Ionesco

Di madre francese, durante l’infanzia Eugène Ionesco trascorre le vacanze estive a Parigi; compiuti gli studi universitari, è per qualche anno professore di francese a Bucarest. Emigrato in Francia, I. tornerà in patria solo alla vigilia dell’ultima guerra mondiale. Nel 1946 è di nuovo a Parigi, dove vive con un modesto impiego in una casa editrice, fino al debutto (1950) della Cantatrice calva al `Noctambule’ di Parigi. Isolamento dell’individuo, destrutturazione del linguaggio, sbriciolamento della consequenzialità lineare del `racconto’ teatrale caratterizzano le prime pièce di Ionesco, La cantatrice calva (La cantatrice chauve, 1950) e La lezione (La leçon, 1951), segnando profondamente l’evoluzione estetica della scena francese. La categoria di `teatro dell’assurdo’ – nella quale gli storici fanno convergere autori molto diversi per formazione e sensibilità, come Beckett, Sartre, Camus e lo stesso Ionesco – pare in parte tradurre la teatralità stupita di Ionesco, in cui l’assurdo, appunto, nasce più dallo sconcerto derivante dalla banale vacuità di individui e situazioni che non dall’assurdo filosofico di Kierkegaard, sviluppato dagli esistenzialisti.

Se nella Cantatrice calva è il linguaggio – ricalcato sulle cadenze e le frasi standard dei corsi di lingue straniere – a suggerire il vuoto e l’assenza di senso, nella Lezione sarà invece una rilettura volutamente grossolana delle dinamiche sado-masochiste in chiave freudiana a tradurne l’essenza su toni comico-parodici. Uomo di teatro, e dunque molto attento alla godibilità del fatto scenico, Ionesco ebbe sempre un particolare riguardo per la vitalità e il dinamismo dei suoi testi, anche i più struggenti, come Le sedie (Les chaises). Messa in scena nel 1952, questa pièce resta tra le più intense dell’autore. I due personaggi principali, due anziani che vivono su un’isola deserta, decidono di rompere l’isolamento per trasmettere un `messaggio all’umanità’: gli invitati arrivano ma sono invisibili e, lentamente, la scena si riempie delle loro sedie vuote. Da rilevare l’uso, in quest’opera paradigmatico, dell’oggetto in scena: le sedie, oggetto-simbolo, costituiscono un segno concreto, visibile del senso di vuoto che l’autore intende trasmettere. Ionesco ha affermato che nelle Sedie la sua intenzione era appunto quella di esprimere la vacuità, «rien d’autre que le rien», nient’altro che il nulla; è evidente però che il `nulla’ di Ionesco coincide con il `troppo’, con la proliferazione dell’oggetto e con la sovrabbondanza verbale.

L’ansia metafisica che pervade le sue prime creazioni trova una coloritura politica con Il rinoceronte (Le rhinocéros, 1960; messa in scena da Barrault al Théâtre de l’Odéon), che si pone come una surreale denuncia di ogni forma di totalitarismo: la storia recente del Paese d’origine dell’autore, così come le ferite ancora aperte della seconda guerra mondiale, traspaiono in modo evidente dal tessuto parodico dell’opera. Negli anni successivi I. ha dato vita a una serie di opere – alcune `in costume’ come Il re muore (Le roi se meurt, 1962) – decisamente affini per ispirazione, mezzi tecnici impiegati e temi (la destrutturazione e ipersemplificazione del linguaggio, l’ipertrofia della presenza oggettuale, la depersonalizzazione dei protagonisti) a quelle dei primi anni. Tra le opere più note ricordiamo: La fame e la sete (La soif et la faim, 1966), Il pedone dell’aria (Le Piéton en l’air, 1967), Quel magnifico bordello (Ce formidable bordel, 1974), o Deliri a due (Délires à deux, 1962), dove l’autore mette in scena la `psicopatologia della vita quotidiana’. In Jeux de massacre (1969), nero omaggio ad Antonin Artaud, si ritrovano tutti i temi dell’assurdo propri a Ionesco: discorsi sull’amicizia, sull’amore, sul modo di essere o di esistere, sulla violenza e sulla tirannia; ma questi temi svaniscono a contatto con la morte, che rende vana ogni azione, lasciando l’uomo nella completa solitudine.

Il 1970 è l’anno della consacrazione ufficiale, con l’elezione di Ionesco all’Académie Française: segno evidente del riconoscimento, anche istituzionale, del suo talento, della sua capacità unica di evocare con levità, ma anche con straordinaria potenza, l’essenza tragica del vivere. Per due decenni la sua attività di drammaturgo diviene poco prolifica, mentre continua a seguire gli allestimenti delle sue opere, tradotte in molte lingue straniere. Appartengono all’ultimo periodo Voyages chez les Morts (1981) e il libretto di Maximilien Kolbe (1988; musica di Dominique Probst, regia di Tadeusz Bradecki); quest’ultimo debutta al Meeting di Rimini, e coincide con la svolta religiosa che segna gli ultimi anni della sua vita.