ricerca teatrale

La ricerca teatrale del secondo dopoguerra riprende l’istanza che già aveva caratterizzato le avanguardie storiche della prima metà del secolo. In questa prospettiva l’autore teatrale è colui che compone l’evento scenico, sia esso derivato o meno da un testo preesistente. Spesso è difficile decidere se una personalità, poniamo un regista, appartenga all’uno o all’altro fronte, né aiutano molto le relative dichiarazioni di poetica, visto che i creatori hanno la tendenza a esprimersi in termini teorici secondo schemi già consolidati, più per giustificarsi che per lanciare nuove proposte. Stabilito dunque che la ricerca autentica si svolge in scena, si possono distinguere tre questioni principali: la composizione scenica, l’organizzazione dello spazio e la recitazione (l’attore). Ovviamente si tratta di questioni strettamente connesse tra loro, distinguibili soltanto per comodità di esposizione. L’istituzione registica, fondamentale anche nel teatro `tradizionalmente’ moderno, ha espresso fino dall’inizio del XX secolo alcuni degli esponenti più significativi della ricerca teatrale.

Personalità come Vselovod E. Mejerchol’d o Jacques Copeau, pur senza disconoscere l’importanza del testo drammaturgico, hanno relativizzato l’importanza di quest’ultimo, procedendo a una composizione scenica in nuovi spazi non teatrali (aperti, per esempio in campagna, o chiusi, come fabbriche ecc.), alimentata da un intenso lavoro di allenamento e improvvisazione degli attori, da elevare alla nuova funzione di co-autori. Ma la vera svolta è quella che avviene nel nome di Antonin Artaud. Questi, benché riconosciuto soltanto a posteriori come il nume tutelare della ricerca del secondo dopoguerra, esprime nei propri scritti e nelle proprie sperimentazioni sceniche l’istanza più radicale. Il suo saggio Il teatro e il suo doppio indica in tale doppio, cioè la vita, e nel suo `rafforzamento’ (apparentabile alla volontà di potenza nietzschiana) il vero teatro, un teatro che non rappresenta ma che si fa azione, fino a produrre un cambiamento organico tanto nell’attore quanto nello spettatore. Questo cambiamento non è paragonabile a quello prodotto da una medicina o da una terapia psicologica su un corpo o una mente malati, ma a un disvelamento della realtà, uno stato che l’autore francese definisce come una consapevolezza della `crudeltà’, suprema legge umana. Il Living Theatre viene fondato da Julian Beck e Judith Malina alla fine degli anni Quaranta, come il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler. Mentre il secondo può essere considerato forse il massimo teatro di rappresentazione e interpretazione del secondo dopoguerra, il primo, sia pure inizialmente proponendo testi classici o contemporanei, rilancia la centralità della scena e cerca di ritrovare, se necessario anche attraverso la provocazione e il coinvolgimento fisico del pubblico, il potere di scuotere.

Con il Living l’atto teatrale esce dalla dimensione dell’ascolto per entrare in quella dell’azione (anarchica e non-violenta nel caso specifico). Così come succederà negli anni Sessanta a Peter Brook, il Living scoprirà Artaud soltanto dopo che alcuni dei propri memorabili spettacoli avranno suggerito ad alcuni critici e spettatori una coincidenza tra la sua poetica e l’istanza dell’autore francese. E così una teoria, ma soprattutto una visione, formulata negli anni Trenta è diventata in tutto il mondo il sigillo del rinnovamento, la formula capace di riassumere una nuova funzione del teatro e di prefigurare una diversa responsabilità artistica ed etica dei suoi autori. Dalla fine degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei Sessanta, in tutto il mondo prende corpo un movimento di ricerca teatrale disomogeneo nelle poetiche ma basato sull’assunto comune dell’azione (artistica o politica, oppure artistica e politica) che sostituisce la rappresentazione e l’ascolto, e del teatro che divorzia dallo spettacolo. Questo nuovo teatro non è più inteso come un’attività vicaria della lettura e della didattica, bensì come la meditazione condivisa (l’espressione è di Brook) di una comunità provvisoria riunita attorno a un oggetto artistico che spiazza i clichè teatrali e le abitudini percettive.

