

Feydeau

Georges Feydeau si affermò nel 1887 con Sarto per signora (Tailleur pour dames) e fu per una trentina d’anni uno dei più brillanti fornitori di copioni per i teatri commerciali parigini, in una carriera che coincise quasi esattamente con la cosiddetta belle epoque. Ritenuto nel suo tempo non più che un artigiano abile e fortunato, lo si considera oggi, in Francia e altrove, uno dei maggiori autori comici dell’intera storia del teatro. È consuetudine suddividere i suoi vaudeville (si definiscono così le sue commedie, sulla scia di Labiche e di altri autori del Secondo Impero) in due gruppi. Nel primo del quale fanno parte, fra gli altri, Il signore va a caccia (Monsieur chasse, 1892), Champignol suo malgrado (Champignol malgré lui, 1892), L’albergo del libero scambio (L’Hôtel du Libre Echange, 1894), Il tacchino (Le dindon, 1896) e La pulce nell’orecchio (La puce à l’oreille, 1907) – si raccontavano in termini buffoneschi i pericoli che incombevano sulla coppia, presentando una gentile signora che si riteneva a ragione o a torto tradita e decideva di ricambiare il marito della stessa moneta (ma l’adulterio non veniva mai consumato). Il secondo filone – che comprendeva, per esempio, La palla al piede (Un fil à la patte, 1894), La dame de Chez Maxim’s (1899) e Occupati d’Amelia (Occupe-toi d’Amélie, 1908) – aveva invece come protagonista una cocotte coinvolta in vari imbrogli, o perché voleva conservare l’amante prossimo a convolare a nozze o perché, trascinata dalle circostanze o dal suo buon cuore, si trovava a recitare un ruolo che non le competeva. Si partiva in ogni caso da una situazione che racchiudeva in sé uno o più malintesi, e la si sviluppava in tutte le possibili conseguenze, con una virtuosistica scienza dell’intreccio e un dialogo di perfetta funzionalità comica, valendosi di personaggi visti solo nei loro comportamenti, senza pretese d’approfondimento psicologico. Più realistici furono gli atti unici (riuniti col titolo Dal matrimonio al divorzio) con i quali il commediografo chiuse la sua carriera prima di sprofondare nella follia. Vi si presentava (per esempio in Pupo prende la purga , On purge bébé, 1910 e in Ma non andare in giro tutta nuda, Mais n’te promène donc pas toute nue, 1911) una serie d’immagini quasi strindberghiane (ma volte al comico) dell’inferno familiare, con mogli spaventosamente autoritarie e mariti ridotti a vittime.

Fuchs

I suoi numerosi lavori, scritti per la maggior parte tra il 1890 e il 1914, testimoniano il suo eclettismo e la sua pluridisciplinarietà. Oltre alla sua produzione critica, Georg Fuchs cura adattamenti di Shakespeare e di Calderón ed elabora dei progetti per la scena dove la musica è spesso una componente di primo piano. Alcuni esempi sono Amore (Liebe 1893), tragedia in un atto con musica di Anton Beer e Das Tanzlegendchen (1908), uno spettacolo coreografico ispirato a Gottfried Keller con musica di Hermann Bischoff. La ricerca di Georg Fuchs è volta a un teatro di comunione spirituale tra attori e spettatori nel quale il ritmo e la musicalità siano elementi fondamentali. Sulla linea dell’eredità del dramma wagneriano e del mistero medioevale, assieme all’architetto P. Berens crea, per l’inaugurazione di un’esposizione a Darmstadt nel 1901, la cerimonia mistico-religiosa Il segno (Das Zeichen). Tra i progetti più significativi realizzati da F. va inoltre ricordato Il teatro dell’avvenire (1904) dove, in una dimensione ludica, viene esaltata l’estetica del corpo ed evitata ogni tendenza illusionistica. A partire dal 1908 Georg Fuchs dirige il Teatro d’Arte a Monaco, costruito dall’architetto wagneriano Max Littmann. Qui concepisce una delle sue opere teoriche più importanti: La rivoluzione del teatro (1909), per la quale può essere annoverato tra i grandi teorici della scena dell’inizio del secolo.

Barnes

Peter Barnes approda al palcoscenico alla fine degli anni’70, in ritardo rispetto ai contemporanei Orton e Pinter, con commedie politicamente impegnate nell’intento di produrre un teatro che abbia un impatto diretto sulla realtà. Debutta nel 1965 con Sclerosi (Sclerosis), farsa convenzionale sul colonialismo britannico, ma il suo particolare stile comico, che combina un umorismo macabro ad effetti gotici e ad aspre parodie punteggiate da violenti scarti, si dispiega nel suo secondo testo La classe dirigente (The Ruling Class, 1968), ritratto parodico dell’alta società inglese influenzato da Orton che ottiene un forte successo.

Nei lavori successivi seleziona tematiche morali e storiche per le sue `black comedies’: la successione spagnola in Gli stregati (The Bewitched, 1974), l’olocausto in Riso (Laughter, 1978), la peste in Nasi rossi (Red Noses, 1985). Ribaltando l’assunto bergsoniano secondo cui la base della commedia è la percezione dell’incongruo, nei suoi lavori l’incongruo nega la validità del riso per generare la percezione.

Iconoclasta e provocatore, Barnes individua come suoi modelli: il teatro giacobino, Ben Jonson, l’espressionismo tedesco e Frank Wedekind. Con la fusione degli opposti a livello tematico come in Declini e glorie (Sunsets and Glories, 1990) ambientato nel Medioevo, e la giustapposizione di tecnique formali discordanti, il teatro di B. è spesso un vero e proprio catalogo di violenze e torture messe in scena come forme di protesta contro lo status quo; periodi storici oscuri fanno da sfondo a società dove gli dei sono interscambiabili con i diavoli e dove l’ultima indegnità è trattare la sofferenza con ironia: tra i suoi personaggi solo gli inumani, gli imbecilli o i folli sopravvivono.

Saramago

Narratore tra i più rilevanti del Novecento portoghese, José Saramago si dedica alla scrittura scenica a partire dal 1979, quando, su richiesta della direttrice di un teatro di Lisbona, realizza La notte, opera ambientata nella redazione di un quotidiano della capitale allineato al regime. Il testo si gioca sul contrasto – destinato a diventare rovente quando si diffonde la notizia del golpe democratico – tra il puro Torres ed il corrotto caporedattore Valadares, mediocramente asservito al potere dei più forti. Nel 1980, nel quarto centenario della morte di Luis de Camoes, Saramago scrive Cosa ne farò di questo libro?, pièce in cui l’autore de I Lusiadi, stanco e sofferente, cerca di far pubblicare la sua opera in un “Paese oscuramente assorto nel gusto dell’avidità”. Solo dopo una lunga serie di umiliazioni riuscirà a raggiungere l’obiettivo, ma, a quel punto, nella può cancellare la sua profonda, irredimibile delusione.

Con La seconda vita di San Francesco (1987) Saramago va alla carica del pilastro dell’etica francescana, la povertà. Il ritorno del santo assisiate al cospetto del Capitolo dell’Ordine – ormai del tutto identico ad un Consiglio d’amministrazione – produce effetti inaspettati su Francesco, che abbandona la scena pronto a lottare contro la miseria, perché “è un errore contro la carne e contro lo spirito fare della povertà la condizione per accedere al Cielo”. Fortemente polemica nei confronti di “qualsiasi dottrina” che faccia degli esseri umani “dei nemici di se stessi” è il quarto (e per ora ultimo) lavoro di Saramago, In Nomine Dei, (1993). La tragedia di Münster e degli anabattisti del XVI secolo serve dunque all’autore per ribadire quanto profonda sia l’identità degli uomini, nonostante le divisioni che religioni ed ideologie hanno voluto surrettiziamente programmare. Col titolo Divara è stata allestita una versione lirica della pièce, con musiche di Azio Corghi e scenografia di Dietrich Hilsedorf.

Cantagalli

Di professione notaio, Giuseppe Cantagalli scrisse più di cento opere fra commedie, farse e monologhi, principalmente in dialetto romagnolo, con intento pedagogico. I suoi personaggi sono tratti dall’ambiente popolare e fanno della comicità la loro caratteristica. Rappresentato da filodrammatiche locali, raggiunse la notorietà con la trilogia Pancrèzi in cuntravenzion, Pancrèzi in carnuvèl, E fiol d’Pancrèzi in ti suldè. Creò poi la fortunata macchietta del signor Lovigi, tipico rappresentante del faentino, saggio e prudente.

Hare

Nel 1968 David Hare fonda insieme a T. Bicat il Portable Theatre, uno dei gruppi di teatro alternativo più attivi soprattutto nella promozione della nuova drammaturgia, che come suggeriva il nome doveva essere: facilmente trasportabile, adattabile a spazi quasi sempre diversi dal teatro (palestre, sale ecc.) e dunque pensata con scenari del tutto essenziali. Dall’esperienza del Portable Theatre, H. coltiva la prolifica collaborazione con H. Brenton, per il quale cura la regia di Le armi della felicità (Weapons of Happiness; National Theatre 1976) e con il quale scrive alcuni testi: Lay By (1971), testo a cui collabora anche D. Edgar, sulle origini della pornografia nella società capitalistica, costantemente presa di mira nei suoi lavori; England’s Ireland (1972), ancora una collaborazione a tre sul tema dell’imperialismo britannico; Brassneck (1973), dramma sulla corruzione del governo; Pravda (1985), in cui analizza la deformazione delle notizie da parte dei giornali.

Nel 1970 e ’71 David Hare è drammaturgo residente al Royal Court Theatre, ed è anche tra i membri fondatori della compagnia Joint Stock. Nei suoi lavori, da Slag (1970) a The Great Exhibition (1972), a Plenty e Liking Hitler (1978), David Hare costruisce un suo stile fondato su un tipo di approccio storico, teso a rintracciare l’origine di fenomeni quali corruzione e oppressione attraverso i fatti documentati. Alla fine degli anni ’60 David Hare comincia una lunga collaborazione con il National Theatre che, dalla fine degli anni ’70, produce molti dei suoi lavori (nel 1984 diviene regista associato); sempre per il National Theatre, sotto la direzione di D. Eyre, David Hare lavora su commissione per l’ampio spazio dell’Olivier Theatre. Nasce una trilogia politica: Diavoli da corsa (Racing Demon, 1990) sulla chiesa anglicana, Giudici mormoranti (Murmuring Judges, 1991) sull’apparato giuridico inglese, e In assenza di guerra (Absence of War, 1993), sui motivi della sconfitta del partito laburista alle elezioni del ’92. In reazione a questi lavori, nel 1995 David Hare dà avvio a una trilogia d’amore con il dramma Skylight (contrasto sentimentale e ideale tra i valori di un imprenditore e la sua amante), in cui l’azione si concentra in un’unica stanza.

