Osiris

Figlia di un palafreniere del re Umberto, la mitica regina del teatro di rivista italiano, Wanda Osiris, equiparabile a personaggi come Mistinguett e la Baker, si è presto trasferita a Milano, sua patria elettiva fino alla morte, curata con amore dalla sua unica figlia Cicci: l’inverno nella bella casa di via Verri, l’estate in vacanza ad Alassio, la pizza d’obbligo al `Santa Lucia’, il classico ritrovo del dopo spettacolo. La passione per il teatro era per lei motivo di vita, ma da ragazza ebbe solo il permesso di studiare il violino: un po’ poco per le impetuose esigenze di quella giovane piena di volontà destinata a diventare la leggenda della passerella, il misterioso prototipo del teatro leggero visto nel suo fulgore misto di lusso e di sogni, così come apparve laggiù nel dopoguerra. Scappò (o quasi) di casa per debuttare a sedici anni al teatro Eden di Milano, ed era il 1923: fu battezzata Wanda Osiris da un impresario che mescolò i nomi di due divinità egizie, Iside e Osiride, ma l’autarchia linguistica del fascismo le tolse la `s’ finale, mentre fu Orio Vergani, in un celebre articolo, a coniare per lei l’appellativo insuperato di Wandissima. Un superlativo che si adatta alla prima soubrette che creò, col copyright della sua fantasia professionale, proverbiali effetti speciali da palcoscenico: la cipria color ocra di cui si cospargeva tutto il corpo alla ricerca dell’effetto esotico, il turbante, il capello ossigenato, il rituale delle rose Baccarat senza spine e profumate di Arpège (rigorosamente a sue spese, non sul budget della compagnia: «il teatro fu per me un magnifico deficit»), pronte da distribuire ai fortunati spettatori delle prime file durante la passerella d’inizio o, eventualmente, sugli animali di scena che Garinei e Giovannini volevano come portafortuna, vedi il somarello di Copacabana .

Le sue canzoni restano proverbiali, nello stile romantico kitsch degli anni Quaranta, e sempre rivolte al sogno, nell’immagine barocca di una vita fotoromanzata e idealizzata: “Ti parlerò d’amore”, “A Capocabana” («la donna è regina, la donna è sovrana…»), “Femmina”, “Io sogno un nido rosa”, “Notturno d’amore”, “Chèri”, “Le gocce cadono, ma che fa” («se ci bagniamo un po’…», refrain brillante cantato e ballato con Macario e Rizzo, in stile “Singin’ in the rain”), “Luna d’Oriente”, “Ti porterò fortuna”, “Siamo quelli dello sci sci”, “Tutto amore”, “In due si sogna meglio”, “Personalità”. E poi naturalmente il momento magico, l’apparizione della Diva Divina sulle scale, sempre più fantasmagoriche, sempre più lunghe, sempre più hollywoodiane, per scendere sorridente attorniata dai celebri boys dal sesso incerto che la Signora sceglieva sempre di persona, giurando di anteporre le qualità intellettuali al bell’aspetto. «Le scale non furono un incubo» disse la soubrette, «le scendevo con tranquillità, occhi negli occhi al pubblico, nonostante i tacchi e le crinoline». La Wanda fu un insieme di rituali che colpirono al cuore il pubblico negli anni a cavallo della guerra, disposto a tutto pur di sognare a teatro con le creazioni degli `stilisti’ ante litteram Folco e Boetti. I titoli di una lunga carriera. Nel 1936-37 la soubrette appare, a Roma, in E se ti dice vai, tranquillo vai di Michele Galdieri, già truccata color cioccolata; indi è nel cast di Ma adesso è un’altra musica , sempre di Galdieri (1937-38) e poi in Aria di festa , dove perde la sua `s’ ma appare in una gabbia d’oro. A Milano, nel 1938-39 e negli anni seguenti, è al fianco del suo partner ideale, Macario, in Follie d’America e nello stesso anno in 30 donne e un cameriere , poi in Caroselli di donne e Tutte donne (1940), in cui esce da un astuccio di profumo; ancora nel 1941-42 recita col comico torinese in Una sera di festa . In Sogniamo insieme (1943), a Roma, scopre un altro comico di razza, Dapporto, con cui interpreta Che succede a Copacabana (1944) e L’isola delle sirene , nel 1945, anno in cui recita anche in La donna e il diavolo . Tornata a Milano, dopo la Liberazione, è la vedette di Gran varietà , sempre con il maliardo Dapporto; appare in show di beneficenza postbellica anche per i partigiani, nonostante Mussolini fosse sceso un giorno dalla carrozza, nel 1933, per farle di persona i complimenti. In due stagioni, dal 1946 al ’48, debutta nei primi grandi spettacoli di Garinei e Giovannini, al fianco di Enrico Viarisio: Si stava meglio domani e Domani è sempre domenica , la prima rivista italiana che espatriò per un breve giro in Svizzera.