Dagli Usa (si pensi a Allan Kaprow, a John Cage o Merce Cunningham e via via al movimento anche drammaturgico che giunge fino a oggi e che ha in Robert Wilson un esponente universalmente riconosciuto) alla Polonia (dove si segnala Tadeusz Kantor, attivo anch’egli fino dagli anni Quaranta, uno dei maggiori autori teatrali del dopoguerra), dal Giappone (dove oltre alla `danza delle tenebre’ Butoh si registra un ricco fermento che va dal teatro d’artista – si pensi almeno a Shuji Terayama e a Tadashi Suzuki – all’agit-prop) fino alla Gran Bretagna, alla Francia e la Germania, dove fioriscono molti gruppi teatrali interessanti che il lettore trova descritti nelle apposite voci, all’Italia naturalmente, si sperimenta un teatro basato su materiali, tecniche e funzioni diverse da quelle che caratterizzano il modello occidentale sette-ottocentesco, il cosiddetto `teatro borghese’.

Nel nostro paese sono innanzitutto alcuni registi come A. Trionfo, per citare solo uno dei nomi più significativi, poi alcuni attori come C. Bene, L. De Berardinis e C. Cecchi, o degli artisti visivi come C. Remondi e R. Caporossi, M. Ricci e G. Nanni, a inaugurare, in aperta polemica con il Piccolo Teatro di Milano, i più significativi filoni di ricerca. A essi si può affiancare Dario Fo per l’aspetto politico e di controinformazione, anche se il drammaturgo-attore lombardo è terribilmente sopravvalutato per quanto riguarda la scrittura. Per merito di queste personalità si stabilisce a un diverso rapporto con i testi classici e moderni, non più `letti sulla scena’ ma vagliati con una sensibilità contemporanea, la stessa che poi altri registi come L. Ronconi, M. Castri o F. Tiezzi, per esempio, declineranno anche nelle concezioni scenografiche o nell’uso di spazi non tradizionali. Mentre gli attori-autori sviluppano, in base alle rispettive sensibilità e coordinate culturali, non solo una rivisitazione ricca di sorprese del repertorio (basti pensare a come diversamente tra loro hanno affrontato Shakespeare), ma anche un’arte attorica originale, che conta esponenti di rilievo anche nelle generazioni successive (basterà fare il nome di Sandro Lombardi). E infine si pensi al teatro creato dagli autori che privilegiano l’aspetto visivo, a sua volta concretizzatosi in esperienze il cui valore è oggi riconosciuto in tutto il mondo, per esempio quelle che fanno capo a G. Barberio Corsetti o alla Socìetas Raffaello Sanzio.

Certo è da rimpiangere che la storia non abbia consentito un confronto più stretto e un sincretismo fra i differenti aspetti della ricerca, mentre si assiste a un deciso revival dell’istituzione spettacolistica pubblica e privata, nonché della drammaturgia. Purtroppo ciò avviene nel segno del ritorno alla rappresentazione e a un teatro fatto di `scrittori’, `lettori’ e `critici’ di messaggi culturali, più gradito a un pubblico abitudinario e più consono agli orientamenti delle attuali classi dirigenti. Tant’è che un grande maestro come J.Grotowski si è da tempo ritirato dalla scena per darsi alla ricerca pura, in una sorta di esilio dorato e tuttavia non privo di riscontri per coloro che della scena continuano a occuparsi. Alle istituzioni orientate in senso didattico e commerciale e a una drammaturgia intesa nuovamente come opera che i professionisti della scena sono chiamati a tradurre fedelmente sono costretti ad adeguarsi gli autori della ricerca. Sempre più spesso accade che questi accettino di lavorare su commissione, ma con modi e tempi che non appartengono loro bensì alle strutture tradizionali, emendando il vecchio teatro con qualche `novità’, oppure inserendosi con le proprie opere negli interstizi dei normali cartelloni, a significare così una marginalità (per quanto lucrosa) e un alibi dei grandi teatri.

Negli altri paesi la situazione è simile, anche se forse meno intricata. Sembra infatti che aldilà degli incroci sempre più frequenti fra autori della ricerca e istituzioni maggiori, nella cultura e nel gusto di civiltà teatrali come quella francese o nordamericana sia più netta e in qualche modo più serena la distinzione tra un teatro-che-rappresenta-i-testi e un’arte scenica autonoma, che sviluppa la ricerca attraverso forme e linguaggi del teatro inteso come forma di vita e azione nella vita. Una controprova della dinamica viziata è costituita dalla quasi totale assenza delle donne da ruoli di primo piano in questo panorama, assenza dovuta non a una mancanza di talenti ma, appunto, alla logica generale che domina i meccanismi di produzione e dunque di selezione, logica prevalentemente maschile. Il secolo sembra chiudersi così con una strana contraddizione secondo la quale a fronte di un immenso potenziale di creatività artistica si risponde con una selezione che privilegia l’adattamento e il compromesso con il sistema della rappresentazione. Ma la lotta continua, con esiti alterni, e della vicenda non s’intravvede la fine.