Considerato uno dei pochi drammaturghi contemporanei in grado di rivolgersi a un vasto pubblico, David Hare dimostra la sua forza sul campo: tra il 1997 e il ’98 il suo lavoro impegna più di un palcoscenico, dal piccolo spazio dell’Almeida Theatre – in cui allestisce un revival del testo di Shaw Casa cuorinfranto – al West End londinese, dove viene messo in scena il suo Il punto di vista di Amy (Amy’s View); per tornare di nuovo all’Almeida, dove nella primavera 1998 debutta il suo lavoro più recente, Il bacio di Giuda (The Judas’s Kiss), in cui H. rielabora una sceneggiatura di Wilde; mentre a New York va in scena la sua versione dell’ Ivanov di Cechov.

Rabe

David Rabe combatté nel Vietnam e da questa esperienza trasse ispirazione per i suoi testi più significativi, tutti rappresentati dal Public Theatre di J. Papp: L’addestramento di base di Pavlo Hummel (The Basic Training of Pavlo Hummel, 1971), che raccontava in un linguaggio fortemente realistico la storia di un soldato destinato a morire in guerra; Bastoni e ossa (Sticks and Bones, 1971, portata con successo anche a Broadway), che mostrava le conseguenze su una famiglia della classe media del ritorno di un figlio che nel Vietnam aveva perso la vista; e Stelle filanti (Streamers, 1976) che riprendeva, con particolare brutalità, il tema della vita militare e della guerra.

Mainardi

Renato Mainardi si afferma tra gli anni ’60 e ’70 come una delle voci più interessanti della drammaturgia dell’epoca. In realtà aveva iniziato appena ventenne, nel 1951, trasferendosi nella capitale. Tra il 1951 e il 1972 scrive otto commedie, cinque delle quali vengono rappresentate. Nel 1990 viene rappresentato, postumo, un suo testo inedito, Per non morire, a Montegrotto Terme. Il suo è un teatro di parola, di impronta fondamentalmente realistica, che affronta grandi tematiche esistenziali. L’intellettuale a letto, sua opera prima, viene rappresentato per la prima volta a Milano al Teatro del Convegno nel 1959. Nel 1972 Arnoldo Foà mette in scena Per una giovanetta che nessuno piange a Viterbo. Alla Cooperativa Teatrale Attori Riuniti si deve invece Amore mio nemico, regia di Nello Rossati (1973). Del 1975 è lo spettacolo Antonio von Elba, a Lecco, di cui Pier Luigi Pizzi cura scene e costumi. La compagnia stabile del Teatro Filodrammatici mette in scena Giardino d’inferno con Paola Borboni a Milano (1976). Da ricordare, tra le altre pièce, Il vero Silvestri, dal romanzo di Soldati, che viene allestito dallo stesso autore sempre ai Filodrammatici (1977), e Una strana quiete, recitato da Eva Magni, Franca Nuti e Riccardo Pradella nel 1979.

Veneziani

Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita a Napoli, Carlo Veneziani si trasferì a Milano, dove compose strofe satiriche di successo per l’attore N. Maldacea. Attento conoscitore dei lati comici della vita, fu autore apprezzato di commedie grottesche. Tra i suoi titoli vanno ricordati: Il braccialetto al piede (1917), Finestra sul mondo (1918), Colline filosofo (1920), L’antenato (1922, scritto per A. Gandusio) e Alga Marina che nel 1924 fece scalpore al Teatro Filodrammatici di Milano per il primo seno nudo delle scene, offerto da P. Borboni, giovane e disinibita interprete accanto a A. Falconi. Nonostante il dissenso dei moralisti la commedia ottenne grandi favori del pubblico.

Arpino

Scrittore di talento (La suora giovane , 1959; Una nuvola d’ira , 1962; Il buio e il miele , 1969), Giovanni Arpino si dedicò in maniera discontinua alla scrittura per la scena. Le trame dei suoi testi, in superficie lineari, si muovono tra simbolo e surrealismo. I personaggi che li animano sono tratteggiati con precisione ed incarnano l’ansia e la malinconia del loro tempo. Il suo stile è elegante nella forma letteraria ed è attento a mettere in luce, nel testo drammatico, momenti lirici e poetici. Si ricordano L’uomo del bluff (1968, interpretato da Tino Buazzelli), Donna amata dolcissima (1969), Oplà maresciallo (1973).

Bulgakov

Laureatosi in medicina a Kiev, Michail Afanas’evic Bulgakov inizia la sua attività letteraria negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre (a cui aderisce con molte perplessità) con articoli, feuilletton, brevi racconti satirici sulla nuova realtà ancora molto confusa. Trasferitosi a Mosca, abbandona la medicina per dedicarsi interamente alla letteratura: pur continuando l’attività pubblicistica, scrive il primo romanzo, La guardia bianca (1924), sul drammatico periodo che precede la presa di potere dei bolscevichi a Kiev nel 1918. Del romanzo, su richiesta di Stanislavskij, fa una riduzione teatrale, I giorni dei Turbin (1926), messa in scena al Teatro d’Arte tra molte difficoltà dovute a continui veti della censura, irritata dal tono troppo nostalgico dei protagonisti nei confronti del regime zarista.

L’enorme successo dello spettacolo spinge Bulgakov a continuare l’attività drammaturgica: del 1926 è la commedia L’appartamento di Zoja (Teatro Vachtangov), satira dei ‘nuovi ricchi’ del periodo della NEP (Nuova Politica Economica), del 1927 è La fuga, dramma sull’esodo dei controrivoluzionari verso Costantinopoli, del 1928 L’isola purpurea, contro lo strapotere dei censori teatrali. La reazione dei burocrati di partito è immediata, violenta: uno dopo l’altro i testi di Bulgakov vengono vietati e tolti dal repertorio dei teatri. Nel 1930 Bulgakov scrive una lettera direttamente a Stalin, dove fa presente la sua disperata situazione di ‘emigrato interno’, l’impossibilità di proseguire il suo lavoro di scrittore. Ottiene un posto di collaboratore al Teatro d’Arte, dove lavora dal 1930 fino alla morte come consulente letterario e aiuto regista. All’interno del Teatro d’Arte continua la sua attività di drammaturgo in due direzioni: da un lato riduzioni teatrali di opere letterarie (Anime morte di Gogol’, Don Chisciotte di Cervantes, Guerra e pace di Tolstoj), dall’altro opere originali la cui messa in scena tuttavia avviene molti anni dopo la morte dell’autore (La cabala dei bigotti, le cui prove durano per anni, finché lo spettacolo, mutilato, va in scena nel 1936 per poche repliche e viene subito vietato; Gli ultimi giorni, sulla morte di Puskin 1934-35; Ivan Vasil’evic 1935-36; Beatitudine 1934; Adamo ed Eva 1936).

Romains

Nelle poesie di Jules Romains (Odi e preghiere; 1913) e nei suoi romanzi (Morte di qualcuno, 1911; I compagni, 1913), come più tardi, nell’ambiziosa epica narrativa in ventisette volumi (Gli uomini di buona volontà) cercò di raccontare vite e esistenze comuni, con gli occhi di un umanesimo e di un socialismo utopistico, spesso schematico e intellettualistico. Esordisce in teatro con L’armée dans la ville (1911). Negli anni ’20 collabora con Copeau, che gli affida la direzione della scuola di teatro del Vieux-Colombier. Si afferma come autore brillante con Monsieur Le Trouhadec saisi par la débauche e Knock ou le triomphe de la médecine (1923, regia di Jouvet), che hanno grande successo. Knock è un ciarlatano che, fingendosi un medico, convince gli abitanti di un villaggio di essere malati per imbrogliarli, ma alla fine cade vittima del suo stesso inganno. Non hanno fortuna alcune pièces successive, Le mariage de Monsieur Le Trouhadec (1925); Le déjeuner marocain (1926); Jean le Maufranc (1926); Le dictateur (1926); Boën ou la possession des biens (1930); Grâce encore pour la terre (1939), – forse appesantite da quell’ideologismo aprioristico che inficia spesso anche la sua narrativa. Il miglior Romains torna a esprimersi invece nell’adattamento francese del Volpone di Ben Jonson (1928) e in Donogoo (1930): la falsa scoperta di una città, comunicata all’Accademia geografica diventa l’occasione della fondazione di una nuova città, perfettamente rispondente a quella inventata per ottenere i fondi di ricerca. Nel 1946 è eletto all’Académie française.

Vasile

Dal 1941 Turi Vasile si dedica alla composizione di drammi che affrontano problematiche religiose, con temi e argomenti legati alla cultura e alla realtà siciliana. Debutta al Teatro nazionale dei Guf di Firenze dove va in scena La procura , seguono: Arsura (1942) e l’ Orfano (1943). Nella sua vasta produzione successiva, degni di nota sono quei testi che risentono delle influenze di U. Betti e D. Fabbri: L’acqua (1948), I fiori non si tagliano (1950), I cugini stranieri (1951), Anni perduti (1954), Le notti dell’anima (1957). Negli anni alterna alla scrittura l’impegno di autore e regista televisivo e di produttore cinematografico tornando ogni tanto all’originario amore per il palcoscenico. Del 1965 è la commedia musicale Il Plauto magico , mentre degli anni ’80 sono due testi che lo riportano all’attenzione del pubblico e della critica: Lia rispondi, premio Fondi La Pastora (1984) e La famiglia patriarcale, premio Flaiano (1986). Ha scritto anche alcuni radiodrammi.

