dramma

Durante il Medioevo, comparve la formula `d. sacro’ o `d. liturgico’, che costituì il nucleo originario del teatro religioso, intorno all’anno mille, e che era collegata alla liturgia pasquale. Soltanto con il Settecento e con l’Ottocento, il termine d. fu usato per indicare un preciso genere teatrale, legato a una vera e propria riforma del teatro, che coinvolse uomini come Diderot e Lessing ai quali dobbiamo la nascita del `d. borghese’: un genere che aveva come punto di riferimento l’affermarsi di una diversa classe sociale, che divenne fonte di ispirazione del nuovo teatro. Compito del d., e quindi del drammaturgo, non era soltanto quello di aderire a schemi presi in prestito dalla realtà circostante, né di adeguare il linguaggio del teatro a quello della vita, ma la scelta di una medietà tra classe elevata e classe media, tra lingua alta e lingua bassa, che favorisse una struttura naturale, non in quanto copia della natura, ma in quanto mediatrice dei comportamenti quotidiani. Con Diderot e Lessing, il d. aderì a una istanza codificatrice, ovvero a un discorso teorico attorno a parametri letterari e drammaturgici. Ciò che agli autori importava non era il fatto che i personaggi fossero borghesi, quanto l’impianto sociale, dentro il quale i personaggi si muovevano e instauravano delle relazioni. La famiglia diventò il microcosmo di una situazione più universale, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione per il d. Quando si arriva al `d. naturalista’, si assottiglia il diaframma tra rappresentazione della realtà e realtà; i suoi assertori, con in testa Zola, portarono alle estreme conseguenze i risultati di Diderot e Lessing; il d. si caricò di verità, rappresentando un uomo per mezzo di un uomo, un oggetto per mezzo di un oggetto, fino ad arrivare ai famosi quarti di bue veri, messi in scena da Antoine, che rimandano alla teoria della reviviscenza di Stanislavskij. Accadde, così, che il `d. naturalista’, per essere incollato alla realtà, sbilanciò le sue attenzioni verso la scena, che si arricchiva sempre più di verità e che diventava il punto di riferimento primario, al quale occorreva adattare anche la recitazione. Quando sulla scena irrompono autori come Ibsen, Strindberg, Hauptmann, Pirandello, Brecht, O’Neill, muta la stessa nozione di d. che, per essere distinta dalla precedente, è affiancata dal termine `moderno’ e teorizzata da Lukacs e Szondi. Anche il `d. moderno’ ha come punto di riferimento la borghesia, essendo, in fondo, il risultato più problematico del `d. borghese’, un problematicismo, però, che si arricchisce di tensioni oniriche, mistico-religiose, dall’affermarsi dell’epicizzazione che mette in crisi i caratteri di assolutezza che lo avevano contraddistinto. Secondo Szondi, il d., come forma, rimase lo stesso: divenne `moderno’ a causa dell’inserimento di una tematica epica, all’interno della forma tradizionale. Certamente perché esista un d. è necessaria una collisione, ovvero un conflitto che può essere generato o da noi stessi, dal nostro mondo interiore (d. analitico), da forze metafisiche (d. onirico), da scontri storici (d. storico), da disturbi mentali (d. patologico), o da conflitti (d. intimista). Il d., avendo origini borghesi, si differenzia dalla tragedia, perché ricerca le sue radici non nella morte, ma nella vita. Ai giorni nostri, il termine d. ha assunto un significato più vasto e lo si riferisce al teatro di parola, il cui testo diviene un pretesto per la rappresentazione, che ne allarga la visione e lo adatta ad una molteplicità di espressioni.