García

Artista geniale, trasgressivo e inquieto, di famiglia spagnola originaria di Salamanca, Victor Garcìa studia medicina e belle arti (pittura, scultura, architettura) a Buenos Aires. Qui scopre il teatro: segue corsi di danza e mimo, fonda il Mimo Teatro e realizza il primo spettacolo nel 1957, tratto da García Lorca. Viaggia e lavora in Sudamerica, quindi, nel 1960, approda in Europa, a Barcellona e poi a Parigi, dove nel ’62 si iscrive all’Université International du Théâtre e allestisce Le petit retable de Don Cristobal di García Lorca, premiato come miglior lavoro. Seguono La rosa de papella di Valle-Inclán (compagnia Serrau-Perinetti; Pavillon de Marsan, 1964), Ubu re di Jarry (1965), El gran teatro del mundo di Calderón (Biennale di Parigi, 1966). Immediati i consensi ai suoi spettacoli, che scuotono per violenza iconoclasta e potenza visionaria. In Il cimitero delle automobili di F. Arrabal (1967) è esplicita la sua volontà di dissacrazione del luogo teatrale: carcasse di auto e ferraglie invadono la scena, mentre è sconvolto il senso dello spazio ed esaltata la parola. La ricerca di un’architettura scenica estrema e di una teatralità assoluta, che inducano nel pubblico un senso di svuotamento, culminano in due spettacoli-scandalo di J. Genet: Les bonnes con la compagnia spagnola di Nuria Espert (1969) e Le balcon (1970), dove nel teatro sventrato con la dinamite si erge una colonna («vertebrale») di ventisette metri. La sagesse ou la parabole du festin di P. Claudel riceve il Prix du meilleur spectacle Claudel (Parigi, Théâtre de la Cité Universitaire, 1969); la collaborazione con N. Espert prosegue con Yerma di García Lorca (Madrid 1972, presentato anche alla biennale di Venezia) e Divine parole di Valle-Inclán (1976). Con la compagnia Ruth Escobar di San Paolo allestisce per la Biennale di Venezia gli Autos sacramentales di Calderón (1974): ma la grande varietà di stili, l’idea di teatro come azione pubblica e l’inclinazione autodistruttiva isolano e sradicano G. dalla scena teatrale mondiale. Nell’ultimo spettacolo, Gilgamesh (Théâtre National de Chaillot, 1979), una compagnia di attori di origine araba, in uno spazio che ha inghiottito la platea e squarciato il suolo, recitano, in `panarabo’, appollaiati su piloni: quasi in un atto finale di emarginazione, al quale farà eco una risposta emarginante di critica e pubblico.