Kushner

Dopo aver scritto un dramma dal titolo Una stanza luminosa chiamata giorno (A Bright Room Called Day, 1985) e adattamenti da Corneille, Brecht e An-Ski, Tony Kushner si è imposto, all’inizio degli anni ’90, con Angels in America , una «fantasia gay su temi nazionali», divisa in due parti e rappresentata con successo prima in California e poi a Londra. Il tema della prima parte, Si avvicina il millennio (The Millennium Approaches, 1992), la più convincente, è il malessere degli Stati Uniti nell’era di Reagan visto attraverso un personaggio storico – Roy Cohn, avvocato d’affari ed ex braccio destro di McCarthy, morto di Aids senza avere mai ammesso la propria omosessualità – e alcune coppie, eterosessuali e no, in crisi: il tutto raccontato alternando linguaggio alto e linguaggio basso, ferocia polemica e tenerezza, con esiti spesso sconvolgenti. Meno riuscita è la seconda parte, Perestroika (1993), che si chiude con un messaggio di speranza.

Amurri

Scrittore satirico ( Come ammazzare la moglie e perchè , Famiglia a carico , Più di là che di qua ), Amurri Antonio si è dedicato anche al teatro di rivista per il quale ha prodotto alcuni testi: I fuoriserie (1957-58) scritto in collaborazione con Faele e Zapponi; La minidonna (1966-67) scritto insieme a Torti e Jurghens e interpretato dal trio Steni-Mondaini-Ninchi. Ha lavorato anche per la radio e la televisione ( Gran varietà , Rosso e nero , Canzonissima , Fantastico ) e ha composto celebri canzoni come “Stasera mi butto” (Rocky Roberts); “Piccolissima serenata” (Teddy Reno); “Un bacio è troppo poco”, “Vorrei che fosse amore”, “Zum, zum, zum” (Mina). Ha spesso collaborato con Dino Verde.

Macario

Interprete di una comicità dal candore surreale, Eminio Macario fu la maschera italiana che più si avvicinò all’ingenuità e ai modi di Charlot ma dotata, per il palcoscenico, della parola funambolica dei fratelli Marx. In realtà ogni definizione risulta riduttiva ed incompleta, sebbene lusinghiera, per l’uomo la cui testa, a detta di Petrolini, valeva un milione; e tanto valeva quella testa con il famoso ricciolino sulla fronte, da far erigere in onore di Macario quel monumento in vita che furono le vignette a lui ispirate pubblicate dal “Corriere dei piccoli”. Cominciò a recitare fin da bambino nella filodrammatica della scuola e a diciotto anni entrò a far parte della prima compagnia di `scavalcamontagne’ (così erano chiamate le formazioni di paese che recitavano drammi e farse nei giorni di fiera). A ventidue anni venne scritturato nella compagnia di `balli e pantomime’ di Giovanni Molasso col ruolo di secondo comico e debuttò al Teatro Romano di Torino con le riviste Sei solo stasera e Senza complimenti. Dal settembre 1924 fu a Milano con Il pupo giallo e Vengo con questa mia di Piero Mazzuccato, Tam-Tam di Carlo Rota e Arcobaleno di Mazzuccato e Veneziani. Nel 1925 compie il primo grande salto entrando nella compagnia di Isa Bluette col ruolo di comico grottesco debuttando a Torino con la rivista Valigia delle Indie di Ripp e Bel-Ami.

Macario rimase con la Bluette per quattro anni acquistando via via sempre maggior notorietà finché, ottenuto il nome in ditta, e avendo firmato nel 1929 la prima rivista come autore ( Paese che vai , in collaborazione con Chiappo), il comico torinese formò una sua compagnia di avanspettacolo con cui girò l’Italia dal 1930 al ’35. Nel 1937 scritturò Wanda Osiris e mise in scena una delle prime commedie musicali italiane, Piroscafo giallo , di Bel-Ami, Macario e Ripp, debuttando al Teatro Valle di Roma. A partire da questa data si ripresentò ogni anno con una nuova rivista dai cui palcoscenici fece conoscere i volti e le qualità di molte attrici brillanti tra cui Lily Granado, Marisa Maresca, Isa Barzizza, Lauretta Masiero, Dorian Gray e Sandra Mondaini. Parallelamente, ad una prima e sfortunata esperienza cinematografica con Aria di paese (1933), fece seguito nel 1939 il grande successo di Imputato alzatevi! per la regia di Mario Mattoli, recante nella sceneggiatura le firme della redazione del “Marc’Aurelio”, il bisettimanale umoristico che schierava nomi dal futuro luminoso quali Maccari, Mosca, Metz, Steno, Marchesi e Guareschi. Con questo film per la prima volta nella storia del cinema italiano si può parlare di comicità surreale.

«Mi dicono – dichiarò a tal proposito l’attore nel 1974 – che io facevo Ionesco quando Ionesco quasi non era nato, e d’altronde io lo so… sono sempre stato un po’ lunare». Seguirono poi in un’ideale trilogia dei tempi di tirannide: Lo vedi come sei… lo vedi come sei? (1939), Il pirata sono io (1940) e Non me lo dire! (1940). Ma la sua formula spettacolare, al di là del successo sul grande schermo che continuò ad arridergli con nuovi picchi, come nel campione d’incassi Come persi la guerra (1946), fu sempre più adatta al teatro di rivista e alla commedia musicale, là dove le prepotenze della sua spalla Carlo Rizzo esaltavano la sua candida genialità, e là dove il contrasto fra l’innocenza della propria maschera e il sottinteso erotico delle sue famose `donnine’, mostrava tutta la propria efficacia. Si ricordano fra le altre Amleto, che ne dici? (1944) di Amendola e Macario, Oklabama (1949) di Maccari e Amendola, La bisbetica sognata (1950) di Bassano con musiche di Frustaci, Made in Italy (1954) di Garinei e Giovannini, Non sparate alla cicogna (1957) di Maccari e Amendola, Chiamate Arturo 777 – (1958) di Corbucci e Grimaldi. Macario ha incarnato la maschera di una comicità innocente quanto lieve, poeticamente sospesa fra le pause, lo sbarrarsi stupito degli occhi e la salacità dissimulata delle battute, un caso pressoché irripetibile, per ragioni storico-geografiche, di humour piemontese assurto con meritato clamore a dimensioni nazionali.

Gaber

Giorgio Gaber (Gaberscik) inizia a esercitarsi con la chitarra a quindici anni per curare il braccio sinistro colpito da una paralisi. Studia economia e commercio alla Università Bocconi, pagandosi gli studi con le esibizioni al Santa Tecla di Milano, locale in cui nascono le sue prime canzoni e dove incontra amici e complici come Jannacci. In questo locale viene notato da Mogol che gli procura un’audizione per la Ricordi, a cui farà seguito un primo disco. Nello stesso periodo (fine anni ’50) intraprende la carriera nel gruppo rock’n roll dei Rocky Mountains; in seguito si esibisce in coppia con Maria Monti al Teatro Gerolamo di Milano con lo spettacolo Il Giorgio e la Maria . Dopo queste prime esperienze, negli anni ’60 si afferma con una vena più delicata e nostalgica, recuperando brani del repertorio popolare milanese. Passa poi a una dimensione decisamente più umoristica impegnandosi (dalla fine degli anni ’60) in un repertorio maggiormente attento all’attualità sociale e politica del Paese (forte è l’influenza di J. Brel). Appare in tv come conduttore in Canzoniere minimo (1963), Milano cantata (1964) e Le nostre serate (1965) oltre a numerosi altri spettacoli di varietà.

Nel 1965 sposa O. Colli. A Canzonissima (1969) presenta “Come è bella la città”, una tra le prime canzoni in cui traspare la sua sensibilità sociale. Nel 1970 il Piccolo Teatro di Milano gli offre la possibilità di allestire uno spettacolo: nasce così Il Signor G. (che resterà il suo soprannome), in cui le canzoni sfumano in monologhi dal gusto amaro e ironico, che trasportano lo spettatore in un’atmosfera vagamente surreale, in cui si mescolano sociale e politica, amore e speranza. A partire dagli anni ’70 l’unico riferimento artistico di G. è il teatro; egli si avvale della collaborazione di S. Luporini, pittore di Viareggio e suo grande amico, con il quale firma tutti i suoi spettacoli. G. diventa così cantante-attore-autore, o `cantattore’, con gli spettacoli Dialogo fra un impiegato e un non so (1972), Far finta di essere sani (1973), Anche per oggi non si vola (1974), Libertà obbligatoria (1976), Polli d’allevamento (1978), tutti prodotti con il Piccolo Teatro di Milano. Le sue storie sono quelle di un uomo qualunque, di un uomo del nostro tempo, con le speranze, le delusioni, i drammi e i problemi tipici dell’esistenza quotidiana. Tutti i suoi recital vengono ripresi in incisioni dal vivo. Nel 1980 scrive Io, se fossi Dio , atto d’accusa ispirato ai tragici avvenimenti del rapimento Moro. L’anno seguente, sulla scorta del successo degli americani Blues Brothers, forma con E. Jannacci il duo Ja-Ga Brothers rinnovando l’antica collaborazione degli esordi.

Nel 1981 ripropone in tv i suoi spettacoli teatrali più importanti nella trasmissione Retrospettiva ed è in teatro con lo spettacolo Anni affollati . Negli anni ’80 Gaber si sposta in direzione della prosa con gli spettacoli Il caso di Alessandro e Maria (1982) con M. Melato, sul rapporto uomo-donna, Parlami d’amore Mariù (1986), in cui G. descrive quella strana invenzione che è l’amore e Il grigio (1988), metafora di una spietata analisi introspettiva. Con gli anni ’90 Gaber riprende la forma di teatro musicale che gli è congeniale con Il Teatro Canzone (1991), spettacolo retrospettivo; Il Dio bambino , sull’incapacità dell’uomo di uscire dall’infanzia e di evolversi; E pensare che c’era il pensiero (1994), sull’assenza di senso collettivo e sull’isolamento umano; Gaber 96/97 , in cui sostanzialmente riprende il precedente spettacolo; Un’idiozia conquistata a fatica (1997-98), spettacolo di intervento sul contingente, legato all’isteria dei fanatismi politici e del mercato.

