In origine il termine decentramento teatrale si riferiva alla situazione teatrale della Francia, un Paese la cui vita culturale e artistica si svolgeva tradizionalmente soprattutto a Parigi. Per quanto riguarda l’Italia, dove da sempre esiste un gran numero di palcoscenici capillarmente sparsi lungo il territorio, il concetto di d. assunse per forza di cose altre connotazioni: si impose intorno alla fine degli anni ’60, sulla scorta del clima ideologico e dell’attenzione sociale dell’epoca, e denotò sostanzialmente il bisogno delle istituzioni e dei gruppi teatrali di cercare un nuovo pubblico più popolare nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, insomma lontano dai luoghi in cui si consumavano i riti culturali delle platee colte ed eleganti. Il fenomeno riguardava dunque quasi esclusivamente le grandi città, e specilamente Milano, dove Paolo Grassi – temporaneamente da solo alla guida del Piccolo Teatro – promosse una frenetica attività promozionale nelle zone della periferia più disagiata, sotto tendoni da circo che di volta in volta si spostavano da un quartiere all’altro. Messa in discussione per la sua precarietà strutturale, la politica dei tendoni lasciò spazio, in seguito, all’insediamento di teatri in muratura, come il Teatro Uomo di via Gulli, ugualmente situato in luoghi impervi. Ma l’idea del d. in quanto tale andò in crisi dopo poco meno di un decennio, quando ci si avvide che il pubblico preferiva accollarsi i disagi dello spostamento nei teatri del centro, rifiutando alla lunga il principio – ritenuto forse ghettizzante – della `ribalta sotto casa’.