Forsythe

Considerato il più autentico erede di George Balanchine, William Forsythe è il coreografo formalista di fine millennio: impegnato in una minuziosa opera di decostruzione e ricostruzione della tecnica del balletto, ha davvero dimostrato che non sono i linguaggi del corpo – anche i più abusati e antichi, come appunto il balletto – a invecchiare, bensì il loro uso. Nelle sue opere più riuscite, come In the Middle, Somewhat Elevated (1987), Enemy in the Figure (1989) o Quintett (1993), la danza evoca paesaggi interiori o mentali, diviene atmosfera e racconto drammatico di puri corpi in movimento. E lo spazio scenico, in genere imbandito di pochi, studiati elementi è compartecipe suggestivo e teatrale di una coreografia totale che ha il suo punto di forza nel corpo, con un imput diametralmente opposto a quello del teatrodanza deflagrato e verbale di Pina Bausch. Al pari della coreografa di Wuppertal, anche l’americano F. è però un artista che ha messo radici nella vecchia Europa. Dopo aver terminato gli studi di danza alla Joffrey Ballet School e all’American Ballet Theatre School (1967-1973) ed essere entrato a far parte del Joffrey Ballet I e II (1970-73), accetta l’invito di John Cranko a Stoccarda e diviene ballerino della sua compagnia, esibendovisi dal 1973 all’ ’80.

Ma Cranko, che aveva scommesso su di lui come interprete, non fa in tempo ad avvedersi del suo talento coreografico. Muore tre anni prima del debutto di Urlicht , passo a due su musiche di Mahler, presentato nel 1976 dalla Noverre Society insieme alle opere di altri due allora solo promettenti coreografi, Jirí Kylián e John Neumeier. Seguono Daphne, Bach Violin Concerto in A Minor e Flore Subsimplici , su musica di H&aulm;ndel, che gli valgono la nomina, nel ’77, a coreografo indipendente del Ballett Stuttgart. L’anno successivo crea due balletti su musica di Ligeti ( From the Most Distant Time ) e Penderecki ( Dream of Galilei ) , ma debutta anche in Italia, al Festival di Montepulciano, in Folia , su musica di Hans Werner Henze. Per lo stesso festival toscano allestirà, nel 1980, Tis Pity She’s a Whore (musica Thomas Jahn), un balletto che lascia una profonda impressione negli spettatori ma non anticipa il suo ritorno in Italia prima del 1984, data d’incontro con la compagnia Aterballetto per la quale rimonta l’effervescente e agrodolce Love Songs (1979): una serie di scottanti passi a due su canzoni di successo in cui l’amore di coppia si tramuta in una ossessiva rivalsa tra i sessi. Se il 1984 è l’anno di svolta nella sua carriera di free-lance – accetta infatti l’incarico di direttore del Balletto di Francoforte – non meno importanti sono le sue precedenti stagioni teatrali che da Stoccarda (Time Cycle , 1979; Whisper Moon e Tancredi and Clorinda, 1981) lo sbalzano a Berlino (Die Nacht aus Blei , 1981), Parigi (France/Dance, del 1983, è uno scorcio balanchiniano farcito di latrati di cani e spezzato da improvvise e inattese calate del sipario di ferro) e Vienna, dove ancora suscita scandali e polemiche per aver allestito un film (Berg Ab), nei sotterranei della Wiener Staatsopern anzichè un balletto dal vivo su musiche di Alban Berg. Artifact (1984) è il primo allestimento a Francoforte; come G&aulm;nge 1 – ein Stück über Ballett , nato per il Nederland Dans Theater e il successivo G&aulm;nge (1983) è un’opera di genere `semiotico’, in cui viene annunciata la necessità di trovare un nuovo ordine coreutico e un nuovo respiro per la danza classica, che il coreografo intende liberare da costrizioni e sovrastrutture letterarie e psicologiche. Proprio in Artifact (riallestito dal Ballett Frankfurt al Théâtre du Chatelet di Parigi nel ’95) egli inaugura una gioiosa `matematica spaziale’ composta di fughe, variazioni a canone e contrappunto. Sono gli stessi principi musicali indagati da George Balanchine, di cui si avvale in seguito, con rinnovato estro e inesauribile fantasia, in altre opere di chiaro impianto ballettistico come Behind the China Dogs , creato per il New York City Ballet nel 1988, Hermann Schmerman (1994) o The Vertiginous Thrill of Exactitude (1996).