 

Sherwood

Efficiente artigiano della scena, fra i più rispettati degli anni fra le due guerre, Robert Emmet Sherwood affrontò spesso temi ambiziosi in commedie più abili che profonde, accolte da notevoli successi grazie anche al loro ottimismo rasserenante. Lanciò un messaggio pacifista in Annibale alle porte (The Road to Rome, 1927), l’opera che lo rese noto; si pose domande sulla guerra imminente in Delizia d’idiota (Idiot’s Delight, 1936); esaltò gli ideali americani in Abe Lincoln in Illinois (1938); prese posizione contro l’isolazionismo dei suoi connazionali in Non vi sarà alcuna notte (There Shall Be No Night, 1940). Il suo testo più significativo fu probabilmente La foresta pietrificata (The Petrified Forest, 1935), un solido melodramma che contrapponeva con semplicismo, gli ideali e le speranze di una ragazza di provincia alla sfiduciata rassegnazione degli altri due personaggi, un intellettuale fallito e un gangster allo stremo delle proprie forze.

Bertorelli

Toni Bertorelli debutta nel 1969 con il Bruto secondo di Alfieri, poco dopo collabora con lo Stabile di Torino, ma nello stesso anno inizia a lavorare con Carlo Cecchi: Il bagno di Majakoskij, Woyzeck di Büchner, con il quale resterà fino al 1980 interpretando numerosi classici: Molière (Don Giovanni ), Pirandello, Shakespeare, Brecht, Pinter (Il compleanno), caratterizzandoli con una recitazione originale e intensa. Seguiranno altre esperienze, con De Bosio, Caprioli, Sbragia. Interessante la sua parentesi sperimentale con M. Spreafico (1983, 1986, 1987). Nel 1990 incontra Luca De Filippo in Il piacere dell’onestà , e nel 1997 ne Tartufo di Molière con la regia di A. Pugliese. Lavora con Paolo Rossi e Giampiero Solari in Jubil&aulm;um di Tabori al Piccolo Teatro (1994). Cura la regia di Les femmes savantes di Molière (1996). Degna di nota è anche la sua attività cinematografica (con i registi: M. Martone, M. Bellocchio e M.T. Giordana).

Crovi

Secondario, rispetto all’impegno narrativo ed editoriale, è stato l’interesse di Raffaele Crovi per il teatro. Il suo intervento più interessante, in cui più felicemente appare la sua posizione di `cristiano illuminato’, è la commedia Quello Stolfo de Ferrara , andata in scena al Teatro Verdi di Milano per la regia di Velia Mantegazza nel febbraio 1983. L’opera è una riproposizione in chiave contemporanea delle antiche storie cavalleresche: Orlando è il signore della guerra, Astolfo l’uomo comune, che ha la capacità di convivere con tutti, le Arpie sono una trasposizione delle Brigate rosse. Col titolo Il viaggio di Astolfo lo spettacolo è stato riproposto – sempre con la regia di V. Mantegazza e musiche di F. Battiato – a Neerpelt, in Belgio, nel 1985. In precedenza, nel 1977, presso il Teatro del Giglio di Lucca, C. aveva portato sulle scene la riduzione di Uomini e no di Vittorini (in collaborazione con Enrico Vaime). Nel 1981, nell’ambito della rassegna `Formello ’81’ a Roma, è andato in scena L’orto drogato, nell’interpretazione di G. Lavia.

Mazzucco

I testi di Roberto Mazzucco, molti dei quali rappresentati anche all’estero, sono incentrati su satira politica e di costume e il suo impegno civile si sviluppa in testi vicini nello stile al teatro dell’assurdo. Lo testimoniano, ad esempio, gli atti unici: Come si dice (1966), dove i personaggi parlano attraverso le loro didascalie; Lei dice, lui dice (1974); Dieci giorni senza far niente (1979); e la commedia La formidabile rivolta (1982), nel quale immagina che tutte le malattie si incontrino per complottare contro l’uomo. M. ha lavorato trasversalmente in tutti i generi della scrittura drammatica. Con L’avventura del cabaret , pubblicato nel 1976, ha scritto una vivace intelligente storia di un genere da lui amato.

Strauss

Botho Strauss è considerato uno degli scrittori più importanti del mondo letterario contemporaneo Dopo gli studi di germanistica, scienze teatrali e sociologia a Colonia e a Monaco, avvia un intenso dialogo con Adorno, ma si allontana da lui a causa di forti contrasti riguardo alla progettata tesi su Thomas Mann e il teatro. Collabora con la rivista “Theater Heute” e nel 1970 viene chiamato alla Schaubühne ad Halleschs Ufer, a Berlino, da P. Stein per conto del quale lavora su Ibsen (Peer Gynt, 1971), e quindi su Labiche, Gorki, Kleist. Dal 1975 vive come scrittore indipendente a Berlino. Quando nel 1972 appare il suo primo lavoro, Gli ipocondriaci (Die Hypocondern), il pubblico non lo comprende. Comincia a imporsi soltanto dopo il 1975 con degli impressionanti affreschi sulla solitudine e sull’incomunicabilità.

La Trilogia del rivedersi (Trilogie des Widersehens) del 1976 mostra, attraverso l’inugurazione di una esposizione di pittura in una piccola città di provincia, un universo di solitudine, di conflitti e di angoscie dietro la superficie degli stereotipi borghesi; gli stessi personaggi appaiono meno reali dei quadri di cui discutono. Grande e piccolo (Gross und Klein, 1979) tratta del vagabondare di una ragazza qualsiasi attraverso la Germania. Il suo desiderio di comunicare si scontra con continui rifiuti, si esaurisce in fallimenti e cadute grandi e piccole senza che lei possa rinunciare alla sua ricerca. La chiusura e la solitudine sono il motivo conduttore di tutte le opere di Strauss. Questo malessere si esprime ineluttabilmente sia nei drammi che nei racconti e nei romanzi, collegati tutti dal senso profondo di una complessa drammaturgia.

Vengono di lui rappresentati anche brevi monologhi come La dedica (Die Widmung, 1977), soliloquio di un uomo abbandonato dalla sua compagna in una torrida estate berlinese. La scelta di Berlino come scenario di molte delle sue opere non è fortuita, infatti S. associa la solitudine e il malessere interiore alla desolazione della città. La ricerca di un ancoraggio impossibile è ancora il tema di Kalldewey Farce , del 1982, che evoca due anonime donne perdute nei bar della metropoli. In Il parco (Der Park, 1983), la solitudine e la malinconia sono elevate a livello di potenze mitiche. Con riferimenti politici, ma scavando nella realtà dei sentimenti, l’autore ci mette di fronte alla necessità del ritorno a un’interiorità, per quanto mutilata e martoriata: i suoi personaggi, attraverso l’introspezione, dissezionano senza pietà la loro anima con la forza della disperazione.

Strauss – poeta come Handke e Wenders della solitudine moderna, dell’incomunicabilità degli esseri – è maestro nel rappresentare la confusione dei sentimenti, come in Visi noti, sentimenti confusi (Bekannte Gesichter, gemischte Gefühle, 1974). Il suo romanticismo trova ispirazione in un quotidiano trasfigurato in modo quasi mitico, ma anche in Kleist, Büchner e Hoffmann che gli aprono la possibilità, per esempio in Gli ipocondriaci, di trasformare i suoi personaggi nei loro doppi, prigionieri di una storia d’amore che li trasforma, apparentemente senza motivazioni comprensibili, mentre su tutto pende una minaccia inesprimibile che li segue nelle loro vite e nei loro sogni.

Vicino al `teatro mentale’ di Handke, Strauss esprime più l’anonimato, la perdita di senso e di significato della coscienza moderna che non le istanze sociali. Il nuovo realismo di cui è promotore conduce dalla vita interiore verso l’esterno, integrando l’irrazionale, il quotidiano e il triviale. La rottura sentimentale, l’abbandono sono utilizzati come metafore della solitudine collettiva. Divenuti estranei alle loro vite, privati di spontaneità, vittime della loro perpetua coscienza riflessiva, i personaggi di S. sono carnefici e vittime delle loro speranze deluse, passano attraverso processi di fusione e di scissione come in Marlenes Schwester (La sorella di Marlene, 1975).

Al grido muto di Handke, alla violenza di Bernhard, Strauss oppone un concetto drammatico della soggettività (“Ich-Dramatik”) di stampo espressionista. Ma la disperazione e la solitudine dei suoi personaggi conducono spesso a una lucidità dolorosa. La lingua di Strauss, maschera del vuoto, con la sua impressionante bellezza, è espressione di un nuovo romanticismo, quello della disillusione. Tra le sue opere più recenti sono da ricordare: Il tempo e la stanza (Die Zeit und das Zimmmer, 1989); Coro finale (Schlusschor) e I vestiti di Angela (Angelas Kleider) entrambe del 1991; L’equilibrio (Das Gleichgewicht, 1993) e Jeffers-Akt I und II , del 1998.

Cobelli

Personaggio eclettico e bouleversantGiancarlo Cobelli attraversa gli ultimi cinquant’anni dello spettacolo italiano affiancando all’esperienza teatrale quella televisiva e segnalandosi al pubblico e alla critica per il suo gusto graffiante e parodistico, sovrapponendo la smorfia al sorriso disincantato e talvolta grottesco. Formatosi dal punto di vista artistico alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, a partire dal 1952, secondo l’insegnamento di Strehler e Decroux rispettivamente per la recitazione e per il mimo, ancora studente lascia un segno significativo in La pazza di Chaillot di Giraudoux, nel Revisore di Gogol’ e in Il dito nell’occhio (1953), allestito dalla compagnia Parenti-Fo-Durano. Nel 1957 il suo nervoso talento è protagonista dell’Histoire du soldat di Stravinskij, messo in scena per la regia di Strehler alla Piccola Scala. Pressoché contemporaneo è il debutto televisivo, con la partecipazione a numerosi programmi della tv dei ragazzi, che, con la creazione del personaggio di Pippotto, garantisce al carattere funambolesco dell’attore grande popolarità.

