Gades

Di famiglia operaia e antifranchista, Antonio Gades abbandona gli studi a undici anni per dedicarsi a umili mansioni. Da persecuzione politica e miseria nasce quell’impegno sociale destinato a diventare il filo conduttore della sua vita pubblica e privata. Altra predestinazione è l’incontro con una edizione clandestina del Romancero gitano di Federico García Lorca, che fa scattare nel giovane Antonio un processo di identificazione poetica e civile. Spinto a frequentare l’Accademia della maestra Palitos, Antonio Gades viene notato da Pilar Lopéz: che lo prende in compagnia e gli affida il nome Gades, da Cadice, la città già lodata da Marziale per la leggiadria delle danzatrici destinate alla Roma dei Cesari. Antonio Gades impara la danza e il modo di costruirla direttamente dalla pratica del palcoscenico. La severa e intelligente scuola di Pilar spazia dal folclore regionale a quello andaluso e segnatamente flamenco, alla `escuela bolera’ che è frutto della contaminazione culturale ispanica e franco-italiana. Nel 1960 Antonio Gades sceglie la libertà. Lo troviamo a Roma, dove monta con Anton Dolin il Bolero di Ravel e dove, soprattutto, si sottopone a un rigoroso studio del classico. Conosce Beppe Menegatti, cui deve l’affermazione nel nostro Paese. Suo tramite entra nel gruppo che già riunisce Carla Fracci, Ferruccio Soleri, Oscar Ghiglia e altri. Il teatrino di Don Cristóbal (tanto per cominciare un García Lorca) montato da Menegatti per Fiesole trionfa, e fa trionfare G., a Spoleto (1962). Qui Menotti non esita ad affidargli la regia della Carmen che lancerà Shirley Verrett. Subito dopo Antonio Gades è alla Scala come ballerino e maître. Nel 1963 torna in Spagna, dove mette assieme un piccolo gruppo. In un night di Barcellona frequentato da intellettuali Antonio Gades colpisce Miró, che lo segnala alla New York World’s Fair del ’64. È l’affermazione internazionale. Durante la stagione teatrale 1968-69 Parigi assegna a Antonio Gades il Premio della critica. Nel 1970 avviene il debutto a Londra. Poi il mondo è suo e la cronologia si confonde. Antonio Gades, che nasce Antonio Gades baciato da quello che noi chiamiamo carisma, possiede anche il carattere che gli spagnoli definiscono `duende’. Uno, il `duende’, lo `tiene’ o non lo `tiene’. `Duende’ è estro, passione, anarchia, imprevedibilità. Così Antonio Gades fa e disfa le sue compagnie. Arriva e riparte. Balla e si ferma. Crea e gli si inaridisce la vena. Scompare, anche per anni, senza lasciare traccia, fagocitato da un qualche suo affanno ideologico o sentimentale. O più semplicemente perché gli va di andare in barca. Se infatti Antonio Gades va fiero per un buon numero (pare che le sposi tutte) di mogli e figli, è anche vero che nel 1975 interrompe dall’oggi al domani una tournée perché in Spagna hanno fucilato degli innocenti. C’è la questione dei separatisti baschi, c’è di mezzo un suo fratello. Si rifugia a Cuba dove Alicia Alonso, regina di tutte le rivoluzioni, lo convince che il teatro è il suo `mezzo’ e che anche con il `baile’ è possibile protestare. Nel 1978 la Spagna del dopo-Franco gli offre la direzione del Balletto nazionale. Lui tentenna ma accetta. Solo per poco. Preferisce i suoi, con i quali gira l’orbe in torpedone, con jeans e scarpe da tennis per tutto bagaglio.

Antonio Gades è uomo di intensa sensibilità culturale. Come conciliarla con quella formazione tanto frettolosa? Perché Antonio ha imparato gli uomini e le cose vivendo, così come ha imparato il ballo ballando. Perché `tiene duende’, è intelligente e umile. Sa scaldarsi al sole dei grandi che illumina con le sue intuizioni. Rafael Alberti gli dedica versi indimenticabili: “Antonio Gades, te digo:/ lo que yo,/ te lo diria mejor/ Federico./ Que tienes pena en tu baile/ que los fuegos que levantan/ tus brazos son amarillos”. Lui impara da Matisse e Miró la spazialità, la luce, la geometria, il modernismo surreale che ne segna il teatro. Un teatro spagnolo assolutamente rivoluzionario. La sua è una Spagna di sangue ma non di elezione. Nulla egli sembra amare di quella terra tronfia e barocca, retorica e sgargiante se non le leve dell’avanguardia che cercano l’affrancamento dall’hispanidad e l’adorato García Lorca, onnipresente con i simboli scarnificati dell’infanzia trascorsa nella campagna granadina. Sole e luna, morte e figlio, giglio e cristallo, chitarra e Guadalquivir delle stelle. Molto teatro di G. è sussurrato, suggerito, disseccato. Tra i vari stili appresi da Pilar c’è anche il flamenco, cui sono affidati i momenti di maggiore tensione drammatica. Allora i `cantaores’ dalla voce roca levano i desolati `gipidi’, e i bastoni gitani percuotono inesorabili la terra, come campane a morto. Intanto gli uomini consumano `en ralenti’ il loro duello fatale (Bodas de sangre, 1974), le sigaraie si affrontano come eserciti nemici nella `bodega’ arredata di povertà (Carmen, 1983), Frondoso contagia con il `taconeo’ la necessità di rivolta (Fuente Ovejuna, 1994). Le danze regionali servono invece per le distensioni liriche. E il silenzio, grande protagonista delle cose vere, magari commentato dal flash che coglie il volo di due amanti a cavallo verso la luna (Chagall) per i sentimenti estremi. Antonio da Elda che ha conosciuto il sudore dei poveri ne sa anche le feste. Che esplodono sgangherate e improvvise con la parodia della corrida (Carmen e Fuente Ovejuna ). La produzione di G. non è copiosa, perché dopo l’atto creativo lui «si sente vuoto come un animale e non ha più niente da dire». La trilogia costituita da Bodas de sangre, Carmen e Fuego, tutti titoli mutuati dalla cinematografia di Carlos Saura, è seguita da Fuente Ovejuna sull’omonima commedia di Lope de Vega. Il tiranno che oltraggia la sposa di Frondoso è sinonimo di tutti i tiranni, dunque l’antagonista esistenziale di Antonio. Quando infatti, alla fine, qualcuno domanda chi abbia ammazzato il governatore, la coralità, meritevole di perdono, del celebre “todos a una, Fuente Ovejuna” è sostituita dal fiero “yo” ripetuto dai singoli campesiños. E Fuente diventa tragedia. Da tempo la partner storica di Antonio, Cristina Hoyos, è stata sostituita da Stella Arauzo. E adesso anche lui, Antonio che accenna la straziante `farruca’, che leva le braccia come ali di gabbiano, che dardeggia lo sguardo fiero dal legno antico del volto scavato, che t’affronta con la camicia bianca, le anche guizzanti e il fremito delle gambe nervose, ha annunciato il ritiro dalle scene. Il coreografo promette un trittico lorchiano per il 1999. Ci saranno altre Bodas e altre Bernarda Alba . Forse anche il Lamento per Ignazio. Ma chi, al suo posto, potrà parlare di “tori celesti, mandriani di pallida nebbia”? Chi troverà quel `duende’ che, diceva Federico, «non arriva se non vedi una possibilità di morte, se non sai che dovrai corteggiarla, se non hai la sicurezza che dovrai cullare quei rami che tutti portiamo con noi, e che non hanno, non avranno mai, consolazione»?