Kantor

Tadeusz Kantor è inventore di una personalissima forma di linguaggio espressivo a metà fra il teatro e le arti visive che, unita alla potente percezione poetica di motivi come quello dell’ossessivo permanere della memoria, dell’intervento uniformante della morte, dello smarrirsi e ricomporsi dell’identità dell’individuo, e all’invenzione di un particolare tipo di rapporto fra gli attori e gli oggetti – le estrose macchine sceniche che caratterizzano i suoi spettacoli – ne fa uno dei talenti creativi più originali e incisivi dell’intera nostra epoca. Seguendo una tradizione tipicamente polacca di artisti poliedrici come Wyspianski, Witkiewicz, Bruno Schulz, mai rinnegati punti di riferimento, Tadeusz Kantor inizia il suo denso tragitto teatrale da studente dell’Accademia di belle arti di Cracovia, allestendo nel 1937 un vecchio testo simbolista, La morte di Tintagiles di Maurice Maeterlinck, con sagome e marionette ispirate al mondo figurativo del Bauhaus, allo stile di Walter Gropius, di Moholy-Nagy, di Oskar Schlemmer. Ma è con la guerra e con l’occupazione nazista della Polonia che l’attività teatrale di Kantor prende una piega più determinata, quando, col suo Teatro Clandestino, mette in scena nel 1943 Balladyna di Juliusz Slowacki e soprattutto, nel 1944, Il ritorno di Ulisse di Wyspianski, quest’ultimo realizzato in una stanza di un palazzo semidiroccato dai bombardamenti, fra vecchie assi, ruote di carro e cavalletti da muratore come sfondo scenografico, col protagonista che appare in mezzo alle macerie indossando una divisa lisa e infangata come quella dei tanti soldati dispersi o sbandati che si aggirano in quei giorni per il Paese.

Risalgono proprio a questo sorprendente sconfinamento della finzione nell’inferno quotidiano una serie di intuizioni che influenzeranno il suo percorso artistico per tutti gli anni a venire: il senso della morte onnipresente, la concezione del teatro come il luogo di un pericolo che accomuna attori e spettatori, l’idea più o meno metaforica dello spettacolo come atto clandestino, come espressione dell’unità del gruppo degli interpreti contro ogni intrusione dell’ufficialità istituzionale. Soprattutto, è da quella esperienza che Kantor mette a fuoco l’obiettivo di far sì che frammenti sempre più cospicui di realtà penetrino nella sfera dell’illusione, violandone le manieristiche convenzioni formali. Questi procedimenti, mutuati sostanzialmente dal dadaismo e dal cubismo, ereditati dai principi dei creatori di collage, improntano in gran parte anche l’avventura del Cricot 2, il gruppo di giovani attori, pittori, poeti d’avanguardia fondato nel 1955, che attraverso la rappresentazione di sei testi di Witkiewicz ( La piovra , Nel piccolo maniero , Il pazzo e la monaca , Gallinella acquatica, I calzolai, Le bellocce e i cercopitechi ) sperimenta i legami fra teatro e arte, provando alla ribalta i presupposti di alcuni grandi movimenti di ricerca del tempo, dall’informale all’happening e all’ environment . Nei primi anni Settanta, ormai saturo di un itinerario avanguardistico che, privilegiando l’ hic et nunc , il puro divenire dell’azione nello spazio, trascura la profondità drammaturgica e un’autentica prospettiva temporale, Tadeusz Kantor riporta nei suoi spettacoli la dialettica fra presente e passato, con esiti a dir poco sconvolgenti: primo risultato, il memorabile valzer macabro della Classe morta, che traendo spunto da un racconto di Bruno Schulz, Il pensionato, e assemblando brani di una pièce di Witkiewicz, Tumore cervicale, sviluppa tuttavia con straordinaria libertà inventiva l’atroce parata da incubo di un gruppo di vecchi moribondi, che tentano di tornare sui banchi della loro antica scuola portandosi sulle spalle gli struggenti manichini di cera dei bambini che una volta sono stati. Anche Wielopole Wielopole (1980), allestito a Firenze con un gruppo misto di attori italiani e polacchi, affronta con rara intensità emotiva le ricorrenti tracce di un passato dolorosamente famigliare, intrecciando una sorta di incalzante visualizzazione dei meccanismi e degli effetti torturanti della memoria personale con immagini di strazio e di violenza della prima guerra mondiale.

In Crepino gli artisti (Norimberga 1985) la definitività della creazione, personificata dallo scultore cinquecentesco Veit Stoss, è contrapposta al lancinante frantumarsi dell’identità nelle diverse fasi della vita, concretizzata nell’allucinante coesistenza di un `io in persona’, di un `io quando avevo sei anni’ e di un `io morente’. In Qui non ci torno più (Berlino Ovest 1988) l’orrore dell’Olocausto è evocato fra i tavoli di una sordida bettola, tipico esempio del concetto kantoriano di “luogo del rango più basso”, in una specie di impietoso confronto pirandelliano tra il regista che interpreta se stesso alla ribalta e i personaggi dei suoi vecchi spettacoli. K. muore nel dicembre del 1990, proprio alla vigilia del debutto del suo ultimo lavoro, Oggi è il mio compleanno (Tolosa 1991) che, attraverso le figure emblematiche di Mejerchol’d e di altri artisti d’avanguardia traditi dalla Rivoluzione e perseguitati dal Potere, compie una sorta di livido bilancio delle utopie e delle mostruose brutalità del nostro secolo. Ma tutto il suo teatro, rivisto in prospettiva, sembra assai più vicino a una sorta di commosso e commovente affresco collettivo dell’Europa del Novecento che non a quella serie di visionarie sedute spiritiche che molti di volta in volta avevano creduto di cogliervi.