La gestualità beffarda dell’artista, cifra espressiva di una fisicità amplificata dai toni spesso irriverenti, esplode tuttavia nel 1959 in Cabaret ’59, presentato al teatro Gerolamo di Milano. Lo spettacolo, del quale Giancarlo Cobelli è unico interprete, preparato in collaborazione con Giancarlo Fusco, sancisce il debutto ufficiale dell’attore, che espone se stesso in un ‘recital anti-recital’, in cui la vigorosa inventiva comica, senza mai cadere nello stereotipo, evoca esplicitamente la lezione dello `Chat noir’. Il successo dello spettacolo è replicato nel dicembre dello stesso anno in Cabaret 1960 : la forma del cabaret diviene spazio privilegiato per annullare il diaframma fra sperimentazione e spettacolo, campo di battaglia nel quale il regista riesce a far esplodere le tensioni maudites della sua arte. La versatilità dell’artista è sottolineata a metà degli anni ’60 dal continuo passaggio dalla scena alla regia e alla scrittura, e dalla sovrapposizione di generi e forme: dal cabaret Cabaret n. 3 di C., Fusco, Arbasino e Mauri (1963) alla commedia musicale: Un cannone per Mariù di G. Fusco e F. Carpi (1961) e soprattutto La caserma delle fate (1964) di cui, oltre a essere protagonista e regista, fu anche autore in collaborazione con Badessi. La fine degli anni ’60 e gli anni ’70 sono dominati dalla regia attraverso la quale Giancarlo Cobelli, in un continuo processo di costruzione e decostruzione rompendo ogni possibile struttura narrativa, svolge da uno spettacolo all’altro quella che per lui è l’utopia del teatro: Gli uccelli di Aristofane (1968), Woyzec k di Büchner (1969), Antonio e Cleopatra di Shakespeare (nelle due versioni del 1972 e 1974), La pazza di Chaillot di Giraudoux (1972), La figlia di I orio di D’Annunzio (1973), L’impresario delle Smirne di Goldoni (1974), L’Aminta di Tasso, nell’elaborazione dello stesso C. e di Giancarlo Palermo (1974), e il collage Soprannaturale, potere, violenza, erotismo in Shakespeare (1975) rappresentano le tappe più significative di tale itinerario.

Bruciato ogni naturalismo, il mimo Woyzeck urla nell’agonia del corpo la fine di ogni apparenza e nota patetica, così come i personaggi shakespeariani, transitando da un testo all’altro in un’unica messa in scena, sanciscono la perenne e incontrollabile transitorietà del tempo: demistificante «pessimismo che sfocia nell’utopia» (Groppali). I classici reinventati attraverso citazioni spesso contaminate offrono così la possibilità di una ‘ribellione travestita’ al mero estetismo dell’ufficialità. Un percorso quello di Giancarlo Cobelli proseguito su registri analoghi nel corso degli anni successivi, sino ad arrivare a Un patriota per me di J. Osborne (Roma, Teatro dell’Angelo 1991), mai rappresentato in Italia e ulteriore segno della spinta trasgressiva sottesa alla linea registica e drammaturgica dell’artista. Nello stesso anno realizza Il dialogo nella palude di M. Yourcenar e, per i due spettacoli, ottiene il premio Ubu per la migliore regia 1991. Fra gli spettacoli successivi da ricordare almeno l’aspro, spoglio, feroce Troilo e Cressida di Shakespeare e per la Scala, Iphigénie en Tauride di Gluck (1992), L’angelo di fuoco di Prokof’ev (1994, ripreso nel 1999) e Il Turco in Italia di Rossini (1997).

Giancarlo Cobelli si spegne il 16 marzo 2012, all’età di 82 anni. 

Majakovskij

Nel 1911 Vladimir Vladimirovic Majakovskij si iscrive all’Istituto di pittura, scultura e architettura di Mosca, dove incontra il poeta David Burljuk: insieme a lui e a Velemir Chlebnikov nel 1912 fonda il futurismo russo e ne firma il manifesto ( Schiaffo al gusto corrente ), dichiarando guerra a tutta la tradizione e la letteratura precedente, al linguaggio vecchio e inespressivo dei contemporanei, alle loro forme artistiche desuete e fiacche. Il movimento acquista subito grande popolarità per le posizioni scandalistiche tipiche dei suoi aderenti: processioni per le strade cittadine in stravaganti acconciature (famosa la blusa gialla di Majakovskij), tournée nel sud della Russia per propagandare i principi della nuova arte. Accanto ai primi versi (la raccolta s’intitola Io stesso , Ja sam, 1912) Majakovskij è subito attirato dal teatro, dove si dimostra, come in poesia, dissacratore di regole e convenzioni: Vladimir Majakovskij – Tragedija – (1913) è, insieme a Vittoria sul sole (Pobeda nad solncem) di Krucenych, il testo che apre la prima serata di teatro futurista pietroburghese, tra fischi, insulti della maggior parte del pubblico e grandi applausi dei pochi sostenitori. Nella tragedia, che lo vede protagonista tra una serie di strani personaggi, deformi e grotteschi, il giovane poeta si confronta con il mondo che lo circonda, grida la sua insofferenza per ogni vecchiume e insieme lascia affiorare la sua dilagante angoscia per il grande dolore che accompagna ogni esistenza.

La Rivoluzione d’Ottobre lo trova tra i più accesi sostenitori: si schiera subito tra gli artisti pronti a collaborare con il nuovo regime e per celebrarne il primo anniversario scrive Mistero-Buffo (1918), dove viene sbeffeggiata la borghesia opulenta, presuntuosa, arrogante, mentre trionfano operai e contadini, che dopo una lunga odissea attraverso inferno e purgatorio raggiungono il vero paradiso, non quello monotono e noioso di san Pietro ma quello vitale e dinamico delle macchine, in cui scompare ogni sopruso, è bandito ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Messo in scena dal regista Mejerchol’d, con le scene di Malevic, lo spettacolo apre la grande stagione del teatro rivoluzionario: l’autore ne fa successivamente varie versioni, di cui una destinata al circo. Majakovskij nei primi anni postrivoluzionari è infaticabile, partecipa al rinnovamento di tutti i settori della vita artistica, scrivendo versi e poemi sulle vittorie socialiste, su Lenin, dipingendo le cosiddette `finestre della ROSTA’ (sorta di cartelloni propagandistici con slogan o couplets satirici, destinati a riempire le vetrine dei negozi vuote di prodotti dopo il disastro economico seguito alla guerra civile), scrivendo brevi `agit-p’esy’ (commedie di propaganda, 1920-21), sceneggiature cinematografiche (vi partecipa anche come attore), scene per trasmissioni radiofoniche, fondando riviste (LEF e Novyj LEF), intervenendo con irruenza in tutti i dibattiti, in tutte le controversie letterarie, schierandosi sempre dalla parte degli innovatori.

Dopo una lunga pausa dedicata soprattutto alla poesia e al lavoro di divulgazione dei principi letterari rivoluzionari, Majakovskij torna al teatro negli ultimi anni della sua vita: del 1929 è La cimice, violenta satira del filisteismo piccolo-borghese rispuntato dopo la rivoluzione e insieme del mondo del futuro, che sarà dominato secondo l’autore da una tecnologia insopportabilmente fredda, asettica. Il protagonista, congelato nel 1929 a seguito di un incendio scoppiato durante un grottesco banchetto di nozze in cui sta per impalmare la figlia di una ricca parrucchiera, viene ritrovato cinquant’anni dopo e rinchiuso in laboratorio per studiarne le strane caratteristiche: sua compagna, testimone di un’esistenza ormai cancellata di sporcizia, una cimice. L’anno dopo, pochi mesi prima del suicidio che chiuderà tragicamente una vita vissuta sempre in prima linea, senza compromessi, scrive Il bagno, dove viene messo in berlina lo strapotere della burocrazia sovietica, che si sta dimostrando non meno ottusa e arrogante di quella zarista e sta minacciando, con esiti funesti, la libertà espressiva per cui tanto si è battuto l’autore. Entrambi i testi vengono messi in scena, con graffiante intelligenza e senso dell’attualità, sempre da Mejerchol’d, che ne sottolinea l’inattesa forza eversiva, denunciando con forza l’involuzione verso cui sta lentamente avviandosi il nuovo regime e che di lì a poco travolgerà anche lui. Il teatro di Majakovskij non ha perso con il passare degli anni la forza corrosiva e la lucida satira che lo ha reso popolarissimo alla fine degli anni ’20: ogni epoca ritrova nella Cimice come nel Bagno materiale attualissimo per deridere l’arrogante strapotere della propria borghesia e della propria burocrazia.

Serra

Una delle firme più divertenti e originali del giornalismo, Michele Serra ha coltivato fin dall’inizio della sua carriera interessi per lo spettacolo, soprattutto per quello d’autore – ha scritto un saggio su Gaber – e, naturalmente, per la satira. Ha scritto per Beppe Grillo monologhi, sketch e il primo spettacolo Buone notizie (assieme a Arnaldo Bagnasco) e L’assassino, scritto in collaborazione con Massimo Martelli e i protagonisti, I Gemelli Ruggeri. Lo spettacolo è stato allestito a Castelfranco Emilia con la regia di M. Martelli, presso il Teatro Comunale Dadà, nel 1994. L’ultimo suo testo è Giù al Nord, scritto in collaborazione con Antonio Albanese che ne è l’interprete (al testo ha collaborato anche il regista Giampiero Solari).

Molnár

Ferenc Molnár venne avviato dalla famiglia agli studi giuridici, ai quali tuttavia preferì la carriera di giornalista. Durante la prima guerra mondiale fu corrispondente di guerra. Essendo di origine ebrea, alla vigilia della seconda guerra mondiale si trasferì negli Usa, da cui non fece più ritorno in Europa. La sua prima opera teatrale, Il diavolo (1907), ottenne un notevole successo, duplicato nel 1909 con un altro dramma, Liliom (di cui è da ricordare la versione video prodotta e trasmessa dalla Rai nel 1968), da considerarsi il suo capolavoro. Ambientata nei bassifondi di Budapest, Liliom è la storia di un uomo rude e manesco, incapace di manifestare i propri sentimenti e la propria bontà con delicatezza, anche alla propria moglie e alla propria figlia. Durante una rapina muore per sfuggire alla cattura e viene inviato a scontare sedici anni all’inferno, al termine dei quali dovrà tornare sulla terra per compiere una buona azione. Anche in questa estrema circostanza, tuttavia, egli non saprà dimostrare alla moglie e alla figlia il proprio affetto se non alzando una mano contro di loro. In questo testo, come in altri suoi, M. rappresenta situazioni di vita reale con uno stile lieve, intrecciando realismo e fantasia, poesia e rivelazione degli aspetti più dolorosi della condizione umana. La sua vena poetica è caratterizzata da un romanticismo d’evasione, in cui l’intento primario è divertire con trovate sceniche originali. Fra gli altri drammi ricordiamo i due atti unici La guardia del corpo (1907) e Giochi al castello (1927) e le commedie Il lupo (1912), Carnevale (1917), Il cigno (1925), La pantofola di vetro (1925).

