performance

Nella sua accezione più ristretta, ‘performance art’ è un termine entrato in uso negli anni ’70 a designare ciò che in precedenza si indicava con `happening’, vale a dire una performance  in cui l’autore è a tutti gli effetti colui che la esegue o la dirige. Una seconda caratteristica fondamentale di questo genere di eventi spettacolari, condivisa da tutte le declinazioni dell’arte performativa, è lo `slittamento’ che si osserva dal medium `naturale’ di una determinata arte verso i media che sarebbero propri di altre; fenomeno spesso tanto marcato da rendere dubbia se non indecidibile l’appartenenza di una performance a una disciplina artistica piuttosto che a un’altra. Se la provenienza di un performer è il mondo del teatro, ad esempio, la parola, sempre che venga impiegata, giocherà un ruolo secondario rispetto all’articolazione dell’immagine e del movimento. Se il performer proviene dalla danza, la parola e la teatralità tenderanno a prevalere sul movimento.

Nel caso della musica il fattore squisitamente acustico sarà di gran lunga in secondo piano o del tutto assente, a vantaggio di sollecitazioni teatrali, gestuali e visive. Se pure non si possono ignorare le differenze abbastanza marcate esistenti tra la `performance art’ degli anni ’70, che risente dei nuovi influssi di minimalismo e arte concettuale, e la precedente stagione degli happening, nella sua accezione più ampia e generica la performance forma con l’happening un unico complesso di ricerche sperimentali, intrecciato in un vasto movimento multidisciplinare, inteso a stabilire un rapporto di inusitata immediatezza tra l’interprete-autore e il pubblico. Un’esigenza di immediatezza che, in linea generale, è diretta conseguenza della meccanizzazione introdotta nella nostra vita dai moderni mezzi di riproduzione tecnica dell’arte quali radio, televisione, cinema e registrazione audio. Perciò le arti `performative’ (musica e teatro in particolare) hanno trovato modo di rivendicare una loro inedita ragion d’essere facendo sì, all’opposto, che quanto accade in una certa serata su di un certo palcoscenico non sia una delle varie interpretazioni possibili di un’opera già esistente, ma un evento che la crea all’istante, unico e irripetibile; un evento nel quale il rapporto con il pubblico si gioca nella nettissima accentuazione della `spettacolarità’, mai affidabile con uguale efficacia a un freddo e distante mezzo di riproduzione meccanica.

Le origini storiche dell’happening e delle componenti performativo-spettacolari che tanto peso hanno avuto nel teatro, nella danza e nella musica tra gli anni ’50 e ’70 si possono far risalire agli effetti combinati di tre principali influssi: le suggestioni delle culture e del teatro orientali (il teatro giapponese kabuki, quello balinese), le ricerche condotte presso il Bauhaus (in specie da Laszló Moholy-Nagy e Walter Gropius) e le teorie dei surrealisti (di Antonin Artaud in modo particolare). Dall’avvento del nazismo in poi, l’emigrazione negli Usa tanto di membri del Bauhaus che di esponenti del surrealismo agevolò in misura decisiva la genesi di nuove forme di teatro in quel diverso clima culturale. Il compositore John Cage, ideatore dell’happening, affermò di essersi ispirato ad Artaud, che aveva scritto: «Perché non concepire un’opera teatrale creata direttamente sulla scena?», sottolineando l’urgenza di «collegare il teatro a tutto ciò che rientra nei dominî di gesti, rumori, colori, movimenti, ecc.». Nel 1952 ebbe quindi luogo al Black Mountain College, sotto la supervisione di Cage, il primo happening, battezzato Theatre Piece No.1 . In uno stesso spazio e simultaneamente, Cage teneva una `lecture’, Charles Olson e M.C. Richards leggevano le loro poesie, Robert Rauschenberg metteva dischi su un fonografo, David Tudor suonava il pianoforte, Merce Cunningham e altri danzatori si muovevano in mezzo agli spettatori, al di sopra dei quali erano appesi dei quadri di Rauschenberg. «Il teatro ha luogo in qualsiasi momento, ovunque ci si trovi. E l’arte, semplicemente, aiuta a comprendere che le cose stanno così», affermò Cage nel 1954, aggiungendo che anche un concerto di musica è «teatro». Da allora folte schiere di artisti, entro variegate tendenze tutte raggruppabili sotto l’egida del teatro, si sono adoperate per avvalorare le sue parole. Si intende che qui il senso della nozione di `teatro’ non si riallaccia a tradizioni specifiche di quell’arte; il teatro si trasforma piuttosto in uno spazio, in una sorta di contenitore che accoglie la compresenza di stimoli percettivi eterogenei, deliberatamente non categorizzabili.

L’assunto implicito in queste pratiche teatrali – ovvero che delle prescrizioni esecutive di massima possono provocare esiti performativi imprevedibili – del resto coincide esattamente con la definizione di `musica sperimentale’ proposta già nel 1955 da Cage: «l’osservazione e l’ascolto di molte cose allo stesso tempo, comprese quelle che fanno parte dell’ambiente circostante riunite in un atto il cui esito è sconosciuto prima che avvenga». Nel corso degli anni ’60 e ’70 si è così assistito allo sviluppo delle seguenti tendenze performative interdisciplinari: il `teatro verbale’ (Robert Fillou, Dick Higgins, Jackson McLow, Giuliano Zosi); gli happening più propriamente detti (Allan Kaprow – che nel 1959 coniò il termine stesso , Nam June Paik, Wolf Vostell, Andy Warhol); il `teatro sinestetico’ (Merce Cunningham, Trisha Brown, Lucinda Childs, Meredith Monk, Steve Paxton, Ivonne Rainer); il `teatro acustico’ (John Cage, Terry Riley, La Monte Young, Giuseppe Chiari, Philip Corner, Toshi Ichiyanagi, James Tenney, Cornelius Cardew); infine gli eventi che rientrano nel `neo-haiku theatre’ (Henry Flynt, George Brecht, George Maciunas, Takehisa Kosugi, Ben Vautier, Juan Hidalgo, Walter Marchetti), dal quale derivò poi il movimento Fluxus .

Ma laddove l’incidenza di happening e performance è stata preponderante negli Stati Uniti, la fortuna di Fluxus è stata quasi esclusivamente europea (e italiana: oltre a Marchetti e Chiari, che ne fecero parte a pieno titolo, hanno gravitato attorno alla sua area compositori come Giancarlo Cardini, Daniele Lombardi, Davide Mosconi), anche se i suoi fondatori Brecht e Maciunas sono americani. Circostanza spiegabile se si pensa che l’happening e la performance di matrice americana insistono sulla relazione pragmatica arte-vita, cui in effetti vuole alludere l’urto dissonante prodotto da un accumulo sinestetico sulla percezione dello spettatore; l’evento Fluxus, non scevro da forti influssi dell’arte concettuale, parte invece da una consapevolezza `situazionistica’ per cui la realtà è già spettacolo; l’oggetto o il gesto teatrali sono perciò proposti in sé, come puri fenomeni esibiti nella loro grammatica elementare.