Arriviamo al 1948, anno in cui la Wandissima appare in uno spettacolo cult, al massimo dello sfarzo e dei costi, Al Grand Hotel , produzione G.G. con Dolores Palumbo, Giuseppe Porelli, Vera Carmi e Gianni Agus, con cui ebbe una lunga relazione di vita e di palcoscenico. Sempre con Garinei e Giovannini è la star di Sogni di una notte di questa estate (1949), con un cast che comprende anche il giovane artista tuttofare Renato Rascel e i Nicholas Brothers: sono gli anni in cui il pubblico, soprattutto a Milano, elegge la Osiris, con la ritrovata `s’, a regina dei propri sogni di lusso hollywoodiano e le sue `prime’ al Teatro Lirico pareggiano, per mondanità, snobismo, costi produttivi e di botteghino, quelle della Scala. Nel 1950-51 è nel Diavolo custode , sempre con i fidi Garinei e Giovannini, sempre con Viarisio e Palumbo, le Bluebell e i sontuosi, incredibili costumi di Folco; nel 1951-52 la Wanda è in Galanteria di Galdieri, rivista che ha problemi con la censura per la satira politica. Ma nel 1952-53 la soubrette torna in Gran Baraonda , in cui si ritrova al fianco – oltre al Quartetto Cetra, Turco e Dorian Gray – il giovane comico proveniente dall’avanspettacolo, Alberto Sordi, che negli stessi mesi della tournée teatrale girava con Fellini I vitelloni . Wanda nel 1953-54 riforma la storica `ditta’ con Macario per Made in Italy , lo spettacolo in cui il comico chiedeva l’età alla soubrette e si sentiva a ogni replica rispondere: «Sempre sei meno di te, caro». In Festival , debutto al Nuovo nella stagione 1954-55, vanta la consulenza registica di Luchino Visconti, all’unica sua prova con la passerella; ma, nonostante gli autori (Age, Scarpelli, Vergani, Marchesi), la direzione e il cast (il cantante Henri Salvador e il quartetto comico Lionello-Manfredi-Pisu-Pandolfi), lo spettacolo ha un esito soltanto discreto. Nel 1955-56 è la volta di una sua rivista famosa, già con un filo conduttore molto simile all’operetta, La granduchessa e i camerieri , che la vede per l’ultima volta con Garinei e Giovannini e per la prima con Billi e Riva (e Alba Arnova per la danza, Ernesto Bonino per le musiche di Kramer, il giovane `cumenda milanese’ Bramieri, Diana Dei).