Fabbri

L’intensa attività teatrale – ben quarantaquattro sono i testi che recano la sua firma – trova il momento più fortunato negli anni ’40 e ’50, quando Diego Fabbri, insieme a Betti, si impone come il più rappresentato autore di spettacoli moralmente e civilmente impegnati. Sono questi gli anni in cui Diego Fabbri, formatosi giovanissimo nelle filodrammatiche cattoliche della nativa Forlì, approda a Roma e riesce ad assicurarsi una posizione di tutto rispetto con gli allestimenti di Orbite (Teatro Quirino, 1941), Paludi (rifacimento de Il nodo; Teatro delle Arti, 1942), La libreria del sole (Teatro Quirino, 1943; regia di Sergio Tofano), allestiti da compagnie di nome come la Bragaglia e la Tofano-Torrieri. La stagione più fortunata è comunque quella dei cosiddetti processi morali, quando F. riesce a dar pieno sviluppo, con una abilità drammaturgica accresciuta dalla parallela esperienza radiofonica (a cui farà seguito l’impegno di sceneggiatore per la tv), a un teatro di idee e di contenuti, ispirato da un cattolicesimo inquieto e conflittuale, ma anche saldamente ancorato alla `lezione’ dei padri della drammaturgia novecentesca, Pirandello su tutti. Le pièce a più forte impatto – anche se tuttora oggetto di discussione – sono Inquisizione (Teatro Odeon, Milano, 1950), Rancore (Teatro La Soffitta, Bologna, 1950, con l’interpretazione di Salvo Randone), Processo di famiglia (Teatro Carignano, Torino, 1953) e soprattutto Processo a Gesù , rappresentato per la prima volta al Piccolo di Milano nel 1955 per la regia di Orazio Costa e poi esportato – con straripante successo – in tutti i principali teatri mondiali. Parallelamente, secondo una traiettoria che spesso disorientò pubblico e critica, Diego Fabbri rivela tutta la sua abilità anche nei territori del profano, creando testi inclini a sondare usi e costumi dell’Italia del tempo, quali Il seduttore (Teatro La Fenice, Venezia, 1951, regia di Luchino Visconti) e La bugiarda (Teatro di via Manzoni, Milano, 1956). Gli anni ’60 e ’70 rappresentano un periodo di appannamento della vena creativa e di un conseguente ridimensionamento del suo successo. Numerosi sono comunque gli allestimenti di sicura efficacia come l’adattamento dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij (Teatro della Cometa, Roma, 1960), Il ritratto d’ignoto (Teatro della Cometa, Roma 1962), Lo scoiattolo (Teatro Nuovo, Milano, 1963), Il confidente (Teatro la Fenice, Venezia, 1964), L’avvenimento (Teatro Duse, Genova, 1967), l’adattamento dei Viceré di De Roberto (Teatro Ambasciatori, Catania, 1969) e quello del Mastro don Gesualdo di Verga (Teatro delle Muse, Catania, 1974), i lavori per la televisione: La notte della speranza , (1969), Ipotesi sulla scomparsa di un fisico atomico (1972), SMG 507 (1977). Al Dio Ignoto (1981) è l’ultima opera di un autore mosso dal desiderio di dare al pubblico «una verità autentica, che conti davvero per gli uomini sofferenti di oggi e di domani».

Campton

Scrittore prolifico, David Campton ha scritto per il teatro, la radio e la televisione. I suoi `short plays’ sono raccolti in: L’eccentrico punto di vista (The Lunatic View, 1957); Notti femminili (Ladies Nights: Four Plays For Women, 1967); Riso e paura (Laughter and Fear: Nine One-Act Plays, 1969); Ancora sul palcoscenico (On Stage Again, 1969), che comprende quattordici sketch e due monologhi. Negli anni ’80 ha scritto Chi è l’eroe, allora (Who’s the Hero, Then, 1981) e Carte, tazze e palla di cristallo (Card, Cups and Crystall Ball, 1986). La misura breve è la più congeniale a C., quella che gli permette di offrirci una vasta gamma di ben delineati caratteri umani. Lo stile e i contenuti lo avvicinano al teatro dell’assurdo di Pinter, ma con una forte coscienza sociale e un esplicito interesse alla problematica politica.

Salveti

Lorenzo Salveti ha diretto numerosi spettacoli con le più importanti compagnie di prosa italiane. Nel corso degli anni ha portato avanti una ricerca personale, con un proprio gruppo, su autori italiani come Natalia Ginzburg, Pasolini, Landolfi, Savinio, Gadda. Dal 1990 al 1994 è stato direttore artistico del Teatro Stabile dell’Aquila. Dal 1977 insegna recitazione all’Accademia d’arte drammatica `S. D’Amico’; ha tenuto corsi in molte città europee e del Sudamerica. Ha curato numerose regie liriche e ha diretto in tv commedie di G.B. Shaw, A. Christie, V. Sardou, O. Wilde, G. Courteline, A. Roussin, T. Rattigan. Si è dedicato per molti anni alla regia radiofonica, vincendo per due volte il premio Italia.

Ha scritto La donna di Bath (1983) e Il caffè del signor Proust (1990). Tra le sue regie teatrali si ricordano: Brand di Ibsen (1975), La Venexiana (1976), Lulu di Wedekind (1977), Macbeth di Shakespeare (1978), Sindrome italiana , collage di testi di S. Benni (1979), Dialogo di N. Ginzburg (1980), Nostra dea di Bontempelli (1981), Orgia di Pasolini (1982), Il guerriero, l’amazzone, la poesia nel verso immortale del Foscolo di Gadda (1983), La cosa vera di Stoppard (1984), Le notti bianche da Dostoevskij (1985), Orestiade di Eschilo (1987), Metamorfosi da Ovidio (1992), La cognizione del dolore da Gadda (1994), La rappresentazione di Santa Uliva (1995), Delitti disarmati di Ceronetti (1996), Leopardi segreto (1997), Così è (se vi pare) di Pirandello (1998) e La locandiera di Goldoni (1998).

Bolt

Robert Bolt è giunto al successo grazie a Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons, 1960), nato come radiodramma successivamente da lui ridotto per la televisione, il teatro e il cinema, regista Fred Zinnemann (1966). Il film, interpretato da Paul Scofield, Orson Welles e Vanessa Redgrave, fu premiato con cinque Oscar, tra cui quello per la miglior sceneggiatura (andato allo stesso B.). La vicenda ricalca il capitolo di storia inglese del Cinquecento che vide il conflitto tra ragion di stato (Enrico VIII) e coscienza morale (il cancelliere Thomas More, che pagò con la vita il suo rifiuto di piegarsi alla volontà del re). Tra le opere teatrali: Il critico e il cuore (The Critic and the Hearth, 1957), Il ciliegio in fiore (Flowering Cherry, 1957), La tigre e il cavallo (The Tiger and the Horse, 1960), Dolce Jack (Gentle Jack, 1963), Fratello e sorella (Brother and Sister, 1967), Vivat, vivat Regina (1970, su Elisabetta e Maria Stuarda) e Stato di rivoluzione (State of Revolution, 1977, su Lenin, per il National Theatre). Oltre al già citato Un uomo per tutte le stagioni , sono da ricordare le sceneggiature cinematografiche di Lawrence d’Arabia , Il dottor Zivago e La figlia di Ryan , tutte per la regia di David Lean; mentre ha diretto personalmente Peccato d’amore (Lady Caroline Lamb, 1972).

Bene

Carmelo Bene esordisce nel 1959 al Teatro delle Arti di Roma nel Caligola di Camus diretto da Alberto Ruggiero, ma già l’anno successivo offre un lavoro creativo autonomo con Spettacolo Majakovskij , arricchito dalle musiche di S. Bussotti. Gli anni ’60 rivelano la novità dirompente dell’arte di B. Nascono spettacoli di inattesa forza eversiva e di oltraggiosa provocazione: Pinocchio da Collodi (1961), Amleto da Shakespeare (1961), Edoardo II da Marlowe (1963), Salomè da O. Wilde (1964), Manon da Prévost (1964), Nostra Signora dei Turchi (1966), Amleto o le conseguenze della pietà filiale da Shakespeare e Laforgue (1967), Arden of Feversham (1968), Don Chisciotte in collaborazione con Leo De Berardinis (1968). Il decennio, fra i più fecondi nella carriera di Carmelo Bene, consegna a un pubblico spesso scandalizzato spettacoli inattesi, creazioni che l’attore tornerà a rielaborare con accanimento, ricercando un punto prospettico sempre variato e conturbante. In quel decennio Carmelo Bene, oltre a costituire una propria compagnia in sodalizio con Lydia Mancinelli, partecipa all’attività del Beat ’72; sperimenta il cinema, realizzando il lungometraggio Nostra Signora dei Turchi (1968), che segue i mediometraggi Ventriloquio (1967) e Hermitage (1968); aderisce al `Manifesto per un nuovo teatro’ firmato a Ivrea nel 1967 dalle schiere più avanzate della cultura e della ricerca teatrale. Carmelo Bene è ormai il simbolo di un’arte antagonistica, opposta al teatro ufficiale. Per la prima volta, con lui, prende corpo una nuova nozione di attore, che non è soltanto un dissacratore di regole, di repertori e di autori, ma molto di più e di diverso: è l’attore filosofico, l’attore ideologico, l’attore saggista, che si pone «al di qua della rappresentazione e al di là del teatro» (M. Grande). Invece delle superstiti sicurezze dei cosiddetti grandi attori, dà al pubblico dubbi, polivalenze e ambiguità di significati, sottili intarsi culturali, la degradazione parodistica. Nel Romeo e Giulietta (1976), per esempio, si assume la parte di un Mercuzio che non muore a metà della tragedia, ma continua nelle parole di Romeo, da lui plagiato e fagocitato, ridotto a un mimo animato soltanto dal suo padrone e partner, la cui voce gli è trasmessa attraverso il play-back. È un caos doloroso e beffardo, il crollo di ogni illusione interpretativa.

