mimo

Nel teatro greco-romano stava a indicare una composizione di natura istrionica e buffonesca non ancora autonoma dal teatro drammatico, trasformato nel XVIII secolo in genere popolare che si arricchiva di vere e proprie azioni mute tratte dal grande patrimonio pantomimico della commedia dell’arte. I mezzi non verbali dell’attore, piuttosto la mimica facciale, gli atteggiamenti e altre efficaci trovate verosimili si riassumono in una prima classificazione e separazione tra azioni mute e pantomima negli scritti di Diderot (1758), mentre è il trattatista Antonio Morrocchesi nel 1832 con le Lezioni di declamazione e d’arte teatrale a rilevare l’importanza della scena muta ma solo come `controscena’ all’azione dell’attore. Che il gesto e la pantomima fossero fondamentali al linguaggio teatrale, considerando il corpo un messaggero di significati più complessi (vedi L’art mimique, suivi d’un traîté de la pantomime et du ballet , Charles Aubert, 1902), bisognava attendere prima gli studi dei movimenti corporei di François Delsarte (1811-1871), e successivamente le influenze di quelle esperienze che si collegano al teatro giapponese, al cabaret di Karl Valentin o ai clown. Se Delsarte affermava che «per ogni sentimento esiste un gesto e uno svolgimento», la marionetta di Gordon Craig, e prima ancora di Kleist, sposta l’accento del corpo su una gestualità prevalentemente dinamica e scultorea decisamente influenzata dalle avanguardie artistiche del primo Novecento, e tra queste lo studio sull’improvvisazione pantomimica di Mejerchol’d definitivamente conclusosi nel riportare la biomeccanica a pratica laboratoriale. Il mimo è ancora configurato come forma teatrale non autonoma dal regista del Vieux-Colombier Jacques Copeau, benché egli affermi che possa esistere almeno teoricamente una specificità mimica nell’espressività dell’attore. Sarà un allievo di Copeau, Decroux, a rivoluzionare quegli esercizi del corpo propedeutici alla preparazione dell’attore, sviluppandone le potenzialità corporee in quanto conoscenza e consapevolezza di sé, delle proprie energie drammatiche e spirituali, elevandole a segno d’arte. Quello che per Decroux è una pedagogia che va ben oltre lo spettacolo e che ha per fine il `mimo corporeo’ (1931), sulla stessa scia Jacques Lecoq ricercherà una propria maschera e in un secondo tempo si dedicherà all’insegnamento, altri continueranno a intendere il mimo nella direzione di elemento accessorio al teatro (Barrault) o di intensità emotiva didascalica e bozzettistica (Marcel Marceau). Mantenendo fede ai principi di autonomia artistica del mimo rispetto al teatro, Eugenio Ravo continua la lezione di Decroux, del quale è stato studente e in un secondo tempo assistente, analizzando l’espressione del corpo in un contesto di narratività partenopea, che recupera quella matrice della commedia dell’arte decisamente istrionica.