Accade l’impensabile quando una sera, al Lirico, la Wanda scivola giù dalla passerella provocando, al di là di leggere contusioni che obbligheranno la compagnia a pochi giorni di riposo, titoloni sui giornali. In qualche modo è l’inizio del secondo tempo, del finale di carriera: non ci saranno più titoli leggendari. Nel 1956-57 Terzoli e Puntoni le scrivono Okay fortuna con un trio comico indovinato (Bramieri, Vianello, Durano), ma anche stavolta un incidente fa crollare un cornicione in scena sulle soubrettine (niente di grave). Lo stesso cast per I fuoriserie e, ancora una volta un colpo gobbo del destino, bruciano nell’incendio del Politeama i costumi e il materiale di scena e c’è una gara di solidarietà del mondo del teatro, della canzone, dello sport (la squadra del Napoli) in favore della sfortunata Wanda. Nel 1958-59 Doppio rosa al sex di Corbucci e Grimaldi con Billi, impegnato a imitare la sua soubrette, e Flauto: ma la Wandissima della leggenda non c’è più. Torna in scena, ma come `suocera’, nella seconda edizione di Buonanotte, Bettina di Garinei e Giovannini (1963), con Walter Chiari e Alida Chelli; poi la vuole Aldo Trionfo, come stereotipo e parodia, in Nerone è morto? di Hubay (1974). La filosofia di un personaggio inimitabile, come il birignao della prolungata vocale `e’ (seeenz’altro). Per la O., nota anche per alcune presunte e celebri gaffe, il teatro è stato una passione esclusiva, quasi di clausura. Era attesa al varco delle sue trionfali entrate in scena, quando i suoi fan misuravano col cronometro la durata dell’applauso (il record furono i dieci minuti di Made in Italy con Macario). Wanda non cessava mai di stupire, nella logica del `di più, sempre di più’: arrivava ruotando su un enorme disco, come nei musical americani di Busby Berkeley, sbucando da una gabbia d’oro o tra le campane di San Giusto, dondolando su un cammello, uscendo da una maxi abat-jour , addobbata come Caterina di Russia o mimando un enorme ruotante carillon. Le scale non erano semplici scale, erano anche riproduzioni famose, Montmartre o Trinità dei Monti. Il record storico fu nella rivista Al Grand Hotel , quando apparve cantando “Sentimental”, una canzone romantica destinata a diventare un po’ il suo inno, il suo stereotipo e infine anche la sua parodia (magari imitata dalla Mabilia, alias Tony Barlocco, la soubrette en travesti dei Legnanesi). Eccessiva nei gesti, misurati sui riflettori del palcoscenico, Wanda Osiris – pur non avendo specifiche qualità artistiche, non eccellendo nel ballo, né nel canto e recitando da soubrette – possedeva però il carisma innato della luce del varietà fino a diventare, come suggerisce il nome, una dea dispensatrice di fortuna al pubblico. Gli inizi furono naturalmente modesti: erano i tempi in cui le soubrettine le chiamavano `donne di spolvero’, donne chic, eleganti, che stavano bene in scena, ma quasi soprammobili.

Nata il 3 giugno, sotto il segno dei Gemelli, la Wanda ha avuto una trionfale carriera, sempre adorata dal pubblico, ricordata dai fedeli spettatori a lei coevi, amata dai colleghi per la generosità con cui ha vissuto la vita randagia ed esaltante del teatro di giro, adattandosi agli orari notturni degli spettacoli, che finivano oltre l’ultima corsa dei tram, e rispettando celebri superstizioni (mai il colore viola, mai uccelli neppure di stoffa). Una vita al neon sempre rimpianta, quando raccontava che la rivista era stata uccisa dagli alti costi e dai mutati gusti del pubblico. È stata al fianco dei più grandi attori comici (ma in sua presenza poche volgarità, doppi sensi ridotti al minimo), ha scoperto i giovani Manfredi e Lionello, Sordi e Rascel, ha adorato l’imitazione. Ha lavorato per il gusto dello stupore e dell’illusione, per l’oh di meraviglia di un pubblico ingenuo, affascinato e stordito dal profumo e dagli abiti; ma anche per l’ardore con cui la seguivano intellettuali e industriali (in camerino arrivavano fiori, gioielli, perfino un assegno in bianco prontamente restituito al mittente). Amava il cinema, soprattutto quello dei suoi tempi, prediligeva pochi di buono come Raft e Gabin, si identificava nella Dietrich e nella Garbo, ma ebbe poche esperienze: qualche apparizione nei panni di se stessa e una fugace sequenza ferroviaria in Polvere di stelle (1974) di Alberto Sordi, suo vecchio adoratore.