È il cosiddetto teatro della sottrazione o dell’amputazione: Carmelo Bene elimina dai testi il dato ideologico immobile e vi sostituisce una potente forza distruttiva, con cui cancella il rapporto attore-personaggio, autore-regista e, di conseguenza, la rappresentazione convenzionale. Nascono da qui S.A.D.E. (1977), Lorenzaccio (1986), La cena delle beffe e Pentesilea (1989), dove l’elemento negativo sembra travolgere la nozione stessa di teatro. Nasce ancora da qui la rissosa e sfortunata direzione della Biennale Teatro nel 1989, in cui B. promette uno strenuo esercizio di ricerca teorica il cui scopo è il teatro senza spettatori. Pensiero negativo. Ma Carmelo Bene esce dalla negatività per affermare l’unica presenza per lui possibile, quella dell’attore; l’attore che non si nasconde dietro il personaggio, rifiuta di morire con Mercuzio, ma ripropone continuamente se stesso come realtà esistenziale in cui il poeta e la sua visione fantastica si fondono e finiscono con lo scomparire. L’attore, cioè il diverso: con la sua nevrosi, i suoi eccessi e mancamenti, la sua ambiguità sessuale, il suo autobiografismo ostentato, la distruzione di se stesso in pubblico, nell’onda di grandi musiche che enfatizzano i sentimenti caduti. Così, fra l’altalena del dubbio e lo schiocco dell’oltraggio, Carmelo Bene mette in discussione non solo il teatro nella sua accezione storicamente accertata, ma anche lo spettatore, invitato a riconoscere come unica realtà la sofferenza, la nausea, il narcisismo spudorato e malinconico, l’impotenza, la protervia e la mortale consapevolezza dell’attore, che ora ha perduto ogni connotato psicologico ed è diventato una macchina attoriale, arrivando a raccontare se stesso col nastro del play-back, in quinta, e avendo per interlocutori dei manichini. L’elemento vivo della macchina attoriale è la voce, che con Bene diventa phoné: uno strumento duttile, ricco di ombreggiature e di colori, di timbri, di sonorità e di cupezze, messi al servizio non solo dei personaggi anchilosati e collassati, ma anche del verso poetico, che egli esplora non nella cantabilità, ma nella profondità emotiva e concettuale, restituendolo a platee anche immense (Dante dalla Torre degli Asinelli a Bologna nel 1981) con l’uso del microfono, che con lui non è più una protesi, ma è la voce che vince il suo stesso corpo. Ed ecco le letture di Majakovskij e dei Canti orfici di Dino Campana, ecco Leopardi, ecco i concerti per voce recitante, come Manfred di Byron (1979, musica di Schumann), Hyperion di Maderna (1980) ed Egmont da Goethe con musiche di Beethoven (1983); ecco Hamlet Suite (1994), in cui l’opera di Laforgue ha le musiche di B. È l’apoteosi dell’attore-creatore che si è specchiato in G. Deleuze e in Nietzsche, si è sovrapposto ai grandi scrittori della scena reinventandoli in un’assoluta originalità ed è arrivato al grado massimo di narcisismo con l’autobiografia Sono apparso alla Madonna (1983), inserita nell’opera omnia pubblicata nel 1995.

Weiss

Figlio di ebrei (il padre era un industriale cecoslovacco, la madre una colta vedova svizzera che in gioventù era stata attrice), dopo l’infanzia berlinese Peter Weiss fu costretto a seguire i genitori in fuga dalla montante follia nazista (emigrarono nel 1934). Prima due anni in Inghilterra, poi due in Cecoslovacchia – dove si formò all’Accademia artistica di Praga (1936-37), poi uno in Svizzera; infine, dal 1939 in Svezia, dove Weiss si stabilì prendendo la cittadinanza (1945). La giovanile vocazione per la pittura fu subito ridimensionata dalla necessità di far fronte ai bisogni materiali di chi, abbandonata la patria, aveva perso gli agi borghesi. Costretto a mantenersi, trovò lavoro nelle arti applicate (disegnatore nell’industria tessile e grafico), continuando per molti anni a dipingere, a creare collage, a occuparsi di cinema (fu consulente per l’Accademia del film svedese fino alla morte) e, naturalmente, a scrivere.

Se la pittura non gli diede mai grandi soddisfazioni (fece la prima mostra alla galleria Springer di Berlino nel 1963, quando era ormai uno scrittore famoso), così come il cinema (nel 1960, al festival di Locarno, passò inosservato il suo primo lungometraggio, Lo sperduto ), con la letteratura e il teatro, se pur tardivamente, si impose a livello internazionale, diventando il primo grande autore di lingua tedesca dopo Brecht. Alle prose d’esordio in lingua svedese (scritte tra il 1947 e il 1953) Weiss alternò i suoi primi due drammi in tedesco – La torre, 1948 e L’assicurazione, 1952 – che risentono da una parte dell’influsso del teatro dell’assurdo, dall’altra dell’opera di Strindberg, di cui in seguito tradurrà La signorina Julie (1961) e Il sogno (1963). La svolta avvenne nel 1960, quando con il microromanzo L’ombra del corpo del cocchiere (Der Schatten des Körpers des Kutschers) si impose all’attenzione della critica per l’originalità di una scrittura capace di creare forti suggestioni visive. Il plauso della critica fu ribadito e accompagnato dall’interesse del pubblico anche in occasione dell’uscita dei due successivi testi autobiografici Congedo dai genitori (Abschied von den Eltern, 1961) e Punto di fuga (Fluchtpunkt, 1962), in cui lo sradicamento esistenziale e linguistico degli esuli del nazismo provoca una profonda crisi di coscienza che sfocia in un pessimismo critico e si manifesta nella condizione dell’apolide.

La piena maturità artistica di Weiss coincide con la sua attività di drammaturgo. Nel 1963 l’atto unico Notte con ospiti riassume tutte le esperienze linguistiche precedenti in un testo grandguignolesco, in cui due bambini assistono all’autodistruzione del mondo adulto. È il preludio al primo dei suoi capolavori: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade (Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade), solitamente abbreviato in Marat/Sade . Weiss utilizzò il dramma storico e il gioco di specchi del teatro nel teatro per mettere in risalto il conflitto tra Marat, l’uomo più radicale della Rivoluzione francese, intransigente difensore della giustizia e della ragione, e Sade, interprete di un anarchismo istintivo e di un nihilismo aristocratico che lo porta a profetizzare la sconfitta della Rivoluzione (il marchese de Sade era stato realmente ricoverato in quell’ospizio). Lo scontro tra le due istanze rimane aperto – Marat può essere un eroe come un pazzo e Sade un pazzo come un saggio – e lo stesso autore nel corso del tempo non esplicitò mai definitivamente le sue propensioni. Weiss stese quattro redazioni successive alla prima, che andò in scena nel 1964 allo Schiller Theater di Berlino con scene disegnate da lui stesso, costumi creati dalla moglie, Gunilla Palmstierna, e la regia di Konrad Swinarski. Degli allestimenti successivi vanno citati almeno quello di Peter Brook (Londra 1964, che poi diventò anche un film) e, più recentemente, quello di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza (198?).

L’anno successivo il clamore fu ripetuto dalla messa in scena de L’istruttoria (Die Ermittlung). Questa volta Weiss scrisse il testo più riuscito del cosiddetto `dramma documentario’ – che aveva avuto due precedenti di grande successo con Il vicario di Hochhuth e Sul caso J. Robert Oppenheimer di Kipphardt – montando in versi gli atti del processo (Francoforte 1963-64) contro i responsabili del lager di Auschwitz. Il poema, raccontando minuziosamente la barbarie, fu uno shock; snodandosi come un oratorio, scandito dalle testimonianze delle vittime e dalla difesa degli aguzzini, si chiude senza verdetto: un finale senza catarsi che diventa un ineludibile monito per il futuro. Lo spettacolo debuttò contemporaneamente in diversi teatri tedeschi: alla Freie Volksbühne di Berlino Ovest, Erwin Piscator ne fece una rappresentazione scarna, essenziale, con i ventidue quadri introdotti dai preludi composti da Luigi Nono (ripresi poi in una geniale messa in scena di Virginio Puecher al Piccolo Teatro, con l’uso inedito di telecamere a circuito chiuso, 1967); a Colonia fu messo in scena davanti a uno specchio che rifletteva il pubblico, esplicito richiamo a considerare quella tragedia il frutto della propria storia; a Berlino Est, Helene Weigel ne diede una semplice lettura, poiché nulla si poteva aggiungere a quelle parole. Un’edizione particolarmente riuscita – che concilia la forza emotiva e il rigore – è tuttora nel repertorio della Compagnia del Collettivo di Parma (regia di Gigi Dall’Aglio, 197?).

L’eco de L’istruttoria fu anche amplificato dalle polemiche suscitate dall’autore, che ne diede una lettura politica: l’orrore dei lager era il frutto del capitalismo. La sua adesione al comunismo militante influì fortemente sulle opere successive: la Cantata del fantoccio lusitano (Gesang vom lusitanischen Popanz, 1967; messa in scena nel ’69 da Strehler con il gruppo Teatro Azione, quando lasciò il Piccolo Teatro) sul feroce imperialismo portoghese in Angola, Come il signor M. fu liberato dai suoi tormenti, `stationendrama’ su un proletario sfruttato dalla società e il programmatico Discorso sulla preistoria e il decorso della lunga guerra di liberazione nel Vietnam quale esempio della necessità della lotta armata degli oppressi contro i loro oppressori come sui tentativi degli Stati Uniti di distruggere le basi della rivoluzione , di solito abbreviato in Discorso sul Vietnam (Diskurs über Viet Nam; entrambi del 1968). Si tratta di testi dichiaratamente di propaganda, in cui si intrecciano pantomime, scenette, canzoni e danze montate come spettacoli di teatro spontaneo, con trovate divertenti e efficaci intuizioni (ad esempio, i diversi registri linguistici in Discorso sul Vietnam ) ma che, per loro stessa natura, risultano grezzi nella drammaturgia e, inevitabilmente, superficiali nei contenuti.

