O’Neill

Figlio di un attore di origine irlandese, famoso per un Conte di Montecristo replicato per decenni, Eugene O’Neill tentò nella prima giovinezza i più diversi mestieri – cercatore d’oro, marinaio, cronista – fin quando, ammalatosi di tubercolosi, fu ricoverato nel 1912 in un sanatorio, dove trascorse il tempo leggendo soprattutto Strindberg e i classici greci. Seguì poi per un anno i corsi di G.P. Baker a Harvard e nel 1914 pubblicò, col titolo Sete (Thirst), cinque atti unici, i cosiddetti `drammi marini’. A Provincetown, nel Massachusetts, dove si era stabilito, entrò allora in contatto con un gruppo teatrale – i Provincetown Players – che nel 1916 decise di metterli in scena, partendo da In viaggio per Cardiff (Bound East for Cardiff): un dialogo teso, anche se un po’ schematico, fra due marinai, uno dei quali moribondo, che evocano un passato di sofferenze e di sogni. I Provincetown Players portarono poi i loro spettacoli a New York, dove nei diciotto anni successivi O’Neill avrebbe fatto rappresentare più di trenta drammi, in uno o più atti, imponendosi come il maggior autore teatrale degli Usa. Lo si può definire il suo lungo apprendistato: lo scrittore alla ricerca di se stesso e di una propria cifra percorreva le strade più diverse.

Componeva solidi drammi realistici con risvolti melodrammatici, come Anna Christie (1921) e Desiderio sotto gli olmi (Desire under the Elms, 1924); sperimentava modi propri dell’espressionismo nell’ Imperatore Jones (Emperor Jones, 1920) e in Lo scimmione peloso (The Hairy Ape, 1922); faceva uso delle maschere in Il grande dio Brown (The Great God Brown, 1926), dei monologhi interiori pronunciati ad alta voce fra una battuta e l’altra in Strano interludio (Strange Interlude, 1928); tentava lo strindberghiano conflitto fra i sessi in Per sempre (Welded, 1924), il dramma storico a grande spettacolo in Marco Millions (1928), la commedia nostalgica sulla provincia americana in Fermenti (Ah, Wilderness!, 1933), la rivisitazione della tragedia greca in Il lutto si addice ad Elettra (Mourning Becomes Electra, 1931). Erano in genere opere di grandi ambizioni, di forte suggestione e di indubbia teatralità, anche se non sempre sorrette da un’adeguata eccellenza stilistica, che si possono considerare le premesse indispensabili ai suoi due capolavori, Arriva l’uomo del ghiaccio (The Iceman Cometh) e Lungo viaggio verso la notte (Long Day’s Journey Into the Night), rappresentati rispettivamente nel 1946 e nel 1956, ma scritti fra il 1934 e il 1943, cioè negli anni in cui il nome di O’Neill, dopo il fiasco di Giorni senza fine (Days without End), cessò di comparire sui cartelloni di Broadway (ma fu in quel periodo che gli venne conferito, nel 1936, il premio Nobel). Sono opere d’impianto realistico, dove i temi consueti del rapporto fra realtà e illusione, della miseria della condizione umana, della desolazione di un mondo privato di rassicuranti punti di riferimento, trovano la loro espressione più coerente; soprattutto nella seconda, che è la lunga cronaca di un inferno familiare – quello stesso della prima giovinezza dell’autore – evocato con lucida consapevolezza e tenera solidarietà. Postumi furono rappresentati anche altri testi: Una luna per i bastardi (A Moon for the Misbegotten, 1957), L’estro del poeta (A Touch of the Poet, 1958), l’incompiuto Più grandiose dimore (More Stately Mansions, 1962) e l’atto unico Hughie (1964).