Al ‘manifesto’ Artifact , si affiancano però, verso la fine degli anni Ottanta, creazioni eccitate: coreografie-scheggia dall’atmosfera pregnante di misteri come In the Middle, Somewhat Elevated (1987) o Enemy in the Figure , sul quale incombe una suspence da thriller folle e urbano, senza che nessuna delle sue componenti si conceda a alcun appiglio narrativo. Da queste opere brevi e intense nascono ulteriori spettacoli di serata, come l’affresco postmoderno in cinque parti Impressing the Czar del 1988 (la sua seconda parte è appunto In the Middle, Somewhat Elevated ) o Limb’s Theorem (1990), severa estensione in bianco e nero di Enemy in the Figure in cui si inaugura una liaison intellettuale con l’architetto Daniel Libeskind. L’unità del corpo danzante, assunto di partenza del balletto storico, la sua linearità ordinata e razionale, si dimostrano ingannevoli e illusorie: F. ha ereditato dal teorico della danza libera Rudolf von Laban l’idea di movimento come `archiettura vivente’ ma ha reso esplosivo il modello della cosiddetta cinesfera labaniana, assicurandoci che la fonte del movimento non è più rintracciabile in un unico punto del corpo, ma nelle sue zone più insospettabili: il tallone, il gomito, un orecchio, l’alluce del piede. Nel Cd Rom Improvisation Technologies -Self Meant to Govern (1994) divulga le tecniche di analisi del movimento adottate dai suoi ballerini e mostra una propensione teorica e didattica, non comune ai coreografi della sua generazione. L’allestimento di spettacoli di impegno per quanto concerne l’apparato scenico e tecnologico ( LDC , 1985; The Loss of Small Detail I e II , 1987-1991; Slingerland I,II, III e IV, 1989- 90) conferma la vicinanza a demiurghi della scena americana come Robert Wilson, ma la sua centralità operativa (Forsythe firma spesso luci, scene e persino la musica dei suoi balletti) è sostenuta da una fedele cerchia di collaboratori. Al musicista Thom Willems, che dal 1985 ha firmato buona parte dei suoi balletti, si affiancano, con crescente insistenza, gli interpreti della sua compagnia, diventati assistenti, costumisti ma soprattutto creatori (come Dana Caspersen, Anthony Rizzi e Jacopo Godani) e spesso coautori delle sue coreografie. È il caso di Sleeper Guts , opera collettiva del 1996, in cui riaffiorano interrogativi sul destino dell’arte nell’era tecnologica o dell’intenso Hyphotethical Stream 2 (1997), elaborato quasi scientificamente a partire dai gruppi e dalle figure di un quadro del Tiepolo. In queste ed altre coreografie della fine degli anni Novanta emerge una danza assai più morbida e complessa rispetto a quello dello stile puntuto, pericoloso e `arrogante’ degli anni Ottanta. È un segno disossato, quasi cadente per quanto i ballerini sono attirati al suolo, ben in sintonia con la crisi del postmoderno che attraversa tutte le arti, e che insinua nella `coreografia del corpo-architettura vivente’ di William Forsythe l’idea di una sopraggiunta spossatezza esistenziale da fine millennio.

Il viaggio agli Inferi di Eidos: Telos (1995), in cui si assiste allo sfogo furente e fiammeggiante di una Persefone a seno nudo, ma anche al dramma dei ballerini che vivono con apatia il rapporto con la loro ‘armatura corporea’, la struggente malinconia del precedente Quintett sul canto di un clochard raccolto nelle vie di Londra (Jesus Blood Never Failed Me Yet , partitura di Gavin Bryars) sono le tappe più eclatanti di un periodo compositivo che si arricchisce con la creazione di installazioni e videocoreografie ( Solo , 1995; From a classical position , 1997) e allestimenti per compagnie diverse da quella di Francoforte. Al Teatro alla Scala, che acquisisce nel suo repertorio In the Middle, Somewhat Elevated e Approximate Sonata (1996), Forsythe crea Quartett (1998) per Alessandra Ferri (ma la sua étoile d’elezione resta la francese Sylvie Guillem, adatta al suo stile e alle difficoltà tecniche della sua danza comunque neoclassica). Al debutto la coreografia è ancora un bozzetto, d’altra parte l’atto della creazione per questo coreografo – sempre richiesto dalle maggiori compagnie di balletto internazionali, prima tra tutte quella dell’Opéra di Parigi – non si esaurisce certo nell’andata in scena di uno spettacolo, ma si identifica con il processo di lavoro, in una sperimentazione continua sul movimento che tiene conto della rivoluzione copernicana introdotta da Merce Cunningham. Con Op.31 (musica di Schönberg, Variazioni per Orchestra op.31) del ’98 il coreografo che da sovrintendente del Ballett Frankfurt (incarico assunto già nel 1989) ha acquisito anche la gestione artistica del Theater am Turm di Francoforte, torna ad avvicinarsi ai grandi compositori contemporanei (tra i quali predilige Luciano Berio e conferma che la coreografia non si esaurisce affatto con l’invenzione di singoli passi; è piuttosto l’organizzazione di strutture e forme `significanti’ nello spazio.