La prospettiva fortemente ideologica di Weiss non gli impedisce di attaccare l’Urss subito dopo l’invasione di Praga e, conseguentemente, di essere messo al bando dai comunisti. Con il collage documentario Trockij in esilio (Trotzki im Exil, 1970) ritorna sul tema della rivoluzione tradita, senza ripetere lo straordinario risultato del Marat/Sade, ma anticipando temi tuttora attuali, come la necessità di un riscatto del Terzo mondo. Segue una parabola discendente con il criticato Hölderlin (1971), una biografia del poeta come l’artista capace di combattere la tradizione culturale dominante miseramente asservita al potere (rappresentata da Goethe e Schiller), e un faticoso adattamento del Processo di Kafka (1975), ridotto alla dialettica servo-padrone. Gli insuccessi degli ultimi due testi lo spinsero a ritornare alla letteratura, ma non ad abbandonare le sue idee; il suo testamento filosofico è L’estetica della resistenza (Die &Aulm;sthetik des Widerstands, 1975-1981), biografia del movimento operaio e dell’antifascismo attraverso la vita di un proletario.

Brasch

Figlio di emigrati ebrei, nel 1947 Thomas Brasch rientra in Germania, nella Rdt, dove il padre è funzionario del Sed, il Partito socialista unitario tedesco, e viceministro della cultura. Dal ’56 al ’60 frequenta l’Accademia militare come allievo ufficiale e, dopo il ’64, studia pubblicistica a Lipsia. Espulso dalla scuola, tra il ’67 e il ’68 frequenta l’istituto superiore di cinematografia a Berlino, ma viene espulso anche da questo istituto con l’accusa di sobillazione contro lo Stato. Dal ’72 lavora come scrittore indipendente e nel ’76 espatria a Berlino Ovest.

Nel ’77 vince il premio Gerhart-Hauptmann e nel ’87 il premio Kleist. La rivolta dell’individuo contro le limitazioni sociali, il tentativo di evadere dall’imposizione dei ruoli viene elaborato da Brasch attraverso la sperimentazione di nuove forme drammaturgiche e di una nuova estetica. Dalla disgregazione della società borghese nonché del concetto di individuo sorge la necessità di una nuova specie di eroi, ma eroi tra virgolette: in testi come Der Papiertiger (1976), Lovely Rita (1977), Rotter (1977), Anton Tschechovs Platonow (1978), Lieber Georg (1980), Mercedes (1983), Frauen. Krieg. Lustspiel. (1989), tanto poco ruolo ha l’eroe in quanto individuo, tanto si riduce anche la tematica.

I personaggi sono spesso messi in una posizione azzerata, in una situazione di bonaccia, così come l’autore la definisce, per evidenziare come essi usano il tempo libero che è stato loro concesso, al quale sono stati forzati o che si sono presi. Pertanto, tutti i testi di Brasch sono incentrati sul tema del lavoro considerato non solo secondo un’accezione economica: la disoccupazione, nel senso di essere utile o non utile, è secondo Brasch l’esperienza decisiva e fondamentale nelle società moderne.

Bernstein

Il suo teatro ha un ritmo incalzante che conduce alla scena ad effetto, vera e propria chiave di volta della rappresentazione. I protagonisti dei lavori di Henry Léon Gustave Bernstein spesso cedono a compromessi, in vista dell’appagamento della passione che li muove (generalmente il desiderio del denaro o l’amore), e che spesso resta inappagato. Fin dall’esordio, nel 1900 con Il mercato (Le marché), lo schema dell’intreccio si ripete in ognuno dei suoi lavori. In Il raggiro (Le détour, 1902) è il desiderio di riscatto di una giovane donna, che, sentendosi destinata come sua madre a lavorare in una casa d’appuntamenti, decide di sposare un medico di provincia; ma l’ostilità e la maldicenza la ricacciano verso quella vita a cui cercava di sfuggire. In La raffica (La rafale, 1905) il gioco d’azzardo soggioga e conduce alla rovina una coppia d’amanti; in La griffe (1906, scritta per Lucien Guitry) un uomo anziano cade vittima dei capricci della giovane di cui è innamorato; in Samson (1907) un finanziere, scopertosi tradito, per vendicarsi provoca la caduta dei titoli di borsa, coinvolgendo nel suo fallimento l’amante della moglie; in Israel (1908) – presa di posizione dell’autore, ebreo, contro l’antisemitismo – un antisemita scopre di essere ebreo; in L’après-moi (1911), un uomo, colpevole di appropriazione indebita, recede dal proposito di suicidarsi quando la moglie decide di tornare da lui; in Il segreto (Le sécret, 1913) una donna nasconde sotto l’apparenza della serenità del suo matrimonio un’indomita gelosia che la spinge a ostacolare la felicità altrui. Nel periodo che precede la Prima guerra mondiale, il successo di B. è incontrastato, dovuto alla sua capacità di accordarsi alla sensibilità del pubblico; il favore della platea si appanna però con la rivelazione di nuovi talenti come Pirandello e Giraudoux. Bernstein cerca di adattarsi al mutamento di gusto, approfondendo l’analisi psicologica dei personaggi: in Félix (1926) racconta il riscatto morale di un uomo senza scrupoli, arricchitosi durante la guerra, e di una prostituta; in Mélo (1929, da cui Resnais ha tratto un film omonimo nel 1986) una donna, innamorata di un amico del marito, cerca di avvelenarlo, ma non riuscendovi, si toglie la vita; in Il messaggero (Le messager, 1933) un uomo descrive con tale passione la moglie a un compagno, che quando quest’ultimo torna a Parigi dall’Africa ne diventa l’amante. Nonostante la superficialità delle storie e qualche cedimento al linguaggio volgare, il pubblico non abbandona completamente Bernstein, che continua a scrivere per il teatro: La sete (La soif) è del 1950, Evangeline del 1953.

Whiting

Nel 1951 John Robert Whiting vinse un concorso promosso dall’Arts Council per il Festival of Britain con Il giorno dei santi (Saint’s Day), scritto nel 1947-48, su un anziano scrittore che rimane solo perché ossessionato dal timore che tutti complottino per ucciderlo; questa visione autodistruttiva e pessimista gli inimicò il pubblico, che uscì indignato dall’allestimento all’Arts Theatre Club. Seguirono Un penny per una canzone (A Penny for a Song), allestito nel 1951 con la regia di P. Brook, l’unico dramma di Whiting limpido e non nichilista; Canzone militare (Marching Song, 1954), in cui un generale tedesco si trova dinanzi all’ardua scelta tra il suicidio e un processo infamante; I cancelli dell’estate (The Gates of Summer, 1956), portato in tournée attraverso l’Inghilterra, ma senza raggiungere Londra; e I diavoli (The Devils), riduzione teatrale da I diavoli di Loudun di A. Huxley (che in seguito avrebbe ispirato il film di Ken Russell, 1971), allestito nel 1961 dalla Royal Shakespeare Company con grande successo. Nel 1965 il Little Theatre di Bristol ha messo in scena il suo primo lavoro, Condizioni per un accordo (Conditions of Agreement), scritto nel 1946.

Biancoli

Oreste Biancoli esordì con L’uomo di Birzulah , scritto in collaborazione con Dino Falconi. Con Falconi collaborò alla stesura di numerosi atti unici, alcuni dei quali per la compagnia ZaBum (Il sabato del villaggio, Soldati, Visitare gli infermi, Rosso e Nero). Si dedicò soprattutto alla rivista (ricordiamo Lucciole della città), collaborando con diverse compagnie, tra le quali quella di Macario e la Viarisio-Porelli. Nel cinema svolse un’intensa attività firmando numerosi soggetti e sceneggiature (Noi vivi – Addio, Kira, 1942; Domani è troppo tardi, 1949; Altri tempi, 1951; Don Camillo, 1952). Il suo nome figura anche fra gli sceneggiatori di Ladri di biciclette (1948). Da ricordare la serie televisiva Cantachiaro per Anna Magnani.

Cossa

Roberto Cossa abbandona l’università per dedicarsi al teatro nonostante l’ostilità della famiglia e frequenta una scuola di recitazione diretta da una delle ultime collaboratrici di Stanislavskij. All’età di ventiquattro anni, non senza grande rammarico, abbandona ogni velleità attorale per intraprendere la carriera giornalistica, collaborando ad alcune riviste letterarie come critico teatrale. Scopre la propria vocazione d’autore lavorando per il teatro di marionette del poeta Juan Enrique Acuna. Il primo dei suoi testi a debuttare sulle scene è Il nostro week-end (1964). Influenzato da Cechov, Miller, Saroyan e dal cinema americano, si dedica completamente alla scrittura drammatica che non può non risentire della congiuntura storica e politica argentina. Il grande successo popolare e il riconoscimento della critica arrivano con la commedia ‘nera’ La nonna (1977), popolata di personaggi mostruosi che vivono sul confine tra il grottesco e l’assurdo. Tra le opere successive si citano: Nessuno ricorda F. Chopin e Il vecchio e il servo.

Fazio

Fabio Fazio comincia la sua carriera esibendosi nei cabaret liguri con sketch giovanilistici e come abilissimo imitatore, ma subito tenta la via della televisione partecipando a un concorso Rai per nuovi volti. Comincia con la Carrà (Pronto Raffaella?, 1983) e poi passa di trasmissione in trasmissione mettendo a frutto le sue doti parodistiche e il suo umorismo leggero (Banane, su Telemontecarlo, 1990-91). Conquista la notorietà soprattutto grazie a Quelli che il calcio, programma in onda dal 1994 che segue attentamente (sdrammatizzandole) le domeniche sportive degli italiani Anima mia (1997). Conduttore discreto e ironico rappresenta in televisione un volto simpatico e intelligente. Nel 1994 esce il suo primo libro Qui una volta era tutta campagna , seguono: Il giorno più bello della vita , Guida al matrimonio (1995) e Anima Tour (1997). Infine, siamo nel 1996, lo vediamo come attore protagonista in Pole Pole di Massimo Martelli, fuori concorso al Festival di Venezia, e ancora come attore protagonista nel film-tv per la Rai Un giorno fortunato (1997).